Un lavoratore può essere licenziato per giusta causa se si allontana ripetutamente dalla postazione di lavoro per fare pause al bar?
Rileva la ciircostanza che tali pause non abbiano causato un danno economico immediato per l’azienda?
Questi i quesiti a cui risponde la Sezione lavoro della Cassazione con la sentenza n. 8707 del 2 aprile 2025.
Il caso di specie riguarda un operatore ecologico che, durante il servizio di raccolta dei rifiuti, effettuava soste frequenti e prolungate in bar, superando i limiti previsti dalla normativa sull’orario di lavoro e dal contratto collettivo.
L’azienda, insospettita, avvia un controllo tramite GPS e agenzia investigativa, accertando condotte ripetute e non isolate, non giustificate da esigenze di servizio.
La Corte di Cassazione, investita del caso, richiama diverse norme e principi:
Art. 8 d.lgs. 66/2003: disciplina le pause nell’orario lavorativo.
Art. 2086 e 2104 c.c.: doveri di diligenza e potere di controllo del datore.
Legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori):
Art. 2 e 3: limiti ai controlli e all’uso di agenzie investigative;
Art. 7: disciplina e pubblicità del codice disciplinare.
La giurisprudenza ritiene legittimo il ricorso a investigatori privati per accertare condotte illecite, anche solo sospettate, che incidano sul patrimonio aziendale, che include immagine e reputazione (Cass. nn. 23985/2024, 30079/2024, 3590/2011).
La Corte d’Appello prima, e la Cassazione poi, hanno ritenuto che:
le pause al bar erano frequenti, prolungate e non autorizzate;
erano state documentate non solo da GPS, ma anche da testimoni e da relazioni investigative;
l’uso dell’agenzia investigativa è stato ritenuto legittimo, perché diretto a verificare condotte potenzialmente fraudolente, e non meri inadempimenti contrattuali;
la lesione dell’immagine aziendale assume rilievo particolare in un servizio svolto in luoghi pubblici, con obbligo di garantire standard elevati imposti dalla committenza pubblica;
non è necessaria l’affissione del codice disciplinare quando si viola il “minimo etico” del rapporto di lavoro, cioè quando la condotta è manifestamente scorretta secondo la coscienza comune.
In questo caso, si è ritenuto proporzionato il licenziamento per:
la reiterazione delle condotte;
la presenza di precedenti disciplinari;
il richiamo formale dell’ente committente;
la natura fraudolenta della condotta (es. rientro in sede dopo lunghe soste e timbratura regolare del foglio presenze).
La sentenza conferma che un comportamento reiterato e scorretto può legittimare il licenziamento disciplinare, anche senza danno economico diretto.
Il confine è chiaro: non si può “sparire” dal servizio per lunghe pause immotivate, specie in attività che si svolgono all’esterno e sotto gli occhi di tutti.
L’interesse aziendale non è solo il profitto, ma anche l’immagine pubblica.
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Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 02/04/2025 (ud. 12/03/2025) n. 8707
FATTI DI CAUSA
1. La Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, confermando la pronuncia del Tribunale della stessa sede, ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato a Ma.Gi. in data 1.12.2021 dalla società COSIR Srl a fronte dell'accertato inadempimento dell'art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 concernente le pause intermedie osservate durante l'orario di lavoro e, in particolare, le frequenti e prolungate soste in alcuni esercizi pubblici-bar dei Comuni ove il lavoratore - addetto al ritiro porta a porta di rifiuti urbani – doveva svolgere il servizio.
