Il comportamento di un coniuge che decide di sposarsi "per prova" per testare la relazione, senza informare l'altro coniuge delle sue intenzioni, può comportare una responsabilità civile?
La Cassazione civile, con ordinanza n. 28390 del 5 novembre 2024, ha stabilito che al coniuge ignaro delle intenzioni dell'altro di sposarsi "per prova" non spetta il risarcimento del danno.
Nel caso di specie, un uomo aveva chiesto il risarcimento alla sua ex moglie, sostenendo che lei avesse contratto il matrimonio con il solo scopo di "fare una prova", senza comunicarlo. Dopo sei mesi dalle nozze, la moglie aveva avviato un procedimento presso il Tribunale ecclesiastico per ottenere l'annullamento del matrimonio religioso, affermando di aver escluso il principio dell'indissolubilità. Il marito si è quindi rivolto al Tribunale civile, sostenendo di essere stato ingannato e chiedendo un risarcimento per il danno subito.
Il Tribunale di Torino prima, e la Corte d'Appello di Torino poi, hanno rigettato la domanda del marito, dichiarando che la mancata comunicazione delle intenzioni matrimoniali non costituisce un comportamento risarcibile.
La Corte di Cassazione ha confermato questa decisione, sottolineando che il matrimonio è un atto che riguarda la sfera personale e che rientra nella piena libertà di autodeterminazione di ciascun coniuge. Secondo la Cassazione, non esiste un obbligo giuridico di comunicare le proprie intenzioni personali o i propri dubbi riguardo al matrimonio all'altro coniuge.
In altre parole, la Corte ha stabilito che la riserva mentale di uno dei coniugi (ossia il voler sposarsi "per prova") non può comportare una responsabilità risarcitoria. Questo perché il matrimonio non è un contratto che impone l'obbligo di comunicare le proprie intenzioni soggettive, ma un atto di libertà personale garantito dalla legge. La scelta di sposarsi, anche se fatta con incertezze o con l'idea di sperimentare, rientra nella sfera privata di ciascuno e non può essere considerata come un danno ingiusto nei confronti dell'altro coniuge.
La Cassazione ha anche ribadito che il diritto di ciascun coniuge di chiedere la separazione o il divorzio fa parte della libertà personale, e che non esiste un diritto giuridico di essere tutelati dalle incertezze o dalle intenzioni dell'altro coniuge riguardo al futuro del matrimonio.
Quindi, la Suprema Corte ha concluso che non spetta alcun risarcimento al marito che si è sentito ingannato, poiché l'omessa comunicazione dello stato d'animo della moglie non costituisce un danno ingiusto ai sensi dell'art. 2043 c.c.. La libertà matrimoniale, infatti, è un diritto della personalità e non può essere limitata da obblighi di comunicazione riguardo alle proprie incertezze o intenzioni.
Non rappresenta fatto costitutivo di responsabilità risarcitoria l'omessa comunicazione da parte di uno dei due coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, dello stato psichico di concreta incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale e della scelta di contrarre matrimonio con la riserva mentale di sperimentare la possibilità che il detto vincolo non si dissolva.
