Da quando inizia a decorrere la prescrizione dell’azione disciplinare nei confronti dell’avvocato?
Sul tema sono tornate le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 27284 del 22 ottobre 2024.
La Suprema Corte ha ricordato che in tema di illecito deontologico dell'avvocato per fatti contestati anche in sede penale, il procedimento disciplinare deve fondarsi su autonome valutazioni rispetto al processo penale ex art. 54 della L. n. 247 del 2012.
Ciò anche con riguardo alla decorrenza del termine di prescrizione dell'azione, con conseguente necessità, per l'organo disciplinare, di accertare la data di commissione del fatto. In caso di illecito permanente, la data di commissione del fatto si identifica con quella di cessazione della permanenza.
La prescrizione dell'azione disciplinare può essere rilevata d'ufficio in ogni stato e grado del processo, a condizione che non siano necessari accertamenti di fatto che sarebbero preclusi in sede di legittimità. Questo significa che l'eccezione di prescrizione può essere sollevata anche per la prima volta davanti alla Cassazione, in particolare quando si ritiene che la prescrizione sia maturata dopo l'inizio del giudizio di merito.
Nel caso di specie, un avvocato è stata sottoposta a procedimento disciplinare per diversi capi di incolpazione, tra cui la violazione dei doveri di probabilità, dignità, decoro e per aver utilizzato un documento falso.
La Corte di Cassazione ha stabilito che, mentre alcuni illeciti potevano essere considerati prescritti, altri, come l'utilizzo ripetuto di un documento falso, configurano una natura permanente dell'illecito. Questo tipo di condotta si protrae nel tempo e si manifesta anche attraverso azioni successive, come l'attuazione di un accordo fondato su documenti falsi. Pertanto, il dies a quo del termine di prescrizione non è necessariamente la data del primo utilizzo del documento, ma può coincidere con la cessazione della permanenza dell'illecito, ad esempio alla conclusione del processo d'appello.
La Corte di Cassazione ha quindi accolto in parte il ricorso, dichiarando prescritte alcune delle violazioni contestate e rinviando al giudice precedente per la rideterminazione della sanzione disciplinare in relazione alle altre condotte che non erano prescritte.
In tema di illecito deontologico dell'avvocato per fatti contestati anche in sede penale, il procedimento disciplinare deve fondarsi su autonome valutazioni rispetto al processo penale (ex art. 54 della L. n. 247 del 2012), anche con riguardo alla decorrenza del termine di prescrizione dell'azione, con conseguente necessità, per l'organo disciplinare, di accertare la data di commissione del fatto, la quale, in caso di illecito permanente, si identifica con quella di cessazione della permanenza.
Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 22/10/2024, (ud. 17/09/2024) n. 27284
FATTI DI CAUSA
1. L'avvocato Pa.So. è stata sottoposta a procedimento disciplinare per rispondere dei fatti, rilevanti sul piano deontologico, di cui ai seguenti capi di incolpazione, approvati dal Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense competente, su proposta di citazione a giudizio del Consigliere Istruttore (così come riprodotti nella sentenza impugnata)
"1. Per aver l'Avv.... contravvenuto ai doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza, previsti dall'art. 9 NCDF, non avendo dato seguito alla richiesta formulata dall'Avv.... di ricevere l'atto di citazione corredato della relata di notifica e, per lo stesso motivo, aver contravvenuto al dovere di conformarsi ad un comportamento ispirato a correttezza e lealtà nei confronti della collega, previsto dall'art. 19 e dall'art. 46 NCDF, in violazione dell'obbligo di collaborare con i difensori delle altre parti, anche scambiando informazioni, atti e documenti.
Fatti commessi fino alla data odierna.
2.Per aver l'Avv.... gravemente contravvenuto all' art.9 NCDF (nella parte in cui impone all'avvocato l'obbligo di esercitare l'attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza) e all'art. 50 NCDF ("l'avvocato non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi..."), per avere
a) introdotto e coltivato un giudizio in primo grado, nella fase esecutiva e in appello, utilizzando un documento falso, avvalendosene per ottenere una sentenza di accoglimento della domanda, in contumacia del convenuto, fatto commesso fino alla data del 29.11.2016 (estinzione del processo d'appello);
b) posto in esecuzione la sentenza di primo grado, ottenuta in modo fraudolento, con notifica di allegata nota spese, ottenendo fraudolentemente il pagamento dell'indennizzo e delle spese legali liquidate, da parte della compagnia assicuratrice del Comune di A.L.;
c) applicato nella nota spesa allegata alla sentenza notificata, voci di compenso non dovute.
