In una partita di calcio, un intervento a gamba tesa e con il piede a martello sul ginocchio di un avversario può portare a una responsabilità civile e penale?
La Cassazione, con l’ordinanza n. 20171 del 22 luglio 2024, ha fornito chiarimenti su questa questione.
Il caso di specie riguardava un intervento violento in una partita tra minori, dove i genitori degli atleti sono stati chiamati in giudizio per responsabilità per gli atti illeciti compiuti dai figli.
La Suprema Corte ha ribadito che l'attività sportiva può essere suddivisa in tre categorie principali:
Nel caso di sport a violenza eventuale, come il calcio, è essenziale determinare se la violenza esercitata supera i limiti consentiti dai regolamenti della disciplina. Il calcio, per sua natura, comporta una certa accettazione del rischio di infortuni o episodi violenti, ma solo entro certi limiti.
Il punto cruciale è distinguere tra illeciti sportivi, che sono "lesioni frutto di violazioni involontarie dei regolamenti", e illeciti penali o civili, che si verificano quando le lesioni sono causate intenzionalmente o superano il normale agonismo. Ad esempio, colpire un avversario a gioco fermo con un pugno al volto non può mai essere giustificato come parte del gioco.
Nella vicenda in esame caso, la Corte ha sottolineato che un intervento che provoca lesioni può configurare una responsabilità civile non solo in caso di violenza volontaria, ma anche quando manca un "stretto collegamento funzionale" tra l’azione di gioco e l’evento lesivo. L'intervento falloso del giocatore minore è stato ritenuto non giustificabile perché la violenza esercitata era sproporzionata rispetto alla situazione di gioco.
La Corte ha evidenziato che le regole sportive non sono sempre regole cautelari; esse delineano i confini del gioco lecito. Quando queste regole vengono violate in maniera che vada oltre l’accettato rischio sportivo, si entra nel campo degli illeciti civili e penali.
Pertanto, i comportamenti che non sono coerenti con il principio di lealtà sportiva o che sono finalizzati a danneggiare intenzionalmente l’avversario, possono dar luogo a conseguenze giuridiche al di fuori del campo sportivo. La Corte ha concluso che nel caso di un intervento a gamba tesa, in cui un giocatore colpisce un avversario già fermo, si supera il limite del normale agonismo e si entra nel campo dell'illecito civile e penale.
Quindi, pur accettando i rischi connessi al gioco, i giocatori non accettano comportamenti che esulano dal leale agonismo e che possono configurarsi come veri e propri reati.
Cassazione civile, sez. III, ordinanza 22/07/2024 (ud. 03/07/2024) n. 20171
FATTI DI CAUSA
1. In data 4 novembre 2012, nel campo sportivo di Brembate (BG), si svolse una partita di calcio tra la squadra della Società A.S.D. Brembillese Calcio di B, della quale faceva parte l'allora minore Pe.Mi., e la squadra della società U.S. Oriens Brembate, della quale faceva parte l'allora minore Cr.An., nel quadro del campionato dilettantistico per ragazzi (categoria Allievi 14-16 anni), organizzato dal Comitato Provinciale di Bergamo del Centro Sportivo Italiano. È rimasto accertato nel giudizio di merito che, nel corso della partita, Pe.Mi. intervenne volontariamente con la gamba tesa ed il piede a martello sul ginocchio di Cr.An., che aveva fermato il pallone a terra con il piede, procurandogli lesioni personali.
A seguito dell'episodio venne aperto un procedimento penale presso il Tribunale per i minorenni di Brescia, che, con sentenza n. 1295/2012, divenuta definitiva, affermava la penale responsabilità di Pe.Mi. per lesioni personali colpose, ma disponeva non doversi procedere per irrilevanza del fatto ex art. 27 D.P.R. n. 448/88.
2. Cr.Al. e Ar.Do., nella loro qualità di genitori del minore Cr.An. (divenuto maggiorenne e costituitosi nel corso del procedimento), convenivano in giudizio Pe.Mi. e Pe.So., a loro volta in qualità di genitori del minore Pe.Mi. (anche quest'ultimo divenuto maggiorenne e costituitosi nel corso del procedimento), per le lesioni da quest'ultimo cagionate ad Cr.An. nel corso della suddetta partita.
