La posta elettronica certificata (PEC) dimostra l'invio e la ricezione del messaggio, ma non garantisce il contenuto del documento allegato.
Questo è il principio ribadito dalla Sezione Prima civile della Cassazione nell’ordinanza n. 10091 del 15 aprile 2024, confermando una linea giurisprudenziale già delineata in precedenti decisioni (Cass. n. 32165/2023 e Cass. n. 34755/2023).
La Corte ha chiarito che, nonostante la PEC certifichi data, ora e formato di spedizione di un messaggio, tali dettagli non implicano l'autenticità o l'integrità dei file trasmessi con essa. Ad esempio, un file allegato a una PEC potrebbe contenere dati falsi o provenire da terze parti, e la certificazione della PEC non verifica né conferma la veridicità o la pertinenza del contenuto del documento allegato.
Per garantire l'autenticità e la completezza dei documenti, è necessario l'uso della firma digitale, che attesta non solo la provenienza del documento, ma anche la sua integrità. Questo rafforza la sicurezza e la validità legale del documento in questioni di opponibilità a terzi.
La Corte ha inoltre specificato che la mera menzione di un documento all'interno di un altro non conferisce automaticamente una data certa a tale documento, a meno che non venga fornita una prova contestuale della sua esistenza e integrità. Tale principio è cruciale in situazioni dove documenti importanti, come contratti o mandati professionali, sono citati in altri atti legali senza essere fisicamente allegati o verificati.
In conclusione, la PEC si conferma uno strumento efficace per garantire la trasmissione certificata di messaggi, ma i professionisti del diritto devono fare attenzione a non presumere una verifica automatica del contenuto dei documenti allegati, a meno che questi non siano adeguatamente protetti e certificati attraverso la firma digitale.
Cassazione civile, sez. I, ordinanza 15/04/2024 (ud. 13/02/2024) n. 10091
FATTI DI CAUSA
Con decreto depositato il 2.10.2018 il Tribunale di Cagliari ha rigettato l'opposizione ex art. 98 legge fall. proposta da Gieffe Srl avverso il decreto con cui il G.D. del fallimento Bricosarda Srl aveva rigettato la sua domanda di insinuazione del credito dell'importo di Euro 231.540,70, richiesto a titoli di canoni d'affitto d'azienda di cui al contratto sottoscritto tra le parti in data 8.7.2010.
Il Tribunale ha condiviso l'impostazione del G.D., ritenendo il contratto di affitto d'azienda in oggetto non opponibile alla procedura in quanto privo di data certa. In particolare, ha osservato che, pur potendo costituire un significativo elemento di prova della data certa la pec datata 21.1.2013 con cui la società I Gabbiani Immobiliare (poi fusa in Gieffe Srl) aveva chiesto il pagamento dei canoni insoluti imputandoli "al contratto in data 8.7.2010", il cui contenuto era stato descritto nei suoi tratti essenziali nella nota sopra richiamata (tale per cui, secondo il decreto impugnato, se tale nota "fosse dotata di data certa, estenderebbe la certezza della data alla scrittura privata ed alle previsioni essenziali in essa contenute"), tuttavia, tale documento non era dotato di data certa, essendovi solo la prova che, in data 21.1.2013, l'odierna ricorrente aveva inviato una pec alla Bricosarda, ma non anche che il documento allegato alla pec fosse la nota prodotta.
Il Tribunale di Cagliari ha quindi ritenuto che l'opponente avrebbe dovuto corrispondentemente riprodurre il documento già in formato elettronico, così da poter verificare se allegata alla pec vi fosse effettivamente la comunicazione prodotta.
Analoga conclusione doveva essere estesa alla nota del 15.10.2012, la quale, peraltro, non conteneva alcun riferimento al contratto dell'8.7.2010, né al suo contenuto, ma solo alle fatture emesse e non pagate.
Avverso il decreto ha proposto ricorso per cassazione Gieffe Srl, affidandolo a quattro motivi.
Il fallimento Bricosarda Srl ha resistito in giudizio con controricorso.
La ricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 cod. proc. civ., 2697 cod. civ. in relazione agli artt. 48 CAD e 16 bis D.L. n. 179/2012, e successive modifiche, 99 e 101 legge fall.
