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Compenso dell'avvocato, i criteri per la liquidazione in caso di transazione

Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.16465 del 13/06/2024

Quali sono i criteri per la liquidazione del compenso dell'avvocato in caso di avvenuta transazione di una causa?

La Sezione Seconda civile della Cassazione risponde con la sentenza n. 16465 del 13 giugno 2024.

Nel caso di specie, la Corte di appello di Catanzaro, ai fini della liquidazione del compenso professionale, aveva preso in considerazione la somma riconosciuta in sede di transazione e non quella corrispondente all'entità della domanda in giudizio.

Secondo la Cassazione, in tema di liquidazione degli onorari professionali, l'art. 6 della tariffa si applica solo quando il valore della causa è determinato presuntivamente. Quando il valore è dichiarato, si utilizza l'art. 10 c.p.c., senza necessità di motivare un diverso criterio (Cass., Sez. Un., n. 5615 del 1998 e Cass. n. 8660 del 2010).

Il giudice di merito quindi non avrebbe potuto considerare il valore ritenuto congruo dalle parti sulla base della somma riconosciuta in sede di transazione. Il valore deve essere quello specificato nella domanda iniziale, indipendentemente dalla somma realizzata tramite la transazione.

In precedenza, la Cassazione aveva chiarito che il principio di liquidazione degli onorari in base al valore effettivo della controversia si applica solo quando il codice di procedura civile fissa il valore delle domande su base presuntiva, e non quando il valore è dichiarato nella domanda (Cass. n. 3383 del 1968).

In modo specifico, ai fini della liquidazione degli onorari professionali nel caso di transazione di una causa introdotta con domanda di valore determinato, il valore della causa è quello specificato nella domanda iniziale, senza considerare la somma realizzata dal cliente a seguito della transazione (Cass. n. 1666 del 2017; Cass. n. 27305 del 2020).

L'art. 5, comma 2, D.M. n. 55 del 2014 prevede che per la liquidazione dei compensi "a carico del cliente" si consideri il "valore corrispondente all'entità della domanda". Tuttavia, il giudice deve verificare se la somma domandata sia manifestamente diversa dal "valore effettivo della controversia", determinato anche in base all'interesse economico sostanziale.

In conclusione, la Cassazione ha accolto il ricorso, sottolineando che il valore della causa per la liquidazione degli onorari deve essere quello della domanda iniziale, indipendentemente dalla somma ottenuta tramite transazione.

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Cassazione civile, sez. II, sentenza 13/06/2024 (ud. 30/11/2023,) n. 16465

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con ricorso depositato in data 19 aprile 2017, ai sensi degli artt. 702-bis c.p.c. e 14 D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150, l'avvocato Ce.Gi. adiva il Tribunale di Catanzaro per ottenere la determinazione e la liquidazione dei compensi per l'opera professionale da lui prestata in favore della As. VEICOLI INDUSTRIALI Spa e della IVECO FINANZIARIA Spa nel giudizio promosso da AUTOSTAR Spa come da procura rilasciata sia a lui che all'avv. Gi.Sa.

Chiariva il ricorrente al riguardo di avere provveduto alla chiamata della BNL Spa, quale garante dei crediti nascenti dal contratto di vendita dei veicoli in favore di IVECO Finanziaria; di avere riassunto dinnanzi al Tribunale di Chiaravalle un giudizio precedentemente introdotto da IVECO nei confronti della Autostar davanti al Tribunale di Torino (che con sentenza aveva dichiarato la continenza, poiché relativo all'accertamento e alla condanna della Autostar al pagamento della somma di Euro 6.046.375,43 oltre interessi di mora), oltre ad avere redatto le memorie ex art. 183, comma 6 nn. 1, 2 e 3 c.p.c.; di avere preso parte a ben 9 udienze, di cui una di escussione testi e un giuramento CTU.

Precisava che in data 08.07.2015 le parti erano addivenute ad una transazione del giudizio, che veniva abbandonato con cancellazione della causa dal ruolo.

