In materia di licenziamenti collettivi, l'obbligo di consultazione sindacale per l'impresa si applica anche quando tra i lavoratori coinvolti vi sono dirigenti.
Lo ha ribadito la Sezione Lavoro della Cassazione con l'ordinanza n. 21299 del 30 luglio 2024.
Nel caso di specie, una società aveva proceduto al licenziamento di alcuni dirigenti senza coinvolgere il sindacato rappresentativo dei dirigenti nella consultazione sindacale. Di fronte a questa situazione, i lavoratori hanno impugnato i licenziamenti, ma il Tribunale di Pisa ha respinto la loro richiesta.
Successivamente, la Corte d'Appello di Firenze ha riformato la decisione di primo grado, dichiarando l'illegittimità dei licenziamenti e condannando la società al pagamento di un'indennità ex art. 24, comma 1-quinquies, legge n. 223/1991, pari a 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre agli accessori.
La Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte d’Appello, sottolineando alcuni punti chiave:
Cassazione civile, sez. lav., ordinanza 30/07/2024 (ud. 04/06/2024) n. 21299
RILEVATO CHE
1. la Corte d'Appello di Firenze, in riforma di sentenza del Tribunale di Pisa che aveva rigettato l'originaria domanda, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato il 18.4.2017 dalla società Teseco al dirigente Ri.Gu., e condannava la società al pagamento dell'indennità ex art. 24, comma 1-quinquies, legge n. 223/1991 nella misura di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto (determinata in Euro 7.079,33 mensili), oltre accessori;
2. in particolare, la Corte di Firenze non condivideva le conclusioni del Tribunale in merito all'applicabilità dell'art. 24, comma 1-quinquies, legge n. 223/1991 alle sole procedure previste dall'art. 24 legge n. 223/1991 (licenziamenti collettivi per riduzione del personale), in quanto diverse da quelle disciplinate dall'art. 4 della medesima legge (licenziamenti collettivi post-mobilità, quale quello in esame), e accoglieva, invece, la domanda proposta in base a interpretazione conforme al diritto UE della disposizione in esame, introdotta dall'art. 16 della legge n. 161/2014 in esito a procedura di infrazione aperta contro l'Italia per non aver previsto l'applicabilità anche al licenziamento dei dirigenti delle garanzie procedurali stabilite dalla direttiva 98/59/CE (concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi);
3. avverso la sentenza della Corte d'Appello propone ricorso per cassazione la società con tre motivi; resiste con controricorso, illustrato da memoria, l'ing. Ri.Gu.; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza;
CONSIDERATO CHE
1. con il primo motivo, la società ricorrente deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.), violazione o falsa applicazione dell'art. 4, comma 1, e dell'art. 24, commi 1 e 1-quinquies, legge n. 223/1991, nonché dell'art. 8 d.l. n. 148/1993, convertito in legge n. 236/1993, per avere errato la Corte territoriale nel ritenere applicabile l'art. 24 L. 223/1991, nettamente distinto dalla procedura di cui all'art. 4 della medesima legge;
2. con il secondo motivo, deduce (art. 360, n. 3 e n. 4, c.p.c.) violazione dell'art. 132, n. 4, c.p.c., e dell'art. 118 disp. att. c.p.c., nonché violazione o falsa applicazione dell'art. 186-bis, legge fall., dell'art. 2112 c.c., degli artt. 24, commi 1 e 1-quinquies, e 4, comma 1, legge n. 223/1991, per insanabile illogicità e contraddittorietà della pronuncia con riguardo alla "altra ragione diversa e del tutto autonoma" diretta a confermare che il licenziamento del dirigente fosse da ricondursi alla procedura di licenziamento collettivo, consistente nell'intenzione della società di cessare l'attività, senza considerare il fatto che vi fossero state due cessioni di ramo di azienda, implicanti continuità, non cessazione dell'attività;
3. con il terzo motivo (art. 360, n. 3, c.p.c.) deduce violazione o falsa applicazione dell'art. 4, comma 2, legge n. 223/1991, e dell'art. 24, comma 1-quinquies, per avere errato la Corte territoriale nel ritenere sussistente la violazione di tale ultima norma, in quanto la società non inviò la lettera di avvio della procedura di mobilità (ex art. 4, comma 1, legge n. 223/1991) all'associazione sindacale di categoria dei dirigenti;
4. il primo e terzo motivo di ricorso, da trattare congiuntamente per la loro connessione, non sono fondati;
5. la Corte di Firenze ha ritenuto il recesso impugnato riconducibile alla procedura di licenziamento collettivo che ha coinvolto i dipendenti Teseco e che la società avesse l'obbligo di svolgere la consultazione sindacale anche con il sindacato rappresentativo dei dirigenti;
