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Caso del "vigile in mutande": Cassazione conferma reintegro e risarcimento

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.20109 del 22/07/2024

Si conclude in Cassazione la singolare vicenda del "vigile in mutande", il dipendente del comune di Sanremo licenziato nel 2016 che era stato ripreso dalle telecamere mentre timbrava il cartellino senza indossare i pantaloni.

Il vigile, travolto dall'inchiesta dei c.d. "furbetti del cartellino", veniva prima assolto in sede penale dal Giudice per le Indagini Preliminari di Imperia con la formula "perché il fatto non sussiste" e poi reintegrato nel posto di lavoro dalla Corte d'Appello di Genova con condanna del comune al risarcimento del danno pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra.

La Sezione Lavoro della Cassazione, con la sentenza n. 20109 del 22 luglio 2024, conferma la decisione del giudice di merito.

La Suprema Corte ha ribadito che l'assoluzione penale non comporta automaticamente la cessazione del procedimento disciplinare e anche in caso di assoluzione dovuta alla non sussistenza del fatto penale, l'Amministrazione ha la facoltà di procedere disciplinarmente per condotte che, pur non integrando un illecito penale, rientrano nella contestazione disciplinare originaria.

Tuttavia, nel caso di specie la Corte d'Appello ha verificato che la formula di assoluzione penale "perché il fatto non sussiste" influenzava la materialità stessa dei fatti, non solo la loro irrilevanza penale. È stato anche confermato che gli episodi contestati disciplinarmente coincidevano con quelli esaminati penalmente; mentre non è stata riscontrata una rilevanza disciplinare autonoma nei fatti.

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Cassazione civile sez. lav., sentenza 22/07/2024 (ud. 05/06/2024) n. 20109

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 206/2023, pubblicata in data 28 ottobre 2023, la Corte d'Appello di Genova, nella regolare costituzione dell'appellato COMUNE DI SANREMO, ha accolto il reclamo ex art. 1, comma 58, Legge n. 92/2012 proposto da Mu.Al. avverso la sentenza del Tribunale di Imperia n. 76/2022, pubblicata in data 15 giugno 2022, e, per l'effetto, ha annullato "tanto l'originario provvedimento di licenziamento disciplinare datato 22.1.2016 che il provvedimento di conferma del 15.5.2023", condannando il COMUNE DI SANREMO a reintegrare lo stesso Mu.Al. nel posto di lavoro ed a corrispondergli a titolo di risarcimento del danno la retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegra.

2. Mu.Al. aveva impugnato il licenziamento per giusta causa intimatogli dal COMUNE DI SANREMO in data 22 gennaio 2016 per la violazione degli artt. 55-quater e 55-quinquies, D.Lgs. n. 165/2001, sulla base di elementi emersi nel corso di una inchiesta penale nella quale venivano addebitati al lavoratore episodi di: allontanamenti dal posto di lavoro senza effettuare la timbratura del cartellino in uscita; esecuzione di timbratura da parte di soggetti terzi; omissione di timbratura seguita di dichiarazione di orari di servizio non veritieri.

3. Respinta l'impugnazione sia all'esito della fase sommaria sia all'esito del giudizio a cognizione piena e proposto pertanto reclamo, la Corte d'Appello di Genova ha, in primo luogo, disatteso l'eccezione, sollevata dal reclamato COMUNE DI SANREMO all'udienza di discussione, con la quale era stata dedotta la sopravvenuta carenza di interesse del reclamante, essendo stato adottato in data 15 maggio 2023 - a seguito di riapertura del procedimento disciplinare su richiesta del lavoratore in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione della Corte d'Appello di Genova - un ulteriore provvedimento di licenziamento, confermativo del precedente.

La Corte territoriale, infatti, ha ritenuto che alla luce della unitarietà del procedimento disciplina, l'impugnazione proposta avverso l'originario provvedimento disciplinare dovesse ritenersi estesa anche al provvedimento successivamente adottato a seguito della riapertura del procedimento disciplinare.

