Ricorso per cassazione, inammissibilità, manifesta infondatezza, impossibilità di rilevare cause di non punibilità

Corte di Cassazione, sez. Unite Penale, Sentenza n.32 del 22/11/2000 (dep. 21/12/2000)

Pubblicato il
IMPUGNAZIONI (COD. PROC. PEN. 1988) - INAMMISSIBILITÀ - CASI - Ricorso per cassazione - Inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi - Rilevabilità delle cause di non punibilità - Esclusione - Fattispecie

L'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. (Nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso).

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                     
SEZIONI UNITE PENALI                          

Composta dai Signori:                                                 
Dott. Aldo Vessia       Presidente                              
1.  Dott.  Bruno     Frangini     Componente                          
2.  Dott.  Franco    Marrone      Componente                          
3.  Dott.  Amedeo    Postiglione  Componente                          
4.  Dott.  Mariano   Battisti     Componente                          
5.  Dott.  Giovanni  de Roberto   Componente                          
6.  Dott.  Vincenzo  Colarusso    Componente                          
7.  Dott.  Antonio   Morgigni     Componente                          
8.  Dott.  Aniello   Nappi        Componente                          
                             

SENTENZA

sul ricorso proposto da De L. G.;                                     
avverso la sentenza 28 ottobre 1998 della Corte di appello di Roma.   
Letti gli atti, la sentenza denunciata ed il ricorso.                 
Sentita in camera di consiglio la relazione fatta dal Consigliere de Roberto.                                                              
Lette le conclusioni del Pubblico ministero, che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.                            

Fatto-Diritto

1. De L. G. ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza 28 ottobre 1998 con la quale la Corte di appello di Roma confermava la decisione 27 maggio 1996 del locale Tribunale che lo aveva condannato alla pena di mesi sei di reclusione per il delitto di minaccia grave continuata, così modificata l'originaria imputazione di cui agli artt. 81, 110, 611 c.p., per avere, in concorso con ignoti complici, effettuando numerose telefonate, ripetutamente minacciato P. M. di atti di libidine violenti, al fine di condizionare la sua partecipazione al procedimento penale in corso davanti al Tribunale di Roma per rapina e tentato sequestro di persona ai danni della stessa M.; fatto commesso in Roma, fino al 5 settembre 1992. 
Lamenta che il giudice a quo non abbia disposto l'espletamento della prova fonica determinante ai fini della decisione; deducendo che la Corte territoriale aveva, "seppure con ragionamento logico corretto, utilizzato delle prove indirette di cui può farsi impiego in mancanza di prove dirette"; con la conseguenza che, disponendosi della possibilità di prove dirette, "il ricorso all'indizio è legittimo solo dopo il loro espletamento ed ad colorandum per l'assoluzione o la condanna". 
2. Il Procuratore Generale ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, a norma dell'art. 606, comma 3, c.p.p., costituendo le doglianze censure "in punto di fatto" della decisione impugnata. 
3. Il ricorso è stato assegnato alla V Sezione penale di questa Corte la quale, premesso che la richiesta dichiarazione di inammissibilità doveva essere condivisa ma che le ragioni che avrebbero dovuto condurre ad un tale tipo di statuizione erano da individuare non nella proposizione di motivi non consentiti, ma nella manifesta infondatezza dei motivi stessi perché il ricorrente, riconoscendo la correttezza della motivazione della sentenza di condanna, conviene che il processo era definibile a prescindere dalla rinnovazione del dibattimento e, dunque, pur in mancanza dell'espletamento della perizia fonica, senza, peraltro proporre questioni di fatto, ha, con ordinanza del 18 maggio 2000, rimesso il ricorso alle Sezioni unite ai sensi degli artt. 618 c.p.p. e 172, comma 2, delle norme di attuazione dello stesso codice. 
E ciò perché, in presenza di una causa estintiva del reato, vale a dire, la prescrizione maturata dopo la statuizione oggetto del gravame, riesaminino, considerata la recente decisione delle Sezioni unite (Sez. un., 30 giugno 1999, P.), la problematica concernente l'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. in presenza di un'impugnazione per cassazione manifestamente infondata. 
Ricorda, in proposito, la Sezione rimettente che, alla stregua di tale decisione, quando i motivi di ricorso sono manifestamente infondati, per venire in considerazione, richiedendosi una delibazione sulla fondatezza delle censure, una causa sopravvenuta di inammissibilità del ricorso, si deve dichiarare la prescrizione; ciò a differenza dell'ipotesi in cui vengano individuate le altre cause di inammissibilità previste dall'art. 603, comma 3, c.p.p. ovvero quelle contemplate dall'art. 591, comma 1, lettere a, b, e c, dello stesso codice. 
Una simile linea interpretativa non valorizzerebbe, però, l'argomento che le specifiche cause di inammissibilità enunciate dall'art. 606, comma 3, c.p.p. richiedono tutte una delibazione sul contenuto delle censure; e se è vero che la "manifesta infondatezza" resta contrassegnata da caratteristiche peculiari, è anche vero che si tratta pur sempre di una vizio da cui deriva un giudizio negativo sui motivi, per profili connaturati al ricorso e perciò di natura originaria. 
L'infondatezza sta appunto a designare che le argomentazioni contenute nel ricorso sono inutili allo scopo, da identificarsi, non con la questione di giustizia, ma con la censura del provvedimento impugnato. E, poiché l'attributo che qualifica "manifesta" l'infondatezza non definisce un maggior grado di non fondatezza sebbene soltanto la esclusione della necessità di argomentare in ordine al provvedimento denunciato, la verifica resta circoscritta all'esame del ricorso traducendosi nell'accertamento, in base a canoni prestabiliti, della inidoneità delle censure ad introdurre il giudizio di impugnazione. 
La sistemazione topografica del "vizio" in esame costituirebbe univoca conferma del carattere di mera constatazione della dichiarazione di manifesta infondatezza del ricorso. Collocato nel comma 3 dell'art. 606 c.p.p., dopo l'enunciazione del "Casi" di ricorso deducibili davanti alla Corte di cassazione, accanto ai motivi non consentiti, il parametro di valutazione dell'inammissibilità rimane attestato ad indici che precludono l'introduzione del procedimento di impugnazione, da identificare nella pretestuosità di motivi solo apparentemente consentiti. Senza che un simile accertamento imponga necessariamente la "lettura della sentenza" - che, peraltro, è richiesta, in talune ipotesi, sia nel caso di motivi non consentiti sia nel caso di motivi non dedotti in sede di merito - ma allo scopo di apprezzare il "tenore dell'atto di impugnazione". 
Con la conseguenza che, nel dichiarare l'inammissibilità del ricorso per ciascuna delle cause previste dall'art. 606, comma 3, c.p.p., la Corte di cassazione, senza sindacare la pronuncia del giudice di merito, "rimuove la condizione ostativa della pendenza del procedimento alla sua irrevocabilità", nessuna verifica della "resistenza alla censura della sentenza impugnata" essendo demandata al giudice di legittimità. E poiché affermare che i motivi sono manifestamente infondati equivale ad affermare che i motivi sono soltanto apparentemente consentiti, non è possibile sfuggire alla scelta ermeneutica traducibile nell'alternativa che ravvisa o in tutte le cause di inammissibilità previste dall'art. 606, comma 3, c.p.p. una preclusione all'annullamento della sentenza di merito per sopravvenuta prescrizione del reato ovvero nella proposizione dell'impugnazione la possibilità che venga dichiarata la prescrizione sopravvenuta, nonostante l'inidoneità del gravame a radicare il potere-dovere di annullamento. 
