Ai fini del riconoscimento dell'equo indennizzo previsto dalla Legge Pinto, come si calcola la durata complessiva del processo nei giudizi introdotti con ricorso?
È questa la domanda a cui risponde la Sezione Seconda della Cassazione con l'ordinanza n. 14598 depositata il 24 maggio 2024, che chiarisce la metodologia per determinare la durata di un processo iniziato con ricorso, essenziale per valutare l'irragionevole prolungamento del procedimento.
La questione prende spunto da un caso in cui il Consigliere delegato della Corte di Appello di Napoli, agendo su ricorso degli eredi di S.C., aveva inizialmente riconosciuto un indennizzo per l'irragionevole durata di un giudizio previdenziale. Tale decisione, però, fu successivamente modificata su opposizione del Ministero della Giustizia, che portò a una riduzione dell'indennizzo a euro 500,00.
Nel dettaglio, la Cassazione ha stabilito che, nei procedimenti iniziati con ricorso, la litispendenza per il ricorrente inizia dal momento del deposito del ricorso, mentre per il resistente inizia dalla notificazione del medesimo. Questo implica che il periodo tra il deposito del ricorso e la sua notifica deve essere incluso nel calcolo della durata complessiva del processo, poiché non si configura come un'interruzione giuridica.
Pertanto, secondo la Corte, il tempo di sospensione processuale non è da considerare nel computo della durata ai sensi dell'art. 2, comma 2-quater della l. n. 89/2001, che non include i periodi in cui il processo è sospeso per valutare l'irragionevole durata.
In conclusione, per la determinazione di una durata irragionevole e per il conseguente riconoscimento dell'equo indennizzo, è cruciale considerare l'intero periodo successivo al deposito del ricorso, inclusi i tempi di notifica, a meno che le dilatazioni temporali non siano attribuibili a disfunzioni non imputabili alle parti.
Cassazione civile, sez. II, ordinanza 24/05/2024 (ud. 10/05/2024) n. 14598
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con ricorso proposto ai sensi dell'art. 3 della L. n. 89/2001, To.An., To.Ra. e To.Ca., nella loro qualità di eredi di Sg.Cr., chiedevano alla Corte di appello di Napoli il riconoscimento e la liquidazione dell'equo indennizzo relativamente alla irragionevole durata di un giudizio previdenziale instaurato dalla predetta loro dante causa in data 1 dicembre 2008 e definito con sentenza del 26 gennaio 2021.
Il Consigliere delegato di detta Corte, con decreto emesso il 13 giugno 2022, accoglieva la domanda e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento, in favore dei ricorrenti ed a titolo di equo indennizzo, della somma di euro 2.700,00, nella qualità dagli stessi indicata ed in proporzione delle rispettive quote.
Decidendo sull'opposizione formulata dal citato Ministero e nella costituzione degli opposti, la Corte di appello di Napoli, in composizione collegiale, lo riteneva fondato per quanto di ragione e, per l'effetto, previa revoca del decreto impugnato, in parziale accoglimento del ricorso per equa riparazione, condannava lo stesso Ministero al pagamento della somma di euro 500,00 in favore dei tre To.An., To.Ra. e To.Ca., da ripartirsi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, oltre interessi legali dalla domanda. Compensava integralmente tra le parti le spese del giudizio.
A sostegno dell'adottato decreto, la Corte partenopea - pacifica la circostanza che i tre To.An., To.Ra. e To.Ca. aveva agito "iure hereditatis" - accoglieva la ricostruzione prospettata dall'opponente Ministero (richiamando l'ordinanza di questa Corte n. 25490/2021) nel senso che, in caso di appello proposto con ricorso (come avviene in materia previdenziale) e laddove la parte ricorrente per equa riparazione abbia ricoperto nel giudizio presupposto il ruolo di appellata, la detrazione del lasso temporale da computare debba essere calcolata non già sino alla data di deposito del ricorso in appello, bensì fino alla data della notifica del ricorso in appello alla parte appellata unitamente al pedissequo decreto di fissazione dell'udienza di discussione.
2. Avverso il suddetto decreto collegiale hanno proposto un congiunto ricorso per Cassazione, affidato a quattro motivi, i tre To.An., To.Ra. e To.Ca., resistito con controricorso dal Ministero della Giustizia.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, i ricorrenti hanno denunciato - ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - la violazione e falsa applicazione dell'art. 414 c.p.c., nonché dell'art. 1 del D.Lgs. n. 150/2011, in relazione alla legge n. 89/2001, lamentando l'illegittimità della distinzione, operata nel decreto impugnato, tra le parti del giudizio presupposto previdenziale nel senso che, dal punto di vista della parte ricorrente, si deve avere riguardo alla data di deposito del ricorso, mentre, dal punto di vista della parte resistente, si deve porre riferimento alla data di notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione poiché soltanto da quest'ultimo momento verrebbe a verificarsi la litispendenza per la resistente.