2. La Corte territoriale ha rilevato che il quadro probatorio raccolto (composto dall'acquisizione di una relazione investigativa, dall'analisi dei GPS installati sui mezzi di raccolta dei rifiuti guidati dal dipendente, dalla deposizione di diversi testimoni) ha dimostrato che il lavoratore, durante l'orario di lavoro, si era trattenuto presso diversi pubblici esercizi-bar per un periodo di tempo che eccedeva l'arco temporale previsto dall'art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 e dal contratto di lavoro. Con particolare riguardo all'utilizzazione degli esiti della relazione investigativa, la Corte territoriale ha sottolineato che il controllo era stato delegato solamente dopo il sorgere del sospetto, da parte del datore di lavoro, della violazione di obblighi derivanti dal CCNL e dal contratto individuale e di comportamenti che integravano una condotta fraudolenta (in specie con riguardo alla giornata in cui il servizio era terminato con largo anticipo e il lavoratore aveva trascorso il resto del turno di lavoro presso un esercizio pubblico, per poi far rientro in cantiere e compilare il foglio presenze in corrispondenza dell'orario finale); il personale investigativo era stato incaricato dalla società dopo che erano state constatate - tramite i sistemi di controllo a distanza-GPS installati su tutti i mezzi di raccolta come da espressa previsione del Capitolato di appalto - frequenti soste durante lo svolgimento dell'attività lavorativa, condotte che erano suscettibili di incidere sul patrimonio aziendale (nonché sull'immagine dell'azienda) alla luce degli obblighi assunti nei confronti del committente (di regolare e diligente svolgimento del servizio pubblico di raccolta dei rifiuti). In ogni caso, la Corte territoriale ha ritenuto che la prova delle condotte contestate al lavoratore era raggiunta mediante la prova testimoniale resa dal titolare e dal dipendente dell'agenzia investigativa, prova di cui, la parte interessata, non aveva dedotto né l'inammissibilità (prima della raccolta delle deposizioni) né la nullità. La Corte di appello ha, poi, ritenuto proporzionato il provvedimento espulsivo rispetto all'infrazione disciplinare contestata avuto, complessivamente, riguardo alla natura della violazione, alla loro reiterazione (che aveva determinato un richiamo da parte della committente nonché precedenti provvedimenti disciplinari), alle modalità della condotta e all'elemento soggettivo del lavoratore, anche con riguardo alla scala valoriale dettata dalle parti sociali in tema di sanzioni disciplinari e senza che potesse influire la patologia sofferta dal lavoratore sia in quanto comunicata dopo la contestazione disciplinare sia perché non appariva funzionalmente collegata al notevole prolungamento (presso gli esercizi commerciali) delle soste; ha, infine, ritenuto che nessun rilievo potesse assumere la mancata esposizione del codice disciplinare, trattandosi di violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore con quattro motivi, illustrati da memoria, e la società ha resistito con controricorso.
4. La Procura generale ha comunicato memoria con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2,3 e 4 della legge n. 300 del 1970 (ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.), avendo la Corte territoriale errato nel ritenere che lo svolgimento di pause (durante l'orario di lavoro) eccedenti la previsione legale e contrattuale costituisca inadempimento dell'obbligazione del dipendente; ha poi aggiunto che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il relativo controllo poteva essere delegato a soggetti terzi (nella specie un'agenzia investigativa), diversi dal datore di lavoro, solo in caso di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione.
2. Con il secondo motivo si denunzia nullità della sentenza nonché violazione dell'art. 132 c.p.c. (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c.) avendo la Corte territoriale errato nell'ipotizzare un danno patrimoniale a carico della società, trattandosi di mero inadempimento contrattuale (e non di un fatto illecito che potesse giustificare, ex artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970, un controllo investigativo). Né risulta dirimente il rinvio al Capitolato di appalto, posto che ivi è previsto di "limitare al minimo indispensabile la presenza all'interno di bar ed esercizi aperti al pubblico" senza imposizione di un divieto di accedere a tali luoghi (anzi, l'accesso era consentito per una volta ogni turno lavorativo). La sentenza impugnata recherebbe, pertanto, motivazione apparente nella misura in cui afferma che effettuare una pausa al bar durante l'attività lavorativa possa costituire fatto illecito e consentire il ricorso ai servizi investigativi.
3. Con il terzo ed il quarto motivo di ricorso (che sono esposti congiuntamente) si denunzia violazione degli artt. 132 e 115 c.p.c. nonché 7 della legge n. 300 del 1970 (ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo la Corte territoriale trascurato che – in ogni caso – il servizio di raccolta dei rifiuti, con riguardo alle giornate (6, 7 e 8 ottobre 2021) oggetto della contestazione disciplinare, era stato portato a compimento, con conseguente insussistenza di un inadempimento; inoltre, i precedenti disciplinari evocati dalla Corte territoriale dovevano ritenersi nulli a fronte della mancata affissione del Codice disciplinare.
4. I motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in considerazione della stretta connessione, non meritano accoglimento.
5. Questa Corte ha ripetutamente affermato che le disposizioni degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria riservata dall'art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e giustificano l'intervento in questione non solo per l'avvenuta prospettazione di illeciti e per l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Cass. 14.2.2011 n. 3590; Cass. n. 8373 del 2018); inoltre, il suddetto intervento deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell'obbligazione (Cass. n. 9167 del 2003). Invero, i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l'adempimento (o inadempimento) della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970 (ex aliis, Cass. n. 6174 del 2019, Cass n. 8373 del 2018; Cass. nn. 10636 e 26682 del 2017; Cass. n. 9167 del 2023; Cass. nn. 27610 e 30079 del 2024). Il controllo tramite agenzie investigative si giustifica "per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione" (Cass. n. 3590 del 2011; Cass. n. 15867 del 2017).