Si costituivano in giudizio i genitori di Pe.Mi., contestando che la condotta di gioco di quest'ultimo avesse integrato una lesione risarcibile e comunque chiamando in giudizio: la società sportiva per cui il minore giocava (A.S.D. Brembillese) ed il Centro Sportivo Italiano – Comitato provinciale di Bergamo (CSI), istituzione che aveva organizzato il torneo; ritenendo che le stesse dovessero rispondere ex artt. 2048 e 2049 c.c.
La società sportiva rimaneva contumace, mentre il Centro Sportivo si costituiva, contestando la propria legittimazione.
Istruita la causa anche a mezzo di prove testimoniali, il Tribunale di Bergamo con sentenza n. 2163/2019 accoglieva la domanda risarcitoria attorea. Il giudice di primo grado affermava la responsabilità dei genitori, non ritenendo provato che essi non avevano potuto impedire il fatto ex art. 2048/3 cc, mentre escludeva la responsabilità delle società sportive convenute.
Avverso la sentenza del giudice di primo grado proponevano impugnazione i Pe.Mi., Pe.So. e Pe.Ma., chiedendo la riforma della sentenza con integrale rigetto della domanda attorea e, in subordine, d'accertare l'esclusiva responsabilità delle società sportive ovvero, in ulteriore subordine, del solo Pe.Mi.
Si costituivano nel giudizio di appello i Cr.Al. e Cr.An. e il CSI chiedendo il rigetto della impugnazione avversaria, mentre la A.S.D. Brembillese Calcio rimaneva contumace anche nel grado d'appello.
La Corte territoriale con sentenza n. 1283/2021 respingeva l'impugnazione, confermando integralmente la sentenza del giudice di primo grado e condannando le parti appellanti alla rifusione delle spese processuali.
3.Avverso la sentenza della corte territoriale ricorrono Pe.Mi., Pe.So. e Pe.Ma.
Hanno resistono con distinti controricorsi: da un lato, Cr.Al., Ar.Do., Cr.An., nonché, dall'altro, il Centro Sportivo Italiano – C.S.I.
Nessuna difesa è stata svolta dalla pur intimata Società A.S.D. Brembillese Calcio.
Il Procuratore generale non ha rassegnato conclusioni scritte ed i Difensori delle parti costituite non hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza decisoria entro il termine di sessanta giorni dalla camera di consiglio.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. I Pe.Mi., Pe.So. e Pe.Ma. articolano in ricorso sei motivi.
1.1. Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata ex art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c. assumendo che la Corte adita avrebbe erroneamente applicato il criterio dell'onere di precisa contestazione ex art. 115, comma 1 c.p.c.
Sostengono che il giudice di primo grado aveva fondato la sua decisione sul c.d. principio di non contestazione; che tale assunto era stato da essi contestato in sede di atto di appello, ma che la loro censura era stata ignorata dalla corte territoriale bresciana.
1.2. Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata "ex art. 360 comma 1 nn.3) e 5) per violazione ed errata applicazione dell'art. 2048 c.c. comma 1 in riferimento alla responsabilità in capo ai genitori, sig.ri Pe.Mi., Pe.So. e Pe.Ma., nonché erronea ed apodittica motivazione in merito all'esclusione della prova liberatoria di aver fornito al figlio un'educazione adeguata".
Sostengono che nessuna particolare prova di educazione del proprio figlio poteva essere richiesta ai genitori in quanto l'azione "sportiva" si era svolta all'interno dei canoni della normale attività agonistica e comunque entro i limiti consentiti dal tipo di gioco.
Aggiungono che è assolutamente apodittica l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale "del pari corretto è l'avere comunque desunto l'assenza di tale prova anche dalla gravità del fatto commesso, ciò che la giurisprudenza ammette pacificamente".