Passando alla decisione sul reclamo, la Corte d'Appello ha rilevato, in primo luogo, che il COMUNE, nel provvedimento del 15 maggio 2023, aveva "con argomentazioni confuse" introdotto "nuovi addebiti mai contestati prima e peraltro incongrui rispetto all'accusa di falsa attestazione di servizio", concludendo che tale profilo si poneva "in evidente contrasto con i limiti alle facoltà riconosciute alla P.A. in sede di riapertura del procedimento disciplinare... non essendo possibile l'aggiunta di fatti nuovi implicanti un disvalore diverso da quello già oggetto di contestazione".

La Corte territoriale, quindi, ha ribadito che sul piano disciplinare, al reclamante era stata contestata la falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altra modalità fraudolenta, mentre altre condotte - la timbratura "in abiti succinti" e la timbratura demandata a terzi -costituivano condotte di cui il COMUNE DI SANREMO non aveva "compiutamente evidenziata la rilevanza disciplinare in sé".

La Corte d'Appello, quindi, dopo avere concluso che "la vicenda oggetto di procedimento disciplinare è identica a quella sottoposta alla cognizione del giudice penale, come identici sono gli elementi istruttori posti alla base della sanzione disciplinare", ha attribuito valenza dirimente alla circostanza del passaggio in giudicato della sentenza della Corte d'Appello di Genova, la quale aveva confermato la sentenza del Giudice per le Indagini Preliminari di Imperia che aveva assolto Mu.Al. "perché il fatto non sussiste".

La Corte d'Appello, infatti, dopo aver ricostruito i rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, ha ritenuto che il giudicato penale - che aveva escluso la sussistenza degli episodi ascritti a Mu.Al. - presentasse valenza vincolante anche nel giudizio civile di impugnazione del licenziamento, concludendo, quindi, per l'accoglimento del reclamo.

4. Per la cassazione della sentenza della Corte d'Appello di Genova ricorre il COMUNE DI SANREMO.

Resiste con controricorso Mu.Al.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è affidato a tre motivi, risultando indicato un quarto motivo che tuttavia si sostanzia nella richiesta di riformare la decisione della Corte d'Appello di Genova anche nelle statuizioni da quest'ultima adottate come conseguenza della declaratoria di annullamento del licenziamento.

1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., "(e per quanto possa occorrere, anche ex art. 360, n. 4 c.p.c.)" la violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 100 c.p.c.; 653 c.p.p.; 55-ter, commi 2 e 4, D.Lgs. n. 165/2001.

Il COMUNE ricorrente impugna la decisione della Corte d'Appello di Genova nella parte in cui quest'ultima ha respinto l'eccezione di inammissibilità dell'appello per sopravvenuta carenza di interesse del reclamante a seguito del sopravvenire del provvedimento di licenziamento datato 15 maggio 2023 ed ha anzi esteso la propria cognizione anche a tale atto ritenendolo - erroneamente - confermativo del precedente provvedimento.

Argomenta il ricorrente che oggetto del giudizio di reclamo era unicamente il provvedimento di licenziamento del 22 gennaio 2016, e che la Corte d'Appello, nel portare la propria cognizione al successivo provvedimento, avrebbe violato gli artt. 112 e 100 c.p.c.; 653 c.p.p.; 55-ter, commi 2 e 4, D.Lgs. n. 165/2001, nonché i "principi che governano l'ordinamento processuale che consentono/impongono l'impugnazione dell'atto in questione su tre gradi di giudizio".

1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 653 c.p.p.; 55-bis e 55-ter, commi 2 e 4, D.Lgs. n. 165/2001.