6. in questo senso la Corte ha interpretato la norma di cui all'art. 24, comma 1-quinquies, legge n. 223 /1991, che stabilisce che: "Nel caso in cui l'impresa o il datore di lavoro non imprenditore, ricorrendo le condizioni di cui al comma 1, intenda procedere al licenziamento di uno o più dirigenti, trovano applicazione le disposizioni di cui all'articolo 4, commi 2, 3, con esclusione dell'ultimo periodo, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 12, 14, 15 e 15-bis, e all'articolo 5, commi 1, 2 e 3, primo e quarto periodo. All'esame di cui all'articolo 4, commi 5 e 7, relativo ai dirigenti eccedenti, si procede in appositi incontri. Quando risulta accertata la violazione delle procedure richiamate all'articolo 4, comma 12, nonché di violazione delle procedure di cui all'articolo 189, comma 6, del codice della crisi e dell'insolvenza o dei criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1, l'impresa o il datore di lavoro non imprenditore è tenuto al pagamento in favore del dirigente di un'indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura e alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell'indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro";
7. la norma in questione è stata introdotta dall'art. 16, legge 30 ottobre 2014, n. 161 ("Disposizioni per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea - Legge europea 2013-bis") rubricato: "Modifiche all'articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, in materia di licenziamenti collettivi. Procedura di infrazione n. 2007/4652. Sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea del 13 febbraio 2014 nella causa C-596/12";
8. infatti, la Repubblica Italiana era stata condannata, su ricorso della Commissione europea, per avere escluso la categoria dei "dirigenti" dall'ambito di applicazione della procedura nazionale prevista per i licenziamenti collettivi; la Corte di Giustizia UE ha affermato che tale esclusione viola la direttiva n. 98/59, respingendo la difesa dell'Italia secondo cui la normativa e i contratti collettivi nazionali garantirebbero ai dirigenti, in caso di licenziamento collettivo, una tutela di carattere economico più favorevole, che pertanto sarebbe autorizzata dalla direttiva;
9. precisamente, la Corte UE ha statuito che: "Avendo escluso, mediante l'articolo 4, paragrafo 9, della legge del 23 luglio 1991, n. 223, recante norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, la categoria dei "dirigenti" dall'ambito di applicazione della procedura prevista dall'articolo 2 della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'articolo 1, paragrafi 1 e 2, di tale direttiva";
10. la Corte di Lussemburgo ha osservato in tale pronuncia che: "13. La Commissione rimprovera alla Repubblica italiana, in sostanza, di essere venuta meno agli obblighi imposti dall'articolo 1, paragrafi 1 e 2, della direttiva 98/59, in quanto gli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991 escludono una categoria di lavoratori dall'ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo prevista dall'articolo 2 di tale direttiva. 14. La Commissione sostiene che la direttiva 98/59, il cui ambito di applicazione si estende a tutti i lavoratori senza eccezione, non risulta correttamente recepita dalla legislazione nazionale in esame, la quale ammette a beneficiare delle garanzie da essa previste unicamente gli operai, gli impiegati e i quadri, escludendo i dirigenti. Essa ritiene che la normativa e i contratti collettivi italiani riguardanti specificamente i dirigenti non colmino tale lacuna. (...) 16. Occorre ricordare che, armonizzando le norme applicabili ai licenziamenti collettivi, il legislatore comunitario ha inteso, nel medesimo tempo, garantire una protezione di livello comparabile dei diritti dei lavoratori nei vari Stati membri e uniformare gli oneri che tali norme di tutela comportano per le imprese della Comunità (v. sentenze dell'8 giugno 1994, Commissione/Regno Unito, C-383/92, Racc. pag. I-2479, punto 16, e del 12 ottobre 2004, Commissione/Portogallo, C-55/02, Racc. pag. I-9387, punto 48). Pertanto, la nozione di "lavoratore" di cui all'articolo 1, paragrafi 1 e 2, della direttiva 98/59 non può essere definita mediante un rinvio alle legislazioni degli Stati membri, bensì ha una portata comunitaria (v., in tal senso, sentenza Commissione/Portogallo, cit., punto 49). 17. A tal riguardo, la suddetta nozione deve essere definita in base a criteri oggettivi che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate. In quest'ambito, la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest'ultimo, prestazioni in contropartita delle quali percepisce una retribuzione (v., per analogia, sentenza dell'11 novembre 2010, Danosa, C-232/09, Racc. pag. I-11405, punto 39 e la giurisprudenza ivi citata). 