1.3. Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano l'illegittimità della sentenza impugnata ex art. 360 comma 1 nn. 3 e 5 nella parte in cui la corte territoriale non ha applicato al fatto la c.d. scriminante sportiva, così argomentando: "anche quindi ove non si ritenesse di condividere la pacificità della ricostruzione dei fatti come prospettata in primo grado, la stessa deve ritenersi provata alla luce delle testimonianze assunte e idonea a concretizzare quella situazione di anomalo comportamento di gioco che, oltrepassando i limiti del normale agonismo sportivo, sia rivolto a ledere l'avversario piuttosto che a perseguire la vittoria nella competizione".
Si dolgono della mancata applicazione nel caso di specie della scriminante in riferimento al c.d. rischio consentito, nonché della mancata disamina delle risultanze istruttorie alla luce della scriminante invocata.
Sostengono che l'intervento posto in essere da Pe.Mi., che ricopriva il ruolo di difensore della ASD Brembillese di Brembilla, era volto alla interruzione dell'azione della squadra avversaria (l'US Oriens di Brembate) ed al recupero del possesso del pallone, fulcro del gioco del calcio, ragion per cui era direttamente e funzionalmente connesso con l'azione che si stava svolgendo in campo.
Osservano che la condotta dell'agente è scriminata ogniqualvolta sussista uno stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, come per l'appunto nel caso di specie nel quale sarebbe fuor dubbio la finalità sportiva dell'intervento posto in essere da Pe.Mi.
Deducono che il comportamento dell'atleta è perseguibile quando lo svolgimento di una competizione si riveli la sede occasionale di tempo e di luogo per una condotta lesiva, che sia unicamente dettata dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica lesivo della altrui incolumità personale (come nel caso di fallo di reazione, di fallo a gioco fermo, oppure "a palla lontana"), mentre la mera violazione delle regole del gioco non determina essa sola la responsabilità civile dell'agente, se finalizzata al perseguimento degli obiettivi dello sport praticato (es. impedire che l'avversario si diriga verso la porta).
In altri termini, secondo i ricorrenti, perché insorga la responsabilità, occorre un quid pluris rappresentato dalla volontà di ledere l'incolumità dell'avversario e dal difetto di nesso funzionale con il gioco; ed invocano al riguardo il principio stabilito da Cass. n. 11270/2018.
1.4. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano ex art. 360 comma 1 nn. 3 e 5 violazione dell'art. 116 c.p.c.
Sostengono che la corte territoriale ha fatto malgoverno delle prove testimoniali, che erano state assunte nel corso del giudizio, finendo col dare inspiegabilmente maggior peso ai testimoni indicati dalla parte danneggiata.
Deducono che dalla attività istruttoria svolta in primo grado era emersa una incertezza probatoria attinente alla ricostruzione dell'evento lesivo, con un palese contrasto tra i testimoni di parte attrice con quelli di parte convenuta, tale che il giudicante avrebbe dovuto affermare l'incertezza dell'evento di causa, con conseguente rigetto della domanda attorea.
1.5. Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano, ex art. 360 comma 1 n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2048 e 2049 c.c. nella parte in cui la corte territoriale non ha riconosciuto la responsabilità dei terzi chiamati.
Sostengono che, contrariamente a quanto affermato dalla corte territoriale, la chiamata in causa della società ASD Brembillese Calcio di B (B) e del Centro Sportivo Italiano – Comitato Provinciale di Bergamo, da essi effettuata, trovava la sua giustificazione nella carenza di legittimazione passiva, da essi eccepita: in altri termini, la chiamata in causa era diretta a riversare sulle terze chiamate gli effetti della domanda giudiziale attorea.
In definitiva, secondo i ricorrenti, che invocano il principio affermato in particolare da Cass. n. 1043/2019, nel caso di specie, ricorrevano tutti i presupposti per l'estensione automatica delle domande di parte attorea alle terze chiamate.
1.6. Con il sesto motivo, infine, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell'art. 360 comma 1 n. 3, vizio di ultrapetizione nella parte in cui la corte territoriale ha statuito in merito alla liquidazione degli interessi legali, senza che tale domanda era stata formulata da parte attrice nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado.
