Gli schiamazzi notturni possono costare caro: un esempio è il recente caso di una birreria situata nel centro storico, il cui proprietario è stato condannato a pagare 300 euro di ammenda per la contravvenzione prevista dall'art. 659 c.p., oltre al risarcimento del danno a favore delle parti civili costituite.
La Cassazione, Sezione III Penale, ha affrontato questo caso nella sentenza n. 12555, depositata il 27 marzo 2023.
La Suprema Corte ha sottolineato che il titolare di un esercizio commerciale aperto al pubblico ha una "posizione di garanzia", che implica l'obbligo di impedire rumori eccessivi prodotti dalla clientela. Tale responsabilità si estende sia all'interno del locale sia all'esterno, e può essere assolta attraverso varie misure, come avvisi ai clienti, personale addetto, utilizzo di recipienti non portatili per le bevande e, se necessario, il ricorso all'autorità di polizia o all'esercizio del diritto di esclusione.
Il regolamento di polizia urbana integra tale obbligo, stabilendo che i titolari di autorizzazione per esercizi pubblici di somministrazione debbano vigilare affinché i frequentatori evitino comportamenti che possano nuocere alla quiete pubblica e privata.
La tutela della tranquillità pubblica richiede che i rumori siano potenzialmente percepibili da un numero indeterminato di persone, anche se in realtà solo alcune potrebbero lamentarsene.
La giurisprudenza costante afferma che non è necessario che tutti i residenti vicino al locale percepiscano il rumore come oltre la soglia di normale tollerabilità. Basta che alcune persone ne subiscano un disturbo nelle attività quotidiane e nel riposo e che altre potrebbero risentirne altrettanto.
Nel caso di specie, i denuncianti erano sette, di cui quattro si sono costituiti parti civili, e i rumori riguardavano lo spostamento di sedie in ferro, urla e voci alte.
Risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, ciò in base al pertinente rilievo secondo cui la veste di titolare della gestione dell'esercizio pubblico comporta l'assunzione dell'obbligo giuridico di controllare, con possibile ricorso ai vari mezzi offerti dall'ordinamento, come l'attuazione dello "ius excludendi" e il ricorso all'Autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, Sentenza n.12555 del 22/02/2023 (dep. 27/03/2023)
RITENUTO IN FATTO
1. con sentenza del 03/02/2021 il Tribunale di Cuneo condannava l'imputato, titolare di una attività di ristorazione (birreria) nel centro storico di (Omissis), denominata "(Omissis)", alla pena di Euro 300 di ammenda in ordine alla commissione della contravvenzione di cui all'art. 659 c.p., oltre al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite.
2. Avverso tale sentenza l'imputato proponeva, tramite il difensore di fiducia, ricorso per cassazione. Lamentava in particolare:
2.1. con il primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'interpretazione dell'art. 659 c.p., risultante dal provvedimento impugnato, difettando, nel caso di specie, sia il requisito della "diffusività" che della indeterminatezza del numero di persone disturbate, sia quello del superamento della soglia di "normale tollerabilità" delle emissioni sonore, la cui entità non sarebbe stata oggetto di valutazione; inoltre, la sentenza non avrebbe specificato "quali" sarebbero state, in concreto, le attività che hanno originato la fonte sonora disturbante;
2.2. con il secondo motivo, violazione di legge e difetto di motivazione quanto alla configurabilità della violazione dell'art. 659 c.p., per palese travisamento delle risultanze processuali, vizio risultante dal provvedimento impugnato e da altri atti specificamente individuati, avendo il giudice risolto il contrasto tra i contenuti delle deposizioni testimoniali tra i testi della pubblica accusa e quelli della difesa, privilegiando il contenuto della deposizione dei primi in modo illogico e contraddittorio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Preliminarmente, va evidenziato come non risulta applicabile al processo in esame la disciplina introdotta del D.Lgs. n. 150 del 2022 art. 3, comma 1, lettera a), che ha inserito all'art. 659 c.p. un comma 3 che prevede la procedibilità a querela del reato previsto dal comma 1 "salvo che il fatto abbia ad oggetto spettacoli, ritrovi o trattenimenti pubblici, ovvero sia commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità". Risulta infatti dalla sentenza impugnata che le persone offese hanno proposto querela in data 26/07/2017 e alcune di loro si sono, successivamente, costituite parti civili.
