La Cassazione, con l'ordinanza interlocutoria n. 24124 del 9 settembre 2024, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale in merito alla mancanza di una tempesitva informazione al soggetto che viene sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio (TSO),
In particolare la normativa attualmente in vigore (artt. 33, 34 e 35 della legge n. 833 del 1978), non prevede che il provvedimento del sindaco che dispone il TSO in condizioni di degenza ospedaliera venga tempestivamente notificato all’interessato o al suo legale rappresentante. Questo significa che la persona soggetta al TSO non viene informata delle ragioni della misura, né del fatto che il provvedimento sarà sottoposto a convalida da parte del giudice tutelare entro 48 ore. Inoltre, non viene garantito il diritto del paziente di essere ascoltato dal giudice o di opporsi al provvedimento prima che questo venga convalidato.
La Suprema Corte ritiene che tali articoli non garantiscano pienamente i diritti costituzionali previsti dagli articoli 2, 3, 13, 24, 32 e 111 della Costituzione, né quelli stabiliti dalla CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo), come indicato negli articoli 6 e 13.
Attualmente, il TSO può essere disposto quando ricorrono tre condizioni:
Il provvedimento è emanato dal sindaco, ma non viene notificato al paziente, il quale non ha così la possibilità di esercitare il diritto al contraddittorio prima della convalida del giudice tutelare. Questo deficit procedurale viene definito dalla Cassazione come una violazione del diritto di difesa, sancito dall'articolo 24 della Costituzione.
Sebbene la legge Basaglia, che ha ispirato la legge 833/1978, abbia rappresentato un progresso nella gestione delle persone affette da patologie psichiatriche, secondo la Cassazione, il sistema normativo attuale non tutela adeguatamente la dignità umana in un aspetto fondamentale: il diritto del paziente a essere informato e a partecipare alle decisioni che riguardano il proprio percorso di cura.
La mancata informazione e la mancanza di un'effettiva possibilità di difesa impediscono al paziente di opporsi tempestivamente alla misura e di proteggere i propri diritti. Di conseguenza, la Corte costituzionale dovrà valutare se la normativa attuale rispetti o meno i principi costituzionali.
Cassazione civile, sez. I, ordinanza interlocutoria 09/09/2024 (ud. 14/06/2024), n. 24124
RILEVATO CHE
1.La ricorrente si opponeva, ai sensi dell'art. 35 della legge 23 dicembre 1978 n. 833, al trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera (in acronimo TSO), disposto nei suoi confronti dal sindaco di Caltanissetta in data 16.1.2021; l'opposizione veniva presentata al Tribunale di Caltanisetta in data in data 19.02.2021, dopo le dimissioni, avverso il decreto di convalida reso dal giudice tutelare in data 18.01.2021.
Nel giudizio di primo grado, l'ASP di Caltanissetta rimaneva contumace, mentre il comune eccepiva, in via preliminare, il proprio difetto di legittimazione passiva, deducendo che il sindaco -con l'ordinanza che aveva disposto il trattamento sanitario obbligatorio - aveva agito non già in rappresentanza dell'ente, bensì in qualità di ufficiale di governo, e, nel merito, chiedeva il rigetto del ricorso.
Successivamente, in data 13 marzo 2021, parte ricorrente estendeva la domanda alla Presidenza del consiglio dei ministri, al Ministro della giustizia e a Roberto Gambino, sindaco di Caltanissetta, nella qualità di Ufficiale del governo.
Il Tribunale di Caltanissetta accoglieva le eccezioni preliminari dei convenuti, dichiarando il difetto di legittimazione passiva del Comune di Caltanissetta, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministro della giustizia e, nel merito, respingeva il ricorso ritenendo sussistente - sulla scorta della diagnosi operata dai sanitari intervenuti, nonché delle risultanze istruttorie allegate agli atti di causa - un grave scompenso psichico e un comportamento oppositivo alle cure, posto in essere dalla istante, idonei a integrare i presupposti di cui agli artt. 33 e ss. della legge n. 833/1978.
2. La Corte d'Appello, adita da Na.El. e nella resistenza dell'Avvocatura dello Stato, costituita per il sindaco n.q. di ufficiale di governo e per le altre amministrazioni, ha respinto il gravame interposto dalla odierna ricorrente, ritenendo sussistenti le condizioni per operare il trattamento sanitario obbligatorio, in particolare in relazione alle idee suicidarie della donna e alla circostanza che ella il giorno prima avesse assunto autonomamente eccessive dosi di uno psicofarmaco (Tavor).
3. Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso Elena Na.El., affidandosi ad un unico articolato motivo. Si è costituita con controricorso l'avvocatura dello Stato per i soggetti indicati in epigrafe. La ricorrente ha depositato memoria.
La causa, trattata inizialmente alla udienza camerale non partecipata del 23 gennaio 2024, è stata rimessa in pubblica udienza con ordinanza n. 4209/2024.
4. Alla pubblica udienza del 14 giugno 2024,il pubblico ministero ha concluso per il rigetto del ricorso e in subordine perché venga sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 35 della legge 833/1978, nella parte in cui, pur consentendo l'opposizione da parte del soggetto in trattamento sanitario obbligatorio, non ne prevede una tempestiva informazione, in modo tale da consentirgli effettuare una efficace opposizione in tempo utile.
Il difensore di parte ricorrente ha insistito per l'accoglimento del ricorso e l'avvocatura dello Stato ne ha chiesto il rigetto.
RITENUTO CHE
1. - Il motivo di ricorso
Con l'unico motivo del ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 70,101,115,116 e 167 c.p.c., dell'art. 2697 cod. civ. e degli artt. 33 e 34 della legge n. 833/1978 in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. Il motivo, nelle sue plurime articolazioni, espone essenzialmente tre ragioni di censura, che di seguito saranno esposte in ordine logico.
1.1.- La ricorrente contesta la regolarità della procedura, deducendo che il suo svolgimento ha comportato pregiudizio al suo diritto a un ricorso effettivo e tempestivo, poiché ella non ha ricevuto il provvedimento del sindaco, ed in tal modo non ha potuto tempestivamente rendersi conto che non era allegata la relazione medica cui detto provvedimento faceva riferimento; la medesima non ha ricevuto, inoltre, la notifica della ordinanza di convalida, non prevista dalla legge vigente, e non ha potuto - di conseguenza - opporsi, se non dopo la scadenza del trattamento. Rileva altresì che non è stata sentita dal giudice tutelare prima della convalida e che quest'ultimo ha deciso solo in base agli atti, peraltro incompleti; ella non ha avuto neppure accesso agli atti del trattamento sanitario obbligatorio, se non dopo diverso tempo; non è stato neanche menzionato nel provvedimento del sindaco che il trattamento sanitario obbligatorio sarebbe cessato dopo sette giorni, e peraltro ella è stata rilasciata dopo nove giorni. Osserva, ancora, che il sindaco versava in una situazione di conflitto di interessi; ed ancora che non è stata ricercata, prima del TSO, la c.d. alleanza terapeutica (consenso); il parere del P.M. in primo grado è stato reso, inoltre, prima della acquisizione della relazione psicologica. Per tali ragioni la ricorrente ritiene di essere stata privata ingiustamente della propria libertà personale attraverso un provvedimento abnorme (sia ex ante che ex post), ovverosia, mediante apposito decreto di convalida che, in copia, non le veniva neppure notificato. La ricorrente deduce che la mancata notifica di tutti i vari atti procedimentali del trattamento sanitario obbligatorio le ha impedito di venire a conoscenza nell'immediatezza di quanto le stava accadendo, con impossibilità di esercitare il proprio diritto ad un ricorso effettivo, ex art. 13 CEDU, entro i primi sette giorni dall'inizio della procedura, idoneo ad impedire la eventuale convalida da parte del giudice tutelare o, in subordine, ad ottenerne la sospensione.