Fatti commessi fino alla data del 29.11.2016;
3.Per aver l'Avv.... contravvenuto all'art. 71 NCDF ("l'avvocato deve collaborare con le istituzioni forensi per l'attuazione delle loro finalità, osservando scrupolosamente il dovere di verità..."), avendo consapevolmente attestato falsamente l'avvenuta notifica dell'atto di citazione mediante produzione di documento fraudolentemente predisposto, con l'intento di indurre in errore anche l'organo disciplinare. In... fino alla data odierna".
2. L'incolpazione ha trovato origine nell' esposto depositato al Consiglio dell'ordine degli Avvocati competente dall' Avv. L. L., cui è seguita l'istruttoria disciplinare, all'esito della quale è emerso, sinteticamente, che
- il Comune, con sentenza resa dal Tribunale competente, era stato condannato, a titolo di risarcimento danni ex art. 2051 c.c., al pagamento di una somma di denaro, oltre alle spese di lite, in favore del danneggiato, rappresentato e difeso dall'Avv. Pa.So.;
- la sentenza de qua era stata notificata in forma esecutiva all'ente territoriale condannato, ma all'ufficio contenzioso comunale non risultava pendente il relativo giudizio, né risultava pervenuto al protocollo informatico del medesimo Comune il relativo atto di citazione;
- sollecitata più volte, nell'interesse del Comune, dall'esponente Avv. L.L., l'Avv. Pa.So. aveva dichiarato che l'atto di citazione era stato regolarmente notificato a mani, dall'Ufficiale giudiziario, ad un incaricato dell'ufficio comunale, limitandosi tuttavia ad inviare alla collega solo la prima pagina della citazione, senza la relata di notifica;
-il relativo fascicolo di ufficio presso il Tribunale conteneva solo una copia dell'atto di citazione, sprovvista della relata di notifica, mentre il fascicolo di parte attrice era stato ritirato dall'Avv. Pa.So.;
-presso l'ufficio notifiche del Tribunale nessuna citazione risultava passata per la notifica per conto del danneggiato rappresentato dall' Avv. Pa.So.;
-su invito del Consigliere Istruttore, l'Avv. Pa.So. aveva fatto infine pervenire a quest'ultimo l'atto di citazione de quo, completo della relata di notifica, apparentemente attestante l'avvenuta consegna a mani del medesimo soggetto, impiegato comunale addetto al ritiro degli atti, già indicato all'Avv. L.L. Tuttavia, un'ulteriore verifica presso l'UNEP competente aveva attestato che il numero di cronologico riportato sulla relata di notifica individuava una diversa citazione, sempre a firma dell'Avv. Pa.So. ed indirizzata al medesimo Comune, ma in rappresentanza di altra parte, sicché si trattava di atto del tutto diverso da quello dal quale è scaturito il giudizio civile che ha condotto al procedimento qui sub iudice;
-il Comune aveva proposto appello contro la sentenza civile di primo grado, con richiesta di inibitoria, rigettata dalla Corte d'Appello sul presupposto (rivelatosi erroneo) della ritualità della notifica;
-la compagnia assicuratrice della responsabilità del Comune aveva risarcito il danno alla parte assistita dall'Avv. Pa.So. e pagato i compensi professionali a quest'ultima, ed il giudizio di appello tra il danneggiato e l'ente territoriale, a seguito di transazione tra le parti, con contestuale rinuncia agli atti del giudizio civile, era stato abbandonato e dichiarato estinto, per mancata comparizione, dalla Corte d'Appello con provvedimento del 29.11.2016;
- l'Avv. Pa.So. aveva allegato alla sentenza esecutiva di primo grado una nota spese con richiesta di pagamento di ulteriori somme, a titolo di compenso ex D.M. n. 55 del 2014, sebbene si trattasse di importi non dovuti in quanto, essendo debitore un ente pubblico, la notifica del titolo costituiva mero atto propedeutico all'azione esecutiva, differita in assenza del pagamento nel termine di 120 giorni.
3. All'esito dell'istruttoria, il Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense, con la decisione n. 133/2020 R.D., emessa il 29 settembre 2020 e depositata il 7 gennaio 2021, ha ritenuto insussistenti le violazioni contestate al capo 2) lett. c ("applicato nella nota spesa allegata alla sentenza notificata, voci di compenso non dovute) e per l'effetto ha prosciolto in parte qua l'incolpata; contemporaneamente, ha affermato la sussistenza degli altri capi d'incolpazione, irrogando la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per un periodo di anni tre e mesi sei.