È stata, altresì, dedotta l'omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti nonché la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112,183 comma 3 e 101 comma 2 cod. proc. civ.
Lamenta la ricorrente che il giudice di primo grado, nonostante l'inequivoca facoltà concessa alla parte dalla legge (art. 16 bis legge cit.), all'atto della prima costituzione in giudizio, di depositare i documenti in cartaceo, ha ritenuto imprescindibile, per provare il contenuto di un documento allegato ad una pec, la produzione dello stesso in via telematica, non considerando che il deposito in via telematica costituisce una semplice alternativa e che la prova del contenuto dell'allegato può essere fornita producendo documentazione attestante l'accettazione e la consegna del messaggio inviato via pec.
La ricorrente ha, altresì, osservato che in nessuna fase della procedura (né di ammissione, né in sede di opposizione allo stato passivo) la procedura aveva contestato di aver ricevuto le diffide - e cioè la pec - con quel contenuto.
Doveva, pertanto, ritenersi pacifico che, per effetto della mancata contestazione da parte del fallimento, le pec avessero quel contenuto, incombendo semmai al fallimento provare un allegato diverso da quello prodotto in cartaceo.
Il Tribunale ha quindi omesso di decidere su un fatto decisivo costituito dalla data certa del credito derivante dalle lettere oggetto di discussione tra le parti.
In subordine, la ricorrente allega che il giudice di primo grado avrebbe violato gli artt. 101 comma 2 e 112 cod. proc. civ., avendo posto a fondamento della propria decisione una questione rilevabile d'ufficio senza assegnare alle parti un termine per depositare memorie sul punto.
2. Il motivo presenta concomitanti profili di infondatezza e inammissibilità, anche se la motivazione del Tribunale deve essere corretta in diritto a norma dell'art. 384 ult. comma cod. proc. civ. Va preliminarmente osservato che questa Corte (vedi Cass. n. 32165/2023), nell'esaminare un'analoga questione in cui era stato invocato dall'istante che il documento allegato ad una posta elettronica certificata è attratto al regime di quest'ultima, ed è pertanto atto opponibile a terzi, ha affermato che "la posta elettronica certificata dimostra l'invio e la ricezione del messaggio, ma non garantisce il contenuto del documento allegato". Non si può, in altri termini, dalla circostanza che la posta elettronica è certificata, dedurre che anche il documento allegato lo è, o meglio, che quel documento è riferibile al suo autore, e che ha effettivamente quel contenuto. Si supponga il caso in cui con posta certificata si invia un documento dal falso contenuto, o proveniente da un terzo: si dovrebbe dire che, avendo il mittente certificato la posta (ossia attestato che proviene da lui e che è stata spedita a quell'ora) ha altresì attestato che il documento allegato è vero o che è riferibile ad un terzo….".
Dunque, la Pec è in grado di attestare in maniera certa l'avvenuta trasmissione e ricezione del messaggio, le modalità di spedizione (data, ora e formato) ed anche il suo contenuto, ma limitatamente alla Pec stessa, non al file allegato ad essa. Pertanto, se alla Pec è stato allegato un file con un determinato nome, estensione, formato e dimensioni la ricevuta lo attesterà, ma non farà prova del contenuto di quel file, occorrendo, a tal fine, che sul file allegato sia apposta la firma digitale, che certificherà la provenienza del documento e la sua integrità.
Ne consegue che non è corretta la stessa affermazione del tribunale secondo cui la produzione del documento (pec) in formato elettronico sarebbe idonea a fornire la prova del contenuto del documento allegato (e della data certa).
