È possibile accertare la paternità biologica attraverso il test del DNA eseguito tra fratelli invece che direttamente sul presunto padre, specialmente quando quest'ultimo è deceduto?
Al quesito risponde la Prima sezione civile della Cassazione con la recente ordinanza n. 29838 del 20 novembre 2024.
L'articolo 269 del Codice Civile sancisce il principio della libertà di prova in materia di accertamento della paternità naturale. La Cassazione ha più volte ribadito che l'uso del test del DNA tra fratelli è un mezzo di prova valido e sufficiente per dimostrare la paternità, purché i risultati raggiungano un elevato grado di certezza. In base alla giurisprudenza consolidata, l'accertamento della paternità naturale può essere fondato anche su elementi presuntivi e su una consulenza tecnica immuno-ematologica eseguita sui campioni biologici di stretti parenti del preteso genitore (Cass., n. 1279/2014).
Nel caso in esame, l'attrice aveva richiesto di essere dichiarata figlia di un soggetto, ormai deceduto. La consulenza tecnica eseguita tra i tre figli del preteso padre ha rivelato una compatibilità genetica del 99,9983%, sufficiente per dimostrare la comune discendenza biologica.
La Cassazione ha rigettato le argomentazioni degli appellanti, i quali ritenevano necessario il test genetico diretto sul DNA del padre, affermando che non esiste alcuna gerarchia tra i diversi mezzi di prova per accertare la paternità.
La libertà di prova, infatti, permette al giudice di basare il proprio convincimento su ogni elemento istruttorio che risulti idoneo e attendibile, senza richiedere prove più esplicite laddove quelle disponibili siano sufficienti.
Nella vicenda in esame, la Corte d'Appello ha considerato adeguate le prove scientifiche e le testimonianze raccolte, coerenti tra loro e con il contesto storico-sociale degli anni '40, confermando così la paternità.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dagli eredi degli appellanti, riaffermando che, in tema di accertamento della paternità, è possibile utilizzare il test di fratellanza come prova sufficiente, senza la necessità di ricorrere a un esame diretto sul presunto padre.
L'ordinanza conferma l'ampiezza dei mezzi di prova consentiti dall'art. 269 c.c., ribadendo che ogni elemento probatorio può contribuire alla ricerca della verità, purché valutato nel suo complesso e con un grado di attendibilità vicino alla certezza.
Cassazione civile, sez. I, ordinanza 20/11/2024 (ud. 10/10/2024) n. 29838
RILEVATO CHE
No.Mi. conveniva innanzi al Tribunale di Terni, assumendo: di essere nata presso il brefotrofio di N in data (…), e che, il successivo 12/07/1941, era stata riconosciuta dalla madre, Gh.Io.; di essere nata dalla relazione extraconiugale tra la propria madre e Pe.As.
