Pubblicato il

Messa alla prova esclusa per gli enti ex 231

Corte di Cassazione, sez. Unite Penale, Sentenza n.14840 del 27/10/2022 (dep. 06/04/2023)

La messa alla prova di cui all'art. 168-bis c.p. non è applicabile alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

È. quanto stabilito dalle Sezioni Unite penali della Cassazione con la sentenza n. 14840 depositata il 6 aprile 2023.

La Corte ha chiarito che l'introduzione di un trattamento sanzionatorio come la messa alla prova per gli enti, categoria non espressamente contemplata dalla legge, risulta in contrasto con il principio della riserva di legge.

Inoltre, il divieto di analogia per le norme penali, in applicazione del principio di tassatività, impedisce al giudice di applicare la messa alla prova in un sistema di responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato, che non è assimilabile ad un sistema penale.

Infine, la Corte ha sottolineato che non è possibile applicare un'interpretazione estensiva delle norme alla situazione in esame, poiché tale operazione si riferisce ai casi in cui il risultato interpretativo si mantiene all'interno dei possibili significati della disposizione normativa, circostanza non riscontrabile nella fattispecie analizzata.

Messa alla prova, responsabilità degli enti di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, inapplicabilità

L'istituto dell'ammissione alla prova di cui all'art. 168-bis c.p., non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001.

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

Cassazione penale sez. un., Sentenza 27/10/2022, (ud. 27/10/2022, dep. 06/04/2023), n.14840

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 18 dicembre 2019, resa con motivazione contestuale, il Tribunale di Trento ha dichiarato non doversi procedere nei confronti della società (Omissis) s.p.a., ai sensi dell'art. 464- septies c.p.p., per essere estinto l'illecito di cui all'art. 25-septies, comma 3, D.Lgs. n. 8 giugno 2001, n. 231, ascritto alla società in relazione al delitto di lesioni colpose gravi contestato al legale rappresentante D.L., per esito positivo della prova, ai sensi dell'art. 168-ter c.p..

2. Avverso la suddetta sentenza, comunicata alla Procura generale presso la Corte di appello di Trento in data 23 dicembre 2019, è stato proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Trento in data 7 gennaio 2020 ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, con i quali, sulla premessa che le ordinanze del 12 marzo 2018 e del 12 aprile 2019 di ammissione alla prova della società non sono state comunicate al suo ufficio, ha concluso per l'annullamento della sentenza impugnata e delle prodromiche ordinanze di messa alla prova. In particolare, il ricorrente ha dedotto, con il primo e secondo motivo di ricorso, il vizio di cui all'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., per violazione e falsa interpretazione dell'art. 168-bis c.p. e degli artt. 62 e ss. D.Lgs. n. 8 giugno 2001, n. 231, rinvenibile nella sentenza impugnata e nelle ordinanze di messa alla prova, non essendo applicabile agli enti l'istituto della messa alla prova, mentre, con il terzo e quarto motivo di ricorso, il vizio di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., traducendosi la motivazione delle ordinanze di messa alla prova del 12 marzo 2018 e 12 aprile 2019 in una motivazione meramente apparente.

3. Il ricorso è stato assegnato alla Quarta Sezione.

3.1. Nelle more dell'udienza fissata, il difensore della società (Omissis) s.p.a., avv. Fabio Valcanover, ha depositato memorie in data 18 gennaio 2022 e 8 marzo 2022, concludendo per l'infondatezza del ricorso del Procuratore generale e la piena ammissibilità della messa alla prova dell'ente, ai sensi dell'art. 168-bis c.p..

3.2. Il Procuratore generale in sede ha depositato conclusioni scritte in data 4 marzo 2022, chiedendo annullarsi senza rinvio la sentenza impugnata e le ordinanze di messa alla prova della società (Omissis) s.p.a., con trasmissione degli atti al Tribunale di Trento.