1.2.- Ancora, la ricorrente rileva il difetto dei presupposti previsti dalla legge per disporre il trattamento sanitario obbligatorio. Deduce che hanno errato i giudici di merito a ritenere sussistenti le condizioni del TSO; sostiene di non avere avuto alcuna intenzione di suicidarsi, ma che aveva manifestato il proposito suicidario semplicemente per operare una pressione sulle figlie, con le quali in quel momento era in conflitto e che, ove fossero state ammesse le prove da lei richieste, ciò sarebbe stato dimostrato. La istante censura il provvedimento anche per omesso esame di fatto decisivo, poiché ella non aveva compiuto l'atto che le era stato imputato (sporgersi da un ponte), ma si era limitata a manifestare un vago intento suicidario, per la finalità suindicata, e ad assumere psicofarmaci soltanto al fine di autocontrollarsi; lamenta altresì che non sia stato dato corso ad alcuna istruttoria che avrebbe permesso di appurare la fondatezza delle sue ragioni.
1.3.- Inoltre, la ricorrente censura la decisione sulla legittimazione, poiché avrebbero errato i giudici di merito a ritenere il difetto di legittimazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministro della giustizia, dal momento che l'intervento del pubblico ministero è obbligatorio; avrebbe inoltre errato il giudicante a non rilevare il conflitto di interessi tra essa ricorrente e il sindaco, dal momento la ricorrente medesima è dipendente comunale.
Sulla base di queste censure la parte chiede, quindi, la cassazione del provvedimento impugnato, affinché il trattamento sanitario obbligatorio venga dichiarato nullo ed inefficace.
1.4.- L'Avvocatura dello Stato deduce preliminarmente che il ricorso è difforme dal paradigma normativo di cui all'art. 366 c.p.c. poiché denunzia, contestualmente e promiscuamente, pretese violazioni di legge e vizi motivazionali, risultando già per tal motivo inammissibile; deduce che nulla ha indicato il ricorso circa la decisività della istruttoria omessa e del fatto asseritamente non esaminato e che la Corte d'Appello, dopo avere valutato le risultanze istruttorie, è pervenuta ad una decisione il cui merito non è sindacabile in questa sede. Nel corso della discussione orale l'avvocatura ha evidenziato che l'attuale quadro legislativo è conforme a Costituzione, poiché prevede un controllo giurisdizionale sulla misura, e che risponde alla necessità di tutelare in via d'urgenza chi versa nelle condizioni patologiche previste dalla legge e rifiuta le cure, e consente l'opposizione non solo all'interessato ma anche a chi vi abbia interesse, ampliando così le possibilità di tutela.
2. L'ammissibilità del ricorso.
Preliminarmente si osserva che, sebbene la parte abbia formalmente proposto un unico motivo di ricorso, con esso denunciando, sotto il profilo della violazione di legge e di omesso esame di fatto decisivo, sia errores in procedendo che errores in iudicando, il ricorso non per questo è da ritenersi inammissibile, poiché le censure, che sono facilmente distinguibili, non sono incompatibili tra di loro. Anzi, nella prospettazione della parte, dai dedotti errores in procedendo - ancorabili alla violazione, da parte dello stesso modello procedimentale previsto dalla normativa, delle normative sovraordinate anche di rango internazionale, come si dirà - discendono gli errores in iudicando, poiché la ricorrente lamenta, in sostanza, che ove fosse stata seguita una procedura regolare e soprattutto conforme alle norme CEDU invocate, la medesima avrebbe potuto difendersi durante il periodo di trattamento sanitario obbligatorio, e non soltanto dopo la sua scadenza, e avrebbe potuto sottoporre, al sindaco prima e al giudice tutelare dopo, elementi che le avrebbe evitato il ricovero o quantomeno ne avrebbero ridotto la durata.
La ricorrente ha invocato le norme CEDU, che costituiscono parametro interposto di costituzionalità, e il P.M., nella persona del sostituto procuratore generale Luisa De Renzis, ha esposto, sia pure in via subordinata, una condivisibile riflessione sulla non conformità a Costituzione del sistema normativo che disciplina i trattamenti sanitari obbligatori, poiché, pur nella riconosciuta possibilità di opporsi al provvedimento sindacale convalidato, non è prevista una adeguata e tempestiva informativa al soggetto interessato, in ordine ai presupposti applicativi della misura coattiva.
La censura sulla regolarità della procedura pone, in effetti, in evidenza l'emersione, nel sistema normativo in esame, di taluni profili di incompatibilità della procedura medesima con i principi costituzionali, condivisibilmente esposti nella requisitoria del P.G.
Si dubita, invero, da parte della Procura Generale, che l'attuale sistema normativo in materia di trattamenti sanitari obbligatori in condizione di degenza ospedaliera, in quanto misura coattiva che priva la persona della autodeterminazione in tema di cure mediche e della libertà personale, sia conforme agli artt. 2, 3,13,24, 32 e 111 della Costituzione, nonché all'art. 117 della Costituzione in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, nella parte in cui non prevede che l'ordinanza con la quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio tratta in condizioni di degenza ospedaliera sia notificato all'interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l'avviso che il provvedimento sarà sottoposto a convalida del giudice tutelare entro le 48 ore successive; nonché nella parte in cui non prevede che la ordinanza di convalida del giudice tutelare sia notificata all'interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l'avviso che può presentare ricorso ai sensi dell'art. 35 della legge 833/1978.
I rilievi della Procura sono pienamente condivisibili, e tali da indurre il Collegio a ritenere accoglibile l'istanza subordinata dell'Ufficio, di proporre questione di costituzionalità delle norme che regolano il procedimento in questione.
3.- La rilevanza della questione.
3.1.- Nel sistema di controllo di costituzionalità diffuso vigente nel nostro ordinamento la rilevanza della questione per il giudizio in corso si configura come necessità di applicare la disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione, e si riconnette all'incidenza della pronuncia della Corte Costituzionale su qualsiasi tappa di tale percorso. L'applicabilità della disposizione censurata è dunque sufficiente - ma altresì necessaria - a fondare la rilevanza della questione proposta (Corte Cost. n. 59/2021; Corte Cost. n. 254/2020; Corte Cost. n. 174/2016; Corte Cost. n. 91/2013).
Nel caso di specie, non è possibile decidere la controversia senza fare applicazione degli artt. 33,34,35 della legge n. 833/1978 e segnatamente di quella parte di dette norme che disciplinano la procedura del TSO. Parte ricorrente lamenta, infatti, la irregolarità della procedura seguita e che le garanzie previste dalla normativa vigente non siano state sufficienti a consentirle di organizzare per tempo una efficace difesa, ed a garantire il suo diritto ad un ricorso effettivo. L'Avvocatura dello Stato osserva che in relazione alla tipologia di intervento e alle sue finalità, la compatibilità con il quadro costituzionale è assicurata dal tempestivo controllo giurisdizionale e dalla legittimazione diffusa a proporre ricorso.