2. Altrettanto preliminarmente va evidenziato come il reato sia stato contestato all'imputato genericamente come violazione dell'art. 659 c.p.. In proposito, va rammentato (v. Sez. 3, n. 37097 del 05/06/2015, Czenke, non massimata) come la disposizione contestata sia una fattispecie a più norme: il reato di cui al comma 1 ("chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici") sussiste ove il fatto costitutivo dell'illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore (illecito amministrativo sanzionato dall'art. 10, comma 2, della L. 26 ottobre 1995, n. 447), indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale i rumori provengono; mentre il reato di cui al secondo (ora terzo) comma ("chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell'Autorità") sussiste qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all'esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustica (Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino, Rv. 260658; Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffre', Rv. 261885; cfr. altresì Sez. 1, n. 30773 del 25/05/2006, Galli, Rv. 234881; Sez. 1, n. 46083 del 06/11/2007, Cerrito, Rv. 238168).
Nel caso di specie non vi è dubbio che, al di là del generico riferimento all'art. 659 c.p., la condotta contestata vada ricondotta al comma 1 della norma incriminatrice, come emerge dalla lettura dell'imputazione contestata.
3. Con riferimento a tale illecito, nel caso di esercizi commerciali aperti al pubblico, la Corte ha con costante giurisprudenza riconosciuto in capo al titolare (Sez. 3, n. 22142 del 08/05/2017, Gasparotto, non massimata), l'esistenza di una "posizione di garanzia" cui è correlato l'obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi
o comunque i rumori prodotti, in maniera eccessiva, dalla propria clientela, in questo modo "configurando gli elementi strutturali propri delle fattispecie omissive improprie (cd. "reati commissivi mediante omissione"), caratterizzate dall'integrazione tra la struttura tipica del reato commissivo, cui sono riconducibili alcune tra le condotte previste dal comma 1 dell'art. 659, e la norma generale posta dall'art. 40, comma 2, c.p., secondo cui risponde di un evento dannoso o pericoloso colui il quale abbia l'obbligo giuridico di impedirlo".
Tale obbligo, che si sostanzia nel doveroso esercizio di un potere di controllo, è configurabile rispetto alle condotte poste in essere da parte dei clienti sia che si trovino all'interno del locale, sia per gli schiamazzi e i rumori dagli stessi prodotti all'esterno del locale, potendo il titolare ricorrere ai più vari accorgimenti, dagli avvisi alla clientela all'impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, in modo che esse vengano consumate all'interno del locale, fino al ricorso all'autorità di polizia o all'esercizio dello ius excludendi, quando essi siano comunque direttamente riferibili all'esercizio dell'attività, come nel caso in cui gli avventori permangano rumorosamente in sosta davanti al locale (sent. 22142/2017, cit., che cita i precedenti costituiti da Sez. 3, n. 34283 del 28/07/2015, Gallo, Rv. 264501; Sez.
1, n. 48122 del 3/12/2008, Baruffaldi, Rv. 242808; Sez. 6, n. 7980 del 24/05/1993, Papez, Rv. 194904).
Ancora, Sez. 3, n. 14750 del 22/01/2020 (Comelli, Rv. 279381), ha precisato che "risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, ciò in base al pertinente rilievo secondo cui la veste di titolare della gestione dell'esercizio pubblico comporta l'assunzione dell'obbligo giuridico di controllare, con possibile ricorso ai vari mezzi offerti dall'ordinamento, come l'attuazione dello "ius excludendi" e il ricorso all'Autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica"; a tal fine, poiché l'evento possa essere addebitato al gestore dell'esercizio commerciale, occorre che esso sia riconducibile al mancato esercizio del potere di controllo da parte dell'agente. Ciò implica un'adeguata verifica in sede di merito, volta ad accertare la consistenza degli spazi fruibili dagli avventori, la tipologia delle emissioni sonore e le iniziative assunte dal gestore del locale per eliminarle o almeno per contenerle.
4. Nel caso di specie, il generale obbligo di impedire l'evento viene integrato dal regolamento di polizia urbana di (Omissis) (allegato alle conclusioni della parte civile), il quale prevede (art. 22) che i titolari di autorizzazione per esercizi pubblici di somministrazione "hanno l'obbligo di vigilare affinché all'uscita dei locali, nelle pertinenze e nelle immediate adiacenze di questi, i frequentatori evitino comportamenti dai quali possa derivare pregiudizio alla quiete pubblica e privata, nonché all'igiene alla pubblica decenza etc, invitando gli stessi ad attenersi a comportamenti civili e se del caso avvertire le forze dell'ordine", confermando e precisando il contenuto della posizione di garanzia che grava in capo ai titolari dei locali pubblici.
5. Ciò premesso, entrambi i motivi proposti devono ritenersi inammissibili. Il primo motivo, in realtà, si articola su tre differenti argomentazioni.