2. Il ricorso è improcedibile, prima ancora che inammissibile.
3. L'improcedibilità consegue al fatto che, a norma dell'art. 369 comma 2 c.p.c., unitamente al ricorso debbono essere depositati, a pena di improcedibilità, una serie di documenti tra cui, la "copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta".
Scopo di tale obbligo di deposito è quello di consentire alla Corte di controllare la tempestività dell'esercizio del diritto di impugnazione (giacché, come è noto, una volta che sia stata effettuata la notifica della sentenza, il ricorrente deve rispettare il c.d. "termine breve" di impugnazione del provvedimento) a tutela dell'interesse di carattere pubblicistico (e quindi indisponibile per le parti) al rispetto del vincolo della cosa giudicata formale.
La norma è stata oggetto di diverse interpretazioni nel corso del tempo. Invero, dopo un primo orientamento restrittivo, secondo il quale l'obbligo di deposito sia della sentenza impugnata che della relazione di notificazione doveva essere adempiuto contestualmente al deposito del ricorso nel termine di venti giorni dall'ultima notifica (così v. per tutte Cass. n. 2067 del 1971 e n. 10959 del 1995), si è passati, a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. N. 11932 del 198) ad orientamento meno restrittivo, secondo il quale è concesso alla parte di allegare copia autentica di sentenza e relata anche separatamente dal deposito del ricorso, facendo leva sull'applicazione estensiva dell'art. 372, secondo cui è ammesso il deposito autonomo di documenti riguardanti l'ammissibilità del ricorso (sempre nel termine perentorio di venti giorni dall'ultima notifica).
È vero che, di recente, le Sezioni Unite di (n. 21349 del 2022) hanno anche affermato che " Nel giudizio di cassazione, è esclusa la dichiarazione di improcedibilità ex art. 369, comma 2, n. 2), c.p.c., quando l'impugnazione sia proposta contro una sentenza notificata, di cui il ricorrente non abbia depositato, unitamente al ricorso, la relata di notifica (o le copie cartacee dei messaggi di spedizione e di ricezione, in caso di notifica a mezzo PEC), ove tale documentazione risulti comunque nella disponibilità del giudice, per essere stata prodotta dal controricorrente nel termine di cui all'art. 370, comma 3, c.p.c., ovvero acquisita - nei casi in cui la legge dispone che la cancelleria provveda alla comunicazione o alla notificazione del provvedimento impugnato (da cui decorre il termine breve per impugnare ex art. 325 c.p.c.) - mediante l'istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio.
Orbene, nel caso di specie, parte ricorrente conclude il proprio ricorso (p. 23) affermando di produrre, mediante deposito in Cancelleria, vari documenti tra i quali "PEC Avv.to Baruffi Attilio notifica sentenza del 18.10.2021", ma detta documentazione non è stata rinvenuta nel fascicolo processuale, cartaceo e telematico, ma né dal fascicolo cartaceo, né da quello telematico risulta che parte ricorrente abbia allegato la documentazione attestante la notifica (né all'atto del deposito del ricorso e neppure nel termine perentorio di venti giorni dalla sua ultima notifica).
D'altra parte, detta documentazione non è stata rinvenuta dal Collegio nel fascicolo di parte controricorrente, né in alcuno degli altri atti a sua disposizione, sia in formato analogico che telematico.
E neppure può essere applicato nella specie il principio di diritto, affermato fin da Cass. n. 17066 del 2013, secondo il quale: " Pur in difetto di produzione di copia autentica della sentenza impugnata e della relata di notificazione della medesima (adempimento prescritto dall'art. 369, secondo comma, numero 2, cod. proc. civ.), il ricorso per cassazione deve egualmente ritenersi procedibile ove risulti, dallo stesso, che la sua notificazione si è perfezionata, dal lato del ricorrente, entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza, poiché il collegamento tra la data di pubblicazione della sentenza (indicata nel ricorso) e quella della notificazione del ricorso (emergente dalla relata di notificazione dello stesso) assicura comunque lo scopo, cui tende la prescrizione normativa, di consentire al giudice dell'impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività in relazione al termine di cui all'art. 325, secondo comma, cod. proc. civ.".