La questione della legittimità della procedura è quindi al tempo stesso preliminare e centrale, al fine di decidere se la ricorrente sia stata sottoposta legalmente al trattamento sanitario ovvero abbia subito una illegittima privazione della sua libertà e facoltà di autodeterminarsi, e non può essere definita se non sciogliendo il dubbio di costituzionalità sopra riportato. Al fine di illustrarne la rilevanza per il giudizio in corso è necessario premettere una breve disamina del quadro normativo, come interpretato allo stato del diritto vivente.
3.2.- Il quadro normativo.
L'art. 32 della Costituzione, al comma secondo, dispone che "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana".
La norma è interpretata dalla Corte Costituzionale nel senso che la disciplina costituzionale della salute comprende due lati, individuale e soggettivo l'uno (la salute come "fondamentale diritto dell'individuo", come lo definisce il comma 1 dell'art. 32 Cost.), sociale e oggettivo l'altro (la salute come "interesse della collettività"), e che il trattamento sanitario obbligatorio può considerarsi lecito ove sia diretto, non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale. Ed inoltre, il trattamento obbligatorio può considerarsi lecito se vi sia la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili (Corte Cost. n. 307/1990; Corte Cost. nn. 258/1994 e 118/1996; Corte Cost. n. 15/2023).
Soltanto per queste ragioni ed in questi limiti è consentito, dunque, al legislatore imporre limitazioni al diritto del singolo ad autodeterminarsi in tema di salute; al di fuori di tali ragioni e limiti trova piena applicazione il diritto di ciascuno a decidere da sé stesso su come, quando e soprattutto se curarsi, e quindi anche il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, e di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell'interessato (Cass. n. 21748/2007). Costituisce ormai un principio acquisito nel nostro ordinamento, invero, che il diritto all'autodeterminazione individuale, previsto dall'art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, comporta il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, ancorché necessario per la propria sopravvivenza (Corte Cost. n. 242/2019).
3.3.- In tema di salute mentale, tuttavia, questi principi si scontrano con lo spinoso problema della lucidità del paziente, il quale potrebbe rifiutare le cure non già per una libera scelta, ma in ragione della condizione patologica, anche temporanea, che lo affligge.
A ciò si aggiunge l'altrettanto spinosa questione se la malattia mentale - o l'alterazione psichica temporanea - sia una condizione dell'individuo dalla quale la società debba difendersi, e soprattutto se debba difendersi in via preventiva, prima cioè che la persona compia un atto idoneo ad aggredire o mettere in pericolo beni tutelati.
L'originario pregiudizio di pericolosità del malato mentale, espresso dalla legge 14 febbraio 1904, n. 36, recante "disposizioni sui manicomi e sugli alienati", la quale prevedeva il ricovero per "custodia e cura" nei manicomi delle persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando fossero "pericolose a sé o agli altri" ovvero "di pubblico scandalo", è stato superato a partire dalla legge 13 maggio 1978, n.180 (più nota come legge Basaglia, medico psichiatra che ne fu promotore, pur se l'estensore della legge fu un altro psichiatra, il deputato Orsini), che ha cercato di far fronte al problema dell'assistenza ai malati di mente superando l'antica prassi del ricovero in strutture segreganti, per cui oggi la misura di sicurezza sociale si applica, non già in base ad un generico giudizio - o pregiudizio - di pericolosità conseguente alla malattia, ma solo se ed in quanto il soggetto abbia commesso un reato (in atto con il ricovero in REMS). La pericolosità sociale si manifesta, pertanto, nel compimento di fatti costituenti oggettivamente reato, valutata prognosticamente in occasione e in vista delle decisioni giudiziarie conseguenti, e richiede ragionevolmente misure atte a contenere tale pericolosità e a tutelare la collettività dalle sue ulteriori possibili manifestazioni pregiudizievoli (Corte Cost. n. 253/2003). Di contro, il malato mentale non è isolato dalla società solo in ragione della sua patologia, e le leggi successive alla abrogazione dei manicomi ne favoriscono non solo la "presa in carico" da parte dei servizi territoriali di salute mentale, ma anche l'inserimento nel mondo del lavoro (per es. l'art. 9 della legge 12 marzo 1999, n. 68).
Nondimeno, la stessa legge Basaglia si è posta il problema del trattamento sanitario obbligatorio del malato di mente, pur non autore di reato, che rifiuti le cure, quando esse sono urgenti ed indifferibili, disegnando un quadro normativo poi confluito nella legge 23 dicembre 1978 n. 833.
L'art. 33 della legge n. 833/1978 dispone che "Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, secondo l'articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico".
Il successivo art. 34 riguarda specificamente il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera per "malattia mentale", il quale dispone che "Il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere. Il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera deve essere preceduto dalla convalida della proposta di cui al terzo comma dell'articolo 33 da parte di un medico della unità sanitaria locale e deve essere motivato in relazione a quanto previsto nel presente comma".
3.4.- Nessun accenno contiene la normativa alla pericolosità sociale (meno che mai al pubblico scandalo), ma solo alla necessità di interventi terapeutici rifiutati dal paziente, sicché questa Corte, in tema, ha affermato la misura è finalizzata alla tutela della salute del paziente medesimo, non deve essere considerata di difesa sociale e può essere disposta anche senza il consenso informato del paziente, ove, a fronte di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, non sia possibile adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere e il paziente rifiuti gli interventi terapeutici proposti (Cass. n.509/2023).
Il trattamento può essere legittimamente disposto solo dopo aver esperito ogni iniziativa concretamente possibile - sia pure compatibilmente con le condizioni cliniche di volta in volta accertate e certificate in cui versa il paziente ed ove queste lo consentano -per ottenere il consenso del paziente ad un trattamento volontario.
Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, in ogni caso, l'infermo ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno.
Si può quindi intervenire con un trattamento sanitario obbligatorio anche a prescindere dal consenso del paziente se sono contemporaneamente presenti tre condizioni: a) l'esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; b) la mancata accettazione da parte dell'infermo degli interventi terapeutici proposti; c) l'esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra-ospedaliere.
Il trattamento sanitario obbligatorio psichiatrico è disposto dal sindaco e richiede una specifica procedura, che viene attivata da parte di un medico (art. 33, comma 3, L. 833/1978), la cui proposta è convalidata da parte di un altro medico, dipendente pubblico, generalmente specialista in psichiatria (art. 34, comma 4); il provvedimento del sindaco con cui viene disposto il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, da emanarsi entro quarantotto ore dalla convalida del secondo medico (art. 35, comma 1), è poi notificato al giudice tutelare (entro quarantotto ore dal ricovero), che provvede (nelle successive quarantotto ore) a convalidare o meno il provvedimento, comunicandolo al sindaco (art. 35, comma 2), termini da rispettarsi a pena della cessazione di ogni effetto della misura. Il ricovero deve essere attuato presso gli ospedali generali, in specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura all'interno delle strutture dipartimentali per la salute mentale e se ne prevede una durata di sette giorni, salvo eventuali proroghe disposte dal sindaco, su proposta del medico e convalidate dal giudice tutelare.
La durata della misura, sebbene sia previsto per legge un tempo standard, è legata alle esigenze di cura, e pur se deve cessare immediatamente - anche prima di sette giorni - al venir meno delle condizioni che la hanno determinato, può proseguire anche per periodi di tempo rilevanti, dal momento che la norma non pone un limite di tempo massimo, disponendo soltanto che ove il ricovero "debba protrarsi oltre il settimo giorno, ed in quelli di ulteriore prolungamento", il sanitario redige una proposta motivata al sindaco, indicando "la ulteriore durata presumibile del trattamento stesso" (art. 35 comma 4).