18. Nel caso di specie è indiscusso, da un lato, che la categoria dei "dirigenti" ricomprende persone inserite in un rapporto di lavoro come quello descritto al punto precedente e, dall'altro, che l'articolo 4, paragrafo 9, della legge n. 223/1991 si riferisce soltanto agli operai, agli impiegati e ai quadri, con esclusione dei "dirigenti". Ne consegue che, come sostenuto dalla Commissione nel suo ricorso, la normativa italiana in esame può essere intesa nel senso che non impone al datore di lavoro di seguire la procedura di licenziamento collettivo per quanto concerne taluni lavoratori. (...) 21. (...) la direttiva 98/59 persegue lo scopo di ravvicinare le disposizioni nazionali relative alla procedura da seguire in caso di licenziamenti collettivi (sentenza del 10 dicembre 2009, Rodrìguez Mayor e a., C-323/08, Racc. pag. I-11621, punto 51). A tal fine, l'articolo 2, paragrafo 1, di detta direttiva stabilisce l'obbligo, per il datore di lavoro, di procedere in tempo utile a consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori qualora preveda di effettuare licenziamenti collettivi. Tali consultazioni devono vertere, in particolare, sulla possibilità di evitare o di ridurre i licenziamenti collettivi previsti (sentenza del 10 settembre 2009, Akavan Erityisalojen Keskusliitto AEK e a., C-44/08, Racc. pag. I-8163, punti 39 e 47). 22. Quindi, la direttiva 98/59 sarebbe parzialmente privata del suo effetto utile in caso di mancata attuazione della procedura di consultazione nei confronti di taluni lavoratori, a prescindere, peraltro, dalle misure sociali di accompagnamento che siano previste in loro favore per attenuare le conseguenze di un licenziamento collettivo. 23. Ciò è tanto più vero ove si consideri che la direttiva 98/59, fatta eccezione per i casi tassativamente previsti al suo articolo 1, paragrafo 2, non ammette, né in modo esplicito né in modo tacito, alcuna possibilità per gli Stati membri di escludere dal suo ambito di applicazione questa o quella categoria di lavoratori";
11. ora, il nucleo della direttiva europea sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi è rappresentato dagli obblighi di informazione, di consultazione e procedurali che devono caratterizzare tali procedure ed essere recepiti (come avvenuto anche in Italia) nelle legislazioni degli Stati membri;
12. come osservato dalla Corte di Firenze, non vi è traccia nella disciplina europea di una distinzione tra licenziamenti collettivi intimati all'esito di una sospensione dell'attività produttiva come la CIGS ovvero disposti senza tale previa sospensione;
13. detta distinzione si rivela, dunque, irrilevante ai fini della procedura consultiva e informativa per cui è causa; invero, non è contenuta nei Par.Par. 13 e 16 della pertinente sentenza CGUE sopra riportati, e neppure nel testo della norma adottata dal legislatore italiano in conseguenza dell'esito della procedura di infrazione;
14. del resto, la Corte di merito non ha affatto affermato che le procedure di licenziamento collettivo di cui all'art. 4 e di cui all'art. 24 della legge n. 223/1991 siano uguali o assimilabili a tutti gli effetti; ha invece correttamente affermato, e tale principio va qui riconfermato, che, ai fini della degli obblighi di consultazione e informazione di cui alla direttiva europea concernente ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, in tutti i casi di licenziamento collettivo dette procedure di informazione e consultazione si devono applicare anche ai dirigenti;
15. a tale obbligo l'impresa che intenda procedere a licenziamento collettivo anche di dirigenti deve attenersi, informando e consultando le loro rappresentanze, tanto nei casi di licenziamenti collettivi per riduzione del personale quanto nei casi di licenziamenti collettivi post-mobilità; ciò perché l'esclusione di tale categoria di dipendenti dalle procedure previste dalla normativa europea è risultata in contrasto con la stessa e ha determinato una specifica modifica normativa proprio per rispettare gli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea (tra i quali rientra l'adeguamento all'interpretazione che della normativa UE fornisce la Corte di giustizia, a ciò deputata dai trattati);
16. rimane assorbito il secondo motivo, perché la sentenza impugnata con ricorso per cassazione è stata fondata su duplice ratio decidendi, ciascuna idonea a giustificarne autonomamente la statuizione, con conseguente carenza di interesse, posto che, anche laddove fosse accolto il motivo di ricorso, comunque la sentenza impugnata non potrebbe essere cassata, in quanto autonomamente e sufficientemente sostenuta dall'altra ratio decidendi (cfr. Cass. n. 1979/2024);
17. il ricorso deve pertanto essere respinto, con regolazione secondo il regime della soccombenza delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo; al rigetto dell'impugnazione consegue il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 5.500 per compensi, Euro 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell'Adunanza camerale del 4 giugno 2024.
Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2024.