Argomenta, in particolare, il ricorso che la decisione impugnata avrebbe erroneamente ritenuto che la vicenda oggetto di procedimento disciplinare fosse identica a quella sottoposta alla cognizione del giudice penale, ritenendo altresì che il sopravvenuto giudicato penale coprisse integralmente sia i fatti storici sia l'elemento soggettivo alla base del provvedimento adottato all'esito della riapertura del procedimento disciplinare e sia pertanto vincolante anche nel presente giudizio.

Invocando la decisione di questa Corte n. 28943/2022, il ricorrente deduce che "la Corte d'Appello ha confuso i fatti dandone una ricostruzione/rappresentazione che non corrisponde agli elementi istruttori che aveva a disposizione, non considera la differenza che intercorre tra i "fatti-reato", i soli ad essere oggetto del giudizio penale e dell'art. 653 c.p.p., ed i "fatti materiali naturalisticamente considerati", e non fa, quindi, corretta applicazione dell'art. 653 c.p.p. ".

1.3. Con il terzo motivo il ricorso deduce, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 653 c.p.p. e 55-ter, commi 2 e 4, D.Lgs. n. 165/2001.

Argomenta il ricorrente che, anche ipotizzando che la Corte d'Appello di Genova fosse vincolata dalla sentenza di assoluzione in sede penale, la decisione impugnata sarebbe comunque erronea perché avrebbe omesso di valutare che la decisione assunta in sede di appello penale "aveva ritenuto pienamente legittime le sanzioni disciplinari irrogate a ciascuno degli imputati e, dunque, anche quella irrogata al Sig. Mu.Al.", riproducendo tali considerazioni in modo parziale ed incompleto.

2. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Questa Corte, pur se in relazione al diverso - ma correlato -profilo del rispetto del principio del ne bis in idem, ha già reiteratamente operato una ricostruzione del meccanismo di cui all'art. 55-ter, D.Lgs. n. 165/2001, chiarendo che tale ultima previsione -operando effettivamente una parziale deroga al principio generale del ne bis in idem - presenta la finalità di adeguare, in ragione delle peculiari esigenze pubblicistiche, l'esito disciplinare, in melius o in peius, alla statuizione penale (Cass. Sez. L - Sentenza n. 25901 del 23/09/2021).

Da tale premessa è stata tratta la conclusione per cui, anche nel caso di riapertura del procedimento disciplinare disposta ai sensi dell'art. 55-ter, D.Lgs. n. 165/2001, il procedimento disciplinare resta comunque unitario sin dall'inizio, seppur articolato in due fasi, e termina solo all'esito di quello penale, di talché la sanzione inflitta nella fase iniziale ha natura provvisoria e non esaurisce il potere della P.A. la quale, dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale, in base agli identici fatti storici può infliggere una sanzione diversa e finale, che non si aggiunge alla prima, ma la sostituisce retroattivamente (Cass. Sez. L - Sentenza n. 36456 del 13/12/2022).

Non si può, quindi, parlare di riedizione del potere disciplinare, in quanto, concludendosi il procedimento disciplinare successivamente all'esito di quello penale e restando il medesimo unitario dall'inizio, la sanzione inflitta in principio dalla P.A. rientra nella fase iniziale di un procedimento unico articolato in due fasi, la seconda delle quali, per conseguire un adeguato raccordo tra disciplinare e penale, presuppone il rinnovo della contestazione dell'addebito, che deve avvenire in ragione dei medesimi fatti storici alla base di quella originaria, in relazione ai quali è, in tutto o in parte, intervenuta sentenza penale irrevocabile (Cass. Sez. L, Sentenza n. 37322 del 2022).