Invero, nel caso di specie, la sentenza è stata depositata in Cancelleria in data 12 ottobre 2021, mentre il ricorso è stato notificato in data 15 dicembre 2021, quando il termine di sessanta giorni era spirato (per la precisione, il precedente lunedì 13 dicembre).
Deve pertanto essere dichiarata la improcedibilità del ricorso.
4. Il ricorso, ove mai fosse stato procedibile, sarebbe stato comunque inammissibile.
4.1. Inammissibile sarebbe stato il primo motivo, in quanto il giudice di primo grado – dopo aver rilevato che la dinamica del fallo (intervento a gamba tesa alta, direttamente sul ginocchio e dopo una scivolata di alcuni metri) non era stata contestata – ha comunque ritenuto che la ricostruzione dell'episodio, effettuata dall'allora parte attrice, avesse trovato conferma nelle deposizioni testimoniali.
Donde la inammissibilità per irrilevanza del motivo in esame.
4.2. Inammissibile sarebbe stato il secondo motivo, in quanto i ricorrenti nell'illustrazione del motivo non attingono la ratio della sentenza impugnata, ravvisabile nel fatto che i ricorrenti avrebbero dovuto allegare specifiche circostanze sul fatto che avevano fornito al loro figliolo una adeguata educazione.
Occorre qui ribadire che i criteri, in base ai quali va imputata ai genitori la responsabilità per gli atti illeciti compiuti dai figli minori, consistono: sia nel potere-dovere di esercitare la vigilanza sul comportamento dei figli stessi, sia anche, e soprattutto, nell'obbligo di svolgere adeguata attività formativa, impartendo ai figli l'educazione al rispetto delle regole della civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e nello svolgimento delle attività extrafamiliari (Cass. n. 26200/2011, n. 7050/2008; n. 20322/2005; n. 10357/2000).
Invero, la norma dell'art. 2048 c.c. è costruita in termini di presunzione di colpa dei genitori (o dei soggetti ivi indicati). Conseguentemente, i genitori, al fine di fornire una sufficiente prova liberatoria per superare la presunzione di colpa desumibile dalla norma, devono offrire (non la prova negativa, legislativamente predeterminata, di non aver potuto impedire il fatto, ma) la prova positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, il tutto in conformità alle condizioni sociali, familiari, all'età, al carattere ed all'indole del minore. Inoltre, l'inadeguatezza dell'educazione impartita e della vigilanza esercitata su di un minore, può essere ritenuta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell'art. 147 c.c.
In estrema sintesi, nel solco di una giurisprudenza consolidata (Cass. n. 22541/2019 e n. 9556/2009), la prova liberatoria richiesta ai genitori dall'art. 2048 c.c. di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore coincide, normalmente, con la dimostrazione, oltre che di aver impartito al minore un'educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, anche di aver esercitato sul minore una vigilanza adeguata all'età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un'ulteriore o diversa opera educativa. A tal fine, è sufficiente che il genitore alleghi che, per l'educazione impartita, per l'età del figlio e per l'ambiente in cui questi viene lasciato libero di muoversi, risultino correttamente impostati i di lui rapporti con l'ambiente extrafamiliare, facendo ragionevolmente presumere che tali rapporti non possano costituire fonte di pericoli per sé e per i terzi, mentre è irrilevante che il fatto illecito si sia svolto mentre il minore era ad altri affidato, giacché l'obbligo di vigilanza per i genitori del minore capace non si pone come autonomo rispetto all'obbligo di educazione, ma va correlato a quest'ultimo, nel senso che i genitori devono vigilare che l'educazione impartita sia consona ed idonea al carattere ed alle attitudini del minore e che quest'ultimo ne abbia "tratto profitto", ponendola in atto, in modo da avviarsi a vivere autonomamente, ma correttamente (Cass. 22/04/2009, n. 9556).