Cassazione civile, sez. III, ordinanza 05/11/2024 (ud. 09/09/2024) n. 28390
RILEVATO CHE:
Ra.Sa. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Torino La.Fa. chiedendo il risarcimento del danno per avere la convenuta, ex moglie dell'attore, celato a quest'ultimo la determinazione di sposarsi per prova e per il deliberato accanimento, soprattutto processuale, dalla La.Fa. realizzato in diversi ambiti giudiziari. Espose, in particolare, quanto segue. Dopo circa sei mesi dalla celebrazione delle nozze avvenuta in data 13 aprile 2010, la convenuta aveva instaurato avanti al Tribunale ecclesiastico piemontese un giudizio volto a far dichiarare la nullità del vincolo matrimoniale, asserendo di avere escluso il bene della indissolubilità e di essersi sposata con l'intenzione di rimanervi (sposata) per lo stretto tempo necessario a fare una "prova" onde verificare se l'unione potesse reggere, intendimento totalmente sottaciuto al Ra.Sa., che ne era venuto a conoscenza soltanto in occasione della citata causa canonica, conclusasi con sentenza del 28 novembre 2011 di nullità del matrimonio religioso. Era stata successivamente rigettata dalla competente Corte d'Appello l'istanza di delibazione della decisione ecclesiastica proposta dalla convenuta per contrarietà all'ordine pubblico della caducazione del vincolo matrimoniale per effetto della riserva unilaterale di una parte e ciò a tutela dell'affidamento dell'altro coniuge. La convenuta aveva dato corso a svariati altri procedimenti ai danni del marito connessi e conseguenti al loro matrimonio e, segnatamente, alla causa giudiziale di separazione dei coniugi, a un procedimento penale, ad un procedimento disciplinare in relazione alla qualità di avvocato dell'attore ed aveva altresì contrastato, senza validi motivi, le richieste del marito di divisione dei beni in comunione dei coniugi e di divorzio.
Il Tribunale adito rigettò la domanda, con condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata. Avverso detta sentenza propose appello il Ra.Sa. Con sentenza di data 7 aprile 2022 la Corte d'Appello di Torino rigettò l'appello, con condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata.
Premise la corte territoriale che l'appellante in sede di gravame aveva formulato conclusioni istruttorie chiedendo che venisse ammessa la prova dedotta nel primo grado di giudizio, facendo rinvio ai capitoli di prova orale dedotti nella seconda memoria ex art. 183 c.p.c., non espressamente tuttavia ricapitolati in appello, per cui l'istanza, per come formulata, non poteva essere esaminata nel merito alla luce di Cass. n. 5812 del 2016 ("in osservanza del principio di specificità dei motivi di appello, anche la riproposizione delle istanze istruttorie, non accolte dal giudice di primo grado, deve essere specifica, sicché è inammissibile il mero rinvio agli atti del giudizio di primo grado") e che comunque le istanze istruttorie erano irrilevanti alla luce della successiva motivazione. Osservò quindi quanto segue, per quanto qui rileva.
La sentenza di primo grado non era stata impugnata nella parte in cui il Tribunale aveva affermato l'irrilevanza per l'ordinamento dell'esistenza di una causa di invalidità del matrimonio religioso, sicché, alla luce di tale giudicato, la deduzione secondo la quale La.Fa. si fosse sposata con il dichiarato intento di violare gli obblighi derivanti dal matrimonio era inammissibile ove con la stessa si avesse voluto fare riferimento al proposito di disattendere l'indissolubilità del vincolo matrimoniale e comunque si trattava di deduzione generica non essendo stato chiarito quale ulteriore specifico obbligo matrimoniale la parte avesse l'intimo proposito di disattendere ed avesse poi effettivamente disatteso. Peraltro, l'appellante era al corrente dei dubbi della La.Fa., avendone questa parlato con il primo e da questi ricevuto assicurazioni, e comunque non poteva ragionevolmente ritenersi sussistente un dovere giuridico di buona fede esteso sino al punto da imporre di condividere gli stati prettamente soggettivi, i dubbi, in altri termini la serietà dell'impegno matrimoniale. Errato era l'assunto di fondo dell'intero gravame, ovverosia l'esistenza di un obbligo giuridico di comunicazione all'altro coniuge delle "intenzioni" matrimoniali, obbligo sanzionato con la responsabilità risarcitoria secondo l'appellante, posto che nel matrimonio, a differenza del contratto, venivano in rilievo diritti della personalità, incoercibili, da cui la libertà della "scelta matrimoniale", pur se non adeguatamente soppesata e pur in mancanza di una compiuta condivisione con il futuro coniuge dei motivi intimi di tale scelta, senza le compromissioni derivanti da una qualche responsabilità risarcitoria (diverse erano la responsabilità anche risarcitoria di cui all'art. 129 bis c.c., la pronuncia di addebito nella separazione personale e l'eventuale condanna risarcitoria conseguente alla violazione di obblighi matrimoniali, relative a fatti storici e non ad intenzioni). Era, inoltre, presuntivamente dimostrato, alla luce delle rassicurazioni fatte dal Ra.Sa. circa le criticità del futuro matrimonio, che questi, ove informato, si sarebbe ugualmente sposato (né un ostacolo in tale direzione poteva essere la fede cattolica del Ra.Sa., non costituendo la detta fede un impedimento all'iniziativa di far cessare gli effetti civili del matrimonio). Infine, la breve durata del matrimonio di per sé non consentiva di ritenere provato che il fallimento del matrimonio era dipeso dal comportamento reticente dell'appellata.