Come già affermato da questa Corte, "In pratica, nel pubblico impiego privatizzato la sanzione inflitta, eventualmente, per prima dalla P.A., che non si avvalga del potere di sospendere il procedimento disciplinare, non esaurisce il correlato potere perché non conclude il procedimento. La sanzione che viene irrogata dopo la sentenza penale passata in giudicato, in base agli identici fatti storici, è, invece, quella finale, che porta a termine detto procedimento. Il procedimento disciplinare, quindi, termina solo all'esito di quello penale e resta unitario dall'inizio; la sanzione inflitta in principio dalla P.A. rientra nella fase iniziale di un procedimento unitario articolato in due fasi, la seconda delle quali, per conseguire un adeguato raccordo tra disciplinare e penale, presuppone il rinnovo della contestazione dell'addebito, che deve avvenire in ragione dei medesimi fatti storici alla base di quella originaria, in relazione ai quali è, in tutto o in parte, intervenuta sentenza penale irrevocabile." (Cass. Sez. L - Sentenza n. 36456 del 13/12/2022)

Dall'unitarietà del procedimento, quindi, questa Corte ha tratto la conclusione per cui la determinazione di conferma o modifica della sanzione già irrogata ha effetto ex tunc e l'accertamento in sede giurisdizionale dell'illegittimità non può che operare ex tunc (Cass. Sez. L - Sentenza n. 29376 del 14/11/2018).

Alla luce di questi principi, quindi, si deve ritenere che, impugnata l'originaria sanzione disciplinare in sede giurisdizionale, qualora, nelle more del giudizio, sopravvenga la definitiva determinazione della sanzione medesima sulla scorta degli esiti del giudizio penale, il giudice innanzi al quale la sanzione originaria risulta impugnata, ben possa portare la propria cognizione anche sulla sanzione definitiva, e ciò per la semplice ragione che ad essere impugnato è un unico provvedimento disciplinare, sia pure adottato nell'ambito di una procedura bifasica, di talché anche la decisione finale - quand'anche riferita formalmente a due provvedimenti, come nel caso in esame - viene ad investire un solo provvedimento.

Una diversa ricostruzione, del resto, oltre a determinare un effetto deteriore sulle possibilità di difesa dell'incolpato - costretto, dopo aver già impugnato un primo provvedimento, a proporre una nuova impugnazione del provvedimento che del primo costituisce solo conferma o modifica senza basarsi su fatti nuovi - risulta logicamente inconciliabile con quell'effetto finale retroattivo di tale conferma o modifica che è stato affermato da questa Corte.

Giustamente, quindi, la sentenza della Corte d'Appello di Genova ha escluso che il provvedimento di conferma della sanzione del licenziamento adottato nei confronti dell'odierno controricorrente potesse determinare il cumulativo effetto di privare il controricorrente medesimo dell'interesse ad impugnare l'originario provvedimento di licenziamento ma, nel contempo, di escludere la possibilità di contestare in quella sede il provvedimento successivo alla riapertura del procedimento disciplinare.

Altrettanto giustamente, quindi, la Corte genovese -richiamando, del resto, l'orientamento di questa Corte - ha ritenuto che l'impugnazione originariamente proposta si estendesse al provvedimento "definitivo", costituendo quest'ultimo il provvedimento di cui, a quel punto, veniva ad essere definitivamente sindacata la legittimità.

3. Il secondo motivo di ricorso è infondato.

Il venir meno della c.d. "pregiudiziale penale" nella disciplina del procedimento disciplinare nel pubblico impiego contrattualizzato (Cass. Sez. L - Sentenza n. 33979 del 17/11/2022; Cass. Sez. L - Sentenza n. 21193 del 27/08/2018; Cass. Sez. L - , Sentenza n. 5284 del 01/03/2017), non ha comportato l'elisione della regola di cui all'art. 653 c.p.p., la quale attribuisce efficacia di giudicato, nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità, alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione e a quella di condanna, rispettivamente, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso, da un lato, e quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, dall'altro.

Si è quindi reso necessario regolare per legge il possibile conflitto tra gli esiti dei due procedimenti, pur rimanendo l'Amministrazione libera di valutare autonomamente la rilevanza disciplinare dei fatti accertati.