A seguito di ricorso dell'Avv. Pa.So., il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 99/2024, pubblicata il 27 marzo 2024 e notificata il 4 aprile 2024, ha solo parzialmente riformato la decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina, limitandosi a rideterminare la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione per la minor durata di un anno.
4. L' Avv. Pa.So. ha quindi proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi, avverso la predetta sentenza del Consiglio Nazionale Forense, formulando contestualmente istanza di sospensione dell'esecutorietà di quest'ultima, cui ha fatto seguito successiva richiesta di sollecita trattazione della sospensiva.
Il ricorso è stato avviato alla pubblica udienza per la trattazione congiunta dell'impugnazione e dell'istanza cautelare, con abbreviazione del termine di cui all'art. 377, secondo comma, cod. proc. civ. e con concessione del termine per deposito di memorie entro il 3 settembre 2024 per il Pubblico Ministero ed entro il 10 settembre 2024 per la ricorrente.
Il Consiglio dell'ordine degli avvocati competente è rimasto intimato.
Il Pubblico Ministero, nella persona dell'Avvocato generale Francesco Salzano, ha depositato memoria, chiedendo di accogliere la richiesta di sospensione della decisione impugnata ed il primo motivo di ricorso; dichiarare estinto per prescrizione il capo 2 dell'incolpazione; e rigettare il ricorso nel resto, con le conseguenze di legge.
La ricorrente ha prodotto memoria.
Con ordinanza interlocutoria del 18 settembre 2024, n. 25080, questa Corte ha sospeso l'esecuzione della sentenza impugnata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione o la falsa applicazione dell'art. 56 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense), dovendosi ritenere l'illecito contestato al capo 2) della rubrica prescritto l'11 agosto 2023, e, quindi, in data anteriore a quella di deposito, il 27 marzo 2024, della sentenza del C.N.F. qui impugnata.
1.1. Il motivo è ammissibile. Infatti, la prescrizione dell'azione disciplinare nei confronti degli avvocati è rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, qualora non comporti indagini fattuali che sarebbero precluse in sede di legittimità (Cass., Sez. U - , 28/12/2023, n. 36204), per cui può anche essere eccepita per la prima volta in questa sede dalla parte ricorrente (Cass., Sez. U - , 9 ottobre 2013, n. 22956), tanto più ove se ne deduca la maturazione successivamente all'introduzione del giudizio di merito a quo.
1.2. Muovendo tuttavia proprio dal dies a quo del 29 novembre 2016, il termine massimo complessivo di prescrizione, di sette anni e mezzo, è maturato comunque in data 29 maggio 2024, ovvero successivamente al deposito della sentenza impugnata e dopo la proposizione, il 2 maggio 2024, del ricorso per cassazione, ma prima della data in cui quest'ultimo è venuto in decisione in sede di legittimità.
La ricorrente assume infatti che sarebbe incongruo il riferimento, nel relativo capo d'incolpazione, alla pubblicazione della sentenza di appello avvenuta il 29 novembre 2016, quale termine di cessazione della ritenuta permanenza dell'illecito disciplinare - e quindi dies a quo della prescrizione-, in quanto l'utilizzo del documento falso darebbe luogo ad un illecito di natura istantanea, consumatosi il 3 febbraio 2015, data dell'udienza nella quale l'Avv. Pa.So. è comparsa per la prima volta in udienza nel primo grado del giudizio civile de quo, quale nuovo difensore dell'attore. Tale condotta, integrante l'utilizzo dell'atto falso, avrebbe poi generato, quali meri effetti protratti nel tempo, la successiva fase esecutiva della sentenza di primo grado e la difesa dello stesso danneggiato nel giudizio d'appello, con il conseguente rigetto dell'inibitoria richiesta dal Comune.
Peraltro, aggiunge la ricorrente, ogni effetto dell'utilizzo del documento interessato sarebbe comunque cessato con il conseguimento del risultato, ovvero con la sottoscrizione della intervenuta transazione del 12 febbraio 2016, con contestuale rinuncia agli atti del giudizio civile. Il conseguente "abbandono della causa" in appello, con la mancata comparizione delle parti e la declaratoria di estinzione del giudizio, costituirebbe infatti una mera "attuazione" di tale accordo transattivo, non idonea a collocare la consumazione dell'illecito, e quindi il dies a quo del termine di prescrizione, alla data del deposito della relativa sentenza della Corte d'Appello del 29.11.2016.