Pertanto, la No.Mi. chiedeva di essere dichiarata figlia del Pe.Lo., con ogni conseguenza di legge, esponendo che: sua madre aveva conosciuto il convenuto in occasione di un concerto quando aveva circa 30 anni e lavorava come rilegatrice presso un'impresa sita in T; dopo aver vissuto per alcuni anni con la madre e la nonna materna, al momento della morte della madre, occorso nell'anno 1947, si era trasferita presso la abitazione di una zia, Gh.Ma., e del marito, Bi.Ne., i quali le avevano riferito l'identità del padre, circostanza dai medesimi conosciuta in ragione dell'amicizia tra il Bi.Ne. ed il Pe.Lo. e delle confidenze fatte da quest'ultimo alla stregua delle quali, in particolare, lo stesso aveva assicurato che si sarebbe preso cura della attrice al compimento di 16 anni, promessa che, tuttavia, non era stata mantenuta; la composizione del nucleo familiare della suddetta zia – ed, in particolare, la presenza di due figlie - aveva determinato nel corso degli anni l'impossibilità di continuare ad assicurare ospitalità alla attrice, ragion per cui quest'ultima era stata affidata all'orfanotrofio di T; dopo alcuni mesi dal ricovero presso l'orfanotrofio, i coniugi No.Gi. e Fo.Ga. avevano adottato l'attrice, prendendosi cura di lei amorevolmente e fornendole una istruzione, nonché al compimento del 21 anno di età la avevano resa edotta della sua provenienza e dell'identità del padre; sebbene la vita della attrice fosse proseguita serenamente nel corso degli anni in ragione del fondamentale apporto della famiglia adottiva, la No.Mi. evidenziava di aver sempre avvertito il desiderio di assumere una identità precisa dal punto di vista biologico, ragion per cui aveva superato la ritrosia ingenerata dal rifiuto del padre ed aveva deciso di affrontare la presente vicenda giudiziaria, sia pure dolorosa, nel momento in cui aveva conosciuto, per pura casualità, il signor Pe.Ca., figlio di Pe.As., suo fratello biologico, come la signora Pe.El., poiché detta circostanza aveva fatto riemergere nella attrice una profonda angoscia esistenziale, nonché aveva appreso che i convenuti avevano percepito integralmente l'eredità paterna a fronte del decesso di Pe.As. nell'anno 1973.
Con sentenza del 9.3.2020, il Tribunale accoglieva la domanda di accertamento della paternità, osservando che: la consulenza tecnica aveva accertato il rapporto di paternità tra No.Mi. e Pe.As. in virtù del grado statistico di compatibilità genetica emerso all'esito degli accertamenti medici effettuati tra le odierne parti in causa, che comprovavano in maniera inequivoca che le stesse erano figlie dello stesso padre, ragion per cui, essendo pacifico (oltre che documentalmente provato: v. certificati nel fascicolo di parte attrice) che il padre dei convenuti era Pe.As., si riteneva parimenti provato che il medesimo fosse il padre anche della odierna attrice (v. pag. 14 della consulenza tecnica in atti); contrariamente agli assunti difensivi dei convenuti, l'ingresso nel processo dell'esame del dna non era subordinato al positivo accertamento della prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, nonché le relative risultanze ben potevano fornire in via esclusiva adeguati elementi di valutazione per affermare il rapporto biologico di paternità; la dichiarazione giudiziale di paternità non era in alcun modo subordinata al previo e positivo esperimento di una prova storica in ordine alla relazione tra i presunti genitori ed, al contempo, la consulenza tecnica immuno-ematologica aveva la funzione di mezzo obbiettivo di prova, tale da costituire per le caratteristiche di elevata affidabilità possedute in conseguenza dei progressi della scienza biomedica, strumento elettivo nell'accertamento in questione e mezzo sul quale il giudice può fondare in via esclusiva il proprio convincimento nelle ipotesi in cui non siano provati rapporti sessuali tra i genitori in applicazione del principio di vicinanza della prova, come da consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione; non erano condivisibili le censure svolte dai convenuti in merito al fatto che la consulenza immuno-ematologica fosse stata compiuta nel caso di specie non già tra l'asserita figlia ed il preteso genitore quanto, piuttosto, tra i tre figli del preteso genitore, stante il decesso di Pe.As. nell'anno 1973; al riguardo, gli accertamenti eseguiti avevano consentito di conseguire una percentuale di paternità comune delle parti in causa prossima alla certezza (e, come visto, pari al 99,9983%), di talché l'esecuzione di ulteriori indagini appariva non necessaria, ben potendo il Tribunale fondare il proprio accertamento sugli esiti delle verifiche dei campioni biologici di parenti (Cass., n. 1279/2014), anche tenuto conto del comprovato rapporto di strettissima parentela con il de cuius (discendenza diretta in primo grado dei convenuti) che veniva in rilievo nel caso concreto; parimenti non condivisibili erano le doglianze svolte in merito alle risultanze degli accertamenti relativi alla disposta c.t.u., compiute nel caso di specie da un collegio composto da due esperti, considerato altresì che la prova orale esperita offriva ulteriori elementi di valutazione concordanti con le risultanze della prova scientifica espletata.