3.3. La Quarta Sezione, con ordinanza n. 15493 del 23 marzo 2022, ha disposto la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618, comma 1, c.p.p., rilevando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa la legittimazione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello ad impugnare i provvedimenti riguardanti la messa alla prova e/o la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell'art. 464-septies c.p.p. e dipendendo l'esame nel merito del ricorso, circa la legittimità della messa alla prova della società (Omissis) s.p.a., dalla decisione della questione oggetto di contrasto.

4. Con decreto del 28 aprile 2022 il Presidente aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, ai sensi dell'art. 618, c.p.p., preso atto dell'esistenza e rilevanza ai fini della decisione del contrasto giurisprudenziale ravvisato dall'ordinanza di rimessione e ha fissato l'odierna udienza per la sua trattazione.

Con successivo decreto del 30 giugno 2022 il Presidente aggiunto ha disposto la trattazione con discussione orale, richiesta dall'avv. Fabio Valcanover, difensore della società (Omissis) s.p.a., ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137 del 2020, convertito con modificazioni dalla L. n. 176 del 2020, e dell'art. 16 D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito con modificazioni dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15.

5. Con memoria, ai sensi dell'art. 611, comma 1, c.p.p., in data 11 ottobre 2021, il Procuratore generale in sede ha illustrato le ragioni deponenti per l'ammissibilità del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Trento avverso la sentenza, ex art. 464-septies c.p.p., di estinzione dell'illecito ascritto alla società (Omissis) s.p.a.

Con note di udienza del 17 ottobre 2022, il Procuratore generale in sede ha illustrato altresì le ragioni a sostegno della inapplicabilità dell'istituto della messa alla prova agli enti e la conseguente fondatezza del primo motivo di ricorso del Procuratore generale della Corte di appello di Trento, con assorbimento degli ulteriori motivi, concludendo per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e delle ordinanze di messa alla prova della società (Omissis) s.p.a. del 12 marzo 2018 e del 12 aprile 2019 del Tribunale di Trento, con restituzione degli atti al medesimo Tribunale per l'ulteriore prosieguo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le questioni di diritto rimesse alle Sezioni Unite possono così di seguito riassumersi: "Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l'ordinanza che ammette l'imputato alla prova (art. 464-bis c.p.p.) e in caso affermativo per quali motivi".

"Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell'art. 464-septies c.p.p. ".

2. Sulla prima questione rimessa alle Sezioni Unite la giurisprudenza di legittimità ha espresso due diversi orientamenti.

2.1. Secondo il primo indirizzo interpretativo, il procuratore generale presso la corte di appello è legittimato ad impugnare l'ordinanza di accoglimento dell'istanza di sospensione del procedimento con la messa alla prova e, nel caso in cui non sia stata effettuata nei suoi confronti la comunicazione dell'avviso di deposito dell'ordinanza di sospensione, ad impugnare la stessa unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l'estinzione del reato per esito positivo della prova (Sez. 1, n. 43293 del 27/10/2021, Ongaro, Rv. 282156; Sez. 2, n. 7477 del 08/01/2021, Sperindeo; Sez. 5, n. 7231 del 06/11/2020, dep. 2021, Hoelzi; Sez. 1, n. 41629 del 15/04/2019, Lorini, Rv. 277138).

A sostegno di tale opzione interpretativa si evidenzia che l'art. 464-quater, comma 7, c.p.p., non distinguendo e non selezionando per il profilo soggettivo uno specifico ufficio del pubblico ministero, quando indica il "pubblico ministero" quale titolare del potere di impugnazione, non può che indicare anche la legittimazione del "procuratore generale della Repubblica presso la corte di appello", traducendosi il suddetto riferimento in una formula onnicomprensiva, adottata dal codice di rito ogni qual volta intende assegnare all'uno e all'altro organo un potere di impugnazione concorrente.