5.1. In primo luogo, si contesta la "diffusività" delle emissioni sonore provenienti dal locale. Tale motivo si collega al secondo, quello relativo alla contraddittorietà nella valutazione della prova dichiarativa, avendo il giudice omesso di attribuire la corretta valenza probatoria alle dichiarazioni dei testi della difesa, parimenti abitanti nelle vicinanze del pub denominato "(Omissis)"; i quali non avrebbero avvertito alcun disturbo sonoro provenire dal locale, da ciò derivando, secondo la difesa, l'assenza del requisito in parola.
Entrambe le doglianze si scontrano con la costante giurisprudenza della Corte secondo cui "la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare" (Sez. 3, n. 2258 dl 17/11/2020, D'Anello, non massimata).
Ciò discende dalla pacifica natura di reato di pericolo della contravvenzione in esame, tanto che la violazione (Sez. 3, n. 2685 del 20/11/2019 - dep. 2020, Margareci, non massimata) può configurarsi anche in assenza di offesa a soggetti determinati, quando venga posta in essere una condotta idonea ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone (cfr. Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013, Virgillito e altro, Rv. 257345; Sez. 1, n. 7748 del 24/1/2012, Giacomasso e altro, Rv. 252075; Sez. 1, n. 246 del 13/12/2007 (dep. 2008), Guzzi e altro, Rv. 238814 ed altre prec. conf. V. anche Sez. 3, n. 23529 del 13/5/2014, loniez, Rv. 259194) e può consistere anche in un'unica condotta rumorosa o di schiamazzo, recante, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone, in quanto non è necessaria la prova che il rumore abbia concretamente molestato una platea più diffusa di persone, essendo sufficiente l'idoneità del fatto a disturbare un numero indeterminato di individui (Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014 - dep. 2015, Calvarese, Rv. 262510. In senso conforme, Sez. 3, n. 28570 del 9/5/2019, Torchio, non massimata).
In altre parole, non è necessario che "tutti" i residenti nelle vie limitrofe al locale percepiscano il rumore come superante la soglia di normale tollerabilità (sul cui concetto si rinvia al paragrafo che segue), essendo sufficiente che alcune di esse ne abbiano subito turbamento nelle occupazioni e nel riposo e che altre potrebbero subirne altrettanto (nel caso di specie i querelanti erano sette, di cui quattro successivamente costituiti parti civili).
Non può del resto non evidenziarsi come il giudice di primo e unico grado abbia sottolineato come già in riferimento agli anni 2015 (querela del 20/08/2015) e 2016 (querela del 26/07/2016) i querelanti avessero presentato querele per analoghi fatti, i procedimenti scaturiti dalle quali sono stati definiti dall'imputato mediante oblazione, e che nel presente procedimento medesima richiesta fosse stata rigettata dal giudice "ritenendo, almeno allo stato, che l'imputato non avesse compiuto tutte le azioni necessarie per l'eliminazione delle conseguenze dannose del reato".
Nel caso in esame, pertanto, la reiterazione del comportamento e il numero certamente non esiguo di persone danneggiate non consentivano alcuna lettura di segno alternativo rispetto a quella seguita dal Tribunale di Cuneo, che correttamente, e in modo assolutamente non illogico, ha ritenuto sussistente il requisito in parola (citando giurisprudenza consolidata della Corte) e ininfluenti le deposizioni di senso contrario a quelle addotte dai danneggiati e dalla pubblica accusa, o quantomeno inidonee a scalfirne la valenza probatoria ("i rumori si protraggono da 7/8 anni e sono percepiti da almeno 5 persone che abitano in appartamenti posti nelle vicinanze del locale. Tutte queste persone... hanno lamentato che negli anni, e in particolare nel periodo del 2017, oggetto del presente processo, sono stati avvertiti costantemente, nelle ore notturne, rumori derivanti dallo spostamento di sedie in ferro, urla, voci, risate e grida"... "le deposizioni in senso avverso si limitano ad evidenziare fatti negativi che non possono certo costituire prova contraria, ben potendo il rumore essersi manifestato in momenti diversi da quelli ai quali i testimoni si riferiscono").
Il primo motivo di ricorso è pertanto, in parte qua, manifestamente infondato.
5.2. Venendo ora al secondo profilo di censura in cui si articola il primo motivo di ricorso, relativo al superamento della "normale tollerabilità" delle emissioni sonore, lamenta l'imputato che l'argomentazione utilizzata dal giudice per provare l'esistenza dell'elemento costitutivo del reato ("non si tratta di episodi estemporanei, ma di emissioni rumorose che si sono manifestate con costante periodicità nel corso di tutte le stagioni") non proverebbe nulla in ordine alla intensità delle stesse.