3.5.- Deve qui, peraltro, evidenziarsi che non si tratta di un ordine della autorità sanitaria rimesso alla spontanea esecuzione dell'interessato, a pena di eventuali sanzioni (come avviene ad es. per le vaccinazioni). Il paziente viene ricoverato coattivamente, id est con l'uso della forza pubblica di cui dispone il sindaco se necessario, e gli viene impedito di uscire dal presidio ospedaliero per tutta la durata del trattamento. Si legge infatti nella circolare 3/2001 del Ministero dell'interno (trattamento sanitario obbligatorio per soggetti con patologia mentale- competenze della polizia municipale) che "i vigili urbani devono accompagnare l'infermo di mente fino al luogo di cura, anche se fuori del comune, poiché intervengono nell'esercizio del potere di polizia amministrativa sanitaria, propria dell'autorità locale, e non in quello dell'attività di P.S.".
L'art. 35 della legge n. 833/1978 prevede che chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, e chiunque vi abbia interesse, può proporre al Tribunale competente per territorio ricorso contro il provvedimento convalidato dal giudice tutelare. La legittimazione non è però estesa a soggetti portatori di interessi diversi ed ulteriori, rispetto a quelli del soggetto direttamente interessato dal trattamento. Questa Corte ha avuto modo di sottolineare , al riguardo, che il termine "chiunque vi abbia interesse" utilizzato nell'art. 35 cit., si riferisce a colui che abbia un concreto e attuale interesse, in ragione di uno stretto e personale rapporto che lo lega direttamente al paziente, tale da far valere l'interesse di quest'ultimo al controllo dell'avvenuta corretta applicazione della misura. (Cass. n. 4000/2024; n.4229/2024). Nel processo davanti al Tribunale le parti possono stare in giudizio senza ministero di difensore e il presidente del Tribunale, acquisito il provvedimento che ha disposto il trattamento sanitario obbligatorio, e sentito il P.M., può sospendere il trattamento medesimo anche prima che sia tenuta l'udienza di comparizione; il Tribunale decide "dopo avere assunto le informazioni e raccolto le prove disposte di ufficio o richieste dalle parti".
3.6.- Nonostante sia previsto un controllo giurisdizionale e il diritto al ricorso avverso il provvedimento, la parte ha evidenziato un vulnus nel diritto ad un ricorso effettivo, invocando gli artt. 6 e 13 CEDU. La legislazione italiana non prevede che il provvedimento del sindaco e l'ordinanza che lo convalida siano notificati alla parte personalmente (e di fatto non lo sono stati), e non prevede come obbligatoria la audizione personale dell'interessato da parte del giudice tutelare prima della convalida della misura, o comunque in un momento successivo, ma anteriore alla scadenza del trattamento. La ricorrente deduce che la mancata comunicazione dei provvedimenti le ha impedito di presentare una tempestiva opposizione e quindi l'ha costretta a subire per un certo periodo di tempo il ricovero, a suo parere ingiustificato, e la privazione della libertà. Lamenta anche che il giudice tutelare abbia eseguito un controllo meramente formale, senza procedere alla sua audizione e quindi senza darle la possibilità di esporre gli argomenti a sua difesa. Ed invero l'art. 35 cit. prevede soltanto che il giudice tutelare, entro le successive 48 ore (dalla notifica del provvedimento sindacale) "assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti provvede con decreto motivato a convalidare o non convalidare il provvedimento e ne dà comunicazione al sindaco".
È rimesso quindi alla discrezionalità del giudice tutelare se procedere o meno alla audizione dell'interessato e se compiere accertamenti, e quali informazioni assumere; in particolare non è previsto alcun controllo specifico sugli adempimenti precedenti e coevi al ricovero, come la ricerca della c.d. alleanza terapeutica, nonostante l'art. 33 della legge n. 833/1978 disponga che i trattamenti sanitari obbligatori "devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato".
Inoltre, come sopra si è detto, manca nella previsione normativa qualsivoglia comunicazione giuridicamente qualificata diretta al paziente, finalizzata ad informare il soggetto interessato, non solo in ordine ai trattamenti sanitari ai quali è necessario che si sottoponga, bensì anche della sua condizione giuridica e della possibilità di opporsi al trattamento.
Il sindaco ed il giudice tutelare comunicano -obbligatoriamente - tra di loro, ma nessuno di due comunica con il paziente, il quale può solo impugnare il provvedimento finale di convalida del Tribunale, emesso dopo che la proposta del sanitario è convalidata da un medico di una struttura pubblica, e poi dal sindaco (artt. 33-35 L. n. 833/1978). Ma è evidentemente una impugnazione "al buio", non essendo il paziente reso partecipe degli atti a monte della convalida giurisdizionale.
3.7.- Non è un deficit cui possa rimediarsi - a parere di questa Corte - con una lettura costituzionalmente orientata delle norme in questione, perché gli adempimenti procedurali, in materia in cui la Costituzione impone la riserva di legge, non possono che essere previsti dalla legge stessa; se non previsti, non può imporli il giudice creando il diritto al posto del legislatore.
Né può dirsi che la ricorrente abbia omesso di prospettare il concreto pregiudizio che le è derivato dalla mancata tempestiva conoscenza dei provvedimenti restrittivi; ella deduce infatti di aver potuto proporre il ricorso soltanto alcune settimane dopo che il trattamento sanitario era stato eseguito (per una durata di nove giorni), e di non aver potuto tempestivamente accedere a tutte le informazioni utili - compresa la documentazione sanitaria e la relazione di servizio dei carabinieri - per opporsi immediatamente e con cognizione di causa, per una piena tutela dei propri diritti. Rileva in particolare la istante che la documentazione sanitaria è stata messa a sua disposizione dopo quaranta giorni dal ricovero, e di non avere potuto comunicare con il giudice tutelare prima della convalida.
Sono mancati quindi nel giudizio di opposizione elementi non più recuperabili, quali ad esempio una audizione da parte del giudice tutelare nella immediatezza dei fatti, la possibilità di contestare nella immediatezza il giudizio medico e di chiederne la verifica mentre la paziente era ancora sottoposta al ricovero, nonché le informazioni che, sempre nella immediatezza dei fatti, avrebbero potuto essere assunte su sollecitazione della parte. Si deve considerare, infatti, che il trattamento sanitario obbligatorio non è disposto solo perché il soggetto ha una patologia psichica; se così fosse dovrebbe durare tanto quanto la malattia, tornandosi all'internamento in manicomio. Il ricovero è disposto perché il soggetto è in stato di "alterazione psichica", che richiede "interventi urgenti", e in una temporanea condizione - attestata da sanitari e convalidata dall'autorità amministrativa e giurisdizionale - di non poter provvedere ai propri interessi in materia di salute (rifiuto delle cure). Ne consegue che gli accertamenti fatti sulla persona dopo le dimissioni - dopo cioè la cessazione della ragione del ricovero- rischiano di essere poco utili a ricostruire la situazione nella sua effettiva consistenza e gravità al momento del ricovero stesso.
Attualmente la ricorrente insiste nell'annullamento del provvedimento, in quanto "ha interesse a non essere etichettata come una insana di mente (per avere subìto il trattamento in questione)"; non ha specificato in questa sede se intende invocare, a seguito dell'auspicato annullamento, altre misure rimediali, ma non sfugge ad alcuno che la privazione della libertà personale senza valido titolo è fatto astrattamente idoneo a fondare responsabilità risarcitoria, così come è evidente che il rimedio ex post non è paragonabile all'annullamento o revoca della misura prima che essa sia eseguita o comunque prima che sia scaduto il termine previsto dall'autorità sanitaria.
