Lavorare di domenica comporta una maggiore "penosità" e deve essere compensato con una retribuzione aggiuntiva, anche se non prevista dal contratto collettivo.
Lo ha stabilito la Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 31708 del 10 dicembre 2024.
Il giudice, inoltre, può determinare un risarcimento adeguato, anche in forme non economiche.
La controversia riguarda il riconoscimento di una maggiorazione retributiva per il lavoro svolto di domenica, considerato più gravoso. Nel caso in esame, un lavoratore addetto alle pulizie nella Metropolitana di Milano ha chiesto il pagamento delle differenze retributive derivanti dal superiore inquadramento e dal lavoro festivo, notturno e domenicale. La Corte d’Appello di Milano aveva già confermato la sentenza del Tribunale, riconoscendo al lavoratore il diritto a queste somme.
La Cassazione si è pronunciata rifacendosi a una consolidata giurisprudenza, secondo cui il lavoro prestato di domenica deve essere sempre compensato con un quid pluris. Se il contratto collettivo non prevede nulla in merito, il giudice può stabilire una compensazione anche non economica, in base agli articoli 2697 e 1226 del codice civile.
La Suprema Corte ha richiamato precedenti decisioni (Cass. n. 21626/2013, n. 24682/2013, n. 12318/2011, n. 2610/2008) che riconoscono la maggiore "penosità del lavoro domenicale" come un principio basato su una "massima d'esperienza sociale". Pertanto, anche in caso di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, il lavoratore ha diritto a una compensazione aggiuntiva.
Nel caso in questione, la Cassazione ha confermato che il lavoratore aveva diritto a una maggiorazione del 20% della retribuzione oraria per il lavoro domenicale, stabilita dal giudice in via equitativa. La Corte ha ritenuto che non fosse necessario fornire una prova specifica della maggiore gravosità, considerando sufficiente la presunzione derivante dalla natura stessa del lavoro domenicale.
Inoltre, la Corte ha respinto il ricorso del datore di lavoro anche in relazione all'inquadramento professionale, basandosi su un procedimento logico-giuridico corretto, conforme ai principi consolidati.
La pronuncia ribadisce il diritto del lavoratore a una compensazione aggiuntiva per il lavoro domenicale, anche in assenza di specifiche previsioni contrattuali. Il giudice può stabilire tale compensazione in base al principio equitativo, riconoscendo la particolare gravosità di questo tipo di prestazione.
Il lavoro prestato nella giornata di domenica, anche nell'ipotesi di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, deve essere in ogni caso compensato con un quid pluris che, ove non previsto dalla contrattazione collettiva, può essere determinato dal giudice e può consistere anche in benefici non necessariamente economici, salva restando l'applicabilità della disciplina contrattuale collettiva più favorevole; dunque, il lavoratore che presti la propria attività nella giornata di domenica, ha diritto, anche nell'ipotesi di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, ad essere in ogni caso compensato, per la particolare penosità, con un quid pluris.
Cassazione civile, sez. lav., sentenza 10/12/2024 (ud. 06/11/2024) n. 31708
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d'Appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede con cui era stato accertato il diritto del lavoratore in epigrafe, operaio pulitore nell'ambito del contratto di appalto presso la Metropolitana di Milano, all'inquadramento nel 4 livello CCNL Multiservizi per il periodo 1.6. - 31.7.2015 e nel 3 livello per il periodo 1.8.2015 - 31.8.2020; condannato il datore di lavoro a corrispondergli le differenze retributive per l'accertato superiore inquadramento; condannato il datore di lavoro al pagamento di somme a titolo di maggiorazione per lavoro domenicale, lavoro festivo e lavoro notturno, nonché a titolo di incidenze del diritto al superiore inquadramento e dell'indennità per lavoro notturno sulla malattia, sulle ferie, sulle mensilità supplementari, sui permessi e sulle festività.
2. Avverso la sentenza d'appello la società ha proposto ricorso per cassazione con 3 motivi, che ricalcano corrispondenti motivi di appello, poi ulteriormente illustrati da memoria; ha resistito con controricorso il lavoratore.
3. il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La società ricorrente deduce con il primo motivo, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 1226 c.c., quanto al riconoscimento di indennizzo (equitativo, nella misura del 20% della retribuzione oraria) per le prestazioni lavorative svolte nella giornata della domenica, senza richiedere la prova della maggiore gravosità del lavoro domenicale.
2. Il motivo è infondato.
3. La pronuncia impugnata si pone (espressamente) in continuità con quanto affermato in materia da questa Corte (Cass. n. 21626/2013, n. 24682/2013, n. 12318/2011, n. 2610/2008), ossia che il lavoro prestato nella giornata di domenica, anche nell'ipotesi di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, deve essere in ogni caso compensato con un quid pluris che, ove non previsto dalla contrattazione collettiva, può essere determinato dal giudice e può consistere anche in benefici non necessariamente economici, salva restando l'applicabilità della disciplina contrattuale collettiva più favorevole; dunque, il lavoratore che presti la propria attività nella giornata di domenica, ha diritto, anche nell'ipotesi di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, ad essere in ogni caso compensato, per la particolare penosità, con un quid pluris.
4. Né è riscontrabile violazione del principio di riparto dell'onere probatorio, perché la sentenza gravata non ha affermato trattarsi di danno in re ipsa, ma ha ritenuto provato il danno sulla base della presunzione della maggiore penosità del lavoro domenicale, per massima d'esperienza sociale.
5. Con il secondo motivo, la società deduce, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., violazione o falsa applicazione dell'art. 10 CCNL Multiservizi: sostiene erronea riconduzione, nella sentenza impugnata, dell'utilizzo della macchina lavasciuga uomo a bordo, della idropulitrice e della mono-spazzola al novero delle "macchine operatrici complesse", menzionate nel contratto collettivo, disattendendo la declaratoria esemplificativa fornita dalle parti sociali.
6. Il motivo non è meritevole di accoglimento.
7. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato non può prescindersi da tre fasi successive, e cioè, dall'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dall'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria, e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda; l'accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell'inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori, costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da logica ed adeguata motivazione (così Cass. n. 28284/2009; tra le molte successive conformi, v. Cass. n. 8589/2015, n. 18943/2016, n. 14413/2024, n. 21296/2024).
8. Nel caso in esame, tale procedimento trifasico è stato svolto e adeguatamente motivato sulla base di elementi probatori congrui e conseguenti, tenuto conto delle peculiarità della fattispecie concreta, tanto in relazione alle mansioni svolte, quanto alle caratteristiche tecniche e di utilizzo delle macchine, in base a valutazione di merito delle prove orali e documentali raccolte.
9. Con il terzo motivo, la società deduce, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 2935 e 2948, n. 5 c.c., 2 D.Lgs. n. 23/2015, 36 Cost., in riferimento alla questione della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in corso di rapporto.
10. Il motivo è infondato.
11. La sentenza impugnata sul punto si pone espressamente in linea con il principio di diritto secondo cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità; sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n. 26246/2022; tra le molte successive conformi, v. Cass. n. 29831/2022, n. 30957/2022, n. 30958/2022, n. 4186/2023, n. 4321/2023).
12. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite liquidate in dispositivo, seguono il criterio della soccombenza.
13. Sussistono le condizioni processuali di cui all'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. 115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 3.000 per compensi professionali, Euro 200 per esborsi, oltre al 15% per spese forfettarie e oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell'art.13 comma 1-bis del citato D.P.R., se dovuto.
Così deciso in Roma, il 6 novembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2024.