La sanzione nei confronti del lavoratore, dopo il proscioglimento in sede penale, può scaturire solo all'esito del procedimento disciplinare, che non è vincolato al rispetto di un giudicato penale che non esclude né l'esistenza del fatto, né che l'impiegato l'abbia commesso.
Tuttavia, qualora la sanzione disciplinare sia meno afflittiva rispetto alla sospensione cautelare, oppure quando al processo penale non segua alcuna sanzione disciplinare, il periodo di sospensione cautelare non ha più giustificazione (in tutto o nella parte eccedente la sanzione inflitta) e con esso anche il dimezzamento della retribuzione che alla sospensione cautelare è abbinato.
Questo principio si applica sia alla sospensione facoltativa, quando la prestazione del lavoratore è scelta discrezionale del datore di lavoro, sia alla sospensione obbligatoria.
La sospensione cautelare è considerata una misura cautelare, non una sanzione, e la sua proporzionalità è valutata in base al pregiudizio che l'interesse pubblico subirebbe dalla permanenza in servizio del dipendente durante il processo penale.
Una volta definito il processo penale, spetta al procedimento disciplinare stabilire la sanzione da applicare al lavoratore e verificare se e in che misura la sospensione cautelare risulti coerente con la sanzione applicata e sia, quindi, da questa assorbita.
Vedi anche:
Cassazione civile, sez. lav., ordinanza 10/01/2024 (ud. 19/10/2023) n. 1058
FATTI DI CAUSA
L'attuale controricorrente si rivolse al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in funzione di giudice del lavoro, per chiedere la condanna dell'Agenzia delle Entrate, di cui era dipendente, al pagamento dei conguagli retributivi dovuti per il quinquennio in cui egli aveva percepito solo l'assegno alimentare, pari alla metà dello stipendio, perché sottoposto a sospensione cautelare in pendenza del procedimento e poi del processo penale, conclusosi in primo grado con sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato.
Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale accolse la domanda del lavoratore, condannando l'Agenzia delle Entrate al pagamento del conguaglio retributivo, "sia aderendo alla tesi dell'automaticità della restitutio in integrum in caso di prescrizione del reato a cui non è seguito il licenziamento, sia aderendo alla tesi della possibilità di una discrezionale valutazione dei fatti coperti da prescrizione ad adopera del datore di lavoro, posto che tale valutazione, nel caso di specie, aveva portato alla conclusione di un'indubbia levità degli errori" (così riassunta la motivazione del primo grado nella sentenza d'appello).
L'Agenzia delle Entrate propose appello, che venne però a sua volta respinto dalla Corte d'Appello di Napoli.
Contro la sentenza della Corte territoriale il l'Agenzia delle Entrate ha quindi proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Il lavoratore si è difeso con controricorso e ha depositato altresì memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell'art. 380-bis.1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente si rileva che il ricorso indica, quale soggetto intimato, anche l'INPS, al quale è stato notificato.
Tuttavia, in questa direzione il ricorso è palesemente inammissibile, ed anzi da considerare tamquam non esset, perché l'INPS, a parte non essere menzionato in alcuna altra parte del ricorso, non compare quale parte in causa né nell'intestazione, né nella motivazione, né nel dispositivo della sentenza impugnata.
2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. Nullità della sentenza. Mancanza della motivazione ovvero motivazione, perplessa ed obiettivamente incomprensibile".
3. Il secondo motivo censura, quale vizio da inquadrare nell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 70 CCNL Agenzie fiscali 2004 e art. 27 CCNL Comparto Ministeri 1995".
4. Questi due motivi - che devono essere esaminati congiuntamente, perché entrambi volti a contestare l'affermazione della Corte d'Appello secondo cui al rapporto per cui è causa sarebbe applicabile il CCNL Agenzie fiscali del 2004, invece che il CCNL Comparto Ministeri del 1995 - sono inammissibili, in quanto non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata.
4.1. La Corte d'Appello di Napoli, dopo avere constatato che era stata proprio l'Agenzia delle Entrate a richiamare il CCNL Comparto Agenzie fiscali del 2004 nella missiva di avvio del procedimento disciplinare, ha tuttavia continuato la motivazione osservando che, "Pur volendo aderire all'impostazione dell'Ufficio, ovverosia ritenere l'applicabilità del CCNL Comparto Ministeri 1995, dovrebbe, comunque, sempre confermarsi la fondatezza della domanda di restitutio in integrum". Ed è infatti sull'interpretazione dell'art. 27 del CCNL Comparto Ministeri del 1995 che sono stati motivati il rigetto dell'appello e la conferma della condanna dell'Agenzia delle Entrate al pagamento dei conguagli retributivi.
5. Su questo aspetto si concentra il terzo motivo di censura, che, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., contesta la "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 27 CCNL Agenzie fiscali 2004 [recte: CCNL Comparto Ministeri 1995]".
La ricorrente si lamenta che la Corte d'Appello abbia aderito a un'interpretazione non letterale della disposizione della contrattazione collettiva, la quale prevede il conguaglio "con quanto dovuto al lavoratore se fosse rimasto in servizio" solo in caso di "sentenza definitiva di assoluzione o proscioglimento con formula piena" e, quindi, non anche nel caso di proscioglimento per prescrizione del reato.
5.1. Il motivo è infondato, in conformità a quanto statuito nei più recenti e condivisibili arresti di questa Corte sulla medesima questione.
