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Discriminare il part-time penalizza le donne

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.4313 del 19/02/2024

Secondo l'art. 25, comma 2, del D.Lgs. n. 198 del 2006, si considera discriminazione indiretta qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che, nella pratica, collochi i lavoratori di un determinato sesso in una condizione di svantaggio significativo rispetto ai lavoratori dell'altro sesso. Ciò che rileva è l'esito concreto della discriminazione, valutato nell'ambito della realtà sociale piuttosto che in base alle sole forme giuridiche.

È quanto stabilito dalla Sezione lavoro della Cassazione con l'ordinanza n. 4313 depositata il 19 febbraio 2024.

Nel caso di specie, una lavoratrice a tempo parziale dell'Agenzia delle Entrate impugnava un processo di selezione interna per il passaggio a una migliore fascia retributiva, denunciando una discriminazione per la riduzione del suo punteggio di anzianità, rispetto ai colleghi a tempo pieno, nonostante pari anzianità di servizio. Tale riduzione, secondo la lavoratrice, ha comportato una discriminazione indiretta di genere, visto l'ampio ricorso al part-time tra le lavoratrici femminili, principalmente per motivi familiari e assistenziali.

La Corte d'Appello di Genova ha respinto l'appello dell'Agenzia delle Entrate, confermando la decisione del Tribunale di Genova che aveva riconosciuto il comportamento discriminatorio e ordinato il pagamento di maggiori retribuzioni maturate dalla lavoratrice.

Il nodo centrale del ricorso per cassazione proposto dall'Agenzia delle Entrate riguardava l'interpretazione delle norme che disciplinano il lavoro a tempo parziale e la valutazione dell'anzianità di servizio ai fini della progressione economica. La Cassazione ha sottolineato che non può esistere un automatismo tra la riduzione dell'orario di lavoro e la diminuzione dell'anzianità di servizio valutata per le progressioni economiche, ribadendo che l'onere della prova dei presupposti che giustificano tale riproporzionamento spetta al datore di lavoro.

La sentenza ha messo in luce che la valutazione dell'anzianità di servizio non può basarsi unicamente sul numero di ore lavorate, sottolineando l'importanza di considerare la qualità del lavoro svolto e le circostanze specifiche di ogni caso. La Corte ha ribadito che tale prassi rappresenta una discriminazione indiretta, non solo nei confronti dei lavoratori a tempo parziale ma anche di genere, data la preponderanza femminile in questa categoria lavorativa.

In conclusione, il giudizio di Cassazione rigetta il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, confermando la sentenza d'appello e sottolineando il principio secondo cui ogni disposizione, criterio o comportamento che metta i lavoratori di un determinato sesso in posizione di svantaggio configura una discriminazione indiretta, da valutarsi oltre le mere forme giuridiche, sul piano della realtà sociale.

Lavoro subordinato, discriminazione indiretta, nozione

Costituisce discriminazione indiretta ex art. 25, comma 2, D.Lgs. n. 198 del 2006 qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che metta, di fatto i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso. La norma non richiede che si tratti di comportamenti o atti illeciti o discriminatori anche sotto altro profilo; guarda soltanto al risultato finale della discriminazione, da apprezzare sul piano della realtà sociale e non solo delle forme giuridiche.

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Cassazione civile, sez. lav., ordinanza 19/02/2024 (ud. 12/01/2024) n. 4313

FATTI DI CAUSA


L'attuale controricorrente convenne in giudizio l'Agenzia delle Entrate e il collega controinteressato per denunciare la discriminazione subita - quale donna impiegata a tempo parziale - nella selezione interna per il passaggio a una migliore fascia retributiva (da F1 a F2) indetta con provvedimento n. Omissis del 30.12.2010.

Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale di Genova, in funzione di giudice del lavoro, accolse la domanda della lavoratrice, ordinando all'Agenzia delle Entrate la cessazione del comportamento discriminatorio e condannandola al pagamento dell'importo di Euro 8.466,47, in linea capitale, a titolo di maggiori retribuzioni nel frattempo maturate.