A tale esigenza di coordinamento deve ritenersi rispondano l'art. 55-ter, comma 2 (riapertura per modificare o confermare l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale), e comma 4 (rinnovo della contestazione dell'addebito), D.Lgs. n. 165/2001, e il più complesso quadro normativo di disciplina dei rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, in cui la previsione si colloca, avendo questa Corte individuato la ratio del citato art. 55-ter nella volontà del legislatore di prevedere un meccanismo di raccordo per regolare possibili conflitti tra l'esito dei due procedimenti, pur nella rispettiva autonomia (Cass. Sez. L - Sentenza n. 29376 del 14/11/2018).

Non è inutile sottolineare che detto coordinamento, nel caso in cui intervenga sentenza penale di assoluzione, non si traduce in alcun modo in un automatico "ribaltamento" degli esiti del giudizio penale sul procedimento disciplinare e ciò in virtù dell'evidente diversità di ambito sia fattuale sia giuridico che caratterizza il giudizio penale, da un lato, ed il procedimento disciplinare dall'altro lato.

In sintesi, quindi, il disposto di cui all'art. 653 c.p.p. non può e non deve essere letto nei termini di una grossolana equazione "assoluzione in sede penale = insussistenza dell'illecito disciplinare" perché lo scopo della previsione, ben lungi dallo stabilire un simile automatismo, è quello semplicemente di consentire una valorizzazione degli esiti del procedimento penale ma non di procedere ad una sua acritica trasposizione sugli esiti del procedimento disciplinare.

È per questo motivo che l'art. 55-ter, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 si limita a prevedere che se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l'irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari deve procedere, ad istanza di parte, alla riapertura del procedimento disciplinare "per modificarne o confermarne l'atto conclusivo in relazione all'esito del giudizio penale".

La formulazione della previsione è, quindi, chiara nell'escludere qualsiasi effetto automatico di integrale traslazione degli esiti della decisione in sede penale sugli esiti del procedimento disciplinare -ipotesi nella quale, invero, la regola sarebbe stata quella dell'automatica caducazione del provvedimento disciplinare già adottato - contemplando, invece, la mera ripresa del procedimento allo scopo di consentire all'Amministrazione una nuova valutazione della fondatezza dell'originaria contestazione disciplinare, la quale - ed è la previsione a stabilirlo espressamente - ben può essere comunque confermata o rimodulata, senza essere revocata.

Le ragioni sono evidenti e sono di (almeno duplice) ordine: 1) la formula assolutoria "perché il fatto non costituisce illecito penale" non vale ad elidere la sussistenza in sé delle condotte, le quali, pur se penalmente neutre, ben potrebbero avere invece rilevanza disciplinare; 2) la statuizione penale di assoluzione "perché il fatto non sussiste" potrebbe non investire la totalità dei fatti oggetto della contestazione, conservando, quindi, i fatti rimasti al di fuori del giudizio penale autonoma valenza disciplinare.

Esempi di tali ipotesi sono decisioni di questa Corte (non massimate ma richiamate dalla difesa del ricorrente anche in sede di discussione), come Cass. Sez. L, Sentenza n. 8410 del 2023 - in un caso in cui in sede penale la materialità delle condotte non era stata radicalmente esclusa, essendone stata esclusa solo la rilevanza penale, avendo quindi questa Corte affermato che dette condotte potevano essere autonomamente valutate in sede disciplinare - o Cass. Sez. L, Sentenza n. 28943 del 2022 - in un caso in cui la stessa decisione impugnata aveva evidenziato che gli episodi alla base del provvedimento disciplinare erano in parte diversi da quelli oggetto del procedimento penale, sicché la decisione di assoluzione in quest'ultimo non si estendeva agli altri episodi - ma anche, in linea generale, Cass. Sez. L - Sentenza n. 3659 del 12/02/2021, la quale ha chiarito che l'accertamento contenuto nella sentenza penale passata in giudicato non preclude una nuova valutazione dei fatti in sede disciplinare, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, con il solo limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità - e dunque, della ricostruzione dell'episodio posto a fondamento dell'incolpazione - operato nel giudizio penale.