Aggiunse la corte territoriale che corretta era la valutazione del Tribunale di temerarietà della lite, quanto meno con riferimento alla colpa grave (ed in particolare: l'avere posto a fondamento della domanda una questione - reticenza sulla riserva mentale concernente all'indissolubilità del matrimonio - irrilevante nell'ordinamento giuridico italiano; i fatti che avevano dato luogo ai dubbi sulla scelta matrimoniale erano stati pacificamente discussi tra le parti prima del matrimonio; era temeraria la pretesa di ritenere dimostrata la calunnia e la diffamazione per il solo fatto che fosse stata richiesta l'archiviazione per insostenibilità dell'accusa in giudizio, a fronte di fatti in parte pacifici, in parte dimostrati e controvertibili solo in considerazione della litigiosità delle parti). Aggiunse inoltre che non vi era vizio di ultrapetizione, avendo la convenuta chiesto la condanna ai sensi dell'art. 96, terzo comma, c.p.c., e non potendo la generica pronuncia ai sensi dell'art. 96 essere intesa come richiesta in base al primo comma, anziché il terzo comma (peraltro l'applicazione del terzo comma era resa palese dalle seguenti circostanze: non erano state richiamate specifiche allegazioni attoree circa il danno in ipotesi causato dall'azione temeraria; il Tribunale si era pronunciato in accoglimento della domanda di La.Fa.; non erano stati richiamati specifici criteri di liquidazione equitativa diversi da quelli desumibili dalle Tabelle di Milano, dettanti per l'appunto criteri orientativi per la liquidazione ai sensi dell'art. 96 terzo comma) e che per la motivazione si era attinto alle Tabelle del Tribunale di Milano.
Osservò, infine, che anche in riferimento al giudizio di appello ricorrevano i presupposti della responsabilità aggravata ai sensi del terzo comma dell'art. 96, ed in particolare l'appello era consistito, secondo la corte territoriale: "in buona parte nella generica (in quanto tale inammissibile) negazione della correttezza della decisione del primo giudice non accompagnata dalla formulazione di censure afferenti al percorso motivazionale illustrato dal Tribunale; nella negazione che in primo grado sia stata posta a fondamento della domanda risarcitoria (anche) la mancata comunicazione da parte di La.Fa. della riserva mentale dell'esclusione dell'indissolubilità del matrimonio; nell'aver posto a fondamento della domanda la mera mancata comunicazione da parte del futuro coniuge delle intenzioni, dei propositi e delle volizioni interne in maniera dissociata dai fatti materiali che le avevano determinate".
Ha proposto ricorso per cassazione Ra.Sa. sulla base di sei motivi e resiste con controricorso la parte intimata. È stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell'art. 380 bis.1 cod. proc. civ.. È stata presentata memoria.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2721 e 2722 cod. civ., 112, 183, 184, 187 e 244 cod. proc. civ., 24 e 111 Cost., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello, come affermato da Cass. n. 33103 del 2021, può ammettere le prove richieste qualora, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o della connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga la volontà inequivoca della parte di insistere sulla richiesta attraverso l'esame degli scritti difensivi.