Se la ratio della sentenza P. è nel senso che la pendenza del procedimento non può essere artificiosamente protratta in sede di legittimità, la manifesta infondatezza resta preordinata al perseguimento di una simile esigenza, di fronte ad un'impugnazione inidonea a sindacare la decisione. Tanto da giustificare la previsione di tale causa di inammissibilità (accanto alla proposizione di motivi non consentiti e di motivi non dedotti in sede di appello) per il solo giudizio di cassazione, non rilevando nell'impugnazione di merito nell'ambito della quale il giudice non può previamente escludere il contraddittorio perché è comunque tenuto alla risoluzione della questione di giustizia al pari del giudice di primo grado. 
Così confermando che la Corte di cassazione è giudice del solo provvedimento. 
4. Con decreto 4 luglio 2000 il Primo Presidente Aggiunto ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite, a norma dell'art. 172, comma 2, delle norme di attuazione del codice di procedura penale per la soluzione della questione circa l'applicabilità delle cause di non punibilità previste dall'art. 129 c.p.p. nel caso di ricorso per cassazione inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi. 
5. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha ribadito la richiesta di inammissibilità, individuandone però la causa nella manifesta infondatezza dei motivi, che condurrebbe egualmente all'inapplicabilità della prescrizione intervenuta successivamente alla pronuncia di secondo grado. 
Premesso che non appare più pertinente evocare la differenza tra cause di inammissibilità originarie e cause di inammissibilità sopravvenute, essendo una distinzione del genere basata su una ricostruzione dell'atto di impugnazione che ravvisa nella dichiarazione e nei motivi due momenti necessariamente separati, il requirente rileva che gli approdi cui è prevenuta la sentenza Piepoli meritano un ripensamento, alla stregua degli argomenti addotti dalla Sezione rimettente laddove si contesta, anzi tutto, che la manifesta infondatezza del ricorso determini una delibazione sulle censure più incisiva di quella che è necessario compiere in presenza "di altro genere di motivi non consentiti (quali quelli di merito)". 
Possono, infatti, individuarsi ipotesi in cui, come quella di specie, emerga ictu oculi l'intrinseca contraddittorietà della tesi sostenuta dal ricorrente senza che sia necessario accedere alla verifica della decisione denunciata, così come sono concepibili ipotesi di inammissibilità diverse dalla manifesta infondatezza che impongono l'esame della sentenza e del fascicolo di merito. Con la conseguenza che l'esame del fascicolo processuale non vale a segnare un decisivo discrimine tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta. Né sarebbe in grado di delimitare le ipotesi in cui, in presenza di un ricorso inammissibile, sia consentito applicare o no la disposizione dell'art. 129 c.p.p. ovvero adottare come criterio discretivo la maggiore o minore rilevabilità ovvero la soggettiva opinabilità del giudizio di manifesta infondatezza; neppure il momento in cui il vizio viene rilevato e la procedura necessaria per apprezzarlo possono assumere adeguata significazione, stando al Procuratore Generale, ai fini della qualificazione del vizio, senza riferirsi, invece, "alla sua originaria natura". 
Se, quindi, quel che accomuna tutte le ipotesi di inammissibilità previste dall'art. 606 c.p.p. è il loro atteggiarsi come "vizio intrinseco" del ricorso, che richiede una delibazione "in rapporto a parametri prestabiliti", da formulare in via preliminare, ove tale accertamento dia esito positivo, non è possibile accedere all'esame del provvedimento impugnato, e ne è precluso l'annullamento, non sussistendo i requisiti per l'instaurazione del giudizio di impugnazione. 
6. Le Sezioni unite sono chiamate a decidere se la manifesta infondatezza del ricorso per cassazione consenta o no l'applicazione dell'art. 129 c.p.p. Peraltro, alla stregua delle requisitorie del Procuratore Generale, il thema decidendi risulterebbe - ma solo apparentemente - dilatato, ponendosi in discussione, la stessa endiadi cause di inammissibilità originarie-cause di inammissibilità sopravvenute, così da coinvolgere nell'ostacolo alla dichiarazione di cause di non punibilità qualsivoglia ipotesi in cui venga ravvisata l'inammissibilità del ricorso. 
Con più specifico riferimento al caso di specie, ma con decisivi riverberi sull'attuale regime dei rapporti tra inammissibilità e applicazione delle cause di non punibilità previste dalla norma sopra richiamata, la Corte è tenuta così a scrutinare se la prescrizione del reato maturata successivamente alla pronuncia della sentenza denunciata per cassazione in presenza di un ricorso da definire, come rigorosamente è stato definito dall'ordinanza di rimessione, manifestamente infondato - non pure incentrato su censure di fatto, per risultare dallo stesso ricorso l'assoluta inconsistenza giuridica delle doglianze, coinvolgenti esclusivamente violazioni della legge processuale - consenta o no l'operatività dell'art. 129 c.p.p.. 
Ritiene il Collegio che la risposta al quesito debba essere negativa e che, quindi, debba essere dichiarata l'inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dello stesso. 
7. Come è noto, la distinzione tra inammissibilità originaria e inammissibilità sopravvenuta - cui pure si richiama l'ordinanza di rimessione - ha la sua genesi nella dottrina formatasi agli albori dell'entrata in vigore del codice del 1930, profilandosi come funzionale anche alla tematica concernente i rapporti tra impugnazione inammissibile e applicabilità delle cause di non punibilità previste dall'art. 152 dello stesso codice, in un regime contrassegnato dalla separazione tra il momento introduttivo del gravame ed il momento di sviluppo argomentativo del gravame stesso. 
Cause originarie di inammissibilità venivano considerate quelle che rendono invalido alla base l'atto di impugnazione - da identificare, quindi, nella dichiarazione, intesa come l'atto introduttivo del procedimento d'impugnazione - in quanto questo riguardi un provvedimento inoppugnabile o non impugnabile con il gravame proposto o proposto da chi non ne abbia diritto, ovvero oltre il termine di legge. In tali casi - si rammentava - essendosi già esaurito il procedimento, l'art. 152 non può ricevere applicazione e l'inammissibilità deve essere dichiarata in via assolutamente pregiudiziale; adottata quest'ultima espressione in senso atecnico, al fine esclusivo di definire la priorità logico-giuridica che designa la detta dichiarazione rispetto alla decisione di merito. 
Solo nei casi in cui, invece, la dichiarazione sia stata validamente proposta e l'inammissibilità derivi da vizi concernenti i motivi (omessi o irritualmente presentati, un fenomeno a sé rappresenta la rinuncia al gravame), essendo tuttora in corso il procedimento per effetto della valida dichiarazione, l'art. 152 deve essere applicato anche di ufficio trascurando ogni questione riguardante l'ammissibilità dell'impugnazione. 
È appena il caso di notare, poi, che nel sistema del codice abrogato la distinzione tra cause di inammissibilità originarie e cause di inammissibilità sopravvenute non coincidesse con l'ambito dei poteri riservati al giudice a quo ed al giudice ad quem rispettivamente dagli artt. 207 e 209. Infatti, accanto all'inammissibilità coinvolgente la dichiarazione e, quindi, "originaria" (impugnazione proposta da soggetto sprovvisto di legittimazione, ovvero avverso un provvedimento non assoggettato all'impugnazione proposta, dichiarazione non presentata nella forma, nel tempo e nel luogo prescritti), preclusive dell'applicazione dell'art. 152, il giudice a quo era legittimato a dichiarare anche l'inammissibilità non derivante da invalidità afferenti la dichiarazione (omessa presentazione dei motivi, presentazione dei motivi in violazione delle prescrizioni concernenti la forma, il tempo ed il luogo, omessa esecuzione delle notificazioni prescritte a pena di decadenza, rinuncia all'impugnazione). Al contempo, al giudice ad quem era affidato il compito di dichiarare l'inammissibilità dell'impugnazione, oltre che nei casi in cui questa non fosse stata dichiarata dal giudice a quo ai sensi dell'art. 207 (con conseguente preclusione, pure in tal caso, all'applicabilità dell'art. 152), quando l'impugnazione fosse stata proposta da soggetto carente di interesse e negli altri casi previsti dalla legge (v. art. 524), tutti non ostativi alla immediata dichiarazione di cause di non punibilità. 
