Può un datore di lavoro utilizzare dati antecedenti all'insorgere di un sospetto per motivare un licenziamento?
Questa è la domanda affrontata dalla Cassazione civile, sez. lavoro, con l’ordinanza n. 807 del 13 gennaio 2025.
La risposta è negativa: i controlli sui dati del dipendente possono essere effettuati solo in relazione a fatti successivi all'insorgere di un fondato sospetto.
Il caso esaminato
Un dirigente è stato licenziato a seguito di un controllo scaturito da un alert del sistema informatico aziendale, che aveva rivelato presunte attività illecite. Tuttavia, i dati utilizzati per giustificare il licenziamento si riferivano a un periodo antecedente all’alert stesso. La Corte d’Appello aveva già dichiarato illegittimo il licenziamento, decisione poi confermata dalla Suprema Corte.
La regola giuridica
L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dal D.Lgs. n. 151 del 2015, stabilisce che i controlli tecnologici sono ammessi solo per:
tutelare beni aziendali estranei al rapporto di lavoro;
prevenire comportamenti illeciti;
agire in presenza di un fondato sospetto.
Tuttavia, tali controlli devono riguardare esclusivamente i dati raccolti successivamente al sorgere del sospetto. La Corte ha sottolineato che indagare retrospettivamente equivarrebbe a violare il principio di proporzionalità e di tutela della riservatezza del lavoratore.
Applicazione al caso concreto
Nel caso specifico, il controllo datoriale si era basato su file di log risalenti a una data antecedente all’alert del sistema informatico. La Corte ha giudicato tale prassi incompatibile con l’art. 4 dello Statuto, considerando inutilizzabili i dati raccolti prima dell’insorgere del sospetto.
Inoltre, l’informativa privacy fornita dal datore non è stata ritenuta sufficiente per legittimare un controllo così esteso e retrospettivo.
Conclusione
La Cassazione ha rigettato il ricorso della società e confermato l’illegittimità del licenziamento, ribadendo che i controlli difensivi devono rispettare rigorosi limiti temporali e garantire un equilibrio tra le esigenze aziendali e la tutela della dignità del lavoratore. Pertanto, solo i dati raccolti dopo l’insorgere di un fondato sospetto possono essere utilizzati in sede disciplinare.
Cassazione civile, sez. lav., ordinanza 13/01/2025 (ud. 05/12/2024) n. 807
RILEVATO CHE
1. La Corte d'Appello di Milano, giudicando in sede di rinvio dalla Corte di cassazione (sentenza n. 34092/2021), ha respinto il reclamo della TAMBURI INVESTMENT PARTNERS Spa (d'ora in avanti anche TIP), confermando la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo, per difetto di giustificatezza, il licenziamento intimato il 23 febbraio 2017 a Fa.An., vice direttore generale con qualifica dirigenziale, e condannato la società al pagamento, tra l'altro, dell'indennità supplementare, dell'indennità sostitutiva del preavviso e della relativa incidenza sul trattamento di fine rapporto.
2. La Corte territoriale ha richiamato il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte, secondo cui "in tema di cd. sistemi difensivi, sono consentiti, anche dopo la modifica dell'art. 4 St. Lav. ad opera dell'art. 23 del D.Lgs. n. 151 del 2015, i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto"; in stretta adesione a tale principio ha ritenuto che i controlli eseguiti dalla società e posti a base della decisione di recesso fossero avvenuti in contrasto col disposto dell'art. 4 St. lav., nella versione applicabile ratione temporis. In particolare, la Corte di rinvio ha appurato che il controllo svolto dalla società datoriale aveva avuto ad oggetto i file di log contenenti informazioni risalenti ad epoca antecedente rispetto all'alert (dell'8.2.2017) generato dal sistema informatico (esattamente informazioni sulle e-mail inviate dal dirigente nel gennaio del 2017), inutilizzabili ai fini disciplinari in quanto antecedenti rispetto al fondato sospetto creato dal citato alert. La Corte territoriale ha evidenziato come la violazione dell'art. 4 St. Lav. travolgesse l'intero procedimento disciplinare, impedendo di trarre elementi di prova dalle giustificazioni rese dal dipendente a fronte di una contestazione illegittimamente formulata e che neppure l'avvenuta informativa sulla privacy portasse a giudicare leciti i controlli eseguiti in contrasto con l'art. 4 dello Statuto.