2. Con il secondo motivo, i ricorrenti hanno dedotto - avuto riguardo all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - la violazione e/o falsa applicazione degli art. 415,417,433 e 434 c.p.c., in relazione alla legge n. 89/2001, prospettando nuovamente l'irragionevolezza della rilevata scissione tra la data di pendenza del processo del lavoro o previdenziale (che si verifica, in secondo grado, al momento del deposito del ricorso da parte dell'appellante) e la data di notificazione del ricorso all'appellato, risultato vittorioso (totalmente o parzialmente) all'esito del giudizio di primo grado.
3. Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno lamentato - con riferimento all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1-bis della legge n. 89/2001. Sostengono, al riguardo, che se è indiscutibile, da un lato, che nelle controversie individuali di lavoro, la pendenza della causa si determina con il deposito del ricorso introduttivo in Cancelleria, instaurandosi in quel momento un rapporto tra due dei tre soggetti tra i quali si svolge il giudizio, dall'altro è altrettanto vero che la notifica ha l'unico scopo di garantire la difesa del convenuto con l'instaurazione del contraddittorio, ragion per cui la previsione di tale sequenza processuale non può ridondare a svantaggio delle parti resistenti (nella specie appellate) con una riduzione del calcolo circa l'irragionevole durata del giudizio presupposto come ritenuta nel decreto impugnato.
4. Con il quarto ed ultimo motivo, i ricorrenti hanno denunciato - ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - la violazione e/o falsa applicazione degli art. 414,433 e 434 c.p.c. sotto altro profilo ed in relazione all'art. 39, ultimo comma, c.p.c., deducendo, ulteriormente, che, anche in base alla disciplina sulla prevenzione, l'impugnato decreto è da ritenersi illegittimo dal momento che la parte appellata nel giudizio presupposto subisce le conseguenze o gli effetti derivanti da specifiche norme processuali, senza darne causa e senza sua colpa, per cui risulta inspiegabile una cospicua riduzione del calcolo circa l'irragionevole durata di quel giudizio presupposto.
5. Rileva il collegio che i quattro motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto all'evidenza connessi, risultando incentrati sulla medesima questione giuridica prospettata sotto vari profili.
Essi sono fondati per le ragioni che seguono.
La motivazione che la Corte di appello ha adottato nel decreto impugnato è, in via essenziale, la seguente:
- per i procedimenti che iniziano con ricorso (come quelli in materia di lavoro e previdenziale) la litispendenza, per il ricorrente, si verifica dal momento del deposito del ricorso stesso, mentre per il resistente dal momento della notificazione del medesimo unitamente al pedissequo decreto di fissazione dell'udienza di discussione;
- nel caso di specie, la dante causa degli odierni ricorrenti era risultata vittoriosa all'esito del giudizio di primo grado (durato tre anni), la stessa era stata evocata in giudizio in secondo grado quale appellata, giudizio che, pur se da considerarsi iniziato per il Ministero appellante con la data di deposito del ricorso in appello (23 settembre 2011), aveva visto quest'ultimo essere stato notificato alla Sg.Cr. solo il 23 gennaio 2016 (cioè dopo oltre quattro anni, perché, evidentemente, l'udienza di discussione era stata fissata in appello con tale dilazione temporale per ragioni correlate alle esigenze dell'ufficio giudiziario e del carico del ruolo delle cause);
- pertanto, il lasso temporale intercorso tra la data del deposito del ricorso in appello e il momento della sua notificazione all'appellata non si sarebbe dovuto computare ai fini del calcolo della durata complessiva del giudizio e, di conseguenza, allo scopo della determinazione di quella parte imputabile a durata irragionevole in funzione del riconoscimento dell'equo indennizzo (potendo equipararsi ad una sorta di intervallo temporale "neutro", in applicazione dell'art. 2, comma 2-quater della L. n. 89/2001), dovendosi così ritenere che il giudizio presupposto aveva avuto una durata complessiva effettiva di anni sei, mesi 1 e gg. 27, con la conseguente riduzione dell'equo indennizzo nella misura di euro 500,00 (considerata la durata ragionevole nell'ordine di cinque anni, con la derivante indennizzabilità di un solo anno di ritardo irragionevole).