3.8.- La Corte d'Appello ha invero verificato se la procedura è stata rispettata e, in conformità con il quadro normativo quale oggi disegnato dai citati artt. 33,34,35, ha accertato che la proposta era redatta da un medico e convalidata da un altro medico, che il trattamento è stato disposto dal sindaco, che il controllo giurisdizionale è stato eseguito nei tempi previsti e che la parte ha avuto la possibilità di opporsi a misura eseguita, così come di fatto si è opposta. I vizi denunciati, quali la mancata notifica degli atti, la mancata informazione sui tempi del trattamento, la mancata audizione da parte del giudice tutelare, la mancata allegazione e acquisizione di una relazione medica psichiatrica, la mancata acquisizione della informativa dei carabinieri, nonché il preteso confitto di interessi con il sindaco, riguardano passaggi che la attuale normativa non impone.
Tuttavia, questa Corte non dubita che il difetto di notifica costituisca un deficit costituzionalmente rilevante, con conseguente violazione del diritto al contraddittorio, alla informazione e alla difesa, viziante la regolarità della procedura.
Si è detto al par. 3.7 che la ricorrente ha evidenziato il pregiudizio che le è derivato dalla mancata tempestiva notificazione dei provvedimenti, ma in verità se la violazione di legge comporta lesione dei diritti essenziali al contraddittorio ed alla difesa, la parte non ha alcun onere di allegare o di dimostrare che la violazione della norma le abbia provocato un pregiudizio specifico ulteriore rispetto a quello relativo al compiuto esercizio di quegli stessi diritti (in arg. Cass. sez. un. n. 36596/2021; 2258/2022).
3.9- Il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza è una misura di carattere eccezionale che può ritenersi legittima solo se adottato con le garanzie previste dalla legge: per questa ragione è importante capire se la legge prevede tutte le garanzie che, nel nostro quadro costituzionale, dovrebbero esserci ed essere applicate.
Si profila dunque tra il caso concreto e la questione di costituzionalità un rapporto di reciproca strumentalità, nel senso che il caso concreto è strumentale alla questione di costituzionalità, ma anche quest'ultima è strumentale al caso concreto.
4.- La non manifesta infondatezza della questione.
La normativa in esame impone un controllo giurisdizionale sulla ordinanza sindacale e termini da rispettare a pena di perdita di efficacia della misura, termini che, nella loro rigorosa scansione richiamano direttamente quelli previsti dall'art. 13 Cost.
La ragione di questo rigore in ordine al rispetto dei termini è palese, ove si consideri che il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera è una misura che incide sulla libertà personale, anche in senso materiale e non solo quanto al diritto di autodeterminarsi sulle scelte sanitarie; comporta infatti una privazione della libertà personale e di movimento poiché -come sopra si è detto- il paziente viene ricoverato coattivamente in un reparto ospedaliero e ivi trattenuto.
4.1.- Da tempo la dottrina distingue tra i trattamenti sanitari obbligatori e i trattamenti sanitari coercitivi, e ritiene, almeno una parte di essa, che per i trattamenti sanitari coercitivi debbano applicarsi non solo le garanzie di cui all'art. 32 ma anche quelle dell'art 13 della Costituzione.
La Corte Costituzionale, di recente, nel rimarcare la differenza tra i trattamenti sanitari obbligatori e i trattamenti sanitari coercitivi, ha osservato che allorché un dato trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come "obbligatorio" - con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso - ma anche come "coattivo" - potendo il suo destinatario essere costretto con la forza a sottoporvisi, sia pure entro il limite segnato dal rispetto della persona umana - le garanzie dell'art. 32, secondo comma, Cost. debbono sommarsi a quelle dell'art. 13 Cost., che tutela in via generale la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione che abbia ad oggetto il corpo della persona (Corte Cost. n. 22/2022). In altra occasione la Consulta, decidendo sulla conformità a Costituzione dell'obbligo vaccinale contro COVID -19, nel rimarcare che l'art. 32 Cost. si muove tra le due dimensioni del fondamentale diritto dell'individuo e dell'interesse della collettività, imponendo espressamente il loro contemperamento, ha comunque osservato che l'obbligatorietà del vaccino lascia(va) al singolo la possibilità di scegliere se adempiere o sottrarsi all'obbligo, assumendosi responsabilmente, in questo secondo caso, le conseguenze previste dalla legge (Corte Cost. 14/2023). Ma, nel caso del trattamento sanitario coercitivo, quale è appunto quello di cui si tratta, simile scelta non è rimessa all'individuo ed è proprio in questa caratteristica di assoluta compressione della libertà che si individua la necessità di riconoscere, per intero, le garanzie costituzionali.
Pertanto, si devono rispettare le condizioni date dall'art. 32 della Costituzione, che impone la riserva di legge, ma anche quelle date dall'art. 13 Cost., e in particolare che la restrizione della libertà personale se adottata dall'autorità di pubblica sicurezza in casi di eccezionale necessità ed urgenza, venga convalidata nel termine complessivo di 96 ore (48 per la trasmissione e 48 per l'emissione del provvedimento) dalla autorità giudiziaria.
4.2.- Fin qui il quadro normativo di cui si discute è compatibile con le disposizioni costituzionali, ma deve osservarsi che l'art. 13, inevitabilmente, si pone in connessione con altre norme di garanzia, e cioè con l'art. 24 Cost., che riconosce a tutti il diritto di poter agire in difesa dei propri diritti ed interessi affermando che "la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento" e con l'art. 111 Cost. che considera giusto processo solo quello che si svolge nel contraddittorio. Ed è appunto su questo necessario collegamento che il quadro normativo in materia di trattamenti sanitari obbligatori mostra le sue carenze.
Se muoviamo dal presupposto che il TSO non è una misura di difesa sociale ma a tutela della salute dell'interessato, e che si tratta di un caso limite in cui non opera il diritto costituzionalmente protetto di rifiutare i trattamenti sanitari, pur non ricorrendo una contrapposta esigenza di tutela della salute della collettività, si deve allora concludere che ci troviamo di fronte ad un caso di (temporanea) limitazione della capacità di autodeterminarsi in tema di scelte sanitarie, in ragione di patologia - o meglio alterazione- psichica. In sostanza, un caso di limitazione parziale e temporanea della capacità di agire, cui si accompagna la coazione fisica e che pertanto richiede un giudizio, assistito dalle relative garanzie e non soltanto una valutazione medica sottoposta ad un controllo giurisdizionale esterno.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 18 del 1992, ha sottolineato come il diritto alla tutela giurisdizionale vada considerato tra "i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intrinsecamente connesso - con lo stesso principio democratico - l'assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio".
Ciò a maggior ragione vale per quei casi in cui sono in gioco diritti fondamentali, quali il diritto di rifiutare le cure e la libertà personale, diritti che possono subire limitazioni, nel necessario bilanciamento tra interessi diversi, ma in nessun caso si possono violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, come recita lo stesso art 32 Cost., ed in conformità a quanto dispone l'art. 13 Cost. che vieta "ogni forma di violenza fisica e morale" sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale.