Nonostante il giudice del provvedimento impugnato fosse legittimato a pronunciare l'inammissibilità per talune cause "sopravvenute", gli era però impedito l'esercizio del potere di applicare l'art. 152, avendo esaurito la sua giurisdizione con la pronuncia della decisione oggetto del gravame, mentre la declaratoria di inammissibilità, non implicando l'immanenza della giurisdizione su ciò che egli aveva giudicato, comportava l'esercizio di un potere di accertamento limitato a determinati vizi processuali non suscettivi di diverso apprezzamento. Con il conseguente dovere del giudice a quo, pur in presenza di una causa "sopravvenuta" dell'impugnazione da lui rilevabile, di rimettere gli atti al giudice ad quem, ai sensi dell'art. 208, nel caso in cui dovesse trovare applicazione l'art. 152. 
Con riferimento, poi, agli specifici casi di inammissibilità del ricorso per cassazione, vale a dire i motivi non consentiti o manifestamente infondati (art. 524, ultimo comma, c.p.p.), se ne riteneva la natura di cause sopravvenute di inammissibilità, non preclusive, conseguentemente, della dichiarazione di non punibilità, concernendo non la dichiarazione e, dunque, l'atto "costitutivo" del rapporto di impugnazione, ma i motivi e, dunque, l'atto "integrativo" del rapporto stesso. 
8. Su tale linea interpretativa si era attestata anche la giurisprudenza di questa Corte Suprema, costante nel senso che la causa originaria colpisce l'impugnazione nel suo momento iniziale, con la conseguenza che essa non è idonea ad instaurare il rapporto processuale di impugnazione (come nel caso di gravame non consentito o tardivo); in tali ipotesi l'impugnazione è improduttiva di effetti e la sentenza cui inerisce diventa irrevocabile dopo il normale decorso del termine attribuito alle parti per l'esercizio della facoltà di gravame tanto da determinare una situazione corrispondente ad una vera e propria absolutio ab instantia. 
Si realizza, invece, una causa di inammissibilità sopravvenuta quando la inammissibilità non tragga origine da una causa rientrante nel novero di quelle adesso considerate, ma dipenda da cause sopraggiunte alla dichiarazione (ad esempio, mancata o irregolare presentazione dei motivi); in tali ipotesi, la presenza di un'impugnazione originariamente ammissibile comporta che la sentenza passi in giudicato quando sia divenuto irrevocabile il provvedimento che dichiara l'inammissibilità del gravame (cfr. Sezione IV, 10 febbraio 1981, B.). 
Se la dichiarazione sia stata validamente introdotta l'inammissibilità del gravame per causa sopravvenuta (omessa o irrituale proposizione dei motivi, rinuncia) non fa venir meno il procedimento, cosicché, intervenendo una delle cause di non punibilità previste dall'art. 152, il giudice deve dichiararla senza indugio, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, indipendentemente dalla questione se l'impugnazione sia inammissibile per la detta causa sopravvenuta (Sez. IV, 20 marzo 1959, S.). 
Al contrario, l'inammissibilità dell'impugnazione per causa originaria, presupponendo la formazione del giudicato, preclude l'eventuale applicabilità delle disposizioni sopravvenute più favorevoli al reo (Sez. un., 10 gennaio 1976, Delle Donne), ovvero anche di dedurre una questione sulla legittimità costituzionale della legge in base alla quale l'impugnata sentenza è stata emessa (Sez. Un. 10 dicembre 1957, R. - Sez. Un., 11 dicembre 1965, B.). 
Se, poi, il giudice a quo, rilevi una causa sopravvenuta di inammissibilità, non può applicare una causa estintiva del reato, ma deve trasmettere gli atti al giudice dell'impugnazione al quale soltanto è conferito il potere di dichiarare l'estinzione del reato stesso (Sez. II, 20 ottobre 1976, C.). 
9. La base normativa di una simile distinzione e le ragioni che avevano indotto la giurisprudenza e la dottrina prevalente a collocare le specifiche cause di inammissibilità previste per il ricorso per cassazione nel paradigma dell'inammissibilità sopravvenuta sembravano incentrarsi, non soltanto nel ruolo cruciale assegnato alla dichiarazione, quale atto introduttivo del rapporto di impugnazione, ma anche nell'emergenza del principio del favor innocentiae, evocabile, peraltro, secondo quanto ebbe a rilevare un'autorevole dottrina, nei soli casi previsti dal capoverso dell'art. 152, perché la prima parte di tale articolo sembrerebbe informato alla più ridotta esigenza di perseguire finalità di economia processuale. Un sistema, quello ora ricordato, non discorde dai principi che, più in generale, avevano consentito di superare le (solo apparenti) antinomie latenti nella (solo apparente) coesistenza di due modelli ontologicamente incompatibili, quali l'inammissibilità dell'impugnazione e l'immediata declaratoria di cause di non punibilità. 
10. Non si era mancato, peraltro, di precisare come l'unico rassicurante dato normativo al quale raccordare con valenza davvero ricostruttiva la rammentata endiadi inammissibilità originaria-inammissibilità sopravvenuta, vale a dire, l'art. 576, 2° comma, c.p.p., non fosse in grado di essere correttamente chiamato in causa perché, come venne, ancora autorevolmente, rilevato in dottrina, il ricorso al criterio del "giudicato formale" (il quale - come si vedrà tra poco - non ha mancato di profilarsi anche nel sistema del nuovo codice sulla base di una forse troppo letterale interpretazione comparativa fra il richiamato articolo del codice abrogato e l'art. 648, comma 2, c.p.p.) appartiene a vicende direttamente collegate non al regime dell'inammissibilità dell'impugnazione ma a quello dell'esecuzione del provvedimento. 
11. Le notazioni che precedono, che, pure appaiono attestarsi all'esigenza di "storicizzare" i rapporti tra cause di inammissibilità e cause di non punibilità, divengono però dotate di assoluta significazione problematica per accedere ad una verifica del sistema delineato dal codice del 1988 ed alle sequenze interpretative che hanno determinato la giurisprudenza di questa Corte Suprema a radicare ancora una volta nella proposizione inammissibilità originaria - inammissibilità sopravvenuta il ricordato rapporto di interferenza; non senza rimarcare, peraltro, come lo stesso dibattito dottrinale si sia non di rado affidato, di fronte ad una nozione di teoria generale del processo come quella avente ad oggetto l'inammissibilità e, specificamente, l'inammissibilità dell'impugnazione, a considerazioni più di ordine empirico, volte a perseguire esigenze di (apparente) giustizia sostanziale, che di rigoroso ordine dogmatico fondate su determinazioni precettive oggetto di una diagnosi ermeneutica davvero rigorosa. 