Sul punto giova rammentare come la sedimentata giurisprudenza della Corte ritiene che "l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio alla quiete al riposo ed alle occupazioni di un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento in fatto rimesso all'apprezzamento del giudice del merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifici accertamenti di natura tecnica, ben potendo fondare il proprio convincimento sulla base di altri dati fattuali suscettibili di valutazione ed oggettivamente sintomatici della sussistenza di un fenomeno oggettivamente disturbante" (Sez. 3, Sentenza n. 2685, 20/11/2019 - dep. 2020, Margareci, non massimata, che si riporta a Sez. 3, n. 11031 del 5/2/2015, Montoli e altro, Rv. 263433; Sez. 1, n. 20954 del 18/1/2011, Torna, Rv. 250417; Sez. 1, n. 7042 del 27/5/1996, Fontana, Rv. 205324.; Sez. 3, n. 9699 del 15/11/2018 - dep. 2019, Mezzapesa, non massimata)
Analogamente Sez. 3, n. 10938 del 18/12/2018 (dep. 2019), Girotto, non massimata, ha chiarito che "il Giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità".
Ancora, la citata sentenza n. 37097/2015 ha precisato che "le sole dichiarazioni rese dai denuncianti sono sufficienti a sostenere l'accusa in assenza di ulteriori indagini di riscontro, anche di natura fonometrica, in ordine al reato di cui all'art. 659 c.p. perché la sussistenza del reato in questione può essere dimostrata con qualunque mezzo di prova, anche di fonte dichiarativa, non essendo coerente con il principio di atipicità della prova e del libero convincimento del Giudice penale il ricorso esclusivo ad accertamenti di natura tecnica".
Il ricorso, nel riportare la sola affermazione conclusiva del giudice di primo grado, trascura di considerare che la sentenza impugnata ha sviluppato una motivazione del tutto adeguata e conforme all'oggetto delle prove assunte; pertanto, non censurabile in sede di legittimità.
Il giudice ha infatti ritenuto con motivazione non manifestamente illogica né contraddittoria che, dalle univoche e precise deposizioni dei testi F., R., G., R. e B. (il quale riferisce di avere perfino messo in vendita l'appartamento a causa del rumore), si potessero evincere non solo la perduranza nel tempo e la diffusività del rumore ma anche la sua idoneità a "disturbare le occupazioni o il riposo delle persone".
Il ricorrente, sul punto, non ha fornito alcun elemento idoneo a confutare l'argomento sostenuto in sentenza, né si è confrontato con la giurisprudenza consolidata della Cassazione, risultando pertanto generico e inammissibile.
5.3. Parimenti, la censura secondo cui "il giudice di primo grado non si è affatto curato di indicare quali tra i fenomeni acustici" siano connotati da diffusività e natura molestante, non si confronta con la sentenza, laddove espressamente, sintetizza tale condotta occorsa nelle ore notturne in termini di "rumori derivanti dallo spostamento di sedie in ferro, urla, voci e grida".
6. Il secondo motivo di ricorso deve parimenti dichiararsi, alla luce delle considerazioni svolte al superiore punto 5.1, inammissibile per genericità.
A quanto dianzi affermato va aggiunto, in riferimento alla violazione dei precisi obblighi che in capo all'imputato gravavano alla luce del regolamento di polizia urbana, come il giudice abbia esaustivamente motivato anche sulla violazione da parte dell'imputato dell'art. 22 del Regolamento di polizia urbana, dianzi citato, che imponeva allo stesso di attivarsi in modo da evitare comportamenti degli avventori che arrecassero disturbo ((l'imputato) "ha quindi omesso di adottare quelle misure che avrebbero potuto permettere di contemperare i diversi e legittimi interessi: ad esempio, non ha provveduto ad assumere personale dedicato che, posto all'esterno del locale, avrebbe potuto e dovuto svolgere con l'immediatezza quell'attività di prevenzione e repressione delle condotte rumorose degli avventori, che avrebbe potuto garantire il riposo delle persone che ne lamentavano il disturbo... (omissis)... non possono essere ritenute sufficienti l'apposizione di cartelli né l'invitare le persone a non fare rumore").
Su tali profili, di sicuro spessore, il ricorrente non si confronta, limitandosi ad evidenziare il ricorso ad elementi non pertinenti (il comitato "anti-movida") o non contestati (le denunce relative agli anni precedenti).
6. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna altresì l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili S.A., F.G.P., G.D. e R.G., che liquida in complessivi di Euro 6.550, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2023.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2023.