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ., 115 cod. proc. civ., 24 e 111 Cost., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che sono presenti tutti gli elementi dell'illecito civile di cui all'art. 2043 c.c., desumibili in via presuntiva, avuto riguardo al comportamento omissivo prenuziale di natura dolosa ed all'ingannevole reticenza della donna su circostanze rilevanti e significative per il matrimonio come lo sposarsi solo per prova, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, nonché all'accanimento, anche processuale, della donna nei confronti del marito, tali da integrare sia il requisito soggettivo che il nesso di causalità con i danni, patrimoniali e non patrimoniali, denunciati con l'originaria domanda. Aggiunge che alle medesime conclusioni dovrebbe giungersi nel caso di responsabilità ai sensi dell'art. 1218 c.c. Osserva ancora che l'intimata non solo non ha assolto il proprio onere probatorio, ma ha sollevato altresì generiche e tardive contestazioni, limitate peraltro ai documenti, e che, sul piano probatorio, non è determinante la circostanza che l'intimata abbia manifestato al ricorrente criticità circa il futuro matrimonio. Aggiunge inoltre che la sentenza di primo grado è stata impugnata nella sua totalità, senza che possa essere ravvisato un giudicato interno. Osserva ancora che un fatto, e non una mera intenzione, è pure la dolosa reticenza e che non è vero che è rimasto indimostrato che il marito, ove informato, non si sarebbe sposato, come pure censurabile è l'affermazione, contenuta nella sentenza, della irrilevanza della fede cattolica del ricorrente. Osserva inoltre che costituiscono voci di danno sia le spese sopportate in vista della celebrazione del matrimonio, che le spese legali cui il ricorrente si è dovuto sottoporre.
Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,2059,1175,1337,143 e 160 cod. civ., 2, 29, 31 e 111 Cost., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che giammai l'attore ha inteso applicare all'istituto matrimoniale i principi della materia contrattuale, ma ha fatto solo riferimento all'applicazione analogica dei principi in materia di buona fede e correttezza, dovendo anche in materia matrimoniale essere salvaguardata la massima libertà circa la scelta di sposarsi o meno. Aggiunge che ad essere violata è stata la libertà di autodeterminazione dell'ignaro promesso sposo di buona fede e che illecito civile è la condotta dello sposarsi per prova, integrante un inganno nei confronti della controparte, da assimilare al contegno della simulazione. Aggiunge che deve presumersi che il promesso sposo, ove al corrente della reale volontà della futura sposa, non si sarebbe sposato, sicché il comportamento della donna aveva ingenerato un vizio determinante nella formazione del consenso al matrimonio dell'ignaro coniuge di buona fede, ed in particolare un errore sulla persona dell'altro coniuge. Osserva ancora che la libertà di contrarre matrimonio deve essere tutelata, ma non a discapito della medesima libertà dell'altro coniuge di buona fede, e che il fatto che la rottura immotivata della promessa di legge stabilisce un risarcimento nei limiti di cui all'art. 81 c.c. dimostra la rilevanza delle circostanze della fase prenegoziale del matrimonio.
Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1175,1337,1338,1440,143 e 160 cod. civ., 116 c.p.c., 2, 29, 31 e 111 Cost., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che il matrimonio è assoggettato per analogia ai principi ed alle regole contrattuali, ed in particolare i principi di buona fede e correttezza e che nella specie tali doveri siano stati violati dalla dolosa reticenza prenuziale. Aggiunge che tale contegno di inganno comporta l'applicazione dei principi in materia di responsabilità contrattuale, ed in particolare un vizio incompleto della volontà consistente in un'anomalia che, pur non integrando una causa di invalidità, è fonte di responsabilità, alla stessa stregua del dolo incidente di cui all'art. 1440 c.c., per l'affidamento incolpevole ingenerato nella controparte e per la lesione della libertà di autodeterminazione dell'altra parte.