12. In tema di inammissibilità dell'impugnazione, nella legge delega del 1987 vanno segnalate due direttive: l'art. 2, n. 84, che prescrive l'"ammissibilità dell'impugnazione indipendentemente dalla qualificazione ad essa data dalla parte impugnante" e l'art. 2, n. 89, il quale impone al legislatore delegato la "previsione dei casi di dichiarazione in camera di consiglio della inammissibilità delle impugnazioni ivi compreso il ricorso per cassazione" nonché "dei casi di dichiarazione in camera di consiglio dell'inammissibilità del ricorso per cassazione anche per manifesta infondatezza con adeguate garanzie per la difesa". 
La prescrizione più rilevante appare la seconda subdirettiva 89 nella quale le parole "con adeguate garanzie per la difesa", furono aggiunte a seguito dell'emendamento 2.59 all'allora direttiva 88 nella seduta del 20 novembre 1986, emendamento approvato dal Senato nella stessa seduta. Il precetto, assentito senza modificazioni dalla Camera dei deputati nella seduta del 4 febbraio 1987, divenne il testo della direttiva sopra richiamata. 
13. Non è inutile, ancora, rammentare, prima di penetrare in medias res, come la Relazione al Progetto preliminare del codice del 1988, a proposito dell'attuazione dell'art. 2, n. 89, della legge-delega, dopo aver sottolineato l'inopportunità di ricorrere alla procedura prevista dall'art. 126 (127 del testo definitivo) e di aver ritenuto opportuno, per gli altri giudizi di impugnazione, anche per la ricorribilità in cassazione del provvedimento che dichiara l'inammissibilità del gravame, prevedere un procedimento de plano, ai fini della dichiarazione di inammissibilità dell'impugnazione, ha puntualizzato, che, invece, la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione è stata oggetto di una disciplina radicalmente innovativa. Sia perché "tutte le cause di inammissibilità, compresa la manifesta infondatezza, sono state trattate allo stesso modo, per l'assorbente rilievo che la gravità della pronuncia e l'impossibilità di distinguere le cause stesse sul piano della loro più o meno agevole verifica, postulano un medesimo regime di garanzie", sia perché è sembrato non conforme alla stessa natura del giudizio di cassazione prevedere l'oralità come strumento atto ad assicurare il ristoro delle esigenze difensive, cui fa riferimento la legge-delega, nei limiti, peraltro della manifesta infondatezza. 
Così da concludere che "nel caso in esame la corte giudica sui motivi e sulle memorie delle parti", etc. E, più avanti, nel commentare il comma 2 dell'art. 604 (divenuto art. 611 del testo definitivo), si precisa: "Viene meno, quindi, la differenza, attualmente prevista, tra l'inammissibilità per manifesta infondatezza, in relazione alla quale sono riconosciute delle garanzie difensive (art. 531, 4° comma, c.p.p.) e quella dipendente da altre cause. Per tutte le ipotesi di inammissibilità il difensore del ricorrente deve essere avvertito sia dell'udienza fissata, sia della richiesta del procuratore generale, e per tutte è messo in condizione di svolgere un'attività difensiva presentando memorie". 
14. Poste tali premesse, va subito ricordato come l'assetto normativo delineato dal codice del 1988 risulta comunque designato - ai fini che qui direttamente interessano - da molteplici profili di novità. 
Scompare, in via generale, la distinzione tra dichiarazione e motivi di impugnazione e, con essa, la competenza (eventualmente) alternativa e per taluni casi esclusiva del giudice a quo e del giudice ad quem a norma degli artt. 207 e 209 c.p.p. 1930, mentre le cause di inammissibilità dell'impugnazione vengono tutte individuate, in via generale, dall'art. 591 c.p.p. che accomuna le ipotesi olim definite originarie o sopravvenute (carenza di legittimazione e di interesse, inoppugnabilità del provvedimento, inosservanza delle norme concernenti la forma, la presentazione, la spedizione e i termini di impugnazione, nonché il regime delle ordinanze emesse in dibattimento e la rinuncia), prescrivendo il comma 2 di tale articolo che il giudice dell'impugnazione, anche di ufficio, dichiara con ordinanza l'inammissibilità dell'impugnazione e dispone l'esecuzione del provvedimento impugnato. 
Mentre la disposizione sul giudicato contenuta nell'art. 648, comma 2, non subisce sostanziali modificazioni rispetto alla corrispondente previsione dell'art. 579 c.p.p. 1930, con riferimento alle prescrizioni concernenti le specifiche ipotesi di inammissibilità del ricorso per cassazione, va segnalato l'inserimento, accanto ai motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati, previsti anche nel sistema del codice abrogato, dei motivi concernenti violazioni di legge non dedotte in appello (peraltro già incluse tra le ipotesi di inammissibilità dalla giurisprudenza nel regime del c.p.p. 1930), salvo, ovviamente, il caso di ricorso per saltum e di questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello (artt. 606, comma 3, e 609, comma 2, c.p.p.). Per i motivi manifestamente infondati e per quelli non consentiti, il legislatore del 1988 ha, poi, soppresso la disposizione che conferiva al difensore la potestà di far trattare il ricorso in pubblica udienza (art. 524 c.p.p. 1930). 
L'eccezionale possibilità di incidere in executivis sul provvedimento contrassegnato dalla formazione del giudicato formale (v., soprattutto, l'art. 673 c.p.p.) parrebbe, peraltro, comportare, al pari dell'ipotesi in cui debba essere dichiarata l'estinzione del reato a norma dell'art. 150 c.p., che a tanto possa provvedere il giudice dell'impugnazione inammissibile - indipendentemente dalla procedura concretamente seguita - a meno che il decorso del termine, derivante dalla mancata proposizione del gravame (arg. ex art. 648, comma 2, c.p.p.) abbia già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale. 
15. Nonostante l'articolarsi dell'atto di impugnazione nelle richieste e nei motivi e, dunque, la scomparsa della rilevanza giuridica della distinzione tra dichiarazione e motivi, la giurisprudenza sin dai suoi primi assestamenti, ha ritenuto immanente nel sistema la contrapposizione tra cause originarie e cause sopravvenute di inammissibilità, pur rimarcando come la mancata enunciazione dei motivi costituisca ora causa di inammissibilità originaria dell'impugnazione, preclusiva dell'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. perché inidonea ad introdurre il nuovo grado di giudizio (Sez. IV, 24 febbraio 1992, V. - Sez. II, 4 luglio 1991, T.), con l'additare come ulteriore causa di inammissibilità originaria la mancanza di specificità dei motivi (Sez. III, 8 marzo 1994, D.M.), così da coinvolgere nel regime dell'inammissibilità originaria anche vizi concernenti i motivi di ricorso. Una tendenza decisamente contrastata da una giurisprudenza minoritaria orientata nel senso che l'unica causa originaria di inammissibilità dell'impugnazione va individuata nella proposizione del gravame oltre il termine previsto dall'art. 585 c.p.p. Più in particolare, facendosi leva sul disposto dell'art. 648 c.p.p., secondo il quale, salvo che per le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione, per le quali il momento della realizzazione dell'irrevocabilità coincide con quello della loro pronuncia, l'irrevocabilità della sentenza o del decreto di condanna si realizza automaticamente nel momento del verificarsi della causa di inammissibilità solo quando sia inutilmente decorso il termine per proporre rispettivamente l'impugnazione o l'opposizione o quello per impugnare l'ordinanza che la dichiara inammissibile. 
Precisandosi che in tutti gli altri casi di inammissibilità dell'impugnazione o dell'opposizione l'irrevocabilità della sentenza o del decreto consegue non già alla sola verificazione della causa di inammissibilità, ma alla dichiarazione di inammissibilità con un provvedimento, a sua volta, irrevocabile. 