La Corte di appello partenopea ha basato il suo riportato percorso logico-giuridico su un precedente di questa Corte rappresentato dall'ordinanza (non mass.) n. 25490/2021.
Secondo questa pronuncia, infatti, dall'interpretazione dell'art. 2-quater della L. n. 89/2001, discenderebbero due principi (rilevanti in un caso di specie identico a quello oggetto del ricorso in esame), ovvero:
- il primo, secondo il quale, ai fini del computo della durata complessiva del giudizio, il processo si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo;
- il secondo, in base al quale, sempre ai fini del calcolo di detta durata, non si ha riguardo al tempo in cui il processo è sospeso ed a quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l'impugnazione e la proposizione della stessa.
Di seguito, nella citata ordinanza di legittimità, si sostiene che tali principi vanno interpretati alla luce della ratio della normativa che è quella di indennizzare le parti dall'irragionevole durata del processo imputabile alle disfunzioni dell'apparato statuale, con la conseguenza che l'intervallo temporale da scomputare ai sensi dell'art. 2, comma 2-quater, L. n. 89/2001 era quello ricompreso fra l'inizio del termine per proporre l'impugnazione e quello della notifica dell'atto di appello, formulato nel giudizio presupposto, ad opera del Ministero avverso la sentenza del Tribunale che aveva accolto la domanda introduttiva, atteso che sino a quel momento le parti vittoriose in primo grado non avevano patito alcun pregiudizio imputabile all'apparato statuale, poiché queste ultime non erano neppure erano a conoscenza della pendenza del giudizio di secondo grado instaurato dall'Amministrazione soccombente all'esito del processo di prime cure.
5.1. Ritine il collegio che la ricostruzione giuridica compiuta nel decreto impugnato non può essere condivisa perché collidente con l'impianto normativo della legge n. 89/2001 e, soprattutto, con la ratio della stessa correlata agli scopi che il legislatore ha inteso perseguire in caso di violazione del termine ragionevole del processo.
Sotto il primo profilo si osserva che non coglie nel segno l'approccio ermeneutico compiuto con riferimento al disposto dell'art. 2, comma 2-quater, della citata legge, poiché:
- per un verso, il lasso di tempo intercorrente tra il deposito del ricorso nel processo del lavoro e la sua conseguente notificazione insieme al pedissequo decreto di fissazione dell'udienza di discussione non può essere equiparato ad una "sospensione" del giudizio;
- per altro verso, laddove la norma in discorso sancisce che, sempre ai fini del suddetto computo, non si valuta il tempo intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l'impugnazione e la proposizione (quando poi effettivamente avvenuta), intende riferirsi all'intervallo temporale tra il momento della pubblicazione o notificazione della pronuncia impugnabile e quello in cui - per evitare il passaggio in giudicato della stessa - il gravame sia effettivamente proposto ad opera della parte avente interesse (i cui termini sono individuati, in via generale, rispettivamente nell'art. 327 e 325 c.p.c.).
Inoltre, con espressione inequivocabile, l'art. 2, comma 2-bis della c.d. "legge Pinto", dopo aver fissato i distinti periodi di durata ragionevole per i tre gradi di giudizio, prevede che "ai fini del computo della durata il processo si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell'atto di citazione".
Pertanto, risulta evidente che - al fine della tutela degli interessi generali cui è ispirata la legge n. 89/2001 - è il momento del deposito del ricorso, nei giudizi che vanno introdotti con tale tipo di atto processuale, quello in cui si considera incardinato il giudizio allo scopo del computo della durata complessiva del processo, da cui detrarre il periodo di durata ragionevole, per desumerne, conseguentemente, quello (eventualmente) irragionevole in funzione del riconoscimento del diritto all'ottenimento dell'equo indennizzo.
A tal fine, perciò, tutto il periodo successivo - la cui dilatazione non sia imputabile alle parti ma esclusivamente alle disfunzioni dell'apparato giudiziario - va, nell'ottica degli interessi salvaguardati dalla legge n. 89/2001, calcolato ai fini della determinazione della durata complessiva del giudizio (allo scopo, quindi, di quantificare quella da correlarsi a, periodo di durata irragionevole).
Questo implica che - diversamente da quanto ritenutola dalla Corte di appello nella specifica fattispecie - il periodo intercorso tra il deposito del ricorso e il momento della sua effettiva notificazione alla parte appellata va, in ogni caso, computato per l'individuazione della durata complessiva del giudizio e non può, quindi, essere da essa detratto, non sortendo alcuna rilevanza - in funzione dell'applicazione della legge n. 89/2001 e della sua ratio - la scissione degli effetti processuali tra la posizione dell'appellante e quella dell'appellato.