Tanto premesso, la ricorrente deduce che il termine massimo, di sette anni e sei mesi, di prescrizione dell'azione disciplinare, ricavabile dal combinato disposto del primo e del terzo comma dell'art. 56 della legge n. 247 del 2012, sarebbe in ogni caso maturato sia se computato dalla data (3 febbraio 2015) dell' unico ed istantaneo utilizzo dell'atto falso; sia, comunque, se calcolato dalla data (12 febbraio 2016) di cessazione di ogni effetto di tale utilizzo, coincidente con la firma della transazione tra le parti, con contestuale rinuncia agli atti del giudizio.
In entrambi i casi, la prescrizione sarebbe maturata in data comunque antecedente al deposito, il 27 marzo 2024, della sentenza del Consiglio Nazionale Forense.
Tanto premesso, il motivo è infondato e va rigettato, sebbene, pronunziando sul ricorso, si debba comunque dichiarare, limitatamente al capo dell'incolpazione investito dal motivo, l'intervenuta prescrizione dell'azione disciplinare.
La consumazione degli illeciti contestati è collocata, negli stessi capi d'incolpazione, successivamente al 2 febbraio 2013, data di entrata in vigore della legge n. 247 del 2012, il cui art. 56, in tema di prescrizione, è invocato dalla ricorrente. Pertanto, l'applicazione di quest'ultima norma al caso di specie è coerente con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il punto di riferimento per l'individuazione del regime della prescrizione dell'azione disciplinare è la commissione del fatto o la cessazione della sua permanenza ed è a quel momento, quindi, che si deve avere riguardo per stabilire la legge applicabile (Cass., Sez. U -, 28/10/2020, n. 23746). Il regime più favorevole della prescrizione degli illeciti disciplinari degli avvocati, introdotto dall'art. 56 della legge n. 247 del 2012, non trova applicazione con riguardo ai fatti che, diversamente da quelli sub iudice, siano stati commessi prima dell'entrata in vigore della citata norma, e tale conclusione è compatibile sia con la giurisprudenza costituzionale, la quale ha chiarito che le garanzie riguardanti la pena in senso stretto possono essere ritenute inapplicabili (o, quantomeno, applicabili in forme più flessibili) alle sanzioni disciplinari, sia con la giurisprudenza della Corte Edu, secondo cui il principio di
retroattività della "lex mitior" concerne esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, non anche le norme sopravvenute che modifichino la disciplina della prescrizione (Cass., Sez. U -, 16/07/2021,n. 20383; Cass., Sez. U - , 17/07/2023, n. 20650).
Dispone il comma 1 del ridetto art. 56 della L. n. 247 del 2012 che "L'azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto.". Il successivo comma 3 aggiunge che "Il termine della prescrizione è interrotto con la comunicazione all'iscritto della notizia dell'illecito. Il termine è interrotto anche dalla notifica della decisione del consiglio distrettuale di disciplina e della sentenza pronunciata dal CNF su ricorso. Da ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni. Se gli atti interruttivi sono più' di uno, la prescrizione decorre dall'ultimo di essi, ma in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può' essere prolungato di oltre un quarto. Non si computa il tempo delle eventuali sospensioni.".
Nell'interpretare il regime attuale della prescrizione, introdotto da tali disposizioni, questa Corte (Cass., Sez. U -, 14/04/2023, n. 10085) ha chiarito che esso configura una fattispecie riconducibile a un modello di matrice penalistica, volto a promuovere il sollecito esercizio dell'azione disciplinare e la definizione del procedimento disciplinare in tempi certi, laddove, al contrario, quella del regime precedente si rifaceva al modello civilistico.
Si tratta quindi di prescrizione non di un diritto, ma dell'azione disciplinare, in relazione alla quale la nuova legge, se da un lato ha elevato la durata della prescrizione, portandola a sei anni, ed ha tipizzato alcuni eventi interruttivi, prevedendo che da quelle date il termine di prescrizione riprenda a decorrere, seppur per una durata più breve, di cinque anni, ha poi previsto un termine finale complessivo e inderogabile, entro il quale il procedimento disciplinare deve concludersi a pena di prescrizione, di sette anni e mezzo dalla consumazione dell'illecito.