Tale interpretazione si fonda sul principio espresso dalle Sez. U. n. 22531, del 31/05/2005, Campagna, Rv. 231056, secondo cui l'art. 570 c.p.p. detta una regola di carattere generale circa il potere del procuratore generale della Repubblica presso la corte di appello di proporre impugnazione contro i provvedimenti emessi, nell'ambito dell'ordinario processo di cognizione, dai giudici del distretto, anche quando il pubblico ministero del circondario abbia già compiuto in merito la sua valutazione positiva o negativa. Tale regola, si sostiene, è da ritenersi ancora valida, pur dopo gli interventi del D.Lgs. n. 6 febbraio 2018, n. 11, con l'introduzione dell'art. 593-bis c.p.p. e la modifica dell'art. 570, comma 1, c.p.p., disciplinando tali norme i rapporti tra procuratore generale e procuratore della Repubblica, ma solo con riferimento all'appello, lasciando, invece, inalterata la regola generale suddetta per gli altri mezzi di impugnazione e, quindi, anche per il ricorso per cassazione, che viene specificamente in rilievo, nel caso dell'impugnazione dell'ordinanza di ammissione alla prova.

2.1.1. Non paiono discostarsi dall'indirizzo che sostiene la legittimazione del procuratore generale della corte di appello ad impugnare l'ordinanza di ammissione alla prova e, comunque, la sentenza di estinzione del reato per esito positivo della prova di cui all'art. 464-septies, c.p.p., le decisioni Sez. 6, n. 21046 del 10/06/2020, Betti,Rv. 279744;Sez. 5, n. 5093 del 14/01/20 20, Cicolini, Rv. 278144; Sez. 5, n. 17951 del 01/04/2019, Bonifacio.

In tali pronunce, sebbene non risulti affrontata specificamente la questione relativa al potere di impugnazione del procuratore generale presso la corte di appello, tale legittimazione è stata, tuttavia, implicitamente ritenuta sussistente, essendo stata dichiarata l'inammissibilità del ricorso per cassazione del Procuratore generale avverso la sentenza di estinzione del reato per il positivo esito della prova, per avere il ricorrente dedotto vizi riguardanti il provvedimento di sospensione del processo, che avrebbero potuto essere fatti valere contro quest'ultimo, con l'apposito rimedio di cui all'art. 464-quater, comma 7, c.p.p. In tal caso è stato ritenuto che il ricorso per cassazione avverso la sentenza di estinzione del reato, di cui all'art. 464-septies c.p.p., può riguardare esclusivamente censure di natura processuale attinenti alla fase del procedimento successiva all'ordinanza di sospensione, ovvero "errores in iudicando", anche sotto il profilo dell'illogicità della motivazione, mentre non può sindacare l'ammissibilità della richiesta di accesso al rito speciale, essendo tale profilo precluso dall'avvenuta decorrenza del termine entro cui deve essere proposta l'impugnazione avverso l'ordinanza di cui all'art. 464-quater, commi 3 e 7, c.p.p. (Sez. 6, n. 21046 del 10/06/2020, Betti, Rv. 279744).

