In tema di diffamazione, con riguardo alla provenienza di un post da un determinato utente, l'omessa denuncia del c.d. "furto di identità", da parte dell'intestatario della bacheca sulla quale vi è stata la pubblicazione di post "incriminati", può costituire valido elemento indiziario ai fini di un eventuale utilizzo abusivo del profilo sul social network Facebook.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, Sentenza n.40309 del 22/06/2022 (dep. 25/10/2022)
RITENUTO IN FATTO
1. La sentenza impugnata è stata pronunziata il 14 ottobre 2021 dalla Corte di appello di Napoli, che ha riformato - riconoscendo le attenuanti generiche, rideterminando la pena e l'entità del danno da risarcire alla parte civile - la decisione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che aveva condannato P.A. per il reato di cui all'art. 595 c.p., comma 3, per aver pubblicato sul social network Facebook delle frasi offensive nei confronti di C.E.B., comandante della Polizia municipale di (Omissis).
2. Contro la sentenza della Corte di appello di Napoli, l'imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia.
2.1 Con un unico motivo, articolato in due censure, deduce l'erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione.
Con la prima censura, sostiene che la motivazione sarebbe viziata nella parte in cui attribuisce all'imputato il messaggio dal contenuto offensivo, pubblicato sul suo profilo facebook. Secondo il ricorrente, non sarebbe stata raggiunta la prova certa che il messaggio fosse stato effettivamente scritto dall'imputato e la Corte di appello avrebbe lasciato del tutto inesplorata la possibilità che terze persone potessero aver scritto il messaggio, utilizzando abusivamente il profilo del P..
Il ricorrente, in particolare, lamenta il mancato accertamento sull'indirizzo IP della provenienza di tali messaggi e la valorizzazione da parte della Corte di appello della circostanza che l'imputato non aveva denunciato l'uso abusivo del proprio profilo facebook.
Con la seconda censura, sostiene che le frasi pubblicate su facebook non avrebbero una "concreta valenza lesiva dell'onore e della reputazione della persona offesa".
Il ricorrente ritiene che, per le censure evidenziate, non si poteva ritenere raggiunta la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, della penale responsabilità dell'imputato.
3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
1.1. L'unico motivo di ricorso, in entrambe le censure nelle quali si articola, è inammissibile.
Con la prima censura, il ricorrente muove doglianze che, pur essendo state da lui riferite alle categorie del vizio di motivazione e della violazione di legge, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., non evidenziano alcuna violazione di legge né travisamenti di prova o vizi di manifesta logicità emergenti dal testo della sentenza, ma sono, invece, dirette a ottenere un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte di appello (cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano).
Va evidenziato, peraltro, che si tratta della mera riproposizione delle stesse questioni già proposte in appello, alle quali la Corte territoriale aveva già risposto con motivazioni adeguate, logiche e coerenti, con le quali il ricorrente non si è confrontato, rendendo così il ricorso carente anche sotto il profilo della specificità estrinseca.
La Corte di appello non è caduta in alcun vizio logico nel dare rilevanza, anche, alla circostanza che l'imputato non aveva denunciato l'abusivo utilizzo del proprio profilo.
Tale argomentazione appare corretta, rispondendo a criteri logici e a condivise massime di esperienza trarre elementi di rilievo - in ordine alla provenienza di un post da un determinato utente - dall'omessa denuncia dell'uso illecito del proprio profilo, eventualmente compiuto da parte di terzi.
E, infatti, questa Corte ha già ritenuto che l'omessa denuncia del c.d. "furto di identità", da parte dell'intestatario della bacheca sulla quale vi è stata la pubblicazione di post "incriminati", possa costituire valido elemento indiziario (Sez. 5, n. 4239 del 21/10/2021, dep. 2022, Ciocca, n. m.; Sez. 5, n. Sez. 5, n. 45339 del 13/07/2018, Petrangelo, n. m.; Sez. 5, n. 8328 del 13/07/2015, dep. 2016, Martinez, n. m.).
Manifestamente infondata è la seconda censura.
Le frasi in questione avevano un indiscutibile contenuto offensivo: la persona offesa, comandante della Polizia municipale di (Omissis), veniva accusato di occupare abusivamente il posto di comandante, senza averne i titoli, di essere stato scartato al servizio di leva, di valere "00 come la farina 00...". In esse vi era anche un offensivo paragone con le "latrine", che "si riconoscono da lontano e dalla puzza che emettono".
Quanto, infine, alla regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio invocata dal ricorrente, va ricordato, in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che essa non è norma che possa essere adoperata quale parametro di violazione di legge, laddove si finirebbe per censurare, in tal modo, la motivazione al di là dei casi di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), richiedendo così al giudice di legittimità un'autonoma valutazione delle fonti di prova che esula dai suoi poteri (Sez. 3, n. 24574 del 12/03/2015, Zonfrilli, Rv. 264174); come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, il parametro di valutazione di cui all'art. 533 cod. proc. ha ampi margini di operatività solo nella fase di merito, quando può essere proposta una ricostruzione alternativa, mentre in sede di legittimità tale regola rileva solo allorché la sua inosservanza si traduca in una manifesta illogicità della motivazione (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, D'Urso e altri, Rv. 270108); vizio che non caratterizza la sentenza impugnata.
2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle Ammende, che deve determinarsi in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 22 giugno 2022.
Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2022.