Il secondo, il terzo ed il quarto motivo sono infondati. Assorbente, negli stessi termini che sono stati rilevati dalla Corte territoriale quale assunto di fondo dell'intera impugnazione, è l'assenza di un comportamento che possa essere configurato quale produttivo di un danno ingiusto, o altrimenti pregiudizievole sulla base di una sorta di responsabilità pre-negoziale. L'assunto di fondo dell'odierna impugnazione è la denuncia della portata dannosa della mancata comunicazione da parte di uno dei coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, della riserva mentale di contrarre quest'ultimo per prova, ossia quale esperimento derivante dalla condizione di incertezza della nubenda circa la possibilità dell'insorgenza di fatti che avrebbero potuto rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (cfr. art. 151 c.c.).
Come è pacifico, ed accertato nei vari gradi di merito, è stata dichiarata la nullità del matrimonio dal Tribunale ecclesiastico, essendo la riserva mentale in ordine alla dissolubilità del matrimonio causa di nullità del medesimo secondo il diritto canonico. Non è stata accolta la domanda di riconoscimento della sentenza ecclesiastica, stante la contrarietà all'ordine pubblico derivante dalla necessità di protezione dell'affidamento incolpevole del coniuge ignaro della riserva mentale, la quale è estranea al regime della nullità del matrimonio previsto dall'ordinamento civile. L'assenza di una nullità rilevante per l'ordinamento civile sgombra subito il campo dalla responsabilità del coniuge in mala fede ai sensi dell'art. 129 bis c.c. (come anche alla tipologia dell'errore di cui all'art. 122 c.c. della denunciata lesione dell'affidamento).
Residua la questione della responsabilità risarcitoria per la mancata comunicazione della riserva mentale sulla possibile dissolubilità del matrimonio a causa del ravvisato concreto rischio di emersione di fatti che avrebbero potuto rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, rischio che la nubenda si era rappresentata al punto di contrarre il matrimonio "per prova". In entrambi i gradi di merito tale responsabilità risarcitoria è stata esclusa sulla base di una motivazione, in particolare da parte della corte territoriale, per quanto concerne il sindacato di legittimità, che il Collegio non può che condividere.
Al riguardo, deve rammentarsi quanto affermato, in generale, dalla fondamentale pronuncia n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite di questa Corte: "ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità. Compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art. 2043 c.c., è quindi quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché solo la lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un "danno ingiusto", ed a tanto provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell'interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell'interesse che il comportamento lesivo dell'autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell'interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell'autore della condotta, in ragione della sua prevalenza. Comparazione e valutazione che, è bene precisarlo, non sono rimesse alla discrezionalità del giudice, ma che vanno condotte alla stregua del diritto positivo, al fine di accertare se, e con quale consistenza ed intensità, l'ordinamento assicura tutela all' interesse del danneggiato".
La necessità della comparazione, che l'ordinamento giuridico stabilisce, deriva dalla circostanza che nella nozione di ingiustizia di cui all'art. 2043, la quale indubitabilmente qualifica il danno (contra ius), deve tuttavia essere altresì considerato il comportamento del danneggiante, il quale deve essere non iure (privo di giustificazione per il diritto) ai fini dell'integrazione della fattispecie di responsabilità. La comparazione si risolve nella prevalenza dell'interesse della vittima, reputato rilevante dall'ordinamento giuridico, che è la sfera dove si colloca il danno, laddove tuttavia manchi un interesse normativamente protetto in capo al soggetto che, chi promuove l'azione di responsabilità, identifica come danneggiante. La responsabilità risarcitoria discende dall'ingiustizia del danno, non dalla antigiuridicità della condotta, alla luce dell'atipicità dell'illecito aquiliano quale protezione della situazione soggettiva rilevante per l'ordinamento giuridico, ma l'interesse non riceve la protezione derivante dalla clausola generale del danno ingiusto se ciò che per l'ordinamento deve essere tutelato, in base alla sua valutazione di prevalenza, è l'interesse dell'autore della condotta asseritamente pregiudizievole, in realtà non produttiva di un danno ingiusto, proprio per la prevalenza dell'interesse di chi agisce.