L'accertamento dell'eventuale prescrizione presuppone pertanto l'individuazione del dies a quo del relativo termine, rappresentato dal momento di consumazione dell'illecito disciplinare, che a sua volta può essere istantaneo o permanente, in quest'ultimo caso coincidendo con la cessazione della permanenza.
Con riferimento al caso di specie, è vero che nella giurisprudenza penale l'utilizzazione di un atto falso è effettivamente configurata come reato istantaneo e non permanente, in quanto la sua consumazione si esaurisce con l'uso, mentre la protrazione nel tempo degli effetti da questo prodotti rappresenta il risultato dell'azione criminosa (Cass. pen. 28/06/2023, n. 38740; Cass. pen. 29/05/2015, n. 38438 del 29/05/2015; anche se la risalente Cass. pen. 23/06/1966, n. 762, affermava che la reiterazione dell'uso della scrittura privata falsa, in relazione al reato previsto dall'art 485 cod pen, dà luogo ad una situazione di consumazione protratta analoga a quella del reato permanente o continuato, la quale assume rilevanza per tutti gli effetti per i quali la legge fa riferimento alla cessazione della consumazione o della reiterazione).
Tuttavia, non è giustificato un autonomo travaso di qualificazioni di reati dal contesto penale a quello disciplinare, essendo stato già chiarito che in tema di illecito deontologico dell'avvocato per fatti contestati anche in sede penale, il procedimento disciplinare deve fondarsi su autonome valutazioni rispetto al processo penale (ex art. 54 della L. n. 247 del 2012), anche con riguardo alla decorrenza del termine di prescrizione dell'azione, con conseguente necessità, per l'organo disciplinare, di accertare la data di commissione del fatto, la quale, in caso di illecito permanente, si identifica con quella di cessazione della permanenza (Cass., Sez. U - , 29/05/2023, n. 14957 del 29/05/2023; Cass., Sez. U - , 10/09/2024, n. 24285).
Infatti sono stati classificati, ai fini disciplinari, come permanenti illeciti che non solo tali in sede penale, come l'appropriazione di somma depositata dal cliente a titolo fiduciario, in base alla considerazione -ontologica- che le fattispecie contestate avevano natura disciplinare, non penale, ancorché in parte sussumibili (e concretamente sussunte) in norme incriminatrici penali, sicché non si possono evocare sic et simpliciter le categorie penalistiche inerenti le fattispecie delittuose "parallele", che integrino reati istantanei e non permanenti (ex plurimis Cass., Sez. U -, 26/07/2022, n. 23239; Cass., Sez. U - , 29/03/2023, n. 8946).
La fattispecie concreta qui sub iudice, il cui accertamento in fatto è ormai consolidato, è connotata dall' utilizzazione, ripetuta e continuata, del medesimo atto falso nell'introduzione e nella gestione della lite risarcitoria nel suo complesso, sia processuale che stragiudiziale, ovvero non solo nell'introduzione e nella gestione della difesa nei diversi gradi di merito, nella fase esecutiva della sentenza di primo grado e nella conciliazione con il Comune (attuata, come riconosce la stessa ricorrente solo con la mancata comparizione delle parti all'udienza di comparizione in appello); ma anche nella parallela trattativa con l'assicuratore della responsabilità civile dell'ente, che ha condotto all'incasso del risarcimento a favore del cliente e dei compensi per l'incolpata.
Si è quindi realizzata una condotta illecita, offensiva dei canoni deontologici, protratta e permanente nel tempo, alla cui cessazione soltanto va ancorato il decorso del termine prescrizionale, in conformità, per quanto qui rileva, al principio enunciato dalla citata Cass., Sez. U -, 29 maggio 2023 n. 14957 ed "in continuità con una giurisprudenza ampliamente consolidata (cfr. infatti, già con riferimento al disposto dell'art. 51 r.D.L. n. 1578/1933 Cass. Sez. U. 26 novembre 2008, n. 28159; Cass. Sez. U. 1 ottobre 2003, n. 14620)" (Cass., Sez. U -, 10/09/2024 n. 24285 del 10/09/2024, relativa a contestazione che comprendeva anche l'uso consapevole di mandati e documenti falsi; per un caso di decorrenza del termine di prescrizione dell'illecito disciplinare dalla cessazione della condotta falsificatrice, coincidente con la conclusione del giudizio civile nel quale l'atto è stato utilizzato, cfr. Cass., Sez. U -, 03/11/2020, n. 24378, che ha ritenuto inammissibile la censura del ricorrente rispetto a tale conclusione del CNF).