L'avvocato Ce.Gi., ricevuto un anticipo di Euro 6.000,00, aveva poi inutilmente richiesto il pagamento del saldo, anche attivando una procedura di mediazione, senza nulla ottenere, per cui chiedeva la condanna della controparte al pagamento di quanto dovuto da parametrarsi al valore della causa individuato in Euro 10.192.284,00, pari al valore del danno che avrebbe subìto la Autostar secondo il calcolo effettuato dal CTU, oltre ad Euro 6.046.375,43 quale credito vantato in via riconvenzionale da As. e Iveco.

Instaurato il contraddittorio, si costituivano l'As. e la CNH, assumendo che l'avvocato Ce.Gi. si era limitato a svolgere la funzione di mero domiciliatario, per essere l'avvocato Gi.Sa. l'effettivo dominus della controversia, per cui formulavano anche istanza di condanna al risarcimento del danno per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.

Con ordinanza emessa in composizione collegiale il 18 aprile 2018, il giudice adito rigettava la domanda del professionista, dichiarando che nulla era dovuto allo stesso, rigettata la riconvenzionale ex art. 96 c.p.c., con condanna dell'attore alla rifusione delle spese processuali.

A sostegno della decisione il Collegio evidenziava che dalle prove documentali assunte - in particolare: dalla comparsa di costituzione e risposta depositata nel giudizio nr. 684-2008 del 1° marzo 2009, dalla la procura speciale del 16 aprile 2008 conferita disgiuntamente ai due legali dal rappresentante legale dell'As. Veicoli Industriali Spa, dalla procura speciale alle liti del 23 aprile 2008 conferita disgiuntamente ai due legali dal legale rappresentante della Iveco Spa, dall'atto di chiamata in causa del terzo BNL Spa, dalla nota di iscrizione a ruolo, dalla comparsa di riassunzione del 21 ottobre 2010, dalla procura speciale alle liti conferita dall'avvocato Gi.Sa. all'avvocato Ce.Gi. il 21 ottobre 2010, dai verbali di udienza dai quali risultava la comparizione dell'avvocato ricorrente, dalla comparsa di riassunzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (RGAC n. 5434-2008) pendente innanzi al Tribunale di Torino, dalle memorie ex art. 183, comma 6 c.p.c., dall'atto di nomina del CTP - risultava dimostrato che l'incarico eseguito ed espletato era quello di difensore e non di mero domiciliatario della controversia; aggiungeva che, pertanto, erano dovuti i compensi per la fase introduttiva e quella istruttoria, esclusa però la fase di studio della controversia.

Circa la determinazione del quantum debeatur, il Collegio statuiva che il compenso doveva essere quantificato in relazione al valore della somma risultante dall'avvenuta transazione della controversia, non rilevando il valore della domanda, trattandosi di un giudizio per pagamento di somme e di liquidazione di danni.

Concludeva il giudice di primo grado quantificando il compenso in Euro 6.950,00, che riteneva riducibile del 15% rispetto ai valori medi, tenuto conto dell'effettivo impegno profuso dal ricorrente nell'attività professionale prestata, per cui riteneva satisfattiva la somma già corrisposta di Euro 6.000,00.

Avverso l'ordinanza del Tribunale di Catanzaro del 18 aprile 2018 ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi, il Ce.Gi., cui hanno resistito con controricorso l'As. e la CNH.

In prossimità della pubblica udienza entrambe le parti hanno curato il deposito di memorie ex art. 378 c.p.c.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 10,14,110 c.p.c., nonché degli art. 5, n. 2 e 6 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

Ad avviso del ricorrente il Tribunale di Catanzaro avrebbe erroneamente applicato le norme riguardanti la determinazione del valore della controversia ai fini della determinazione del compenso per professionale. Nello specifico, la parte censura l'applicazione da parte del giudice di prime cure dell'art. 5, n. 1 del D.M. 55-2014, che individua una deroga al principio generale previsto dal c.p.c. dell'entità della domanda per la determinazione del valore della causa. In particolare, la norma prevede che quando si tratta della "liquidazione dei compensi a carico del soccombente" e qualora l'oggetto del giudizio sia il "pagamento di somme o liquidazione di danni", allora deve farsi riferimento alla "somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella demandata". Il ricorrente, invece, sostiene che si debba correttamente applicare nel caso di specie la norma di cui all'art. 5, n. 2 che disciplina la "liquidazione dei compensi a carico del cliente", per avere richiesto il compenso dopo la transazione della controversia. Pertanto, il Tribunale non avrebbe dovuto tenere conto della "somma effettivamente attribuita alla parte vincitrice", identificandola in quella risultante dal contratto di transazione; diversamente, il giudice di merito avrebbe dovuto fare riferimento al "valore corrispondente all'entità della domanda". Così, alla luce di questo criterio di calcolo, il valore quantificabile sarebbe quello risultante dal cumulo delle diverse domande proposte nel giudizio in cui l'avvocato Ce.Gi. ha prestato il proprio ministero difensivo, perché più favorevole rispetto ad una eventuale quantificazione sulla base del valore della controversia come indeterminato (Cass. 4187-2017).