5.1.1. Sull'interpretazione letterale deve prevalere quella estensiva o integrativa che è necessaria per rispettare la funzione meramente cautelare, e non sanzionatoria, della sospensione dal servizio in pendenza del procedimento e del processo penale (v. Cass. nn. 24117/2022, 4411/2021, 11381/2020, 19106/2017, 9304/2017, 5147/2013).
La sanzione nei confronti del lavoratore, dopo il proscioglimento in sede penale, può scaturire solo all'esito del procedimento disciplinare, che non è vincolato al rispetto di un giudicato penale che non esclude né l'esistenza del fatto, né che l'impiegato l'abbia commesso. Tuttavia, qualora la sanzione disciplinare sia meno afflittiva rispetto alla sospensione cautelare (come nel caso di specie, in cui è stata applicata la sanzione della sospensione per soli 15 giorni), oppure quando al processo penale non segua alcuna sanzione disciplinare, il periodo di sospensione cautelare non ha più giustificazione (in tutto o nella parte eccedente la sanzione inflitta) e con esso anche il dimezzamento della retribuzione che alla sospensione cautelare è abbinato.
Tale principio vale sicuramente per la sospensione facoltativa, ovverosia con riguardo ai periodi in cui la prestazione del lavoratore non viene eseguita per una scelta discrezionale in tal senso del datore di lavoro. Ma, anche con riferimento alla sospensione obbligatoria, vale quanto considerato dalla Corte costituzionale, che ha ritenuto infondato il dubbio di illegittimità costituzionale dell'obbligatorietà della misura sospensiva (come prevista dalle leggi n. 55 del 1990 e n. 97 del 2001), proprio evidenziando che non si tratta di una sanzione, ma di una misura cautelare, per la quale l'esigenza di proporzionalità si misura soltanto rispetto al pregiudizio che può subire l'interesse pubblico per la permanenza in servizio dell'impiegato nonostante la pendenza dell'accusa penale (Corte cost. nn. 145/2002, 206/1999, 184/1994). Con il corollario che, una volta definito il processo penale, spetta al procedimento disciplinare stabilire la sanzione da applicare al lavoratore e verificare se e in che misura la sospensione cautelare risulti coerente con la sanzione applicata e sia, quindi, da questa assorbita.
"In sostanza, la natura cautelare della misura della sospensione comporta la sua provvisorietà e rivedibilità, nel senso che solo al termine e secondo l'esito del procedimento disciplinare si potrà stabilire se la sospensione preventiva applicata resti giustificata ovvero debba venire caducata a tutti gli effetti" (Cass. n. 4411/2021, cit.).
5.1.2. La regola soffre eccezione solo per la sospensione resa obbligatoria dalla custodia cautelare in carcere, perché in quel caso "la perdita della retribuzione si riconnette ad un provvedimento necessitato dallo stato restrittivo della libertà personale del dipendente" (ancora Cass. n. 4411/2021, cit.; conf. Cass. nn. 24117/2022, 9095/2020, 31502/2018, 20708/2018, 10137/2018, 20321/2016).
Ma il ricorso, pur facendo riferimento nel "fatto e svolgimento del processo" a un periodo di custodia cautelare in carcere subito dal controricorrente, non impugna la sentenza sotto questo specifico profilo.
6. Il quarto motivo è così rubricato: "Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. Nullità della sentenza. Mancanza della motivazione ovvero motivazione apparente, perplessa ed obiettivamente incomprensibile".
La censura riguarda il giudizio del giudice d'appello sulla "indubbia levità" dei fatti addebitati al lavoratore, giudizio che la ricorrente considera immotivato e non coerente con quanto emerge dalle considerazioni svolte nella motivazione del provvedimento sanzionatorio.
6.1. Il motivo è infondato, perché - a parte il fatto che la Corte d'Appello non ha espresso un proprio giudizio sulla "indubbia levità" degli addebiti, ma ha riportato il giudizio in tal senso contenuto nella motivazione della sentenza di primo grado - in questo caso il giudice del merito non è chiamato a valutare la congruità di una sanzione rispetto ai fatti commessi (infatti, come si è visto sopra, la sospensione cautelare non è e non può trasformarsi in una sanzione), ma deve limitarsi a constatare che la sanzione della sospensione inflitta dal datore di lavoro ha una durata inferiore rispetto alla durata della sospensione cautelare.
Pertanto, non era dovuta dal giudice del merito alcuna motivazione sulla maggiore o minore gravità degli addebiti, fermo restando, in ogni caso, che una sanzione disciplinare mai potrebbe essere giustificata dal fatto "di non poter escludere la sussistenza dei comportamenti ipotizzati", essendo invece sempre necessaria la prova degli addebiti, quale presupposto per infliggere legittimamente la sanzione.
7. Infine, il quinto motivo è intitolato "Art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
7.1. Questo motivo è palesemente inammissibile, posto che non si indica un "fatto" che non sarebbe stato esaminato dalla Corte d'Appello, ma si imputa a questa un errato "giudizio" sul "disvalore dei fatti". Ed è di tutta evidenza che un giudizio di valore è cosa diversa dall'esame di un fatto.
8. Respinto il ricorso, le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
9. Si dà atto che non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 a carico della ricorrente, in quanto l'art. 12, comma 5, del d.l. n. 16 del 2 marzo 2012, ha stabilito che "Le disposizioni di cui all'articolo 158 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, si applicano alle Agenzie fiscali delle entrate, delle dogane, del territorio e del demanio".
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.000 per compensi, oltre a Euro 200 per esborsi, spese generali al 15% e agli accessori di legge, con distrazione a favore dei difensori antistatari;
Così deciso in Roma, il 19 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2024.