Ciò premesso, deve considerarsi che la libertà matrimoniale è un diritto della personalità, sancito anche dall'art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Benché il matrimonio sia un atto di autonomia privata, non può esservi attribuito l'effetto impegnativo del vincolo di cui all'art. 1372 c.c. alla luce del diritto di chiedere la separazione giudiziale al cospetto di un fatto tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. Come affermato da Cass. n. 18853 del 2011: "nel vigente diritto di famiglia, contrassegnato dal diritto di ciascun coniuge, a prescindere dalla volontà o da colpe dell'altro, di separarsi e divorziare, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile all'art. 2 Cost., ciascun coniuge può legittimamente far cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione ovvero, ove ne sussistano i presupposti, direttamente di divorzio. Con il matrimonio, infatti, secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono un irrevocabile, reciproco ed esclusivo "ius in corpus" - da intendersi come comprensivo della correlativa sfera affettiva - valevole per tutta la vita, al quale possa corrispondere un "diritto inviolabile" di ognuno nei confronti dell'altro, potendo far cessare ciascuno i doveri relativi in ogni momento con un atto unilaterale di volontà espresso nelle forme di legge"". Si tratta del diritto strettamente personale ed irrinunciabile, riconosciuto ai coniugi dall'ordinamento italiano, di far cessare gli stessi effetti civili, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile all'art. 2 Cost. Con riferimento ad altro profilo, ha affermato Cass. n. 6598 del 2019 che "l'ordinamento non tutela il bene del mantenimento della integrità della vita familiare fino a prevedere che la sua violazione di per sé possa essere fonte di una responsabilità risarcitoria per dolo o colpa in capo a chi con la sua volontà contraria o comunque con il suo comportamento ponga fine o dia causa alla fine di tale legame. L'ammissione di una tale affermazione incondizionata di responsabilità potrebbe andare a confliggere con altri diritti costituzionalmente protetti, quali la libertà di autodeterminarsi ed anche la stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro ordinamento fin dal 1970".
L'atto di impegno matrimoniale è rimesso alla libera e responsabile scelta del soggetto, quale espressione della piena libertà di autodeterminarsi al fine della celebrazione del matrimonio. Tale libertà non può essere limitata da un obbligo giuridico di comunicare alla propria controparte uno stato soggettivo quale l'incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale, avvertendo il soggetto il rischio concreto della sua dissoluzione ed effettuando la scelta matrimoniale nella consapevolezza di tale rischio, ciò che in altri termini comporta un tentativo o prova di convivenza matrimoniale. Affinché tale libertà non sia compromessa dall'incombenza di una conseguenza quale la responsabilità risarcitoria derivante dall'inottemperanza ad un dovere giuridico, la comunicazione in discorso, in quanto relativa alla sfera personale affettiva, può comportare esclusivamente un dovere morale o sociale. Alla luce della libertà della scelta matrimoniale non emergono, dalla mancata comunicazione dello stato d'animo di incertezza in questione, un interesse della controparte meritevole di tutela da parte dell'ordinamento con il riconoscimento del rimedio risarcitorio e, dunque, un danno ingiusto.
La riserva mentale circa la concreta possibilità della dissoluzione del matrimonio è così improduttiva di effetti per l'ordinamento italiano, sia dal lato del coniuge portatore della riserva, che non può avvantaggiarsene fino a conseguire la nullità del matrimonio (in conformità del resto alla generale irrilevanza della riserva mentale in materiale negoziale), sia dal lato dell'altro coniuge, che non è titolare di un interesse meritevole di tutela risarcitoria per l'ordinamento, per avere fatto affidamento sulla mancanza di quella riserva.
Va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: "non rappresenta fatto costitutivo di responsabilità risarcitoria l'omessa comunicazione da parte di uno dei due coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, dello stato psichico di concreta incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale e della scelta di contrarre matrimonio con la riserva mentale di sperimentare la possibilità che il detto vincolo non si dissolva".