La clausola del rispetto della persona umana richiama e riassume i diritti di libertà riconosciuti al singolo dalla Costituzione ed è tesa a impedire che la legge possa violare tali diritti nell'imposizione di trattamenti sanitari; non dovrebbe quindi essere intesa solo con riferimento a quegli elementi che compongono la relazione tra paziente e medico, e alle modalità di attuazione del trattamento sanitario, quanto più in generale con riferimento a tutti i diritti esplicitamente riconosciuti nella Carta costituzionale, nonché al fondamento stesso dei diritti umani, la bilancia sulla quale si dispongono i beni della vita: la dignità umana. Dignità che, per un verso, precede e giustifica l'autonomia del soggetto, dall'altro però non si confonde con essa, poiché se il punto di vista soggettivo riveste un cruciale rilievo nelle vicende di vita individuali, non può ambire alla propria "tirannica" affermazione, sì da potersi persino rivoltare contro se stessa. Il che spiega perché, in casi limite, possano essere adottate misure contro la volontà del soggetto, anche quando le finalità di protezione sociale sono assenti, ma deve nondimeno proteggersi il bene salute in quanto espressione anch'esso della dignità dell'essere umano. Dignità significa, tuttavia, anche il diritto di potersi difendere quando sono adottate, o meglio si discute se debbano essere adottate, misure che comprimono la libertà personale.
4.3.- Non a caso nel 1968 la Consulta, nel giudizio di legittimità costituzionale sulla legge n. 36/1904, già sopra citata, ha dichiarato, con sentenza n. 74 del 20 giugno 1968, l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, secondo comma, della predetta legge, limitatamente alla parte in cui non permetteva la difesa dell'infermo nel procedimento che si svolge innanzi al Tribunale ai fini della emanazione del decreto di ricovero definitivo. In quella occasione si è osservato che "non v'è dubbio che il provvedimento di ricovero coattivo di un soggetto sospettato di malattie mentali si inquadra tra quelli restrittivi della libertà personale"; e che il procedimento è uno di quelli che, per quanto si svolga in camera di consiglio, si chiude con una pronuncia giudiziaria di contenuto decisorio" e che "non è ammissibile che il ricovero definitivo sia ordinato sul fondamento di istruttorie che all'infermo non è consentito di seguire o di contestare".
4.4.- L'internamento in manicomio, che costituiva, ancora prima che una misura di tutela della salute, una misura di sicurezza, riservata a coloro che fossero pericolosi a sé o ad altri, nonché di pubblico scandalo, è stato abolito -come sopra si è detto- dalla legge Basaglia, che ha abrogato contestualmente le corrispondenti norme del codice civile e del codice penale sulla tutela e custodia degli "alienati".
Sia pure con certo ritardo, questa legge ha attuato l'art. 32 Cost. nella parte in cui impone "il rispetto della persona umana", per tutti, anche per i malati di mente. Il sistema normativo disegnato dalla legge Basaglia e dalla legge n. 833/1978 si occupa invero della dignità e del rispetto del paziente, ma prevalentemente sotto il profilo medico (non a caso è scritta da uno psichiatra), stabilendo che il trattamento sanitario obbligatorio sia una extrema ratio, da applicare quando non è possibile l'alleanza terapeutica; e se prevede la garanzia del controllo giurisdizionale, non si occupa però di quell'aspetto della dignità umana che si sostanzia nel diritto a essere informati e a contraddire nel procedimento che conduce ad una decisione restrittiva al tempo stesso della libertà personale e del diritto di autodeterminarsi, e nel diritto di difendersi tempestivamente, prima cioè che venga adottato il provvedimento di convalida e comunque nella sua immediatezza, prima della scadenza del termine del trattamento. È vero che la persona può chiedere al sindaco la revoca del provvedimento e che lo stesso paziente o anche altro soggetto a lui vicino può presentare ricorso: ma di fatto l'assenza del diritto ad essere tempestivamente informati della decisione, delle ragioni su cui si fonda e della procedura attraverso la quale si perviene alla convalida giurisdizionale, nonché sulle modalità della opposizione, costituiscono un ostacolo rilevante all'esercizio del diritto ad un ricorso effettivo, alla difesa, ed in ultima analisi ad un giusto processo.
4.5.- La privazione della libertà personale, nel nostro ordinamento, è ammessa soltanto ove una specifica norma di legge preveda che, a determinate condizioni, un altro interesse giuridicamente rilevante possa essere considerato prevalente; la particolarità del trattamento sanitario obbligatorio rispetto ad altre più note misure di privazione della libertà personale (ad es. la custodia cautelare) è data dal fatto che in questo caso l'interesse alla libertà individuale è posto in bilanciamento non con un interesse della collettività, ma con un interesse dello stesso soggetto che subisce la privazione della libertà, il quale, a causa della sua alterazione mentale, viene considerato temporaneamente inadeguato a proteggere la sua stessa salute.
In termini, la giurisprudenza di questa Corte, sopra citata la quale ha rimarcato che il TSO costituisce un evento straordinario -finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente, che non deve essere considerate una misura di difesa sociale, (Cass. n. 509/2023) ed in ciò si apprezza la differenza tra la legge Basaglia e la abrogata legge sui manicomi, in quanto il soggetto non viene sottoposto a restrizione perché "pericoloso" o di "pubblico scandalo", ma solo per curarlo, e fermo restando che ove il malato psichiatrico commetta un reato possono essergli applicate le misure di sicurezza previste dalla legge. La finalità di tutela della salute è così nettamente separata dalla finalità di tutela della sicurezza sociale, ma nondimeno lo strumento base per perseguire il fine resta lo stesso: la compressione della libertà, cui poi si aggiungono i trattamenti terapeutici.
4.6.- Non è l'unico caso, nel nostro ordinamento, di una misura restrittiva della libertà personale non connessa ad un procedimento penale.
Si pensi ad esempio all'accompagnamento alla frontiera e al trattenimento nei centri di permanenza degli stranieri espulsi (artt. 13/14 del D.Lgs. 286/1998). La Corte Costituzionale ha rimarcato, in più occasioni, che si determina nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, "quella mortificazione della dignità dell'uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all'altrui potere e che è indice sicuro dell'attinenza della misura alla sfera della libertà personale" (Corte Cost. n. 105/2001; Corte Cost. n. 127/2022 e n. 12/2023). Di conseguenza, qualora ricorra questa forma di assoggettamento, devono realizzarsi i principi della tutela giurisdizionale; non può, quindi, essere eliminato l'effettivo controllo sul provvedimento, né può essere privato l'interessato di ogni garanzia difensiva; e segnatamente non può essere privato del diritto di essere ascoltato da un giudice con l'assistenza di un difensore (Corte Cost. n. 222/2004).
Ad oggi, infatti, lo straniero destinatario di un provvedimento di accompagnamento alla frontiera o di trattenimento in un centro di permanenza ha gli stessi diritti del soggetto arrestato in flagranza di reato; non solo il controllo giurisdizionale nel rispetto dei termini di cui all'art. 13 Cost., ma anche il diritto al contraddittorio e alla difesa. Diritti che però non sono interamente assicurati anche al soggetto in ricovero coattivo, e ciò appare irragionevole oltre che lesivo del principio di uguaglianza, nonostante anche in questo caso ricorra quell'assoggettamento fisico all'altrui potere e che è indice sicuro dell'attinenza della misura alla sfera della libertà personale, che intacca il nucleo irriducibile dell'habeas corpus.