L'Agenzia delle Entrate si rivolse quindi alla Corte di Appello di Genova, la quale respinse l'impugnazione, confermando integralmente la sentenza del Tribunale e condannando l'appellante alla rifusione delle spese del grado.

Contro la sentenza della Corte d'Appello l'Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a un unico motivo. La lavoratrice si è difesa con controricorso. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte per chiedere il rigetto del ricorso. Il ricorso è trattato camera di consiglio ai sensi dell'art. 380-bis.1 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l'unico motivo si denuncia "falsa applicazione dell'art. 1 del D.Lgs. n. 61/2000 (v.f) e violazione dell'art. 4 del D.Lgs. n. 61/2000 (v.f) e dell'art. 25, comma 2, del D.Lgs. n. 186/2006, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.".

1.1. Per comprendere la decisione della Corte territoriale e il motivo di ricorso occorre precisare che l'attuale controricorrente era, all'epoca della selezione interna, impiegata a tempo parziale e che, nella valutazione dell'anzianità di servizio ai fini della progressione economica, le venne attribuito un punteggio ridotto in proporzione al minor numero di ore di lavoro svolte rispetto ai colleghi con pari anzianità, ma impiegati tempo pieno. Ciò fece sì che il suo punteggio finale risultò inferiore a quello del collega controinteressato, attualmente intimato, mentre sarebbe stato superiore qualora l'anzianità di servizio della lavoratrice a tempo parziale fosse stata valutata per intero, senza tenere conto della ridotta presenza oraria sul luogo di lavoro.

1.2. Secondo la tesi della controricorrente, condivisa dai giudici di entrambi i gradi di merito, tale riduzione del punteggio attribuito per l'anzianità di servizio ha comportato una discriminazione della lavoratrice a tempo parziale, contraria a quanto dispone il decreto legislativo n. 61 del 2000 (con cui la Repubblica italiana ha dato attuazione alla direttiva 97/81/CE relativa all'accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall'UNICE, dal CEEP e dalla CES), e anche, indirettamente, una discriminazione di genere, in violazione dell'art. 25, comma 2, del D.Lgs. n. 198 del 2006, perché al rapporto di lavoro a tempo parziale ricorrono in grande maggioranza le donne lavoratrici.

1.3. La ricorrente contesta la falsa applicazione delle norme di diritto che vietano la discriminazione del lavoro a tempo parziale (ritenendo razionale, e quindi non vietata, la valutazione dell'anzianità in base alla effettiva durata oraria del rapporto di lavoro) e sostiene che, in difetto di discriminazione diretta del lavoro a tempo parziale, nemmeno può sussistere la discriminazione indiretta di genere.

2. Il ricorso è infondato.

2.1. Per quanto riguarda la discriminazione del lavoro a tempo parziale, non può essere condivisa l'affermazione della ricorrente secondo cui la ridotta valutazione di tale tipo di lavoro nel computo dell'anzianità di servizio rilevante ai fini della progressione economica sarebbe imposta dallo stesso art. 4 del D.Lgs. n. 61 del 2000, laddove esso dispone che "il trattamento del lavoratore a tempo parziale sia riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa". Infatti, quella disposizione riguarda soltanto la retribuzione del lavoratore a tempo parziale, che ovviamente non può essere uguale, ma deve essere proporzionata, a quella del lavoratore a tempo pieno.

Qui, invece, è in discussione la valutazione del servizio pregresso al fine del giudizio sul merito comparativo per attribuire una progressione economica. E, in proposito, merita di essere qui ribadito ciò che questa Corte ha già avuto modo di statuire proprio con riguardo alla medesima selezione interna che è oggetto di causa anche nel presente processo: "l'obiettivo di apprezzare in misura puntuale l'esperienza di servizio è in sé legittimo. Occorre, tuttavia, rammentare, in relazione al giudizio di adeguatezza e necessità dei mezzi impiegati, che, come risulta da giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, "l'affermazione secondo la quale sussiste un nesso particolare tra la durata di un'attività professionale e l'acquisizione di un certo livello di conoscenze o di esperienze non consente di elaborare criteri oggettivi ed estranei ad ogni discriminazione. Infatti, sebbene l'anzianità vada di pari passo con l'esperienza, l'obiettività di un siffatto criterio dipende dal complesso delle circostanze del caso concreto, segnatamente dalla relazione tra la natura della funzione esercitata e l'esperienza che l'esercizio di questa funzione apporta a un certo numero di ore di lavoro effettuate" (in termini: Corte di Giustizia, sent. 3 ottobre 2019 cit., punto 39)" (Cass. n. 21801/2021).