Non può quindi condividersi la tesi della ricorrente sulla natura istantanea dell'illecito disciplinare in questione.
Tanto meno può ritenersi, come sostiene la ricorrente, l'indifferenza, ai fini della consumazione dell'illecito disciplinare, della dichiarazione di estinzione del giudizio d'appello. Invero, nel caso concreto, l'estinzione è tutt'altro che priva di rilevanza concreta, poiché ha impedito al giudizio civile pendente di progredire verso l'accertamento della falsità della notifica dell'atto introduttivo del primo grado e del conseguente vizio della sentenza di condanna dell'ente, sul cui presupposto si innestava anche il pagamento effettuato, in sede stragiudiziale, dall'assicurazione della responsabilità civile del Comune al preteso danneggiato ed alla stessa incolpata.
Nella sostanza, dunque, l'estinzione del giudizio ha definitivamente "consolidato" gli effetti della protratta utilizzazione della falsa notifica. A sua volta, del resto, la stessa "attuazione" (attraverso la mancata comparizione in appello e la conseguente estinzione del giudizio) dell'accordo conciliativo tra l'attore danneggiato e l'ente territoriale ritenuto responsabile ha costituito un'ulteriore spendita dello stesso atto falso, poiché tale accordo trovava ragione esclusivamente nell'avvenuto pagamento da parte dell'assicuratore, e dunque si fondava pur sempre sull'accertamento della responsabilità dell'assicurato, derivato dalla falsa notifica de qua. In sintesi, attuare consapevolmente un accordo sostanzialmente fondato su un atto falso equivale a (continuare a) utilizzare quest'ultimo.
Gli illeciti di cui ai punti 2.a) e 2.b) del capo d'incolpazione (così come riprodotto nella sentenza impugnata) sono stati quindi correttamente considerati (nella ricostruzione in fatto dell'incolpazione, confermata integralmente dalla decisione del
Consiglio Distrettuale e dalla sentenza del Consiglio Nazionale Forense) come "commessi fino alla data del 29.11.2016 (estinzione del processo d'appello)", che costituisce il dies a quo della prescrizione dell'azione disciplinare, con conseguente rigetto della censura della ricorrente.
Pertanto, così come dedotto dal P.M. nella sua memoria, relativamente ai fatti di cui al capo di incolpazione sub 2, nonostante le interruzioni, il relativo termine massimo di prescrizione dell'azione disciplinare è spirato in epoca antecedente alla data dell'udienza fissata dinanzi a queste Sezioni Unite per la decisione del ricorso e successiva alla proposizione di quest'ultimo.
Né risulta peraltro, dalla decisione del Consiglio Distrettuale e dalla sentenza del Consiglio Nazionale Forense, che il procedimento disciplinare de quo sia stato sospeso a tempo determinato, con conseguente sospensione del termine di prescrizione ai sensi dell'art. 54, comma 2, della legge n. 247 del 2012 e con esclusione della computabilità del relativo periodo ai fini del termine massimo di prescrizione, a norma del successivo art. 56, comma 3, ultimo periodo della stessa legge.
All'accertamento d'ufficio della maturazione del termine di cui all' art. 56, comma 1, della L. n. 247 del 2012 consegue la cassazione, in parte qua, della sentenza impugnata, con la dichiarazione della prescrizione dell'azione disciplinare limitatamente agli illeciti di cui ai nn. 2 a) e 2 b) dell'atto d'incolpazione e con conseguente rinvio al giudice a quo per gli accertamenti in fatto necessari ai fini della rideterminazione della sanzione disciplinare in relazione all'illecito
di cui al capo d'incolpazione contraddistinto nella rubrica dal n. 3 ("Per aver l'Avv.... contravvenuto all'art. 71 NCDF..., avendo consapevolmente attestato falsamente l'avvenuta notifica dell'atto di citazione mediante produzione di documento fraudolentemente predisposto, con l'intento di indurre in errore anche l'organo disciplinare") , non attinto da nessun motivo del ricorso qui in decisione; nonché in relazione al capo d'incolpazione n. 1 della rubrica, attinto dal secondo motivo di ricorso per cassazione, del quale infra si dirà. Infatti, tanto la decisione disciplinare che, per quanto qui più rileva, la sentenza impugnata hanno determinato la sanzione disciplinare complessiva irrogata individuando la condotta illecita più grave proprio nelle fattispecie di cui ai nn. 2 a) e 2 b) dell'atto d'incolpazione, delle quali è stata tuttavia accertata in questa sede la prescrizione.