Potrebbe obiettarsi che il diritto di difesa è garantito non solo dalla tempestiva convalida giurisdizionale, ma anche dal diritto del ricoverato di comunicare con chiunque ritenga opportuno e dalla attribuzione della facoltà di opposizione non soltanto al paziente, ma altresì a chiunque vi abbia interesse, attribuendo così il diritto alla difesa della libertà personale e della facoltà di scegliere i trattamenti sanitari cui sottoporsi non soltanto alla persona interessata, ma anche ad altri soggetti, idonei a rappresentarne le esigenze di tutela, e segnatamente ai familiari. La procedura è peraltro ispirata a criteri di semplificazione e di rapidità, consentendo la difesa personale e l'intervento anticipato del presidente del Tribunale.
Tuttavia, è da chiedersi come una persona che si trovi da un lato in stato di alterazione psichica, dall'altro in stato di soggezione fisica all'altrui potere, possa reagire ad una misura privativa della libertà personale adottata nei suoi confronti, prima della fine del trattamento, se nessun altro soggetto avente interesse si avvale della facoltà di cui all'art. 35 cit. e soprattutto come possa tempestivamente opporsi se non viene informata del suo status giuridico e delle ragioni per le quali, ex abrupto, le si parano dinnanzi i vigili urbani per prenderla e portarla in ospedale, in esecuzione di una ordinanza sindacale di cui la persona, o eventualmente il suo legale rappresentante, non ha contezza. E come possa reagire, prima di avere recuperato la sua libertà e la collocazione nella società, se della esistenza di un giudice che convalida il provvedimento sindacale non ha notizia, posto che neppure l'ordinanza del giudice tutelare le viene notificata.
Inoltre, lo stesso modello procedurale semplificato appare non del tutto rispondente alle caratteristiche che deve avere un giudizio ove si discute di diritti fondamentali e della loro compressione; deve ricordarsi che, con riferimento ad un altro modello processuale semplificato rivolto a tutelare la persona fragile, qual è il procedimento di nomina dell'amministratore di sostegno, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha precisato che ogni qualvolta il decreto che il giudice ritenga di emettere incida sui diritti fondamentali della persona, attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l'interdetto o l'inabilitato, incontra il limite del rispetto dei principi costituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio (Cass. n. 25366/2006 e n. 6861/2013).
4.7.- La procedura in tema di TSO disegnata dalla legge n. 833/1978 è da molti anni oggetto di critica da parte del comitato per la prevenzione della tortura (in acronimo CPT) operante in seno al Consiglio di Europa, il quale anche nell'ultimo Report periodico presentato (2023) ha rilevato come la procedura per l'imposizione di un TSO continua a seguire un formato standardizzato e ripetitivo; il giudice tutelare non incontra mai i pazienti di persona e i pazienti restano disinformati sul loro status legale. Il CPT ha quindi osservato che si pone un problema di compatibilità di questa procedura con l'art. 13 della Costituzione italiana e che un disegno di legge era stato presentato nel 2017 al Parlamento italiano in vista, tra l'altro, del rafforzamento delle tutele giuridiche dei pazienti ospedalizzati coercitivamente, prevedendosi la nomina di un curatore nonché l'obbligo di informare i pazienti. Nessuna modifica al sistema è tuttavia ancora stata apportata, sicché il CPT ha raccomandato allo Stato italiano di agire anche a livello legislativo affinché, nell'ambito di una prima procedura di TSO, e in relazione all'eventuale proroga del provvedimento, i pazienti siano tempestivamente informati del loro status giuridico, dei diritti fondamentali e della possibilità di reclamo secondo quanto previsto dalla legge n. 833 del 1978; e affinché i pazienti vengano, di norma, ascoltati personalmente dal giudice tutelare competente, preferibilmente nei locali ospedalieri.
Anche la Corte Europea dei diritti dell'Uomo ha sottolineato l'importanza della audizione diretta, da parte del giudice tutelare, del soggetto sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio (Corte EDU 8/10/ 2013 pronunciata sul ricorso n. 25367/11). Nel caso deciso in data 8 ottobre 2013, il ricorso è stato dichiarato irricevibile per difetto di esaurimento dei rimedi interni, tuttavia la Corte ha fatto talune affermazioni significative osservando che adempimenti come l'audizione personale, dovrebbero essere assolti da ogni giudice tutelare "per poter valutare realmente e correttamente la situazione prima di decidere". La Corte EDU inoltre, quanto al motivo di ricorso relativo alla mancata comunicazione alla ricorrente di copia delle decisioni con le quali è disposto il trattamento osserva come " detta situazione possa, in linea di principio, ridurre le garanzie procedurali spettanti ai soggetti sottoposti al TSO" pur concludendo che nel caso di specie i diritti della ricorrente non erano stati pregiudicati poiché ella aveva potuto presentare il ricorso. Si deve però qui osservare che, in questa procedura, come in tutte le procedure di urgenza e in particolare quelle che riguardano diritti fondamentali, rileva non solo la possibilità di presentare ricorso, ma anche i tempi: diritti quali la libertà e la salute possono essere irrimediabilmente pregiudicati dall'impedimento alla presentazione di un tempestivo ricorso e non adeguatamente compensati da un risarcimento monetario, o, come desidera la ricorrente, dalla rimozione della "etichetta" di inferma mentale.
4.8.- Si potrebbe obiettare, come in sostanza obietta l'avvocatura, che è una privazione di libertà a fin di bene e non con scopo punitivo, decisa in base ad un giudizio tecnico (medico) sul quale il controllo giurisdizionale non può che essere esterno; e si potrebbe obiettare altresì che qui si ha a che fare con una persona non del tutto compos sui cioè in condizione di sufficiente discernimento sulle cure confacenti al proprio stesso interesse che, infatti, rifiuta.
È questo però un ultimo residuo di quella logica manicomiale che la legge Basaglia ha avversato, e di quella convinzione, contrastata dal diritto vivente, che la persona affetta da patologia psichiatrica, disabilità, immaturità, non debba partecipare, nella misura in cui le circostanze glielo consentono, alle decisioni che la riguardano.
Non si intende qui mettere in discussione che in taluni casi può essere necessario imporre il trattamento sanitario in condizioni di degenza ospedaliera, ma il fatto che ciò avvenga senza rispettare il diritto della persona, anche se minus habens, di essere informata e di esprime la propria opinione, pur se quest'ultima debba poi essere motivatamente disattesa dalla autorità giudiziaria, avuto riguardo al suo miglior interesse: principio che ormai è immanente nel nostro sistema, e che si è progressivamente affermato sia per i minori di età che per gli adulti che necessitano di un misura di protezione civile, anche eventualmente limitativa della capacità (Cass. n. 34560/2023; Cass., n. 6129/2015; Cass. n. 7414/2024; Cass. n. 32219/2023).
È questo un profilo di dignità della persona che attiene alla titolarità del diritto a partecipare, debitamente informato, ai processi in cui si discute del suo interesse e il diritto ad un ricorso effettivo avverso le decisioni della autorità, diritto che ogni qualvolta la persona sconti una posizione di debolezza o di asimmetria, deve essere assicurato anche tramite una adeguata informativa.
4.9.- Del resto, la stessa legge Basaglia disegna una forma di partecipazione dell'interessato alle decisioni che lo riguardano, ma esclusivamente sul piano medico, muovendo dal presupposto che ove non sia possibile l'alleanza terapeutica il trattamento si impone per decisione della autorità sanitaria, a sua volta soggetta al controllo dell'autorità giurisdizionale. Questo momento partecipativo riconosciuto nella fase pre-ricovero, viene però escluso nella fase autoritativa amministrativa e di controllo giurisdizionale, come se non fosse altrettanto importante dare spazio alle opinioni e difese dell'interessato anche in tale sede e prima che il trattamento sia imposto ed eseguito. Appare quindi irragionevole che il diritto all'ascolto venga assicurato nella fase medica e non anche nella fase giurisdizionale, dove, in verità dovrebbe concretarsi in un ben più incisivo diritto al contraddittorio e alla difesa.