Fuori, quindi, dell'ipotesi in cui l'impugnazione o l'opposizione siano state proposte dopo la scadenza del termine stabilito, la sentenza o il decreto di condanna diventano irrevocabili dopo che sia divenuto irrevocabile il provvedimento con cui è stata dichiarata l'inammissibilità, rispettivamente, della impugnazione o dell'opposizione. Con la conseguenza che, poiché fino al momento in cui la sentenza o il decreto non sia divenuto irrevocabile, il processo non può considerarsi ancora definitivamente concluso, il giudice davanti al quale esso è pendente ha il potere-dovere, in presenza dei relativi presupposti, di pronunciare sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 129 c.p.p. o di rilevare una nullità assoluta a norma dell'art. 179 dello stesso codice o una nullità di ordine generale, diversa dalle nullità assolute, verificatasi nel grado precedente (Sez. I, 8 ottobre 1990, M.). 
16. Le Sezioni unite (Sez. Un. 11 novembre 1994, C.), chiamate a dirimere il contrasto, hanno, in primo luogo, statuito come l'art. 648 c.p.p. (le cui innovazioni rispetto all'art. 576 c.p.p. 1930, non pare eccedano - va qui ribadito - l'esigenza di un mero ammodernamento formale) non possa essere utilizzato per individuare nell'ambito della cognizione del giudice dell'impugnazione il rapporto tra cause di inammissibilità e cause di non punibilità; infatti simile disposizione è diretta a disciplinare il giudicato ed a segnare l'inizio della fase esecutiva mentre è dalle norme che regolano il processo che deve trarsi la disciplina dei rapporti tra cause di inammissibilità e cause di non punibilità, al fine di stabilire quale tra esse debba prevalere. 
Dall'esame comparativo dell'art. 591 c.p.p. 1930 e dell'art. 648, comma 2, del vigente codice di rito si ricava allora - seguendo gli itinerari interpretativi percorsi da tale decisione - che la scadenza del termine per impugnare si iscrive quale condizione per la formazione del giudicato formale, quando l'impugnazione non sia stata proposta, secondo una linea di tendenza già affermatasi nel vigore del codice abrogato. In caso contrario non si giustificherebbe la collocazione della scadenza del termine fra le cause di inammissibilità previste, in via generale, dall'art. 591; ed infatti, ove si volesse accedere ad una diversa ricostruzione sistematica si perverrebbe alla conclusione, davvero irragionevole, se non addirittura paradossale, che l'atto di impugnazione, pur se tardivo, mai consentirebbe la formazione del giudicato formale, con intuibili riverberi anche sulla fase esecutiva. 
Nonostante, però, l'unicità dell'atto di impugnazione - con la conseguente irrilevanza di ogni distinzione tra dichiarazione di impugnazione, da un lato, e richieste e motivi, dall'altro lato - e la sottrazione al giudice a quo di ogni potere delibativo in ordine all'inammissibilità, rimane ferma la distinzione - certo, depotenziata non soltanto sul piano dogmatico - tra cause di inammissibilità originarie e cause di inammissibilità sopravvenute. 
Le prime sono allora indicate in tutte le cause di inammissibilità previste dall'art. 591 c.p.p. (con eccezione della rinuncia). 
Vengono escluse dall'effetto preclusivo all'applicazione dell'art. 129 c.p.p. (oltre alla rinuncia) anche le cause di inammissibilità indicate nell'art. 606, comma 3, perché esse comportano "un esame, a volte anche approfondito, degli atti processuali; con la conseguenza che, nel caso in cui questo esame faccia emergere una causa di non punibilità non ci sono ragioni logiche per negare operatività alla norma dell'art. 129 c.p.p.". Più specificamente, con riguardo alla manifesta infondatezza, si aggiunge "che il discrimine tra manifesta infondatezza e (semplice) infondatezza dei motivi è incerto e pone il giudice di fronte a una scelta talvolta opinabile, che però agli effetti pratici non è fonte di conseguenze radicalmente diverse se concerne solo l'alternativa tra inammissibilità e rigetto del ricorso, mentre diventerebbe assai impegnativa se l'inammissibilità per manifesta infondatezza dovesse considerarsi preclusiva di un proscioglimento a norma dell'art. 129 c.p.p.". 
17. Nuovamente investite, questa volta ai sensi dell'art. 172, comma 2, norme att., della problematica concernente i rapporti tra cause di inammissibilità dell'impugnazione e applicazione delle cause di non punibilità previste dall'art. 129 c.p.p., in un più ampio contesto in cui viene posto in discussione lo stesso discrimine tra cause di inammissibilità originarie e cause di inammissibilità sopravvenute, le Sezioni unite (Sez..Un. 30 giugno 1999, P.), pur riaffermando l'immanenza della dicotomia, circoscrivono ulteriormente il numero delle seconde. 
Secondo l'ora ricordata decisione, cause di inammissibilità originarie sono quelle che, attenendo ai requisiti formali dell'atto di impugnazione o ai presupposti legislativamente previsti per il valido esercizio del diritto di impugnazione, e non involgendo un giudizio di merito, impongono di adottare una decisione in limine, semplicemente dichiarativa della mancata instaurazione di un valido rapporto processuale, tanto da impedire l'inutile prosecuzione di un'attività comunque destinata a pervenire, a norma dell'art. 591, comma 4, anche a posteriori, ad un accertamento negativo della pendenza del processo. In tale ipotesi si è, infatti, in presenza di un simulacro di gravame che il provvedimento che ne dichiara l'inammissibilità, per sua natura dichiarativo, rimuove dalla realtà giuridica fin dal momento della sua origine. Ancora una volta ribadendosi che non può valere in contrario l'argomento secondo cui, a norma dell'art. 648 c.p.p., se vi è stato ricorso per cassazione la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pubblicata l'ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile il ricorso. Una norma - anche qui - che fissa il momento del passaggio in giudicato della sentenza solo in senso formale, mentre, per quanto attiene al giudicato in senso sostanziale, deve farsi riferimento all'insorgenza della causa di inammissibilità. Ed il giudicato sostanziale si concretizza allo scadere dei termini per proporre impugnazione sia in caso di mancanza o di irrituale presentazione di essa sia in caso di gravame invalido, mentre l'irrevocabilità che rileva solo ai fini dell'esecuzione della sentenza, si determina all'atto della declaratoria di inammissibilità. 
Si aggiunge, ancora, che occorre aver riferimento al diritto positivo per individuare in quali casi si possa parlare di inammissibilità originaria, ravvisabile per il difetto dei requisiti minimi perché un atto possa essere qualificato come avente natura impugnatoria, in quanto tale idoneo a dare ingresso ad un giudizio di impugnazione. 
Sotto tale profilo la sentenza ritiene determinante l'art. 591 c.p.p. che, sotto la rubrica Inammissibilità dell'impugnazione prevede al comma 1 che l'impugnazione è inammissibile: a) quando è proposta da chi non è legittimato o non ha interesse; b) quando il provvedimento non è impugnabile; c) quando non sono osservate le disposizioni degli artt. 581, 582, 583, 585 e 586, che disciplinano rispettivamente le modalità concernenti la forma, presentazione, termini e spedizione dell'impugnazione, nonché i limiti di inoppugnabilità delle ordinanze; d) quando vi è rinuncia all'impugnazione. 
Dopo aver chiarito le ragioni che qualificano come originarie le ipotesi di inammissibilità sub a), b) e c), per quel che attiene alla rinuncia all'impugnazione si conferma l'orientamento che la qualifica causa sopravvenuta di inammissibilità, salvo il caso che la rinuncia attenga ad un atto di impugnazione affetto da inammissibilità originaria. 