2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell'art. 24 Cost., per avere la sentenza impugnata confermato il giudizio di responsabilità per i fatti contestati al capo n.1 dell'incolpazione, in contrasto con il principio nemo tenetur se detegere, applicabile anche ai procedimenti disciplinari. A detta della ricorrente, infatti, la sua mancata collaborazione con l'avv. L.L. avrebbe costituito estrinsecazione del diritto di difendersi poiché, ove l'avv. Pa.So. avesse dato seguito alla richiesta della collega di ricevere copia dell'atto di citazione corredato della relata di notifica, avrebbe fornito alla controparte la prova della falsificazione, così pregiudicando il diritto di difesa della stessa incolpata in un eventuale successivo procedimento disciplinare, in ipotesi originato proprio dalla consegna dell'atto falso.
La ricorrente invoca dunque la causa di giustificazione- disciplinata dall'art. 51 cod. pen., ma operante anche nell'ambito della responsabilità disciplinare- dell'esercizio del diritto dell'incolpata di non rendere dichiarazioni, scritte od orali, autoindizianti.
Il motivo è infondato.
Questa Corte, sia pur in tema di procedimento disciplinare a carico di altra figura professionale, ha già ritenuto che, in applicazione del principio fondamentale nemo tenetur se detegere, il notaio non può essere costretto a rendere dichiarazioni in seguito alle quali possa essere successivamente esposto a un procedimento sanzionatorio; ne consegue che, operando anche nell'ambito disciplinare il sistema delle cause di giustificazione, costituisce esercizio di un diritto il rifiuto di rendere dichiarazioni scritte o orali autoindizianti, ancorché richieste dal consiglio notarile nell'ambito delle sue funzioni di vigilanza e controllo (Cass., 18/06/2004, n. 11412; Cass. 13/07/2004, n. 12906; cfr. altresì Cass., 04/05/2005, n. 9262, in materia di procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore subordinato e di esclusione del dovere dell'incolpato di rendere dichiarazioni "autoindizianti").
In particolare, poi, questa Corte, con l'ordinanza interlocutoria n. 3831 del 16/02/2018, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata - in relazione agli articoli 24,111 e 117 Cost., quest'ultimo con riferimento all'articolo 6 CEDU e all'art. 14, comma 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con la L. n. 881 del 1977, nonché in relazione agli articoli 11 e 117 Cost., con riferimento all'articolo 47 CDFUE, ed avuto riguardo al principio generale "nemo tenetur se detegere" - la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 187 quinquiesdecies T.U.F. - nel testo originariamente introdotto dall'articolo 9, comma 2, lett. b), della L. n. 62 del 2005 - nella parte in cui detto articolo sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della Consob o nel ritardare l'esercizio delle sue funzioni anche nei confronti di colui al quale la medesima Consob, nell'esercizio delle sue funzioni di vigilanza, ascriva illeciti amministrativi relativi all'abuso di informazioni privilegiate.
All'esito di tale rimessione, la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 117 del 2019, ha a sua volta sottoposto, in via pregiudiziale, la questione alla Corte di giustizia dell'Unione europea che, con la sentenza del 2.2.2021, nella causa C-481/19, ha statuito che "L'articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all'abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), e l'articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6 e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione, letti alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, devono essere interpretati nel senso che essi consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica, la quale, nell'ambito di un'indagine svolta nei suoi confronti dall'autorità competente a titolo di detta direttiva o di detto regolamento, si rifiuti di fornire a tale autorità risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale.
Infine, la Corte costituzionale, con la sentenza n.84 del 2021, in sintonia con la citata pronuncia della Corte di giustizia, ha riconosciuto l'esistenza di un diritto al silenzio - nell'ambito di procedimenti amministrativi funzionali a scoprire illeciti e a individuarne i responsabili, che siano suscettibili di sfociare in sanzioni amministrative di carattere punitivo - fondato, "sull'art. 24 Cost., sull'art. 6 CEDU e sugli artt. 47 e 48 CDFUE, questi ultimi nell'interpretazione che ne ha ora fornito la Corte di giustizia".
La Corte costituzionale ha quindi dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale dell'art. 187-quinquiesdecies del D.Lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall'art. 9, comma 2, lett. b), della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità' per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato; ed ha esteso in via consequenziale la declaratoria di illegittimità costituzionale anche al testo della disposizione risultante dalle modifiche recate dall'art. 24, comma 1, lettera "c", del decreto-legge 18 ottobre 2012 n. 179,convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012 n. 221, che estende le sanzioni previste dalla norma alle condotte di mancata collaborazione con la Banca d'Italia; nonché al testo risultante dalle notifiche recate dall'art. 5, comma 3, del decreto legislativo 3 agosto 2017, n. 129, nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d'Italia o alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità' per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato.