A questo principio dovrà uniformarsi il giudice di rinvio.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte, proprio nell'ottica di salvaguardare la funzione e la ragionevolezza sottese all'approvazione della c.d. "legge Pinto" (conseguente all'applicazione e alla valorizzazione nel nostro ordinamento della legislazione convenzionale, con particolare riferimento all'art. 6 par. 1 della Convenzione EDU), ha statuito fermamente che, in tema di equa riparazione ai sensi di detta legge nazionale, il superamento del termine ragionevole di durata del processo non può essere giustificato con il carico di lavoro gravante sull'ufficio giudiziario, poiché il riconoscimento del diritto al risarcimento si fonda proprio sull'inadeguatezza del sistema giudiziario rispetto ad una risposta in tempi ragionevoli alle istanze di giustizia avanzate dalle parti (cfr., ad es., Cass. n. 21100/2009).
Così si è anche precisato che l'inosservanza di termini processuali (proprio come quello previsto dall'art. 435, comma 1, c.p.c., il quale prevede che tra la data di deposito del ricorso in appello e l'udienza di discussione deve intercorrere - di regola - un periodo di sessanta giorni, non essendo oggettivamente tollerabile la fissazione di tale udienza a distanza di anni e, poi, far ricadere sulla parte appellata le conseguenze negative delle disfunzioni riconducibili al carico di lavoro della Corte di appello) è comunque rilevante quando determini il mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, richiamato dall'art. 2 della citata legge, il quale è cosa diversa dai termini "legali" (Cass. n. 3143/2004 e Cass. n. 16542/2009).
È stato, altresì, puntualizzato che, ai fini dell'accertamento della violazione del termine ragionevole del processo, ai sensi dell'art. 2, comma 2, della legge 24 marzo 2001, n. 89, e necessario valutare il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione, sicché integra lesione dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il malgoverno degli strumenti processuali imputabile alla responsabilità personale del magistrato, in quanto comunque espressione della disfunzione organizzativa dell'amministrazione giudiziaria (v. Cass. n. 8534/2015 e Cass. n. 14750/2015).
5.2. Colgono, quindi, nel segno le censure dei ricorrenti laddove - nella loro essenza - sostengono che occorre aver riguardo, ai fini del computo della durata complessiva del processo del lavoro (anche in sede di appello, naturalmente) e perciò di quella consequenzialmente irragionevole (in via eventuale), al momento del deposito del ricorso perché e attraverso questa attività processuale che si manifesta la volontà del ricorrente di proporre la domanda, mentre, per il resto, gli effetti che ne derivano si producono oggettivamente quando siano addebitabili alle disfunzioni del "Sistema Giustizia" e rimanga esclusa qualsiasi imputabilità alla parte che invoca l'equo indennizzo, nel senso di non aver dato ingiustificatamente causa all'eccessiva dilazione del giudizio.
Perciò - come assumono sempre i ricorrenti - non e condivisibile il decreto impugnato in considerazione degli effetti che scaturiscono dalla pendenza del processo da correlarsi - per gli scopi tutelati dalla legge n. 89/2001 - al solo momento del deposito del ricorso, senza che possa venire in rilievo la scissione, in funzione del computo dell'effettiva durata complessiva del giudizio, dei termini processuali avuto riguardo, da un lato, al momento della costituzione della parte ricorrente e, dall'altro lato, a quello da cui inizia a decorrere il termine per la costituzione della parte resistente (ovvero allorquando sia intervenuta l'effettiva notificazione del ricorso introduttivo e del pedissequo decreto di fissazione dell'udienza di discussione nei suoi confronti).
Pertanto, nel caso di specie, la Corte di appello avrebbe dovuto computare - in funzione del calcolo complessivo della durata del giudizio - anche lo iato temporale decorrente dal deposito del ricorso in appello a quello della sua notifica alla parte appellata, con conseguente rideterminazione "in melius" per gli odierni ricorrenti dell'equo indennizzo (per effetto di una scaturente maggiore durata irragionevole dell'intero giudizio).
5.3. In definitiva, per le ragioni complessivamente svolte, il ricorso deve essere accolto, con conseguente cassazione del decreto impugnato e il derivante rinvio della causa dinanzi alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione collegiale, la quale, oltre ad uniformarsi al principio di diritto prima enunciato, provvederà a regolare anche le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione collegiale.
Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte di Cassazione, in data 10 maggio 2024.
Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.