Non corretta giuridicamente è, inoltre, l'affermazione del Tribunale secondo cui la data certa di un documento (nel caso di specie, la nota del 21.1.2013 inviata via pec) che richiama, al suo interno, il contenuto di un contratto nei suoi tratti essenziali (nella specie, il contratto di affitto d'azienda) "estenderebbe la certezza della data anche alla scrittura privata ed alle previsioni essenziali in essa contenute". Sul punto questa Corte (vedi Cass. n. 34755/2023) ha recentemente affermato - nell'esaminare una questione in cui l'istante intendeva provare la data certa di un mandato professionale desumendola dalla menzione dello stesso all'interno di una domanda di concordato preventivo depositata in giudizio - …" che la mera menzione di un mandato professionale supposto quale preesistente rispetto ad un atto, depositato in giudizio e da quel momento avente natura di data certa, non conferisce alcuna data certa anche al contratto cui il mandato citato ineriva, se non ne sia contestualmente depositato il relativo documento: atteso che l'istituto della data certa, ai fini della opponibilità, riguarda un atto che, con un giudizio di certezza, viene in rilievo nella sua precisa, conoscibile, dunque completa, esistenza, non è certo sufficiente, a tal fine, la mera menzione del suo contenuto in altro atto. Nel caso di specie, non vi sono i presupposti per il riconoscimento della data certa, cioè della violazione da parte del giudice di merito dei criteri codicistici enunciati, in quanto con la domanda di concordato preventivo quel mandato non risultava depositato, ma solo menzionato nel corpo del ricorso e peraltro neanche nella sua integralità…".
Il principio enunciato da questa Corte nella predetta ordinanza risulta pienamente applicabile anche al caso di specie.
Sono, altresì, infondate le censure della ricorrente in ordine alla dedotta violazione del principio di non contestazione, di cui all'art. 115 cod. proc. civ., e dell'art. 101 comma 2 cod. proc. civ.
Quanto alla prima doglianza, l'onere di contestazione specifica che grava su una parte processuale non riguarda i documenti prodotti in giudizio o la loro valenza probatoria, la cui valutazione è riservata al giudice (vedi Cass. n. 3126/2019; vedi anche Cass. n. 3306/2020; Cass. n. 12748/2016; 22055/2017), e ciò in considerazione del fatto che l'accertamento sull'esistenza del titolo vantato nei confronti del fallimento, e dedotto in giudizio, deve essere dunque compiuto dal giudice "ex officio" in ogni stato e grado del processo, nell'ambito proprio di ognuna delle sue fasi, in base alle risultanze rite et recte acquisite nei limiti in cui tale rilievo non sia impedito o precluso in dipendenza di apposite regole (vedi Cass. 24972/2013; conf. Cass. 29254/2019).
Non può essere neppure invocata dal ricorrente la violazione dell'art. 101 comma 2 cod. proc. civ.
Dalla stessa ricostruzione dei fatti fornita dalla ricorrente, contenuta nella parte narrativa (vedi pag. 5 ricorso), emerge che "Il G.D. con provvedimento 24/10/16 escludeva l'importo ammesso al passivo ritenendo che l'intera documentazione prodotta non fosse opponibile al fallimento, trattandosi di contratto privo di data certa e di fatture emesse dal richiedente, per cui tale documentazione non aveva data certa anteriore al fallimento".
Dunque, la problematica, in generale, della data certa è stata affrontata dal G.D. in sede di insinuazione allo stato passivo ed apparteneva al thema decidendum anche nella fase del giudizio di opposizione ex art. 98 legge fall. Non può, pertanto, la ricorrente invocare, sul punto, la violazione del principio del contraddittorio.
Infine, la censura, secondo cui il Tribunale avrebbe omesso di decidere su un fatto decisivo costituito dalla data certa del credito derivante dalle lettere oggetto di discussione tra le parti, è palesemente infondata, avendo il giudice di primo grado esaminato approfonditamente le scritture in oggetto, ritenendole prive di data certa.
3. Con il secondo motivo sono invocati la violazione e falsa applicazione degli artt. 2704 e 2709 cod. civ. nonché l'omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 comma 1 n. 5 cod. proc. civ.
Espone la ricorrente che il fallimento non ha contestato né di aver detenuto ed esercitato l'azienda sino a febbraio-marzo 2013 né di avere corrisposto i canoni relativi all'affitto successivi al luglio 2010, per i quali sono state emesse le fatture prodotte in giudizio dalla ricorrente. Tale circostanza doveva ritenersi provata in quanto non solo non contestata, ma anche ammessa dal fallimento.
Inoltre, il pagamento delle fatture emesse dall'8.7.2010 all'agosto 2011 era stato provato con la produzione di assegni e le ammissioni di controparte che dimostravano l'anteriorità del credito rispetto al fallimento.