Nella sostanza dunque, come sintetizzato dalla stessa Corte costituzionale, "la decisione delle questioni di legittimità' costituzionale ora sottoposte all'esame di questa Corte è unicamente incentrata sulla disposizione – l'art.187-quinquiesdecies del D.Lgs. n. 58 del 1998 – dalla quale discende l'obbligo di sanzionare anche chi si sia rifiutato di rispondere alle domande della Banca d'Italia e della CONSOB nell'esercizio del proprio diritto al silenzio, obbligo che la presente pronuncia dichiara costituzionalmente illegittimo." (Corte cost., sentenza n.84 del 2021).
Tanto premesso, la fattispecie di illecito disciplinare qui sub iudice appare estranea al perimetro del diritto al silenzio derivante dalle già richiamate disposizioni nazionali ed internazionali ed oggetto delle citate pronunce della Corte di giustizia e della Corte costituzionale. Invero queste ultime riconoscono protezione al diritto della persona fisica al silenzio "nell'ambito di procedimenti amministrativi che – come quello che ha interessato il ricorrente nel giudizio a quo – siano comunque funzionali a scoprire illeciti e a individuarne i responsabili, e siano suscettibili di sfociare in sanzioni amministrative di carattere punitivo" (Corte cost., sentenza n. 84 del 2021, cit., punto 3.5), definendo 'lo standard di tutela delle condizioni essenziali del diritto di difesa di fronte a un'accusa suscettibile di sfociare nell'applicazione di sanzioni a contenuto comunque punitivo, che non possono non comprendere il diritto – con le parole dell'art. 14, paragrafo 3, lettera g), PIDCP – a "non essere costretto a deporre contro se stesso".' (Corte cost., sentenza n. 84 del 2021, cit.). Sebbene l'operatività' di tale garanzia non presupponga necessariamente l'avvenuta contestazione formale dell'illecito, e debba potersi esplicare anche in una fase antecedente alla instaurazione del procedimento sanzionatorio (Corte cost., sentenza n. 84 del 2021, cit., punto 3.6), il diritto al silenzio trova comunque esplicazione nel rapporto tra il potenziale incolpato, che intenda avvalersene, e l'autorità titolare dei procedimenti amministrativi, anche solo di vigilanza, finalizzati alla scoperta di eventuali illeciti, all'individuazione dei responsabili ed all'irrogazione delle relative sanzioni amministrative di carattere punitivo (cfr. Corte di giustizia,2.2.2021, C-481/19, cit. "nell'ambito di un'indagine svolta nei suoi confronti dall'autorità competente", "si rifiuti di fornire a tale autorità risposte che possano far emergere la sua responsabilità").
Nel caso di specie, invece, la condotta omissiva contestata con il capo 1 d'incolpazione alla ricorrente si è manifestata non nei riguardi dell'autorità dotata di poteri di vigilanza, indagine e repressione del diverso illecito realizzato con l'utilizzo dell'atto falso, ma nei confronti dell'avvocato di controparte ed all'interno del rapporto di colleganza, con violazione dei doveri di lealtà, correttezza e collaborazione tra i difensori, di cui ai contestati artt. 9, 19 e 46, comma 5, del codice deontologico forense. Pertanto, l'offensività della condotta omissiva attribuita alla ricorrente dal capo 1 dell'incolpazione prescinde dalla falsità dell'atto non fornito alla controparte e, comunque, non è strumentale alla difesa dell'incolpata dall'accertamento e dalla repressione dell'utilizzazione
dell'atto falso, eventi peraltro neppure inevitabilmente conseguenti all' eventuale adempimento dei doveri collaborativi trasgrediti dalla ricorrente.
3. L'accertamento dell'avvenuta prescrizione di parte degli illeciti giustifica la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Rigetta il primo ed il secondo motivo e, pronunciando sul ricorso, cassa la sentenza impugnata per la prescrizione dell'azione disciplinare limitatamente agli illeciti di cui ai punti 2 a) e 2 b) del capo d'incolpazione, rinviando, per la nuova determinazione della sanzione, al Consiglio Nazionale Forense, e compensando le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 17 settembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2024.