3. Avverso tale sentenza la TAMBURI INVESTMENT PARTNERS Spa ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. Andrea Fa.An. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
4. Il Collegio si è riservato di depositare l'ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell'art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.
CONSIDERATO CHE
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell'art. 384, comma 2, c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., con riguardo all'omessa valutazione ed omessa pronuncia su aspetti rilevanti del principio di diritto elaborato dalla Corte di cassazione, cui la Corte d'Appello - in sede di rinvio - avrebbe dovuto attenersi. Si assume che la sentenza impugnata abbia trascurato qualsivoglia valutazione circa due aspetti messi in evidenza dal Supremo Collegio e, in particolare:
i) non ha indagato sull'esistenza di un fondato sospetto generato dall'alert proveniente dal sistema informatico in ordine alla commissione di attività illecita da parte dei dipendenti;
ii) è mancata ogni valutazione circa il corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore.
6. Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., l'omessa valutazione di circostanze in fatto, già oggetto di discussione tra le parti ed oggetto del principio di diritto elaborato dalla Corte di cassazione, disatteso dalla decisione in esame. Si addebita alla sentenza impugnata di non aver considerato l'alert informatico dell'8 febbraio 2017 e i conseguenti accertamenti, oggetto di discussione tra le parti (tanto che il Fa.An. ne ha messo in dubbio la genuinità, poi smentita per tabulas dalle perizie informatiche prodotte da TIP), sebbene determinanti per una completa valutazione del caso in esame. Se la Corte territoriale avesse considerato dette circostanze avrebbe ravvisato la piena legittimità dei controlli effettuati da TIP e dei dati così ricavati attraverso i file di log.
7. I primi due motivi, da trattare congiuntamente per connessione logica, non sono fondati.
8. La Corte d'Appello ha specificamente analizzato l'alert inviato dal sistema informatico ed ha giudicato lo stesso idoneo a ingenerare il fondato sospetto di commissione di illeciti da parte del dipendente. Ha, tuttavia, accertato come, a seguito e sulla base di tale alert, la società avesse avviato, per il tramite dei tecnici informatici, un controllo retrospettivo, eseguito cioè su dati archiviati e memorizzati nel sistema in epoca anteriore al medesimo alert, così ponendosi in contrasto con l'art. 4 St. lav. che legittima unicamente controlli tecnologici ex post, vale a dire su comportamenti posti in essere successivamente all'insorgenza del fondato sospetto. In questo assetto la Corte di rinvio ha individuato, in coerenza con il principio di diritto enunciato dalla sentenza rescindente, il punto di equilibrio tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, e la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore, equilibrio che verrebbe meno ove si consentisse al datore di lavoro, alla luce di un fondato sospetto, di estendere il controllo difensivo a tutti i dati che, fino a quel momento, sono stati raccolti e conservati nel sistema informatico. Come statuito nella sentenza rescindente (p. 17), "può, quindi, in buona sostanza, parlarsi di controllo ex post solo ove, a seguito del fondato sospetto del datore circa la commissione di illeciti ad opera del lavoratore, il datore stesso provveda, da quel momento, alla raccolta delle informazioni" e solo tali informazioni successive potranno fondare l'eventuale esercizio dell'azione disciplinare essendo invece precluso al datore di ricercare nel passato lavorativo elementi di conferma del fondato sospetto e di utilizzare gli stessi a scopi disciplinari in quanto ciò equivarrebbe a legittimare l'uso di dati probatori raccolti prima (e archiviati nel sistema informatico) e a prescindere dal sospetto di condotte illecite da parte del dipendente.
9. Con il terzo motivo si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2735, comma 1 c.c., 2733, comma 2 c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 e violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., con riguardo alle dichiarazioni rese dal Sig. Fa.An. in occasione del procedimento disciplinare incardinato a suo carico da TIP, per non avere la Corte d'Appello attribuito a tali dichiarazioni natura confessoria e, conseguentemente, valore di prova legale.
10. In via di premessa si osserva che una dichiarazione è qualificabile come confessione ove sussistano un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte, ed un elemento oggettivo, che si ha qualora dall'ammissione del fatto obiettivo, che forma oggetto della confessione escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all'interesse del dichiarante e, al contempo, un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione (Cass. SS.UU. n. 7981 del 2013; Cass. n. 12798 del 2018).