Con riferimento, poi, alle cause di inammissibilità previste specificamente per il ricorso per cassazione dall'art. 606, comma 3, la sentenza distingue tra cause di inammissibilità originarie e cause di inammissibilità sopravvenute così superando gli approdi interpretativi cui era pervenuta la sentenza C. 
Vanno considerate cause di inammissibilità originarie del ricorso i motivi non consentiti perché l'impugnazione - in base ad un esame ictu oculi - proposta per motivi non inquadrabili in alcuna delle categorie descritte nel comma 1, si caratterizza per il palese difetto di uno specifico requisito di base che vale a qualificare un atto come ricorso per cassazione. Ma appartiene alla medesima categoria anche il ricorso che denunci violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello, di per sé inidoneo a scalfire il giudicato già formatosi. 
Pure se da tali affermazioni non è agevole comprendere, per un verso, se l'evidenza designante il motivo non consentito rappresenti il paradigma sul quale iscrivere il giudizio di inammissibilità originaria ovvero se soltanto il motivo ictu oculi non consentito sia da includere quale condizione per una dichiarazione di tal genere e, per un altro verso, se il richiamo al giudicato già formatosi che sembrerebbe valorizzare, anziché l'invalidità dell'impugnazione da cui discende la formazione del giudicato sostanziale, l'accertamento di quest'ultimo in vista del provvedimento dichiarativo che ne consegue, entrambe le proposizioni risultano insuperabili se interpretate nella loro effettiva valenza ermeneutica, quale si ricava da una metodologia argomentativa ormai stratificata nel linguaggio della giurisprudenza. Con la conseguenza che l'ulteriore fondamentale risultato interpretativo da accreditare alle Sezioni unite è quello di iscrivere fra le cause originarie di inammissibilità dell'impugnazione la proposizione di motivi sia non consentiti sia non dedotti nel giudizio di appello. 
Resta, dunque, al di fuori della categoria delle cause di inammissibilità originarie quella derivante dalla manifesta infondatezza del ricorso per cassazione. 
Pur ribadendosi il principio che l'esame dell'ammissibilità dell'impugnazione ha natura preliminare rispetto all'esame del merito, inteso com'è a stabilire se siano state rispettate le condizioni dalla cui osservanza dipende la regolarità del processo, la sentenza rileva che, nell'ipotesi di ricorso per cassazione proposto per motivi manifestamente infondati si è in presenza di una fattispecie legale in cui l'esplicita disciplina in chiave di inammissibilità non vale a dissolvere la caratteristica peculiare di imporre che alla conclusione dell'inammissibilità la Corte può pervenire, per insopprimibili ragioni logiche, solo in esito ad una delibazione sulla fondatezza della censura. Lo stretto legame con il merito rende perciò inoperante l'indicato principio e, quindi, del tutto ininfluente la preclusione dell'esame del merito che - secondo i principi generali - deriverebbe dall'inammissibilità dell'impugnazione, perché l'inammissibilità in esame di per sé già si colloca sostanzialmente nell'area delle statuizioni di merito; di qui la conclusione che la collocazione della manifesta infondatezza quale causa di inammissibilità del ricorso conseguirebbe da ragioni di speditezza processuale, raccordandosi inscindibilmente con l'art. 611, comma 2, che sottrae alla pubblica udienza il procedimento volto a dichiarare l'inammissibilità del ricorso, e lo assoggetta alla più agile disciplina dei procedimenti in camera di consiglio. 
Conseguenza inevitabile è, dunque, l'applicabilità, in caso di ricorso manifestamente infondato dell'art. 129 c.p.p.. Tanto più che, come aveva già puntualizzato la sentenza C., il discrimine tra manifesta infondatezza e semplice infondatezza è incerto e può porre talvolta il giudice di fronte ad una scelta opinabile. Ed è ciò che consente di non sottrarre il ricorso manifestamente infondato al regime dell'art. 129 c.p.p., tanto più che il legislatore ha previsto all'art. 2, n. 89, della legge- delega che fossero predisposte, in caso di inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza, "adeguate garanzie per la difesa" cui si è provveduto ammettendo in tale ipotesi la possibilità di un contraddittorio cartolare. Un argomento subito da valutare con profonde riserve solo perché - come si è già avuto occasione di precisare - la norma della legge-delega ha ricevuto attuazione attraverso l'omologazione del regime processuale di tutti i casi di inammissibilità. 
La decisione aggiunge - così ripercorrendo itinerari interpretativi già percorsi dalla sentenza C. - che la valutazione che il giudice è tenuto a compiere non si configura come un giudizio volto a stabilire se siano state rispettate le condizioni da cui dipende la regolarità del processo, bensì come un'analisi sulla fondatezza del ricorso che, superato il vaglio di irricevibilità, è conseguentemente dotato della idoneità a produrre l'impulso processuale necessario ad originare il giudizio di impugnazione. L'esame su tale caso di inammissibilità, si prosegue, si colloca allora all'interno del grado del processo per cassazione che, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., rende possibile pronunciare una decisione di non punibilità. Cosicché quando concorrano una causa di non punibilità e una causa di inammissibilità consistente nella manifesta infondatezza del ricorso, il giudice è tenuto ad applicare l'art. 129 che è l'espressione di un valore di garanzia in cui si estrinseca il principio del favor rei e che prevale sulla declaratoria di inammissibilità. In conclusione, nel quadro di un corretto bilanciamento degli interessi in gioco, rispetto ai valori sottesi alla disciplina delle cause di inammissibilità dell'impugnazione (palesemente finalizzati ad assicurare il più corretto e logicamente ordinato svolgimento del processo) appare evidente la prevalenza dei valori posti a fondamento della pronunzia di non punibilità (di natura sostanziale), strettamente connessa alla salvaguardia dei principi costituzionali che garantiscono il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza dell'imputato fino alla condanna definitiva. 
18. Nel sistema del nuovo codice di procedura penale, le sequenze giurisprudenziali fino ad ora descritte e che hanno già provocato due decisioni delle Sezioni unite, l'una ai sensi dell'art. 618 c.p.p., l'altra ai sensi degli artt. 618 c.p.p. e 172, comma 2, norme att. dello stesso codice, rivelano, pur nell'immanente coesistenza del regime dell'inammissibilità del ricorso e dell'applicabilità dell'art. 129 c.p.p., una progressiva erosione degli spazi riservati all'operatività di tale disposizione da restringere, oltre che alla rinuncia all'impugnazione, quale causa generale di inammissibilità non preclusiva - con gli ulteriori limiti che saranno tra poco indicati - della declaratoria di non punibilità, alla manifesta infondatezza del ricorso, quale causa di inammissibilità "sopravvenuta" nel procedimento di cassazione. 
È evidente, poi, come la proposizione dilemmatica causa di inammissibilità originaria-causa di inammissibilità sopravvenuta ha finito per dissolvere la sua primitiva valenza riscontrabile nei diffusi tentativi di ricostruzione dogmatica incentrati sulla dichiarazione quale atto introduttivo del rapporto di impugnazione per caratterizzarsi negli ambiti della verifica dei poteri di decidere il merito nonostante il gravame sia inammissibile. In tali termini, l'immanenza della nozione di inammissibilità sopravvenuta, raccordandosi all'"Obbligo di immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità", imposto dall'art. 129 c.p.p., dà per presupposta la forza propulsiva dell'atto di impugnazione, capace di accedere all'ulteriore "stato e grado del processo" e, conseguentemente, di designare, nonostante l'invalidità del gravame, la decisione che l'accerta come pronuncia di carattere costitutivo. Così da prospettare l'insorgenza di ineludibili perplessità quanto ad una unitaria ricostruzione dei rapporti tra l'inammissibilità dell'impugnazione e le nozioni di giudicato formale e sostanziale quali delineati dalle due precedenti decisioni delle Sezioni unite. 