Dando corretta applicazione a detti principi, la corte territoriale ha ritenuto che tale prova liberatoria non soltanto non era stata data, in quanto non era stata articolata alcuna istanza probatoria sul punto, ma neppure era stata allegata dagli odierni ricorrenti nel giudizio di primo grado, all'uopo richiamando espressamente quanto riferito dagli stessi in sede di comparsa di risposta (p. 13); e che le stesse modalità del fatto erano state tali da poter essere interpretate come indice di un deficit educativo.
4.3. Inammissibile sarebbe stato il terzo motivo.
Al riguardo, possono comunque essere utili alcune considerazioni di sistema.
Per quanto qui rileva, l'attività sportiva in senso lato si articola in tre grandi categorie: l'attività sportiva necessariamente violenta, come il pugilato, ove la violenza è un elemento strutturale dell'attività; quella a violenza eventuale, laddove, invece, il contatto fisico è possibile ma non necessario, come il calcio o il basket; e, infine, tutte quelle attività dove la violenza è alla radice esclusa dalla tipologia di attività esercitata (nuoto, tennis, l'atletica leggera).
Con specifico riferimento agli sport a cosiddetta violenza eventuale, come appunto il calcio, è necessario stabilire in primo luogo se la violenza esercitata nell'esercizio dell'attività ecceda o meno i limiti consentiti dai regolamenti di quella particolare disciplina. Praticando il calcio, invero, è indubbiamente "normale" e fisiologico essere protagonisti di infortuni ed episodi cosiddetti "violenti": chi pratica il calcio accetta di esporsi, entro determinati margini di rischio, a certe tipologie di eventi che possono originare un danno.
Pertanto, ciò che si deve preliminarmente stabilire, in caso di episodi violenti, è quando si esorbiti dal semplice illecito sportivo per incorrere in un illecito penale e/o in un illecito civile.
Tale distinzione deve essere ricercata in primo luogo nella volontarietà o meno dell'atto illecito: sono quindi meri illeciti sportivi (e come tali non punibili penalmente e non sanzionabili civilmente) tutte quelle lesioni frutto di violazioni involontarie dei regolamenti poste in essere per incapacità, scarsa accortezza, semplice casualità, ecc. Al contrario, possono configurare illeciti penali e/o illeciti civili tutte quelle lesioni cagionate volontariamente durante una competizione sportiva, laddove la gara sia solo un pretesto per l'offesa. In tali casi, il responsabile della violenza ne risponderà come in qualunque altro caso di vita quotidiana. Ad esempio, è il caso del calciatore che, a gioco fermo e con palla lontana, colpisca l'avversario con un pugno al volto. È evidente che, in questi casi, non si possa mai invocare una causa di giustificazione "sportiva", essendo la partita solo un pretesto per la condotta violenta.
Nel caso in cui (nella pratica del calcio) la condotta dell'agente cagioni lesioni all'avversario, la responsabilità civile è configurabile non soltanto nel caso di condotta violenta volontaria, ma anche, più in generale, quando non sussiste uno stretto collegamento funzionale tra azione di giuoco ed evento lesivo.
Dando corretta applicazione di detti principi al caso di specie, la corte territoriale ha ritenuto che l'intervento falloso del Pe.Mi. non fosse scriminato, in quanto la violenza, dallo stesso esercitata, era assolutamente sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco ed alla natura e rilevanza dello stesso. E non ha ravvisato il citato collegamento funzionale, ma ha ravvisato nel caso di specie una "situazione di anomalo comportamento di gioco che, oltrepassando i limiti del normale agonismo sportivo, sia rivolto a ledere l'avversario piuttosto che a perseguire la vittoria nella competizione".
Trattasi di statuizione che, essendo formulata ad esito di un giudizio di fatto, è insindacabile nella presente sede di legittimità ogniqualvolta non sia manifestamente implausibile, come per l'appunto nella specie.
4.4. Inammissibile sarebbe stato il quarto motivo, in quanto diretto a sollecitare una nuova valutazione delle risultanze della espletata attività istruttoria testimoniale; né possono dirsi integrati gli estremi del travisamento della prova, secondo la ricostruzione da ultimo operata da Cass. Sez. U. 5792/24.