Il motivo è fondato.

Deve, infatti, osservarsi che secondo la giurisprudenza di questa Corte - a fronte di un valore dichiarato nella domanda introduttiva relativo alla risoluzione del contratto di concessione di vendita di veicoli, con condanna al risarcimento dei danni per la complessiva somma di Euro 16.507.000,00, oltre ad Euro 5.000.000,00 a titolo di danno alla reputazione e all'immagine - la Corte di appello non avrebbe potuto attribuire alla causa un diverso valore quale quello derivante dallo sviluppo del giudizio, e ciò anche in base alla prospettata transazione sopravvenuta (pari ad Euro 250.000,000).

Si è, in proposito, affermato (cfr. Cass., Sez. Un., n. 5615 del 1998 e Cass. n. 8660 del 2010) che, in tema di liquidazione degli onorari professionali a favore dell'avvocato, l'art. 6 della tariffa trova applicazione soltanto in riferimento alle cause per le quali si proceda alla determinazione presuntiva del valore in base a parametri legali, e non pure allorquando il valore della causa sia stato in concreto dichiarato, dovendosi utilizzare in tale situazione, il disposto dell'art. 10 c.p.c., senza necessità di motivare in ordine alla mancata adozione di un diverso criterio.

Pertanto, nel caso di specie, la Corte di Catanzaro non avrebbe potuto prendere in considerazione il valore asseritamente ritenuto congruo dalle parti con riferimento all'ammontare della somma riconosciuta in sede di transazione delle odierne controricorrenti, così come scaturente dall'accordo di conciliazione, ai fini della determinazione del computo complessivo del compenso professionale da riconoscere alla ricorrente per le prestazioni giudiziali rese fino alla formalizzazione della transazione stessa.

In senso analogo, questa Corte ha, altresì, chiarito che il principio per cui nella liquidazione degli onorari a carico del cliente può aversi riguardo al valore effettivo della controversia quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile, si applica soltanto ai casi in cui il codice di procedura civile fissa il valore delle domande sulla base di presunzioni e non quando trattasi di pagamento di somme ed il valore si ricava dalla stessa somma richiesta dall'attore (Cass. n. 3383 del 1968).

In termini più specifici e calzanti alla fattispecie di cui trattasi è stato più recentemente affermato - e a tale principio dovrà conformarsi il giudice di rinvio - che, ai fini della liquidazione degli onorari professionali dovuti dal cliente in favore dell'avvocato, nel caso di transazione di una causa introdotta con domanda di valore determinato e, pertanto, non presunto in base ai criteri fissati dal codice di procedura civile, il valore della causa si determina avendo riguardo soltanto a quanto specificato nella domanda, considerata al momento iniziale della lite, restando irrilevante la somma realizzata dal cliente a seguito della transazione (cfr. Cass. n. 1666 del 2017; Cass. n. 27305 del 2020).

Del resto, l'art. 5, comma 2, prima parte D.M. n. 55 del 2014 prevede che per la liquidazione dei compensi "a carico del cliente", si abbia riguardo "al valore corrispondente all'entità della domanda". Tale principio, peraltro, non esclude che, come si desume dalla seconda parte dell'art. 5 cit., stesso comma 2, oltre che dalla prima parte del successivo comma 3, che il giudice debba verificare se la somma domandata sia manifestamente diversa rispetto al "valore effettivo della controversia", così come determinato anche in ragione dell'entità economica dell'interesse sostanziale.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta ex art. 360, co. 1, n. 3) c.p.c. la violazione e la falsa applicazione dell'art. 4, n. 5 lett. a) del D.M. n. 55 del 10 marzo 2014, poiché il giudice di prima istanza non avrebbe incluso nella quantificazione del compenso l'attività svolta dall'avvocato Ce.Gi. per la "fase di studio della controversia", nonostante questa fosse stata provata dallo stesso negli atti del giudizio di merito, avendo il professionista dimostrato di avere partecipato alla "ricerca dei documenti" relativi alla controversia.