Avverso tale sentenza, Carlo ed Pe.El. proponevano appello, deducendo (per quel che rileva in questa sede) che: a norma dell'art. 269 c.p.c., se è pur vero che in materia vige il principio della libertà della prova, il giudice di prime cure avrebbe dovuto optare per quella che avrebbe garantito il raggiungimento del massimo grado di verità processuale, preferendo la prova più esplicita (test c.d. della paternità diretto) in luogo di quella meno sicura e più suscettibile di interpretazioni (test c.d. di fratellanza).
Con sentenza depositata in data 4.10.23, la Corte territoriale ha rigettato l'appello, osservando che: le prove orali chieste non erano idonee a scardinare il ragionamento logico del primo giudice né ad invalidare le conclusioni della c.t.u. espletata, in esito alla quale è risultato che al 99,99% (per l'esattezza, 99,9983% Carlo, Pe.El., e No.Mi. discendono dallo stesso padre; in merito, poi, alle contestazioni riguardanti la c.t.u. per la scelta del test c.d. di fratellanza anziché di paternità genetico diretto, che secondo la prospettazione degli appellanti, darebbe risultati maggiormente attendibili, in tema di accertamento della paternità naturale, l'art. 269 c.c. ammette il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base dell'id quod plerumque accidit, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a dare prova completa e rigorosa della paternità; sul punto, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene utilizzabili anche le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti (nella specie, i figli riconosciuti) del preteso genitore; il principio della libertà della prova, sancito dall'art. 269 c.c., comma 2 – e riferibile anche alla maternità naturale – non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, né, conseguentemente, mediante l'imposizione al giudice di merito di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del "tipo" di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova in materia pari valore "per espressa disposizione di legge"; nel caso in esame, stante l'indicata ampiezza dei mezzi di prova consentita dall'art. 269, comma 2, c.c. e facendo buon uso di tali principi, il giudice di primo grado aveva correttamente esaminato i diversi elementi acquisiti (consulenza immunologica e deposizioni testimoniali) valutandoli singolarmente, in correlazione tra loro e nel contesto, anche storico-sociale (anni '40), di riferimento; pertanto, con motivazione adeguata, coerente ed immune da vizi, il Tribunale era giunto alla corretta conclusione del sicuro rapporto di parentela biologica tra No.Mi. e Pe.As. (in misura percentuale prossima alla certezza, ossia pari al 99,9983); gli accertamenti eseguiti avevano conseguito una percentuale di paternità comune delle parti in causa prossima alla certezza (e, come visto, pari al 99,9983%), di talché l'esecuzione di ulteriori indagini appariva non necessaria, potendo il Tribunale fondare il proprio accertamento sugli esiti delle verifiche dei campioni biologici di parenti (Cass., n. 1279/2014), anche tenuto conto del comprovato rapporto di strettissima parentela con il de cuius (discendenza diretta in primo grado dei convenuti).
Avverso tale sentenza Gloria e Ca.Ra. ricorrono in cassazione in qualità di eredi dell'appellante originario, Pe.El., e Me.Pi. in qualità di erede dell'appellante originario, Pe.Ca., con unico motivo, illustrato da memoria.
No.Mi. resiste con controricorso.
Non svolgono difese gli intimati.
RITENUTO CHE
L'unico motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 269 c.c., con riferimento all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per avere la Corte di appello rifiutato di disporre la c.t.u. genetica direttamente sul dna di Pe.As., ritenendo sufficiente l'indagine genetica condotta sul dna dell'attrice comparato con quello dei fratelli.