4. Il motivo è inammissibile.
Va osservato che il Tribunale di Cagliari ha coerentemente evidenziato che "la prova del rapporto di cui è causa non può essere desunta dalle fatture emesse dalla società opponente, trattandosi di documentazione formata unilateralmente dal creditore. Né assume maggior rilievo il fatto che la Bricosarda effettuasse pagamenti in favore di Gieffe di importo corrispondente, atteso che tale circostanza proverebbe l'esistenza di un rapporto tra le due società, ma non che la fonte di tale rapporto fosse proprio il contratto di affitto d'azienda del 8.7.2010 che l'opponente pretende di far valere".
Con tali precise argomentazioni la ricorrente non si è confrontata, reiterando le precedenti censure ed affermando apoditticamente che il fallimento non aveva contestato che la società fallita avesse pagato le fatture dopo l'8.7.2010, non considerando che, come evidenziato dalla procedura controricorrente in questa sede, i pagamenti potevano ben riferirsi al contratto di affitto precedentemente stipulato del 20.9.2000 in merito al quale non è contestato che vi fossero morosità e/o ritardi.
5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2704 cod. civ. in relazione all'art. 244 cod. proc. civ. nonché l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
Espone la ricorrente di aver articolato, nell'atto di opposizione ex art. 98 legge fall., prove testimoniali vertenti su circostanze non dirette a provare il contenuto del contratto di affitto d'azienda, ma fatti (equipollenti a quelli delineati dall'art. 2704 cod. civ. al fine di attribuire data certa al credito) che concernono l'esistenza di un accordo contrattuale che nel luglio 2010 ha portato Bricosarda a continuare l'esercizio dell'azienda per importi concordati con la ricorrente e a pagare quelle somme sino all'agosto 2011.
Il Tribunale di Cagliari non ha ammesso la prova testimoniale nonostante la stessa fosse idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito. Ne consegue che il giudice di primo grado è incorso nel vizio di motivazione.
6. Il motivo è inammissibile.
Se è pur vero che ove il documento contrattuale non sia munito di data certa, la prova del negozio e della sua stipulazione anteriore al fallimento può essere fornita, prescindendo dal documento contrattuale, con tutti gli altri mezzi consentiti, anche nei confronti dei terzi e del curatore, salve le limitazioni derivanti dalla natura e dall'oggetto del negozio (vedi Cass. 2319/2016; conf. Cass n. 3956/2018 e n. 37028/2021), tuttavia, nel caso di specie, la mancata ammissione da parte del Tribunale di Cagliari delle prove articolate dalla ricorrente non dà luogo ad un vizio di motivazione, atteso che le circostanze capitolate non erano idonee ad investire un punto decisivo della controversia (vedi sul punto Cass. n. 16214/2019; conf. 27415/2018; Cass. n. 56544/2017), difettando nei capitoli deferiti ai testi quel grado di completezza e univocità nel ricostruire tutti gli elementi negoziali dell'affitto d'azienda, non dimostrabile con documenti afferenti al titolo, perché inopponibili al curatore. In particolare, ove, come nel caso di specie, la prova verta sulle mere circostanze di 'esecuzione' di un rapporto, che non parrebbe negato da alcuno, ma senza che sia possibile ricostruire quale fosse il suo titolo e quale fosse la precisa volontà delle parti, ad iniziare dal sinallagma godimento-corrispettivi, manca la decisività, che è onere della prova della parte ricorrente allegare e persuadere vi sia.
Dall'esame dei capitoli di prova articolati dall'odierno ricorrente nel giudizio di opposizione - e trascritti in ricorso - emerge che contengono un riferimento al contratto del 2000 - in ordine al quale il tribunale ha già giudicato tardiva la menzione di quel titolo - che non è, tuttavia, rilevante, avendo la ricorrente fondato la sua pretesa creditoria sul contratto del 2010. Pertanto, i capp. a-g, contraddicono un limite della causa petendi ; alcuni sono generici (i), altri valutativi (k), altri inconferenti (n) o ultronei (p) o inutili (q) o un po' velleitari (r) o scontati (s).
7. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 93,94,99 e 101 legge fall. in relazione all'art. 183 comma 5 cod. proc. civ. nonché la nullità sentenza per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ.
Lamenta la ricorrente che ha errato il Tribunale di Cagliari nell'affermare che la domanda di riconoscimento dell'indennità di occupazione non fosse stata proposta in sede di insinuazione allo stato passivo.