Anche il secondo mezzo è fondato. Infatti, il giudice adito ha erroneamente applicato l'art. 4, n. 5 lett. a) del D.M. 55-2014, non liquidando al professionista le spese per la "fase di studio" e non avendo considerato la comprovata attività di "ricerca dei documenti" come "una prestazione di ordine intellettuale che non va confusa con l'attività meramente materiale con la quale siano messi a disposizione del professionista i documenti da questi indicati" (Cass. n. 4187 del 2017, conforme a Cass. n. 7275 del 1991). Tale attività deve essere inclusa nella liquidazione della fase di studio, perché, come accertato dal medesimo giudice, che nella motivazione dell'ordinanza ha individuato gli atti del giudizio a cui il professionista ha partecipato e che comprovano il suo ministero di difensore, è ragionevole suppore che il difensore abbia effettuato "l'esame e lo studio degli atti" del processo, quale attività prodromica alla stesura degli atti da esso sottoscritti e depositati nel giudizio. Per quanto fin qui premesso, nella liquidazione del compenso, il Collegio avrebbe dovuto includere quanto dovuto per la fase di studio della controversia.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 4, n. 1 e dell'art. 8 del D.M. 55-2011, poiché il giudice di prime cure avrebbe ridotto il compenso in misura del 15% immotivatamente rispetto all'effettivo impegno prestato dal difensore nella prestazione dell'opera professionale, sostenendo che la norma non faccia espressamente riferimento al criterio dell'effettivo impegno per l'applicazione dell'eventuale aumento o riduzione del compenso, ma ai criteri individuati nel primo e nel secondo periodo dell'art. 4, n. 1. Inoltre, il ricorrente sostiene che il Tribunale avrebbe dovuto motivare in modo specifico e analitico i criteri e le ragioni della riduzione.

Ad avviso del ricorrente, inoltre, l'impiego dell'erroneo criterio dell'effettivo impegno avrebbe comportato da parte del giudice del merito la disapplicazione dell'art. 8, D.M. 55-2014, il quale prevede che "quando incaricati della difesa sono più avvocati, ciascuno di essi ha diritto nei confronti del cliente ai compensi per l'opera prestata".

Dall'accoglimento del primo motivo discende l'assorbimento delle censure denunciate con il terzo mezzo, per essere pregiudiziale l'accertamento del valore della domanda introduttiva del giudizio per cui è contesa.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia in relazione agli artt. 112,113 e 115 c.p.c., la violazione e la falsa applicazione dell'art. 4, n. 2 del D.M. 10 marzo 2011, n. 55, per la mancata applicazione da parte del Tribunale nella determinazione del compenso del difensore dell'aumento del 20% rispetto al valore medio per avere assistito più parti processuali nello stesso giudizio.

Anche il quarto motivo è fondato.

La difesa tra le parti As. Veicoli Indistriali Spa e Iveco Finanziaria Spa (ora CNH Industrial Financial Service s.a.) è stata certamente comune, onde ha errato il Giudice adito non applicando l'art. 4, comma 2, D.M. 10 marzo 2014, n. 55 il quale, nella versione vigente all'epoca della liquidazione (di cui all'art. 1 D.M. 8 marzo 2018, n. 37), prevedeva l'aumento del 30 per cento per la seconda parte difesa ogniqualvolta "l'avvocato assiste più soggetti aventi la stessa posizione processuale".