In altri termini, non può esserci alcun automatismo tra riduzione dell'orario di lavoro e riduzione dell'anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche. Occorre invece verificare se, in base alle circostanze del caso concreto (tipo di mansioni svolte, modalità di svolgimento, ecc.), il rapporto proporzionale tra anzianità riconosciuta e ore di presenza al lavoro abbia un fondamento razionale oppure non rappresenti, piuttosto, una discriminazione in danno del lavoratore a tempo parziale. E l'onere della prova dei presupposti di fatto che determinano la razionalità, in tale contesto, del riproporzionamento è a carico del datore di lavoro (v., conf., Cass. n. 10328/2023).

2.2. Da questi principi non si è discostata la Corte territoriale nella sentenza impugnata, laddove ha affermato che "Non è … detto che - a parità di anzianità lavorativa - il lavoratore full-time abbia acquisito maggiore esperienza del lavoratore part-time, dipendendo tale preparazione da tante variabili, tra cui anche (ma non solo) la quantità di ore lavorative prestate nel medesimo periodo lavorativo; quantità di ore che tuttavia non assume una rilevanza determinante, essendo sicuramente più importante la qualità delle pratiche seguite dal lavoratore nel corso del rapporto".

2.3. Poiché non è fondata la censura contro la sentenza della Corte d'Appello di Genova laddove ha accertato la sussistenza della discriminazione diretta del lavoro a tempo parziale, viene conseguentemente a cadere anche la critica mossa dal ricorrente all'accertamento della discriminazione indiretta di genere, critica basata sull'assunto che non sarebbe configurabile una discriminazione indiretta in mancanza di un comportamento che sia anche di discriminazione diretta sotto altro profilo.

Merita, tuttavia, di essere precisato che tale assunto non può essere assolutamente condiviso. È discriminazione indiretta (art. 25, comma 2, D.Lgs. n. 198 del 2006) qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che metta, di fatto, "i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso". La legge non richiede che si tratti di comportamenti o atti illeciti o discriminatori anche sotto altro profilo; guarda soltanto al risultato finale della discriminazione, da apprezzare sul piano della realtà sociale e non solo delle forme giuridiche.

Nel caso di specie, il giudice del merito è ricorso al dato statistico documentato della presenza di donne in stragrande maggioranza tra i dipendenti dell'Agenzia delle Entrate che chiedono di usufruire del part-time, per concludere che svalutare il part-time ai fini delle progressioni economiche orizzontali (ovverosia progressioni economiche non legate ad avanzamenti di carriera, ma comunque meritate, secondo parametri che includono anche l'anzianità di servizio) significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini con riguardo a tali miglioramenti di trattamento economico. A conforto del buon fondamento del giudizio delle Corte d'Appello si può aggiungere che la preponderante presenza di donne nella scelta per il lavoro a tempo parziale è da collegare al notorio dato sociale del tuttora prevalente loro impegno in ambito familiare e assistenziale, sicché la discriminazione nella progressione economica dei lavoratori part-time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell'accesso al mondo del lavoro.

Non merita, pertanto, censura la sentenza impugnata neppure nella parte in cui ha ravvisato, nel criterio selettivo adottato dall'Agenzia delle Entrate, una discriminazione indiretta di genere.

3. Respinto il ricorso, le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo, per quanto riguarda il rapporto tra la ricorrente e la controricorrente, mentre non occorre provvedere sulla spese nei confronti del controinteressato, rimasto intimato.

4. Si dà atto che, nonostante l'esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, perché la ricorrente rientra tra le amministrazioni dello Stato esenti dal pagamento del contributo.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, al rimborso delle spese generali nella misura del 15% e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2024.

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