L'assenza di effetti di automatismo derivanti dalla sentenza penale di assoluzione deriva, ulteriormente, dalla considerazione (su cui il ricorrente insiste) per cui - come da questa Corte chiarito sia in relazione ai procedimenti disciplinari in genere (Cass. Sez. U, Sentenza n. 14344 del 09/07/2015; Cass. Sez. U, Sentenza n. 5448 del 2012), sia in relazione alla specifica materia del pubblico impiego (Cass. Sez. L - Sentenza n. 431 del 10/01/2019) - il giudicato penale non vale a precludere, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell'immutabilità dell'accertamento dei fatti nella loro materialità - e dunque, della ricostruzione dell'episodio posto a fondamento dell'incolpazione -operato nel giudizio penale, e ciò in quanto la medesima condotta, pur non costituendo reato, ben potrebbe integrare gli estremi dell'illecito disciplinare.

Tali puntualizzazioni non risultano in alcun modo infirmate dal recente precedente di questa Corte che ha enunciato il principio per cui se, da un lato, il giudice civile, investito dell'impugnazione della sanzione disciplinare, non è vincolato né alla valutazione degli elementi istruttori compiuta in sede penale, né al dictum della sentenza di assoluzione non definitiva, quand'anche pronunziata con la formula "perché il fatto non sussiste", dall'altro lato, l'assoluzione ai sensi dell'art. 653, comma 1, c.p.p., se passata in giudicato, impone al giudice del lavoro di conformarsi ad essa e consente, a richiesta, la riapertura del procedimento disciplinare, il cui esito, del pari, deve adeguarsi alla statuizione penale (Cass. Sez. L - Ordinanza n. 6660 del 06/03/2023).

In primo luogo, infatti, la decisione - al di là della formulazione della relativa massima - ha enunciato come regula iuris effettiva quella per cui alla sentenza penale di assoluzione non ancora passata in giudicato non possono essere ricondotti gli effetti di cui all'art. 653 c.p.p., la cui applicazione - è la puntualizzazione finale della decisione - viene in rilievo solo nell'ipotesi in cui la sentenza penale sia passata in giudicato, senza che, tuttavia, a tale affermazione di principio abbia poi fatto concretamente seguito la ben diversa affermazione - non contenuta nella decisione - per cui la sentenza definitiva di assoluzione varrebbe ad escludere ipso facto (e ipso iure) la sussistenza dell'illecito disciplinare.

In secondo luogo, la decisione in esame risulta assunta in fattispecie affine a quella oggetto di Cass. Sez. L, Sentenza n. 28943 del 2022 - e cioè in una ipotesi nella quale la contestazione disciplinare concerneva fatti ulteriori - ed anche sotto tale profilo risulta non difforme da quest'ultima.

Si deve, semmai, osservare che l'analisi di Cass. Sez. L -Ordinanza n. 6660 del 06/03/2023 vale anche a rendere evidenti le ragioni dell'assenza di alcun rischio di dissonanza tra la presente statuizione e quella assunta da questa Corte con la decisione Cass. Sez.

L, Sentenza n. 8453 del 2023, relativa a provvedimento disciplinare adottato dall'odierno ricorrente nei confronti di altro dipendente ma nell'ambito della stessa vicenda.

In quella sede, infatti, ben lungi dall'essere stato escluso un riflesso della sentenza penale sul giudizio civile (come afferma il ricorso), la produzione della sentenza penale di assoluzione passata in giudicato è stata dichiarata inammissibile da questa Corte perché avvenuta solo nel giudizio di Cassazione, peraltro ribadendo il principio per cui la sentenza avrebbe potuto assumere rilevanza ove avesse escluso la materialità dei fatti ed in tal modo allineandosi al principio fondamentale affermato da Cass. Sez. L, Sentenza n. 28943 del 2022, costituito dall'assenza di un effetto vincolante derivante dalla sentenza di assoluzione in sede penale, fino a quando la stessa non risulti definitiva, ma sempre escludendosi che il giudicato di assoluzione (con qualunque formula) determini automaticamente l'archiviazione del procedimento disciplinare.