11. Questa Corte ha chiarito che, in tema di prova civile, l'indagine volta a stabilire se una dichiarazione della parte costituisca o meno confessione, cioè ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all'altra parte, si risolve in un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità se fondato su di una motivazione immune da vizi logici (Cass. n. 3698 del 2020; n. 5330 del 2003).
12. Nel caso di specie, i giudici di appello, con motivazione priva di vizi logici, hanno escluso il contenuto confessorio della lettera di giustificazioni del dirigente posto che questi aveva contestato gli addebiti, aveva rilevato che "la contestazione si basa sull'illegittimo accesso al mio indirizzo di posta elettronica in spregio alla normativa vigente" ed aveva esposto le proprie difese "senza accettazione del contraddittorio su una contestazione basata su elementi illecitamente acquisiti" (sentenza, p. 10, primo cpv.).
13. Il motivo di ricorso, poiché investe, nella sostanza, l'accertamento in fatto compiuto dai giudici di appello e la valutazione dai medesimi compiuta, risulta inammissibile.
14. Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 3,24,41,111 Cost. e dell'art. 101 c.p.c., in relazione all'art. 360, c. 1, n. 3 c.p.c., con riguardo alla posizione di squilibrio sostanziale in cui viene posta TIP, e qualsivoglia datore di lavoro, rispetto al Sig. Fa.An. - e a qualsivoglia dipendente - dinanzi al concetto di controllo difensivo "ex post", così come enunciato nel principio di diritto elaborato dalla Corte di cassazione e a cui la Corte d'Appello si è uniformata. Si osserva che i giudici di appello hanno applicato un concetto di controllo difensivo "ex post" del tutto irragionevole, illogico e non pertinente con il caso in esame e che ciò ha posto TIP in una posizione di squilibrio sostanziale rispetto al Fa.An., con grave pregiudizio tanto sul piano sostanziale che processuale e ciò in spregio a principi di carattere generale e di rilievo anche costituzionale quali: il principio del contraddittorio ex artt. 111 Cost. e 101 c.p.c., il diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. e, non da ultimo, la libertà di iniziativa economica privata di cui all'art 41 Cost.
15. Il motivo è inammissibile poiché si traduce in una critica al principio di diritto enunciato dalla sentenza rescindente. Sul punto deve ribadirsi che, a norma dell'art. 384, primo comma, c.p.c., l'enunciazione del principio di diritto vincola il giudice di rinvio che ad esso deve uniformarsi, anche qualora, nel corso del processo, siano intervenuti mutamenti della giurisprudenza di legittimità, sicché anche la Corte di cassazione, nuovamente investita del ricorso avverso la sentenza pronunciata dal giudice di merito, deve giudicare sulla base del principio di diritto precedentemente enunciato, e applicato dal giudice di rinvio, senza possibilità di modificarlo, neppure sulla base di un nuovo orientamento giurisprudenziale della stessa Corte, salvo che la norma da applicare in relazione al principio di diritto enunciato risulti successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di jus superveniens, comprensivo sia dell'emanazione di una norma di interpretazione autentica, sia della dichiarazione di illegittimità costituzionale (Cass. n. 27155 del 2017; n. 6086 del 2014). Nel caso in esame, peraltro, la giurisprudenza successiva ha confermato in maniera univoca l'orientamento espresso dalla decisione rescindente (v. Cass. n. 18168 del 2023, con richiami a Cass. 25732 del 2021).
16. Le considerazioni svolte conducono al rigetto del ricorso.
17. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
18. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
19. Il controricorrente ha chiesto la condanna della società ai sensi dell'art. 96, comma 1 c.p.c., quantificando il danno in misura pari a 50.000,00 euro, ed anche la condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c.
20. La domanda non può trovare accoglimento non potendosi far coincidere la mala fede o la colpa grave della parte soccombente con profili di inammissibilità in senso tecnico oppure con la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate (v. Cass., 19948 del 2023; SS.UU. n. 9912 del 2018; Cass. n. 10327 del 2018; n. 7726 del 2016), in difetto, nel caso di specie, di elementi ulteriori significativi di un abuso dello strumento processuale; e ciò al fine del necessario contemperamento tra le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso e strumentale, che ostacola il rispetto della ragionevole durata dei processi pendenti, e la tutela del diritto di azione di rilevo costituzionale
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 7.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell'adunanza camerale del 5 dicembre 2024.
Depositata in Cancelleria il 13 gennaio 2025.