2.2. Il secondo orientamento è sostenuto, invece, dalla sentenza Sez. 6, n. 18317 del 09/04/2021, Stompanato, Rv. 281272, che esclude la legittimazione del procuratore generale presso la corte di appello ad impugnare l'ordinanza di accoglimento dell'istanza di sospensione del procedimento, anche unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l'estinzione del reato per esito positivo della prova, non essendo espressamente individuato tra i soggetti (imputato, pubblico ministero e persona offesa) che possono proporre ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 464-quater, comma 7, c.p.p.. Secondo tale indirizzo, la natura autonoma del procedimento incidentale di ammissione alla prova, nonché il sistema di impugnazione del provvedimento di ammissione e/o della sentenza ex art. 464-septies c.p.p. portano ad escludere il fondamento del potere di impugnazione del procuratore generale. Deporrebbero in tal senso i principi affermati dalle sentenze delle Sez. U, n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci, Rv.267237, e n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238, che consentono di ricostruire la fase dell'ammissione alla prova come un vero e proprio procedimento incidentale, ispirato alla finalità di ridurre sensibilmente le ipotesi di regressione del procedimento, se non addirittura di eliminarle del tutto e di garantire il massimo favore all'istituto della sospensione con messa alla prova. L'impugnazione diretta, poi, dell'ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato - in deroga al regime dell'impugnazione delle ordinanze emesse in dibattimento, disciplinato in via ordinaria dall'art. 586 c.p.p. - nonché i caratteri sostanziali dell'istituto della messa alla prova, al quale il legislatore guarda con favore, non solo per l'effetto deflattivo, ma anche per la sua finalità di sottrarre al sistema giurisdizionale quelle persone che non abbisognano del trattamento penale tradizionale, tracciano le linee del sistema entro il quale valutare la sussistenza o meno del potere di impugnazione del procuratore generale. A quest'ultimo l'ordinamento processuale non concede un ampio e indeterminato potere che gli consente di proporre impugnazione in ogni e qualsiasi ipotesi, poiché anche nei suoi riguardi deve trovare applicazione la norma cardine dell'intero sistema, costituita dall'art. 568 c.p.p., che sancisce il principio fondamentale di tassatività delle impugnazioni, nel quadro di quello tradizionale della competenza del pubblico ministero "derivata" da quello del giudice presso il quale è costituito. Il procuratore generale, nella materia in esame, non è istituito presso il giudice che ha emanato il provvedimento impugnato (e dal quale deriva la competenza in materia di impugnazione), né presso il giudice di merito avente giurisdizione di merito a livello superiore, dal momento che l'ordinanza di sospensione del procedimento per messa alla prova è impugnabile solo con il ricorso per cassazione. Il riferimento al "pubblico ministero" contenuto nell'art. 464-quater, comma 7, c.p.p., pertanto, non possiede valore dirimente stante la oggettiva ambiguità del dato letterale della norma, suscettibile di dare luogo ad applicazioni differenti, che deve indurre l'interprete, piuttosto che a letture astrattamente plausibili in base ad una interpretazione letterale, ad una interpretazione ragionevole rispetto al sistema procedimentale, funzionale alla finalità di ridurre sensibilmente le ipotesi di regressione del procedimento.

3. Così delineati i termini del contrasto, ad avviso delle Sezioni Unite deve essere confermato l'orientamento maggioritario, secondo cui il procuratore generale presso la Corte di appello è legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l'ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato, ai sensi degli artt. 464-bis e 464-quater c.p.p..

3.1. Prima di dar conto delle ragioni che portano a privilegiare tale soluzione, occorre effettuare un preliminare richiamo ai principi affermati dalla sentenza delle Sez. U, n. 33216 del 31/03/2016, Rigacci, che si è già pronunciata sulla "scarna", ma "non meno problematica" disciplina dei controlli e delle impugnazioni delle ordinanze pronunciate sulla richiesta di messa alla prova, racchiusa nell'art. 464-quater, comma 7, c.p.p. La norma, infatti, si limita a stabilire che, contro l'ordinanza che decide sull'istanza di messa alla prova, possono ricorrere per cassazione l'imputato e il pubblico ministero, anche su istanza della persona offesa, e che l'impugnazione non sospende il procedimento.

Con la predetta sentenza, le Sezioni Unite - risolvendo il contrasto relativo all'autonoma ricorribilità in cassazione dell'ordinanza con cui il giudice del dibattimento rigetta la richiesta dell'imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova, ovvero solo congiuntamente alla sentenza, ai sensi dell'art. 586 c.p.p. - hanno affermato il principio secondo cui l'ordinanza di rigetto della richiesta di messa alla prova non è autonomamente impugnabile, ma è appellabile unitamente alla sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 586 c.p.p. Hanno precisato, inoltre, che l'art. 464-quater, comma 7, c.p.p., nel prevedere il ricorso per cassazione, consente l'impugnabilità diretta ed autonoma solo del provvedimento con il quale, in accoglimento dell'istanza dell'imputato, il giudice abbia disposto la sospensione del procedimento, giacché in tal caso alle parti non sarebbe altrimenti consentito alcun rimedio avverso la decisione assunta.