Poiché, poi, la rinuncia al gravame - che sia, ovviamente, ammissibile - è vicenda affatto diversa dalle altre cause di inammissibilità, discendendo un simile effetto dall'esercizio di un diritto potestativo dell'interessato, che pure è in grado di estinguere il rapporto di impugnazione, tanto da provocare, una volta dichiarata l'inammissibilità, la formazione del giudicato formale, l'unica causa di inammissibilità in ordine alla quale hanno ragione di proporsi le problematiche finora esaminate resta la infondatezza manifesta del ricorso per cassazione. 
19. Alla stregua delle due più volte ricordate decisioni di queste Sezioni unite, l'elemento che consentirebbe, pur in presenza di un ricorso così designato, l'applicazione dell'art. 129 c.p.p. deriva da una sorta di bilanciamento tra l'"opinabilità" del vizio, ai confini con la infondatezza e, dunque, scaturente da canoni di qualificazione non prestabiliti e l'inevitabile preclusione all'applicabilità della norma adesso ricordata che determinerebbe una lesione del favor innocentiae, nonostante l'impossibilità di affermare l'inidoneità del ricorso ad introdurre il rapporto di impugnazione. Sennonché una simile soluzione interpretativa, formulata sottraendosi al vaglio di categorie logico-giuridiche, appare anche sovrastata da esigenze di ordine sistematico sulle quali le precedenti decisioni delle Sezioni unite non pare si siano soffermate. 
In primo luogo, come era già stato rilevato da una parte della dottrina nel vigore del codice abrogato - una proposizione a fortiori incontestabile nell'attuale sistema processuale, proprio alla stregua dell'art. 606 c.p.p. da interpretare nel suo integrale contesto - la coppia di valori "ammissibilità"- "fondatezza", "inammissibilità"-"infondatezza", così come delineata dalla legge, non ammette l'introduzione di "zone grigie", cosicché la "manifesta infondatezza", collocata nell'alveo dell'inammissibilità, resta in quest'ambito definita da dati di ordine qualitativo che ne provocano l'assimilazione - sul piano della struttura e della funzione - agli altri casi di inammissibilità previsti dalla legge. 
In secondo luogo, l'avere il legislatore del 1988 reintrodotto la causa di inammissibilità della manifesta infondatezza del ricorso, per di più privandola della reversibilità quanto ai modelli processuali utilizzabili (lo schema congegnato dall'art. 531, 4° comma, c.p.p. 1930), è un elemento che sta univocamente a segnalare come ci si trovi in presenza di una fattispecie di "invalidità" del gravame che non può venir definita solo in chiave procedimentale, attraverso il richiamo alle sequenze indicate dall'art. 611 c.p.p.; tanto più che mentre, per un verso - come si è avuto occasione di chiarire nell'esaminare i lavori preparatori della legge-delega e del codice - la procedura è riferibile ad ogni ipotesi di inammissibilità rispondendo ad un'identica esigenza di attuazione di un contraddittorio "cartolare", per un altro verso, la verifica dell'inidoneità dell'atto ad introdurre il rapporto di impugnazione può profilarsi - senza che ciò incida sulla natura della decisione, da ritenere sempre e comunque dichiarativa - come l'epilogo conseguente alla "ordinaria" progressione processuale, secondo il modello predisposto dall'art. 614 c.p.p. (v. artt. 611, comma 2, seconda parte, 615, comma 2). 
L'argomento davvero decisivo al fine di precludere ogni sorta di discrimine "qualitativo" tra la manifesta infondatezza e le altre cause di inammissibilità specificamente contemplate per il ricorso per cassazione è però da individuare nel nesso, rilevabile anche sul piano testuale, che collega l'inammissibilità alla tipizzazione delle vie di accesso alla Corte Suprema, allo scopo di ridefinire funzione e limiti del giudizio di legittimità, seguendo le linee di un sistema di devoluzione rigorosamente prestabilito sia in senso positivo (v. l'art. 606, comma 1, ma anche l'art. 609, comma 1, soprattutto se oggetto di comparazione con l'effetto devolutivo proprio dell'appello, ex art. 597 c.p.p.) sia in senso negativo (secondo lo schema delineato dall'art. 606, comma 3). 
20. Ne deriva che la manifesta infondatezza resta definita sulla base di una cognizione sommaria - nel senso che sarà tra poco precisato - con effetti di stretto diritto processuale consistenti nel precludere l'accesso al rapporto di impugnazione. E ciò al fine di evitare che tale rapporto venga utilizzato come strumento, non soltanto per procrastinare la formazione del titolo esecutivo, ma anche per conseguire effetti di favore di ordine sostanziale in presenza di un gravame soltanto apparente. In un regime in cui al favor impugnationis (quale ricavabile da numerosi precetti del codice di rito), fa da rigoroso contrappunto la precisa esigenza di conformare l'atto di impugnazione ai requisiti prescritti dalla legge; così da assegnare all'attributo "manifesta" la significazione di palese inconsistenza delle censure e da tracciare un limite invalicabile all'impiego di moduli volti ad eludere lo schema del giudizio di legittimità il cui accesso resta comunque subordinato all'osservanza del precetto del comma 1 dell'art. 606. 
La manifesta infondatezza va, perciò, annoverata tra le cause di inammissibilità intrinseche al ricorso la cui metodica di accertamento è assolutamente conforme a quella indispensabile per dichiarare le altre cause di inammissibilità previste dall'art. 606, comma 3, c.p.p. Tanto è vero che la stessa sentenza Piepoli ha cura di introdurre, quale prioritario criterio designante l'accesso al rapporto di impugnazione, la singolare nozione, non postulata per gli altri casi di inammissibilità, della "ricevibilità" il cui vaglio il ricorso manifestamente infondato sarebbe in grado di superare. Una sovrapposizione che sembra trascurare il ruolo cruciale da assegnare all'invalidità del gravame, da cui consegue la sola inidoneità ad instaurare il rapporto di impugnazione. 
La natura dichiarativa della pronuncia di inammissibilità rimane contrassegno ineludibile, in grado di dissipare le suggestioni derivanti da ogni qualificazione diversa da quella consistente in una constatazione, amputata dal riferimento a parametri di tipo assiologico quanto ai contenuti dell'impugnazione; e ciò indipendentemente dal grado di difficoltà connesso al giudizio di accertamento soprattutto quando il canone di verifica sia contrassegnato da un grado di flessibilità che non contrasta certo con la tipologia di pronuncia che il giudice dell'impugnazione è tenuto ad adottare. 
In tal senso tutti i vizi del ricorso indicati dall'art. 606, comma 3, c.p.p. non possono sottrarsi ad una verifica talora dotata di un certo tasso di complessità. Ma non è tanto alla tipologia di verifica che occorre aver riferimento quanto all'assenza di ogni scrutinio contenutistico del ricorso o in conseguenza di un accertamento in sé o constatando l'inammissibilità delle doglianze in sé attraverso l'ausilio di atti complementari del procedimento. 