D'altronde, è errato affermare che, in mancanza di un immediato intervento arbitrale di carattere sanzionatorio, si avrebbe una condotta lecita. Invero - in disparte il fatto che le valutazioni arbitrali rilevano sul piano dell'illecito sportivo, ma non possono certo vincolare il giudice civile e/o il giudice penale - resta comunque il fatto che l'arbitro potrebbe non essersi reso conto dell'illecito, ovvero, pur essendosene accorto, potrebbe aver sottovalutato la gravità del fatto, tanto è vero che nelle competizioni professionistiche si adottano strumenti (quali il VAR) per ovviare a possibili errori o sviste arbitrali.
Al riguardo può essere opportuno precisare che le regole sportive e le norme penali e/o civili (da cui discendono regole cautelari giuridicamente rilevanti) hanno struttura e funzioni diverse, e, pertanto, non sono generalmente sovrapponibili, né necessariamente interagiscono o si condizionano.
Le regole sportive strutturano la relativa disciplina e hanno lo scopo di delineare le modalità di esercizio della stessa, onde consentire il regolare svolgimento della competizione e ai soggetti coinvolti (principalmente gli atleti, ma anche altri soggetti quali arbitri, allenatori ecc.) di essere consapevoli delle conseguenze di determinate azioni e comportamenti commessi durante la pratica sportiva, sia in termini di risultato, sia in termini di sanzioni derivanti da azioni scorrette o fallose ma comunque funzionali al perseguimento dell'obiettivo finale (che è normalmente quello di prevalere sportivamente sull'avversario).
Le regole del gioco non sono necessariamente regole cautelari. Lo sono certamente quelle che vietano in modo assoluto determinati comportamenti (in quanto potenzialmente lesivi). Altre, nel prevedere condotte alle quali assegnano sanzioni sportive, con ciò stesso le consentono. Quindi la violazione di una regola del gioco, che sanziona un fallo di gioco, non può al contempo dar luogo a responsabilità civile o penale, perché quelle regole definiscono comportamenti resi leciti dalla accettazione da parte di tutti i partecipanti.
Proprio per tale ragione ciò vale sin quando i comportamenti produttivi di danno restino coerenti al principio di lealtà sportiva e, poi, alla funzionalizzazione ad una corretta prevalenza nella competizione; principio alla cui osservanza da parte di tutti i partecipanti è affidata l'adesione all'evenienza di subire danni altrimenti non accettati.
Ne discende che, per contro, sono illeciti quei comportamenti che non sono riconducibili al gioco, pur nelle sue espressioni pericolose, o perché intenzionalmente diretti a procurare danno alla persona oppure perché, siccome in contrasto con il principio di lealtà sportiva, sono estranei all'ambito di applicazione delle regole del gioco - che quel principio presuppongono - e sono quindi disciplinati dalle ordinarie regole di diligenza, dei quali costituiscono violazione.
Si vengono così a delineare aree diverse (quella sportiva e quella civile e/o penale), coperte da regole diverse, perché dirette a gestire "rischi" diversi: quelli sportivi, conosciuti e accettati dagli atleti, i quali in tale ambito sono consapevoli della potenziale lesività di determinate azioni di gioco, quale conseguenza possibile della pratica sportiva svolta; quelli civili e/o penali, quale conseguenza dannosa di azioni che esorbitano dall'ordinario sviluppo del gioco o della pratica sportiva interessata, aventi cioè un "quid pluris" che le rende perseguibili penalmente o civilmente sanzionabili in quanto caratterizzate da dolo ovvero da colpa.
In definitiva, pur nel rispetto delle regole del gioco, possono ricorrere gli estremi di una responsabilità civile e/o penale.
In applicazione di tali principi, non rientra tra i rischi accettati dai giocatori di calcio una condotta di un avversario così scorretta e scoordinata rispetto al leale sviluppo dell'agonismo della competizione quale l'intervento a gamba tesa e con piede a martello su gamba che già aveva bloccato il pallone: ciò che correttamente, quindi, ha concluso la corte territoriale.