Al riguardo, i ricorrenti assumono che: pur prendendo atto che la giurisprudenza prevalente ritiene sufficiente il test del dna esperito fra i (pretesi) fratelli, non risulta una giurisprudenza che abbia ritenuto inutile, ed abbia quindi rifiutato di procedere all'esame diretto del dna dell'asserito padre; proprio le sentenze citate nella pronuncia impugnata non escludevano l'opportunità di effettuare il predetto test diretto del dna (anche quando lo svolgimento dell'esame richiede l'esumazione del preteso padre: in tal senso la CEDU sentenza 13 luglio 2006, Jaggi c. Svizzera, e questa Corte - Cass. 16 aprile 2008, n. 10007); ciò al fine di raggiungere il più elevato grado di certezza attingibile nella materia in questione, laddove l'esame genetico immediato fra (asserito) padre ed (asserita figlia) si fonda su elementi probabilistici.
Il ricorso è inammissibile.
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, l'ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all'esito della prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall'art. 269, comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l'imposizione, al giudice, di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo "status" (Cass., n. 3479/16).
In tema di mezzi utilizzabili per provare la paternità naturale, l'art. 269 cod. civ. ammette anche il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell'"id quod plerumque accidit", risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità, sicché risultano utilizzabili, raccordando tra loro le relative circostanze indiziarie, sia l'accertato comportamento del preteso genitore che abbia trattato come figlio la persona a cui favore si chiede la dichiarazione di paternità (cd. "tractatus" ), sia la manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali (cd. "fama"), sia, infine, le risultanze di una consulenza immuno-ematologica eseguita su campioni biologici di stretti parenti (nella specie, madre e fratello) del preteso genitore (Cass., n. 1279/14).
L'art. 269 cod. civ. - che, nel testo antecedente alle modifiche introdotte dall'art. 113 della legge di riforma del diritto di famiglia, ammetteva la ricerca della paternità naturale solo nell'ambito di alcune presunzioni legali espressamente previste - nella sua attuale formulazione, che consente di utilizzare ogni mezzo di prova, non pone alcun limite in ordine ai mezzi attraverso i quali può essere dimostrata siffatta paternità, onde il giudice di merito, dotato di ampio potere discrezionale al riguardo, può legittimamente fondare il proprio convincimento sulla effettiva sussistenza di un rapporto di filiazione anche su risultanze istruttorie dotate di valore puramente indiziario, senza che assuma carattere di indefettibilità neppure la dimostrazione dell'esistenza di rapporti sessuali tra la madre ed il preteso padre durante il periodo del concepimento (Cass., n. 12166/05).
Nella specie, la doglianza afferente alla mancata ammissione della prova genetica riguardante i rapporti tra l'interessata e il padre tende a rimettere in discussione la decisione discrezionale dei giudici di merito in ordine al test genetico disposto con riguardo a fratelli del soggetto della cui paternità si trattava, la cui legittimità trova fonte nella richiamata consolidata giurisprudenza di questa Corte.
Né rileva il richiamo alla necessità, o all'opportunità, di raggiungere la certezza della verifica della paternità, atteso che il test genetico effettuato ha una probabilità quasi coincidente con la certezza (v. percentuale vicina al 100% come desumibile dalla c.t.u.), test peraltro suffragato da prove orali.
Né giova ai ricorrenti richiamare la sentenza di questa Corte, n. 10007 del 2008 - a tenore della quale, nel giudizio per l'accertamento della paternità naturale ex art. 269 cod. civ., incorre in vizio di motivazione la mancata ammissione di consulenza tecnica genetica, che non tenga conto dei progressi della scienza biomedica, anche nel caso di decesso del presunto padre - in quanto tale pronuncia, relativa ad un giudizio nel quale non era stata disposta nessuna consulenza, non ha avuto per oggetto l'ammissione di consulenza genetica sul dna dell'attrice comparato con quello dei fratelli, come nella specie.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di € 5.200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali, Iva ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 - bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Dispone che ai sensi dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196/03, in caso di diffusione della presente ordinanza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Così deciso nella camera di consiglio del 10 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 20 novembre 2024.