In motivazione, la sentenza in questione ha evidenziato altresì che per i soggetti legittimati a ricorrere per cassazione contro l'ordinanza di ammissione alla prova - oltre all'imputato, il pubblico ministero e la persona offesa - la limitazione del controllo alle sole violazioni di legge e agli eventuali vizi della motivazione in dipendenza del mezzo impugnatorio previsto dall'art. 464-quater, comma 7, c.p.p., si giustifica con il fatto che il legislatore ha inteso dare prevalenza alla tempestività della contestazione di legittimità e ha escluso ogni controllo sul merito. Questa soluzione, riferita al pubblico ministero e alla persona offesa, può risultare ancora razionale, se la si interpreta come il tentativo del legislatore di assicurare comunque, una tutela a soggetti che possono trovarsi in posizione "antagonista" rispetto all'ordinanza che ammette l'imputato al procedimento di cui cui all'art. 168-bis c.p.; tutela "limitata" ai soli motivi di legittimità per garantire il massimo favore all'istituto della sospensione con messa alla prova.

3.2. Partendo, dunque, dai principi sanciti dalla sentenza Rigacci circa la diretta ed autonoma impugnabilità solo dell'ordinanza di "ammissione" alla prova - ipotesi questa che viene in questione nella fattispecie in esame - occorre esaminare il tema della legittimazione del procuratore generale presso la corte di appello ad impugnare tale ordinanza.

La risposta positiva al quesito non può che prendere le mosse dalla constatazione che il regime impugnatorio delle ordinanze di cui all'art. 464-quater, comma 7, c.p.p., non contiene alcuna precisazione normativa selettiva quanto ad uno specifico ufficio del pubblico ministero legittimato all'impugnazione, potendo ricorrere per cassazione, oltre all'imputato, "il pubblico ministero". Non vi sono, quindi, ragioni di carattere letterale per non includere tale regime nel sistema generale descritto nel Titolo I del Libro IX del codice di rito e, per quanto rileva in questa sede, nel contesto del disposto dell'art. 570 c.p.p., che, sotto la rubrica "impugnazione del pubblico ministero", declina le regole generali delle impugnazioni della parte pubblica.

Il comma 1, in particolare, prevede che nei casi stabiliti dalla legge, la concorrente facoltà di impugnare spetta al titolare dell'ufficio di procura presso il tribunale o la corte di appello, quali che siano state le conclusioni del rappresentante del pubblico ministero, precisando, poi, con riguardo specifico al procuratore generale, che salvo quanto previsto dall'art. 593-bis, comma 2, il procuratore generale presso la corte di appello può proporre impugnazione nonostante l'impugnazione o l'acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento, con piena titolarità, dunque, della facoltà di impugnare i provvedimenti emessi dai giudici del distretto, anche quando il pubblico ministero del circondario abbia già compiuto in merito la sua valutazione positiva o negativa.

L'attribuzione del concorrente potere di impugnazione ai rappresentanti dell'ufficio di procura, presso il tribunale o la corte di appello, esplicitata dal chiaro disposto normativo, si salda con la formula onnicomprensiva "pubblico ministero", utilizzata nella rubrica dell'art. 570 c.p.p. che ricorre più volte, non solo nel codice di rito, ma anche nel corpus di altre discipline giurisdizionali, quando il legislatore intende assegnare all'uno e all'altro organo un potere di impugnazione concorrente.