In sintesi, la regola di cui all'art. 653 c.p.p. deve essere intesa nel senso che l'incidenza del giudicato sulla statuizione di assoluzione in sede penale sul giudizio civile avente ad oggetto il provvedimento disciplinare non è assoluta ed automatica, in quanto: 1) la sentenza penale deve avere escluso la materialità delle condotte e non la sola rilevanza penale delle stesse, con la conseguenza che, anche nel caso di assoluzione perché il fatto non sussiste la esclusione della rilevanza penale delle condotte può assumere effetti diretti nell'ambito del procedimento disciplinare solo se la materialità delle condotte è sovrapponibile nei due procedimenti; 2) in altri termini, l'esclusione della materialità delle condotte di cui al giudicato penale deve avere ampiezza tale da non lasciar residuare elementi fattuali che comunque

possano avere autonoma rilevanza disciplinare, dovendo in sostanza la fattispecie penale coincidere in tutti i suoi elementi con quella disciplinare oggetto della contestazione e senza, quindi, che quest'ultima costituisca un più ampio genus rispetto alla species della fattispecie penale; 3) gli episodi oggetto della sentenza penale devono quindi integralmente coincidere con quelli che sono stati oggetto della originaria contestazione disciplinare.

In conclusione, il giudicato penale di assoluzione (qualunque ne sia la formula) non determina automaticamente l'archiviazione del procedimento disciplinare e, anche nel caso di assoluzione perché il fatto penale non sussiste, la P.A. datrice di lavoro, nel rispetto del principio della immutabilità della contestazione, può sicuramente procedere disciplinarmente per fatti, magari rivelatisi inidonei alla condanna penale, che siano contenuti nell'ambito della originaria contestazione disciplinare e ciò in quanto, come da tempo affermato da questa Corte (Cass. 9 giugno 2016, n. 11868), in tema di licenziamento disciplinare, il principio della immutabilità della contestazione non impedisce al datore di lavoro in tema di licenziamento disciplinare, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, di utilizzare, all'atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per circoscrivere meglio l'addebito, sempre nell'ambito di quello originario, sempre che al lavoratore, nel rispetto del diritto di difesa, sia consentito di replicare alle accuse così precisate.

A tali principi la decisione impugnata risulta essersi pienamente conformata, in quanto ha verificato sia che la sentenza penale di assoluzione era stata adottata con la formula "perché il fatto non sussiste" e veniva quindi ad incidere sulla stessa materialità dei fatti (e non sulla sola non rilevanza penale degli stessi); sia che gli episodi oggetto della originaria contestazione disciplinare coincidevano integralmente con quelli oggetto dell'accertamento in sede penale; sia che degli elementi fattuali valorizzati nel successivo provvedimento del 15 maggio 2023 non era stata adeguatamente evidenziata l'autonoma rilevanza disciplinare rispetto all'originaria contestazione; sia che l'esclusione degli elementi costituitivi della fattispecie di reato non lasciava residuare altri elementi fattuali che consentissero di affermare un'autonoma rilevanza disciplinare delle condotte (cfr. pagg. 25-26 della motivazione: "non essendovi ulteriori condotte od elementi di residua rilevanza disciplinare..."), concludendo, pertanto, che "il sopravvenuto giudicato penale copre integralmente tanto i fatti storici che l'elemento soggettivo cui il Comune di Sanremo ha attribuito rilevanza disciplinare" e che, conseguentemente, sussistevano i presupposti per ritenere sussistente il carattere vincolante dell'accertamento in sede penale anche in quella civile ex art. 653 c.p.p.