L'infondatezza dei motivi scrutinati determina l'assorbimento del primo motivo.
Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 116,88 e 92 c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente, a proposito della condanna alle spese del giudizio di appello, che il rigetto della domanda risarcitoria proposta dalla controparte ai sensi dell'art. 89 c.p.c., collegata a quella di cancellazione delle espressioni offensiva ma distinta rispetto a quest'ultima, avrebbe giustificato, per la reciproca soccombenza, la compensazione delle spese processuali, anche avuto riguardo alla obbiettiva difficoltà, incertezza e novità della controversia, ed alla buona fede dell'attore.
Il motivo è inammissibile. La facoltà di disporre la compensazione delle spese processuali tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l'eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. n. 11329 del 2019).
Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,116 e 96 c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente, a proposito della condanna per lite temeraria, che non ricorre il presupposto della colpa grave, alla luce dei puntuali motivi di impugnazione della decisione di primo grado, aventi complessivamente alla base la mancata comunicazione di una circostanza grave da parte della donna, come quella di sposarsi per fare una prova, quale deliberato ed ingannevole comportamento (peraltro ai fini del valore della causa, la controversia è stata reputata di particolare importanza, al fine di collocarla nello scaglione del valore indeterminabile). Aggiunge che la condanna per responsabilità aggravata, prevista dalla pronuncia di primo grado, è stata erroneamente disposta in base al primo comma dell'art. 96 c.p.c., in mancanza della specifica istanza della controparte, e che il Tribunale, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte territoriale, non ha assolto l'onere motivazionale, non essendo sufficiente il mero richiamo alle tabelle del Tribunale di Milano, per cui non si comprende quale sia il parametro adottato ai fini della liquidazione equitativa.
Il motivo è inammissibile. Con riferimento alla condanna per responsabilità aggravata disposta in appello va rammentato che l'accertamento dell'esistenza in fatto dei presupposti di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c. è riservato al giudice del merito e non è sindacabile, in quanto tale, in sede di legittimità (da ultimo Cass. n. 7222 del 2022). La censura di carenza motivazionale, a fronte di una ratio decidendi pienamente percepibile, è in realtà una confutazione del giudizio di fatto in ordine alla sussistenza dei presupposti della responsabilità aggravata.
Quanto alla statuizione in appello sul motivo di gravame avente ad oggetto la responsabilità aggravata riconosciuta dal Tribunale, la censura non è scrutinabile perché il motivo, omettendo di osservare l'onere processuale previsto dall'art. 366, comma 1, n. 6 c.p.c., non fornisce alcuna indicazione in ordine allo specifico contenuto della sentenza di primo grado, anche trascrivendone i passaggi significativi ai fini della censura proposta.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ricorre il presupposto della responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., la cui applicazione è stata invocata dalla controricorrente. Ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce abuso del diritto all'impugnazione, integrante "colpa grave", la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, giacché ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello, ovvero perché assolutamente irrilevanti o generici, o, comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della sentenza impugnata; in tali casi il ricorso per cassazione integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale, risultando piegato a fini dilatori e destinato, così, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti, donde la necessità di sanzionare tale contegno ai sensi della norma suddetta (Cass. n. 19285 del 2016). Nel caso di specie vengono riproposte tesi giuridiche che già a partire dalla pronuncia di primo grado si erano rivelate come manifestamente infondate, per cui con l'odierno ricorso si è ulteriormente concretizzata la fattispecie di abuso del processo. Va pertanto disposta la condanna al pagamento dell'importo indicato in dispositivo ed equitativamente determinato nei termini della metà del compenso spettante al difensore.
Poiché il ricorso viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 - quater all'art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell'obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, con l'assorbimento del primo motivo.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, nonché al pagamento della somma di Euro 3.500,00, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il giorno 9 settembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2024.