Tale interpretazione fa propri i principi già espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 22531 del 31/05/2005, Campagna, Rv. 231056, che, nell'interpretare la portata soggettiva del termine "pubblico ministero", utilizzato anche nell'art. 36 D.Lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, in tema di impugnazioni delle sentenze del Giudice di pace, ha riconosciuto la piena legittimazione a proporre appello sia del procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario ha sede il giudice di pace, che del procuratore generale presso la corte d'appello del relativo distretto.

Con tale pronuncia è stato rilevato come l'art. 570 c.p.p. - declinante le regole basilari in tema di impugnazione della parte pubblica - utilizzi del pari la formula onnicomprensiva "pubblico ministero", indubbiamente riferibile sia al procuratore della Repubblica presso il tribunale che al procuratore generale presso la Corte di appello, non prestandosi ad equivoci di sorta quanto al suo significato. Ne', d'altra parte, può attribuirsi, dal punto di vista soggettivo, efficacia limitativa all'espressione "nei casi stabiliti dalla legge", inserita nel comma 1 della disposizione in questione, giacché, tenuto conto del contesto, essa ha chiaramente una valenza oggettiva.

La sentenza Campagna ha, poi, rilevato come la legittimazione del procuratore generale risulti confermata dal complesso delle norme esplicative del disposto dell'art. 570 c.p.p., norme queste da ritenersi non meno chiare sul punto, come quelle dettate dal codice di rito agli artt. 548, comma 3, (che prevede che l'avviso di deposito con l'estratto della sentenza sia in ogni caso comunicato al procuratore generale presso la corte di appello), 585, comma 2, lett. d), (circa la decorrenza dei termini di cui al comma 1 per l'impugnazione del procuratore generale dal giorno in cui è stata eseguita la comunicazione dell'avviso di deposito con l'estratto del provvedimento rispetto ai "provvedimenti emessi in udienza da qualsiasi giudice" della sua circoscrizione diverso dalla corte di appello) e 608, comma 4, (che in tema di "ricorso del pubblico ministero", prevede che il procuratore generale può sempre ricorrere anche nei casi previsti dall'art. 569 c.p.p., vale a dire nei casi in cui è consentito alla parte che "ha diritto di appellare la sentenza di primo grado (...)" di adire immediatamente il giudice di legittimità).

Il complesso normativo in questione comporta l'infondatezza dell'orientamento, pur affiorato nella giurisprudenza di legittimità anteriormente alla sentenza Campagna, tendente a limitare il potere di impugnazione del procuratore generale, ritenendo che, salvo espresse deroghe, competente a impugnare è solo e sempre il pubblico ministero istituito presso il giudice che ha emanato il provvedimento, ovvero presso il giudice avente giurisdizione di merito a livello superiore, in base alla regola sulla "simmetria processuale", per la quale il pubblico ministero "ripete" la sua competenza dal giudice presso il quale esercita le sue funzioni.

La facoltà concorrente del procuratore generale di proporre impugnazione, riconosciuta dall'art. 570 c.p.p., comma 1, prima parte, come evidenziato dalla sentenza Sez. U, n. 31011 del 28/05/2009, Colangelo, Rv. 244029, e dalla sentenza Sez. 1, n. 41629 del 15/04/2019, Lorini, Rv. 277138, invero, non si espone alle critiche circa l'attribuzione al procuratore generale di un "indeterminato" potere di impugnazione, in ogni e qualsiasi ipotesi, dovendosi coniugare la previsione soggettiva generale con il principio fondamentale, sancito nell'art. 568 c.p.p., di tassatività delle impugnazioni: è il legislatore che stabilisce "i casi nei quali provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione e (...) il mezzo con cui possono essere impugnati", oltre ai soggetti cui è espressamente conferito dalla legge il diritto di impugnazione.