Infatti, come questa Corte ha già chiarito (Cass. 27 agosto 2015 n. 17215), in caso di difesa di più parti aventi identica posizione processuale e costituite con lo stesso avvocato, è dovuto un compenso unico secondo i criteri fissati dagli art. 4 e 8 D.M. n. 55 del 2014, salva la possibilità di aumento nelle percentuali indicate dalla prima delle disposizioni citate, senza che rilevi la circostanza che il comune difensore abbia presentato distinti atti difensivi (art. 4 D.M. cit.), né che le predette parti abbiano nominato, ognuna, anche altro (diverso) legale, in quanto la ratio della disposizione di cui all'art. 8, comma 1 D.M. n. 55 del 2014, è quella di far carico al soccombente solo delle spese nella misura della più concentrata attività difensiva quanto a numero di avvocati, in conformità con il principio della non debenza delle spese superflue, desumibile dall'art. 92, comma 1 c.p.c.

Dunque, quando in una causa l'avvocato assiste più soggetti aventi la medesima posizione processuale, la stessa facoltà riconosciuta al giudice di aumentare il compenso unico per ogni soggetto oltre il primo nella misura del 30 per cento, fino a un massimo di dieci soggetti, ai sensi dell'art. 4, comma 2, prima parte, D.M. n. 55 del 2014, prefigura a carico del giudice l'onere di motivare, sia nell'evenienza in cui ritenga di riconoscere l'aumento, sia nell'evenienza contraria (Cass. 14 gennaio 2020 n. 461).

Contrariamente, il Giudice adito ha totalmente omesso di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente.

Il quinto motivo del ricorso lamenta la violazione e la falsa applicazione dell'art. 4, n. 6 del D.M. 55-2014. A detta del ricorrente, il giudice di prima istanza nella quantificazione del compenso, scegliendo di non aumentare la somma da liquidare di ¼ rispetto al valore medio per l'avvenuta transazione, avrebbe errato in quanto il presupposto per l'applicazione di tale disposizione è costituito dal solo fatto storico dell'avvenuta transazione, a nulla rilevando la presenza della firma sulla scrittura privata contenente l'accordo transattivo, stante la ratio premiale della norma.

La censura è fondata.

L'art. 4 del D.M. n. 55 del 2014, recante il regolamento sulla determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, prevede, nel testo ratione temporis applicabile, che "Nell'ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, la liquidazione del compenso è di regola aumentato fino a un quarto rispetto a quello altrimenti liquidabile per la fase decisionale, fermo quanto maturato per l'attività precedentemente svolta".

La questione che pone il ricorso è se all'avvocato vada riconosciuto, nel caso (di conciliazione o) di transazione della causa, oltre al compenso per le fasi già svolte, una somma ulteriore fino a un quarto di quanto previsto per la fase decisionale, oppure se all'avvocato spetti un compenso pari a quanto previsto per tale ultima fase, aumentato fino al 25%.

Il Tribunale di Catanzaro, con l'ordinanza in questa sede impugnata, nulla ha riconosciuto a tale titolo, attribuendo al difensore l'onere di provare che si trattava di attività defensionale cui lo stesso aveva preso parte.

L'interpretazione della norma regolamentare che ha informato la statuizione del Tribunale non appare condivisibile.

Come già osservato da questa Corte (v. Cass. 17325 del 2023), l'art. 4 del D.M. n. 55 del 2014 ha introdotto nella determinazione del compenso dell'avvocato un incentivo deflattivo: la conclusione delle liti giudiziali è incentivata con la previsione di un "aumento" del compenso dovuto all'avvocato che raggiunga la "conciliazione giudiziale" o la "transazione" della controversia rispetto a quello altrimenti liquidabile.

Nell'ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, infatti, è previsto che la liquidazione del compenso è di regola aumentata fino a un quarto rispetto a quello altrimenti liquidabile per la fase decisionale, fermo quanto maturato per l'attività precedentemente svolta. La norma non si limita a prevedere una voce del compenso, ma fissa anche una liquidazione in aumento rispetto a quella altrimenti liquidabile per la fase decisionale.

Se, infatti, non è revocabile in dubbio che la fase decisionale non viene svolta, appare altrettanto certo che ciò consegue all'opera dei difensori, i quali addivengono a una soluzione transattiva della controversia alternativa alla decisione dell'autorità giudiziaria.