Tali conclusioni, ampiamente e congruamente argomentate, vengono contestate nel motivo di ricorso deducendo - come visto in precedenza - che la Corte d'Appello avrebbe "confuso i fatti dandone una ricostruzione/rappresentazione che non corrisponde agli elementi istruttori che aveva a disposizione" e non avrebbe considerato "la differenza che intercorre tra i "fatti-reato", i soli ad essere oggetto del giudizio penale e dell'art. 653 c.p.p., ed i "fatti materiali naturalisticamente considerati", concludendo che la decisione non farebbe corretta applicazione dell'art. 653 c.p.p.

La fondatezza delle deduzioni deve tuttavia essere esclusa, in quanto:

1) nonostante le diffuse deduzioni del ricorrente sul punto, non emerge in alcun modo che vi sia una difformità tra gli episodi oggetto del procedimento disciplinare - e della decisione impugnata - e gli episodi oggetto del procedimento penale;

2) le deduzioni del ricorrente, quindi, non hanno dato alcun modo di apprezzare una eventuale diversa natura dei fatti o di apprezzarne una specifica valenza disciplinare:

3) la Corte d'Appello risulta avere comunque compiuto una valutazione degli episodi "naturalisticamente considerati", giungendo tuttavia alla conclusione per cui, escluse in sede penale le condotte contestate, non risultava residuare alcuna condotta di rilevanza disciplinare idonea a fondare un provvedimento di licenziamento;

4) risulta persino non chiaro in quali termini verrebbe a consistere la confusione dei fatti (peraltro non specificati) che avrebbe indotto la Corte territoriale a dare "una ricostruzione/rappresentazione che non corrisponde agli elementi istruttori che aveva a disposizione", elementi istruttori, anch'essi lasciati nel vago dal ricorso.

Si deve, del resto, richiamare il principio per cui, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l'apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell'ambito di quest'ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. n. 9097 del 07/04/2017).

In conclusione, deve ritenersi che la decisione impugnata abbia operato una corretta applicazione degli artt. 653 c.p.p. e 55-ter, D.Lgs. 165/2001 e che le doglianze formulate col motivo di ricorso siano invece infondate.

4. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.

Esclusa la sussistenza del vizio di cui all'art. 360, n. 5), c.p.c. -in quanto il profilo ora in rilievo è stato espressamente esaminato e valutato dalla decisione impugnata - si deve osservare che nessuna rilevanza poteva e può assumere, ai fini della decisione della Corte genovese, l'osservazione svolta incidenter tantum dal giudice penale in ordine alla sicura rilevanza disciplinare delle condotte esaminate in quella sede e, conseguentemente, alla legittimità delle sanzioni irrogate.

Il motivo di ricorso, infatti, si riferisce ad una argomentazione della sentenza penale di assoluzione che risulta ultronea, perché priva dello scopo di sorreggere la decisione già basata su altre decisive ragioni, quindi improduttiva di effetti giuridici e, come tale, insuscettibile di gravame o di censura in sede di legittimità (Cass. 11 giugno 2004, n. 11160; Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 10 dicembre 2019, n. 32257).

A rilevare, invero, è la considerazione che al giudice penale non era devoluto alcun accertamento sulla rilevanza disciplinare delle condotte o sulla legittimità dei provvedimenti disciplinari adottati, dovendosi quindi ritenere che tali affermazioni costituiscano mero obiter dictum che in nessun modo poteva risultare vincolante in sede di impugnazione del licenziamento, rilevando, invece, unicamente la decisione assunta in ordine alla fondatezza o meno dei capi di imputazione.

5. Il ricorso deve quindi essere respinto, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo.

6. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della "sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto", spettando all'amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020 - Rv. 657198 - 05).

P.Q.M.

La Corte:

respinge il ricorso;

condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, nel testo introdotto dal L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, il giorno 5 giugno 2024.

Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2024.

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