Pertanto, se di regola il termine "pubblico ministero" deve essere interpretato con riferimento sia al procuratore della Repubblica che al procuratore generale della Repubblica presso la corte di appello, tuttavia, ove il testo normativo non faccia un generico riferimento al "Pubblico ministero", ma specifichi espressamente (come nel caso, ad esempio, dell'art. 311, comma 1, c.p.p., in tema di ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse dal Tribunale del riesame sui provvedimenti adottati in materia cautelare dalla corte di appello), che legittimati all'impugnazione sono "il pubblico ministero che ha richiesto l'applicazione della misura" e "il pubblico ministero presso il Tribunale indicato nel comma 7 dell'art. 309" (tribunale del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata di corte di appello nella cui circoscrizione è compreso l'ufficio del giudice che ha emesso l'ordinanza), risulta chiara la volontà del legislatore di circoscrivere il potere di impugnazione, escludendo la legittimazione del procuratore generale presso la corte di appello - salvo che sia stato egli stesso a chiedere l'applicazione della misura cautelare - di guisa che non può essere consentita alcuna interpretazione estensiva.

La stessa sentenza Campagna, del resto, ha condivisibilmente avuto cura di precisare come l'interpretazione sistematica del termine "pubblico ministero" non si estenda ai procedimenti incidentali, che per le loro spiccate peculiarità impongono delle deroghe alle regole generali con riflessi anche sul regime delle impugnazioni, come nel caso - oltre a quello delle impugnazioni delle ordinanze del tribunale del riesame- della materia esecutiva, ove la legittimazione ad impugnare i provvedimenti adottati dal giudice dell'esecuzione spetta, in via esclusiva, per espressa designazione del legislatore, al pubblico ministero che ha assunto il ruolo di parte nel procedimento, non potendosi riconoscere al procuratore generale presso la corte d'appello un potere di surroga assimilabile a quello attribuitogli dall'art. 570 c.p.p. nel giudizio di cognizione (Sez. 1, n. 38846 del 27/10/2006, Raffaelli, Rv. 235981; Sez. 1, n. 30168 del 13/6/2003, Vincis, Rv. 225060; Sez. 3, n. 20242 del 19/2/2003, Morgana, Rv. 224471; Sez. 4, n. 30200 del 21/6/2001, Benzi, Rv. 219587).

3.3. Nel delineato sistema di riferimento per le impugnazioni del "pubblico ministero", il procuratore generale della Repubblica presso la corte d'appello deve, pertanto, ritenersi legittimato a proporre impugnazione - e segnatamente ricorso per cassazione - avverso l'ordinanza di ammissione alla prova, ai sensi dell'art. 464-quater, comma 7, c.p.p..

Invero, non inducono ad una lettura diversa - circa la piena legittimazione soggettiva del Procuratore generale all'impugnazione dei provvedimenti emessi dai giudici del distretto, come sancita dalle pronunce delle Sezioni Unite citate l'introduzione ad opera dell'art. 3 D.Lgs. n. 6 febbraio 2018 n. 11, dell'art. 593-bis c.p.p., in tema di "appello del pubblico ministero", che prevede la possibilità per il procuratore generale di appellare la sentenza di primo grado solo nei casi di avocazione o qualora vi sia stata acquiescenza del procuratore della Repubblica, nonché il conseguente inserimento nel comma 1 dell'art. 570 della clausola di salvezza, secondo cui "salvo quanto previsto dall'art. 593 bis, comma 2, il Procuratore generale può proporre impugnazione (...)".

Il disposto normativo in questione, volto a coordinare le facoltà di appello da parte degli uffici di procura, al fine di evitare la proposizione di più impugnazioni avverso il medesimo provvedimento, conferma pienamente la portata generale della legittimazione concorrente del procuratore generale, ponendosi, non solo in senso letterale come una eccezione alla regola generale con l'inciso " salvo quanto previsto (...)", ma anche per il contenuto della previsione derogatoria alla regola, circoscritto all'appello.

Gli argomenti contrari alla facoltà del procuratore generale di impugnare l'ordinanza di ammissione alla prova, enunciati nella sentenza Sez. 6, n. 18317 del 09/04/2021, Stompanato, non colgono, invece, nel segno.