L'esigenza di tutelare la salute, anche in via d'urgenza, se tutto ciò deve avvenire nel rispetto della dignità della persona e senza violenze materiali e morali, non dovrebbe essere di ostacolo al contraddittorio e al diritto dell'interessato di partecipare, nella misura in cui glielo consentono le sue condizioni, alle decisioni sul suo percorso di salute.
4.10.- Ci si deve chiedere, del resto, se effettivamente meriti la qualifica di controllo giurisdizionale quello che non avviene nel contraddittorio delle parti e che si limita ad un controllo formale sulla procedura e sul rispetto dei termini, senza ascoltare le ragioni di chi a quell'intervento terapeutico si è opposto e ciononostante subisce una limitazione della sua libertà materiale e della autodeterminazione; e se meriti la qualifica di controllo giurisdizionale quello che non verifica se la persona interessata, che due medici attestano essere in stato di alterazione psichica, è o meno in uno stato di capacità di intendere e di volere, così da poter organizzare una lucida difesa dei propri interessi, ovvero necessiti della nomina di un legale rappresentante eventualmente anche ad hoc e a tempo determinato. È appena il caso di rilevare che un eventuale stato di incapacità della persona non potrebbe mai incidere sulla titolarità dei diritti, eliminandoli o ponendoli in stato di temporanea quiescenza, ma solo sulle modalità del loro esercizio.
5.- Il diritto ad un ricorso effettivo.
L'art. 111 Cost. dispone che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge e precisa che "ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo e imparziale". Gli artt. 6 e 13 CEDU dispongono rispettivamente che "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un Tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge" e che "ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali".
5.1.- Da questo complesso di norme si ricavano alcuni connotati fondamentali della funzione giurisdizionale: imparzialità del giudice, contraddittorio, tempestività, effettività. Questi principi si compenetrano e si completano a vicenda e segnatamente, quanto al diritto ad ricorso effettivo, con esso deve intendersi il diritto di richiedere la tutela di un giudice a fronte di qualsiasi atto lesivo dei diritti e delle libertà riconosciuti dall'ordinamento, e che il rimedio giurisdizionale sia effettivo, vuoi nel senso che deve essere giuridicamente idoneo a consentire la riparazione, ma anche nel senso che deve trattarsi di un rimedio praticabile, vale a dire soggetto a condizioni che non rendano il suo esercizio impossibile o assai difficile. Per la Corte europea il diritto a una tutela effettiva implica la necessità che gli strumenti di garanzia non risultino eccessivamente ostacolati - od ostacolabili - dalle azioni o dalle omissioni dei pubblici poteri (Corte EDU 23/02/2017, ricorso n. 43395/09).
In termini, la nostra Corte costituzionale, la quale afferma che il diritto alla tutela giurisdizionale "è tra quelli inviolabili dell'uomo, che la Costituzione garantisce all'art. 2, come si arguisce anche dalla considerazione che se ne è fatta nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo" cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l'assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio (Corte Cost. sentenze n. 18/1982 nonché n. 82/ 1996). D'altra parte, in una prospettiva di effettività della tutela dei diritti inviolabili, la Consulta ha anche osservato che "al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi ad un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale": pertanto, "l'azione in giudizio per la difesa dei propri diritti... è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili e caratterizzanti lo stato democratico di diritto" (Corte Cost. n. 26/ 1999, nonché n. 120/ 2014, n. 386/2004 e n. 29/ 2003). Si è altresì affermato che il precetto costituzionale "non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti... purché non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell'attività processuale" (Corte Cost. n. 63/ 1977; analogamente, Corte Cost. n. 427/ 1999 e n. 99/ 2000).
Nel caso che ci riguarda non è la imposizione di un onere che rende difficile il tempestivo accesso alla giustizia, quanto la mancata previsione di un adempimento che ne costituisce il presupposto e cioè la notifica dei provvedimenti avverso i quali il soggetto dovrebbe ricorrere.
È impensabile che si possa proporre ricorso avverso un provvedimento della cui esistenza non si ha contezza- potendo al più la persona solo supporre che un provvedimento debba esserci-e di cui non si conoscono i contenuti, nonostante la legge preveda che tanto la proposta medica che l'ordinanza sindacale che il provvedimento di convalida siano motivati. Motivare significa rendere conto delle ragioni per le quali si è pervenuti ad un certo tipo di decisione, e il primo destinatario della motivazione è la persona i cui diritti sono incisi dal provvedimento, e che ha il diritto di richiedere un ulteriore controllo sulla decisione. Ma se la motivazione non viene portata a conoscenza del soggetto interessato, quest'ultimo non potrà in alcun modo verificare se le ragioni esposte sono giuste o se sono confutabili, e quindi, in sostanza, sconterà un ostacolo insormontabile nell'accesso, in tempo utile, alla giustizia.
5.2.- Per queste ragioni, si ritiene che l'attuale sistema normativo in materia di trattamenti sanitari obbligatori in condizione di degenza ospedaliera, disegnato dagli artt. 33,34 e 35 della legge n. 833/1978 non sia conforme agli artt. 2, 3,13,24, 32 e 111 della Costituzione, nonché all'art. 117 della Costituzione in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, per la mancata previsione, cui non può rimediarsi attraverso la via dell'interpretazione affidata al giudice, della notificazione dei provvedimenti, nonché di passaggi procedimentali a garanzia del diritto al contraddittorio, alla difesa e ad un ricorso tempestivo ed effettivo avverso decisioni che limitano il diritto di autodeterminarsi in materia di trattamenti sanitari e la libertà personale, compresa l'audizione del soggetto interessato.
Il giudizio deve essere pertanto sospeso e gli atti rinviati alla Corte costituzionale affinché verifichi la fondatezza dei dubbi di costituzionalità in questa sede esposti.
P.Q.M.
visti gli artt. 134 Cost. e 23 legge n. 87/53;
- ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, propone la questione di legittimità costituzionale degli artt. 33, 34 e 35 della legge 23 dicembre 1978 n. 833 con riferimento agli artt. 2, 3,13,24, 32 e 111 della Costituzione, nonché all'art. 117 della Costituzione in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU: -nella parte in cui non prevedono che il provvedimento motivato con il quale il sindaco dispone il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera sia tempestivamente notificato all'interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l'avviso che il provvedimento sarà sottoposto a convalida del giudice tutelare entro le 48 ore successive e con l'avviso che l'interessato ha diritto di comunicare con chiunque ritenga opportuno e di chiedere la revoca del suddetto provvedimento, nonché di essere sentito personalmente dal giudice tutelare prima della convalida;
-nonché nella parte in cui non prevedono che la ordinanza motivata di convalida del giudice tutelare sia tempestivamente notificata all'interessato, o al suo eventuale legale rappresentante, con l'avviso che può presentare ricorso ai sensi dell' art. 35 della legge 833/1978;
-dispone la sospensione del presente giudizio;
- ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti del giudizio di cassazione, al pubblico ministero presso questa Corte ed al Presidente del Consiglio dei ministri; ordina, altresì, che l'ordinanza venga comunicata dal cancelliere ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;
-dispone l'immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/2003.
Così deciso in Roma, camera di consiglio del 14 giugno 2024.
Depositata in Cancelleria il 9 settembre 2024.