4.5. Il quinto motivo è manifestamente infondato, in quanto l'allora minore Pe.Mi., durante la partita di calcio per cui è ricorso, non era sotto la diretta responsabilità del Centro Sportivo Italiano – Comitato provinciale di Bergamo.
Al riguardo occorre precisare che i giocatori minorenni, durante le partite di calcio dei vari campionati, sono da intendersi affidati dai genitori alle società sportive con le quali sono tesserati e, in particolare, alle figure dell'accompagnatore e dell'allenatore, i quali non hanno di per sé alcun rapporto di preposizione (né tanto meno di lavoro dipendente) con il Centro Sportivo Italiano, che, quale ente di promozione sportiva, si limita ad accogliere l'iscrizione ai campionati delle singole squadre ed associazioni sportive, costituire i vari gironi ed i calendari delle partite di calcio, designare ed inviare i direttori di gara per ogni partita.
D'altra parte, nella specie l'art. 2049 c.c. è stato correttamente non applicato in quanto l'infortunio occorso al Cr.An. si è verificato durante un contatto di gioco, a seguito di un intervento repentino ed imprevedibile, che non poteva essere impedito dal suo allenatore (o da altri soggetti della società ASD Brembillese, alla quale il giovane giocatore era stato affidato dai genitori), conseguenza di una decisione autonoma, imprevedibile e ingiustificabile del giovane atleta. I genitori, nel momento in cui iscrivono il proprio figlio minore ad una squadra di calcio, accettano il rischio che il medesimo possa incorrere in infortuni funzionalmente riconducibili alla disciplina sportiva, ma non prevenibili da parte di alcuno (e, quindi, non addebitabili alla società sportiva di appartenenza); ma, per quanto detto sopra, mantengono la propria responsabilità - salva la peculiare prova liberatoria di cui si è detto - per il caso in cui siano i propri figli a cagionare ad altri quegli infortuni.
Infine, contrariamente a quanto ritenuto da parte ricorrente, nel caso di specie i giudici di merito hanno correttamente ritenuto non applicabile nella specie il principio dell'automatica estensione della domanda attorea ai terzi chiamati (affermato ad es. da Cass. n. 11103/2020), per le concrete modalità di proposizione della chiamata, avvenuta a titolo di garanzia impropria o di regresso.
4.6. Manifestamente infondato - e quindi inammissibile ex art. 360-bis n. 1 c.p.c. - sarebbe stato anche il sesto motivo, in quanto, in materia extracontrattuale, gli interessi legali rappresentano una obbligazione accessoria, liquidabile di ufficio indipendentemente dalla specifica domanda di una delle parti, in quanto compresi nella domanda risarcitoria (secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte: su cui, per tutte, v. C 39376/21, ove ulteriori riferimenti, in coerenza con la natura di credito di valore di quello da risarcimento di danno da illecito extracontrattuale).
5. Alla declaratoria di improcedibilità del ricorso - che, siccome preliminare, preclude quella di inammissibilità - consegue la condanna di parte ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalle parti resistenti (da un lato, unitariamente considerando il danneggiato e i suoi genitori e, dall'altro e separatamente, l'altro controricorrente Centro sportivo italiano - CSI - Comitato provinciale di Bergamo) e la declaratoria della sussistenza dei presupposti processuali per il pagamento dell'importo, previsto per legge ed indicato in dispositivo, se dovuto (Cass. Sez. U. 20 febbraio 2020 n. 4315).
Infine, per la natura della causa petendi, va di ufficio disposta l'omissione, in caso di diffusione del presente provvedimento, delle generalità e degli altri dati identificativi di coloro che erano minorenni al tempo dei fatti, ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso improcedibile.
Condanna parte ricorrente al pagamento, in favore delle controparti costituite, delle spese del presente giudizio, spese che liquida, per ciascuna delle due parti resistenti, in Euro 4400 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera di parte ricorrente al competente ufficio di merito, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
Dispone che, ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento siano omessi generalità ed altri dati identificativi di coloro che erano minorenni al tempo dei fatti.
Così deciso in Roma, il 3 luglio 2024.
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2024.