In realtà, nelle note dell'1.10.2016 trasmesse al G.D. prima dell'approvazione dello stato passivo, riportate integralmente nel ricorso in opposizione e prodotte come documento n. 28, la ricorrente aveva già integrato la propria domanda, formulando la pretesa che le venisse riconosciuta l'indennità per l'illegittima occupazione dell'azienda.
La ricorrente ha, altresì, osservato che, anche alla luce dell'arresto delle Sezioni Unite di questa Corte n. 12310/2015, dovendosi abbandonare il parametro di carattere formale che segnava la distinzione tra mutatio ed emendatio libelli, e soffermarsi piuttosto sulla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, non può ravvisarsi una domanda nuova per il solo fatto che nella richiesta di indennità di occupazione il titolo giuridico della pretesa sia diverso rispetto al titolo contrattuale.
8. Il motivo è inammissibile.
Va osservato che la ricorrente ha dedotto che già nella fase di insinuazione allo stato passivo e, segnatamente, nelle note dell'1.10.2016 al progetto di stato passivo, aveva formulato la domanda di indennità per l'illegittima occupazione dell'azienda. Tale domanda si evincerebbe dal seguente passaggio di tali note, che è stato trascritto nel ricorso in opposizione ex art. 98 legge fall.: "In caso si ritenessero comunque inopponibili al fallimento sia la scrittura 8.8.2010 sia le relative fatture impagate sia l'ulteriore documentazione prodotta, non potrebbe comunque superarsi il fatto che Bricosarda detenesse il ramo d'azienda posto in Capoterra, Centro Commerciale i Gabbiani, via Lampedusa 29, in forza del contratto, oggi prodotto, autenticato in data 20/09/2000 rep. 10108/2711 dal Notaio Pasolini e ciò a decorrere dal 28/09/2000 sino al 5/3/2011 (vedi doc. 15 pag. 64) e che gli importi richiesti risultano mai pagati dalla società Bricosarda Srl.
In sintesi è indubitabile che la società fallita abbia detenuto in affitto un ramo d'azienda posta nel Centro Commerciale i Gabbiani, via Lampedusa 29, dal 20/9/2000 (vedi doc. 8) sino al 5/3/2013 e che, dal settembre 2011 (per la mensilità di agosto corrisposte solo Euro 3.000,00 contro 10.000,00 oltre iva) la Bricosarda Srl cessò di effettuare qualsivoglia altro pagamento del corrispettivo dovuto. Il rilascio avvenne nei primi giorni di marzo 2013 (vedi visura camerale doc. 15 pag. 64), mensilità peraltro di cui non si è chiesto il pagamento".
Orbene, dall'esame dell'estratto delle note dell'1.10.2016, trascritto nel ricorso allo stato passivo - e sopra riportato integralmente - emerge in modo inequivocabile che la ricorrente non ha fatto alcun cenno ad una richiesta di indennità per l'illegittima occupazione dell'azienda, avendo semmai richiamato il contratto stipulato il 20.9.2000. Correttamente, quindi, il Tribunale di Cagliari ha ritenuto che la domanda subordinata di indennità di occupazione fosse stata formulata, inammissibilmente, solo in sede di opposizione allo stato passivo.
Infine, le censure della ricorrente sono palesemente infondate anche laddove nega che, con la richiesta dell'indennità di occupazione svolta nel ricorso ex art. 98 legge fall., abbia introdotto una domanda nuova.
Questa Corte (Cass. n. 6279/2022; conf. 26225/2017) ha più volte affermato che "sono inammissibili domande dell'opponente nuove rispetto a quelle spiegate nella precedente fase, non applicandosi il principio, proprio del giudizio di primo grado, secondo cui entro il primo termine di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., è consentita la "mutatio" di uno o entrambi gli elementi oggettivi della domanda, petitum e causa petendi, sempre che essa, così modificata, risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio; il procedimento di opposizione allo stato passivo ha infatti natura impugnatoria, è disciplinato specificamente dall'art. 99 l. fall. e si coordina necessariamente con quanto previsto dall'art. 101 l. fall., non consentendo perciò l'applicazione, neppure analogica, dei principi espressi in tema di opposizione a decreto ingiuntivo".
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il 13 febbraio 2024.
Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2024.