La norma regolamentare, interpretata anche alla luce dell'evidente funzione premiale che la connota per l'effetto deflattivo del contenzioso insito nella transazione, esibisce un significato diverso da quello fatto proprio dall'ordinanza impugnata, nel senso che, quando il giudizio venga definito con una transazione e il professionista abbia prestato la sua opera nel raggiungimento dell'accordo, all'avvocato deve essere riconosciuto un ulteriore compenso rispetto a quello spettante per l'attività precedentemente svolta, pari al compenso liquidabile per la fase decisionale, di regola aumentato fino a un quarto.

All'avvocato va liquidato sia il compenso per la fase decisionale, non svoltasi, sia un aumento fino al 25% di esso, ossia l'intero compenso per la fase decisionale, aumentato fino al 25%.

Nell'ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, pertanto, all'avvocato, fermo quanto maturato per l'attività precedentemente svolta, è sempre dovuto il compenso liquidabile per la fase decisionale, che può essere aumentato fino a un quarto.

Poiché la norma mira ad incentivare le conciliazioni e le transazioni attribuendo ai difensori delle parti, in caso di esito conciliativo della lite, un incremento del compenso, tale finalità verrebbe frustrata se il corrispondente importo fosse costituto da una percentuale di quello che sarebbe spettato qualora si fosse svolta la fase decisionale.

Siffatta interpretazione non trova ostacolo nella circostanza che con il testo attualmente vigente (con decorrenza dal 23 ottobre 2022) dell'art. 4, comma 6, del D.M. n. 55 del 2014, conseguente alle modifiche apportate dall'art. 2 del D.M. n. 147 del 2022, si prevede, espressamente, che "Nell'ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia, il compenso per tale attività è determinato nella misura pari a quello previsto per la fase decisionale, aumentato di un quarto, fermo quanto maturato per l'attività precedentemente svolta", in quanto il novellato comma 6 ha solo reso più esplicita, superando le iniziali ambiguità di una disposizione polisensa, la previsione dell'aumento del compenso spettante al professionista nelle ipotesi di conciliazione giudiziale o transazione della controversia. La modifica normativa apportata dal D.M. n. 147 del 2022 è, infatti, realmente innovativa nella parte in cui prevede l'aumento, secco, "di un quarto", laddove il testo originario contemplava un aumento, graduabile, "fino a un quarto"; per il resto, la norma sia pure con una formulazione linguisticamente ambigua, consentiva già di pervenire al medesimo esito, ora reso soltanto più esplicito attraverso una tecnica redazionale più incisiva e pregnante.

Infine, con il sesto motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2, n. 2 del D.M. 55-2014, in quanto il Tribunale avrebbe omesso di applicare un aumento del 15% al compenso totale per il rimborso delle spese forfettarie, avendo il ricorrente in primo grado espressamente richiesto l'applicazione di tale disposizione e non essendo stata questa richiesta contestata da controparte.

Si può dichiarare l'infondatezza di questo mezzo, poiché l'aumento del 15% per la liquidazione del rimborso per le spese forfettarie è uno degli accessori del compenso che deve intendersi riconosciuto dal giudice di merito, anche qualora non ci sia sul punto una espressa statuizione, come è affermato dalla giurisprudenza di legittimità. Infatti, "in tema di liquidazione delle spese processuali, nel caso in cui il provvedimento giudiziale non contenga alcuna statuizione in merito alla spettanza, o anche solo alla percentuale, delle spese forfettarie rimborsabili ex art. 2 del D.M. n. 55 del 2014, queste ultime devono ritenersi riconosciute nella misura del quindici per cento del compenso totale, quale massimo di regola spettante" (Cass. n. 1421 del 2021).

Conclusivamente vanno accolti i motivi uno, due, quattro e cinque del ricorso, assorbito il terzo, rigettato il sesto.

Il provvedimento va, perciò, cassato in relazione ai motivi accolti, con rinvio al Tribunale di Catanzaro, in diversa composizione, che riesaminerà la causa alla luce dei principi sopra illustrati.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, a norma dell'art. 385, ult. parte, c.p.c.

P.Q.M.

la Corte accoglie il primo, il secondo, il quarto e il quinto motivo di ricorso, assorbito il terzo e rigettato il sesto;

cassa l'ordinanza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Catanzaro, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 30 novembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2024.

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