21. Proprio la sentenza P. nel ricondurre i motivi non consentiti ed i motivi non dedotti in appello fra le cause di inammissibilità del ricorso apre la via per accedere a simili conclusioni. Per quanto riguarda i motivi non dedotti nel giudizio di merito, appare significativa, da un lato, la continuità con la costante giurisprudenza che esonera il giudice di appello dall'argomentare su motivi che siano manifestamente infondati, dall'altro lato, l'esigenza di compulsare l'atto di appello e la sentenza impugnata, cosicché quella verifica di evidenza si ricollega all'intrinseco contenuto del gravame pur postulando un procedimento conoscitivo non necessariamente semplificato. Ma, altrettanto complesso può risultare l'accertamento dei motivi non consentiti in quanto non rientranti nel catalogo dei casi di ricorso previsti dall'art. 606, comma 1, senza che l'apparente difficoltà dell'accertamento venga ad incidere sulla intrinseca inidoneità del ricorso ad instaurare il giudizio di impugnazione. 
22. In base alle considerazioni che precedono risulta, dunque, costruita su criteri di esclusivo ordine empirico la distinzione tra cause di inammissibilità originarie e cause di inammissibilità sopravvenute dell'impugnazione. Emarginato il modello di ordine "quantitativo", se la nozione di inammissibilità del gravame appare convergere verso la comune nozione di invalidità come "vizio" del ricorso che ne determina l'inidoneità ad introdurre il rapporto processuale di impugnazione, risulta davvero improprio il richiamo ad una pretesa maggiore "indaginosità" dell'accertamento. A parte la considerazione che, istituendo una linea di discrimine proprio su tali premesse, basate su rilievi deprivati, non soltanto di ogni rigore scientifico, ma anche da qualsiasi supporto normativo, la manifesta infondatezza è sovente di più agevole "constatazione", proprio per essere l'infondatezza, per definizione, chiara ed incontrovertibile, il vizio - nello schema del procedimento in cassazione - va, ancora una volta, correlato ai "Casi" di ricorso. Anche la mancanza di un panorama giurisprudenziale sufficientemente articolato (a differenza da quello che si ricava, invece, nella definizione dei casi di manifesta infondatezza nel giudizio di legittimità costituzionale, alla stregua delle regole di cui agli artt. 26, 2° comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, 2° comma delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, seguendo criteri di comparazione alquanto suggestivi ma proponibili, ovviamente, solo sul piano nominalistico) conferma, nonostante la predominante incidenza di tale ipotesi di inammissibilità rispetto sia alle altre ipotesi indicate nell'art. 606, comma 3, c.p.p. sia alle fattispecie previste dall'art. 591, comma 1, dello stesso codice, come la manifesta infondatezza si attesti, sul piano strutturale, quale modello di confine rispetto ai casi di inammissibilità specifica. 
Il tal senso, essa si traduce nella proposizione di censure caratterizzate da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell'ordinamento, solo per indicare le più frequenti ipotesi di applicazione dell'art. 606, comma 3, secondo periodo. Fino a profilare - sul piano funzionale - come costante la pretestuosità del gravame, non importa se conosciuta o no dallo stesso ricorrente. 
Tutto ciò secondo un canone già definito nel sistema del codice abrogato, la cui Relazione (n. 171) faceva significativamente richiamo alla proposizione di "motivi che, pur essendo esposti in forma specifica, sono nondimeno manifestamente privi di qualsiasi base giuridica, come quando, ad esempio, si pretendesse di disconoscere l'esistenza o il senso assolutamente univoco di una determinata disposizione di legge". 
Che, poi, la manifesta infondatezza possa essere contrassegnata - sempre sul piano funzionale - da una "pretestuosità oggettiva" tale da prescindere dalla deliberata volontà dell'interessato di ritardare la formazione del titolo esecutivo, appare confermato dalla sentenza costituzionale n. 186 del 2000 con la quale è stata dichiarata l'illegittimità dell'art. 616 c.p.p., nella parte in cui non prevede che la Corte di cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso, possa non pronunciare la condanna in favore della cassa delle ammende, a carico della parte privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità. 
Certo, la manifesta infondatezza potrà in taluni casi risultare di meno agevole individuazione, ma - a parte la considerazione che, essendo essa rappresentativa, questa volta sì, ictu oculi, dell'esistenza di un vizio formale, non potrà incidere se non in apparenza sul contenuto delle censure - il fenomeno è proprio di ciascuna delle ipotesi di inammissibilità, tutte accomunate, nel caso concreto, dalla esigenza di possibili verifiche preordinate alla constatazione dell'esistenza di censure non iscrivibili nel paradigma dell'art. 606, comma 1, ivi compresa la disciplina dei motivi non dedotti in appello, connaturata allo specifico modulo devolutivo del giudizio di cassazione, raccordandosi così ai "Casi" enunciati dalla norma ora ricordata, tanto da incontrare nel complessivo sistema del giudizio di legittimità i limiti stessi alla sua insorgenza (vedi artt. 606, 609, comma 2, 570 c.p.p.). Secondo un canone, peraltro, assimilabile - con le differenziazioni sopra precisate - a quello preordinato alla individuazione delle ipotesi di inammissibilità indicate, in via generale, dall'art. 591, comma 1, lettere a), b) e c) (si pensi, solo per esemplificare, ai criteri di verifica della non abnormità del provvedimento e della non specificità dei motivi). Il che non incide sulla invalidità dell'atto e sulla sua insuscettività ad introdurre il rapporto di impugnazione. 
23. Se, dunque, anche la dichiarazione di inammissibilità per manifesta infondatezza del ricorso si risolve in una absolutio ab instantia derivante dalla mera apparenza dell'atto di impugnazione, sembra superabile il richiamo ai principi costituzionali e più in particolare al favor innocentae, peraltro proprio nei casi in cui vengano prospettate censure manifestamente infondate di difficile perseguimento. È allora evidente come un ricorso manifestamente infondato si tradurrebbe in uno strumento esorbitante, oltre che al di fuori di ogni ragionevolezza, ove si volesse ad esso attribuire una tale forza propulsiva da consentirne l'utilizzazione per conseguire una dichiarazione di non punibilità (anche) derivante dal decorso del tempo, nonostante l'incontrovertibile pretestuosità dei motivi (nei termini prima indicati), tanto da porsi come dato ontologicamente incompatibile con il favor rei. 
24. A tali principi pare, del resto, ispirarsi la già ricordata sentenza costituzionale n. 186 del 2000 che, nel ribadire la natura sanzionatoria della condanna in favore della cassa delle ammende ex art. 616 c.p.p., comportante l'imposizione di un esborso non commisurato al costo del procedimento, lo ha collegato non a specifiche tipologie di inammissibilità ma alle ragioni concrete che hanno determinato una simile pronuncia. Così, ancora una volta, accomunando nel medesimo regime, tanto da confermare la legittimità di una prospettiva chiaramente emergente dalle scelte di fondo del codice del 1988, nel ravvisare l'inammissibilità dell'impugnazione come categoria unitaria. Ciò a differenza di quanto stabilito nel regime del codice abrogato ove una simile pronuncia sanzionatoria era indifferentemente prevista per la dichiarazione di inammissibilità e per il rigetto del ricorso (art. 549 c.p.p. 1930). Secondo una prospettiva, del resto, auspicata da una parte della dottrina, attenta a discriminare, pure ai fini dei criteri a base della comminatoria della sanzione pecuniaria, già oggetto di scrutinio di legittimità costituzionale incentrato proprio sull'art. 549 c.p.p. (vedi la sentenza costituzionale n. 69 del 1964) - come due nozioni non riducibili ad un genus comune - l'infondatezza dalla manifesta infondatezza del ricorso. 
25. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma alla Cassa delle ammende che si ritiene equo determinare in lire un milione.

P.Q.M

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento della somma di lire un milione alla Cassa delle ammende. 
Così deciso, il 22 novembre 2000. 
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 DIC. 2000 

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