6. È stato precisato che le norme poste dagli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970 delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi con specifiche attribuzioni nell'ambito dell'azienda (rispettivamente con poteri di polizia giudiziaria e di controllo della prestazione lavorativa), ma non escludono il potere dell'imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica o anche attraverso personale esterno - costituito in ipotesi da dipendenti di una agenzia investigativa - l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti già commesse o in corso di esecuzione, e ciò a prescindere dalle modalità del controllo, che può avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei rapporti né il divieto di cui alla stessa L. n. 300 del 1970, art. 4, riferito esclusivamente all'uso di apparecchiature per il controllo a distanza (Cass. n. 16196 del 2009; Cass. n. 23303 del 2010; Cass. n. 10955 del 2015).
7. Più recentemente, questa Corte (Cass. nn. 23985, 27610 e 30079 del 2024) ha precisato come la nozione di "patrimonio aziendale" tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell'attività dei lavoratori vada intesa in una accezione estesa; si è così riconosciuto "il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, (...) costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, così come accreditata presso il pubblico" (Cass. n. 2722 del 2012; sulla tutela dell'immagine aziendale v. pure Cass. n. 13266 del 2018); costantemente, poi, è stata ritenuta lesiva del patrimonio aziendale la condotta di dipendenti potenzialmente integrante un illecito penale, sia ammettendo l'accertamento di fatti disciplinarmente rilevanti mediante filmati di telecamere installate in locali dove si erano verificati furti (Cass. n. 10636 del 2017) o a presidio della cassaforte aziendale (Cass. n. 22662 del 2016), sia in ipotesi di mancata registrazione della vendita da parte dell'addetto alla cassa ed appropriazione delle somme incassate (per tutte v. Cass. n. 18821 del 2008; sul controllo mediante agenzie investigative v., da ultimo, Cass. n. 17004 del 2024); si è quindi ribadito che la tutela del patrimonio aziendale può riguardare la difesa datoriale "dalla lesione all'immagine e al patrimonio reputazionale dell'azienda, non meno rilevanti dell'elemento materiale che compone la medesima" (Cass. n. 23985 del 2024 cit.).
8. Questa Corte ha, inoltre, precisato che "l'accertamento circa la riferibilità (o meno) del controllo investigativo allo svolgimento dell'attività lavorativa rappresenta una indagine che compete al giudice del merito, involgendo inevitabilmente apprezzamenti di fatto" (in termini, da ultimo, Cass. n. 22051 del 2024).
9. Orbene, nella fattispecie in esame, il convincimento della Corte territoriale si è basato sull'esito di un'attività investigativa, oggetto anche di prova testimoniale degli investigatori, rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto esercitata in luoghi pubblici, ove è stato accertato che, per alcuni giorni, il lavoratore aveva adottato un comportamento illecito, suscettibile altresì di rilievo penale o, comunque, idoneo a raggirare il datore di lavoro e a ledere non solo il patrimonio aziendale ma anche l'immagine e la reputazione dell'azienda all'esterno.
10. Deve, pertanto, ritenersi corretto il riferimento dei giudici di seconde cure al fatto che, nel caso in esame, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento dell'obbligazione lavorativa, bensì il compimento di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione contrattuale.
11. Infine, va richiamato il consolidato orientamento di questa Corte (ex plurimis, Cass. n. 22626 del 2003; Cass. n. 13906 del 2013; Cass. n. 6893 del 2018), secondo cui la pubblicizzazione del Codice disciplinare mediante affissione non è condizione indefettibile dell'azione disciplinare, allorquando vi sia violazione del c.d. minimo etico, in quanto la funzione della pregressa previsione in un testo che sia affisso o pubblicato nelle forme del caso non è quella di fondare in assoluto il potere disciplinare (in sé basato sul disposto dell'art. 2106 c.c. e sul richiamo di esso alle norme, di formulazione ampia e generale, di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.), ma è invece quella di predisporre e regolare le sanzioni rispetto a fatti di diversa caratura, la cui mancata previsione potrebbe far ritenere che la reazione datoriale risponda a criteri repressivi che inopinatamente valorizzino ex post e strumentalmente taluni comportamenti del lavoratore; detta esigenza non ricorre nei casi in cui la gravità assoluta derivi dal contrasto con il predetto "minimo etico", proprio perché il lavoratore, come reiteratamente affermato in tali evenienze, non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere.
12. In conclusione, il ricorso va rigettato. Le spese di lite del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza dettato dall'art. 91 c.p.c.
13. Sussistono le condizioni di cui all'art. 13, comma 1 quater, D.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 12 marzo 2025.
Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2025.