Innanzitutto, quanto alla impostazione preliminare sottesa all'orientamento in questione - secondo cui l'art. 570 c.p.p., nella precisazione del comma 1 "nei casi consentiti dalla legge" dovrebbe essere interpretata come una limitazione di tipo "soggettivo", riferita solo ad uno dei soggetti cui la prima parte della disposizione in questione riconosce la legittimazione ad impugnare, ossia al procuratore generale presso la corte di appello - essa non trova agganci testuali di sorta, volti a diversificare le posizioni soggettive della parte pubblica, limitando la legittimazione del procuratore generale, a fronte di una indubbia valenza oggettiva dell'inciso suddetto, come già messo in risalto dalla sentenza Campagna. L'inversione di prospettiva - secondo cui la facoltà di impugnare del procuratore generale costituirebbe un'eccezione, sicché di volta in volta in volta occorrerebbe verificare se il legislatore abbia inteso conferire al procuratore generale la legittimazione ad impugnare - opera una manipolazione "sintattica" di un dettato normativo chiaro nell'attribuire, con la prima parte del comma 1 dell'art. 570 c.p.p., il potere concorrente al procuratore della Repubblica presso il tribunale e al procuratore generale presso la corte di appello di proporre impugnazione, intendendo in definitiva sotto la rubrica "impugnazione del pubblico ministero" declinare la regola che i rappresentanti dell'ufficio della parte pubblica possono esercitare il potere di impugnazione in tutti i casi in cui le norme sull'impugnazione facciano generico richiamo al pubblico ministero.

Del resto, il principio di tassatività delle impugnazioni implica, come correttamente evidenziato dalla sentenza Sez. 1, n. 43293 del 27/10/2021, Ongaro, non solo che un soggetto processuale non possa impugnare se ciò non è previsto, ma anche che non possa essere escluso dall'area dei legittimati se la legge in tal senso non ha espressamente disposto, perché in entrambi i casi risulterebbe violato il principio di legalità processuale di cui è corollario quello di tassatività, anche per il profilo soggettivo.

Pur non potendo escludersi la possibilità che il procuratore generale presso la corte di appello sia limitato nel potere di impugnazione, tale esclusione, di regola, avviene sulla base di un preciso addentellato normativo, o comunque, come messo in risalto dalla sentenza Campagna, con riguardo a procedimenti incidentali, che, per le loro spiccate peculiarità, impongono deroghe alle regole generali con riflessi anche sul regime delle impugnazioni.

A tal ultimo proposito gli ulteriori argomenti posti a fondamento dell'orientamento negativo - che fanno leva sulla natura autonoma del procedimento incidentale, nel quale si verificano presupposti, ammissibilità ed esecuzione della messa alla prova e sul "regime disgiunto" di impugnazione dell'ordinanza e della sentenza, in deroga al principio generale dell'art. 586, comma 1, ultima parte c.p.p. - del pari non appaiono decisivi al fine di escludere la legittimazione del procuratore generale ad impugnare l'ordinanza di ammissione alla prova.

Ed invero, per quanto concerne la natura "autonoma" del procedimento di messa alla prova- in cui si svolge un vero e proprio esperimento trattamentale, autonomo rispetto all'ordinario processo di cognizione, sia con riferimento ai requisiti di ammissibilità, che alla fase di esperimento del trattamento, durante il quale si dà corso ad una fase procedimentale alternativa rispetto a quella principale sulla base di una prognosi di astensione dell'imputato dalla commissione di futuri reati - tale procedimento, occorre osservare che e', comunque, - come correttamente rilevato dalla sentenza Sez. 1, n. 43293 del 27/10/2021, Ongaro, - pur sempre collegato a quello principale, ora per la declaratoria di estinzione del reato in caso di esito positivo della prova, ora per la ripresa dell'accertamento penale se la prova ha avuto esito negativo.

Pertanto, il procedimento, per le sue caratteristiche, non può inquadrarsi in un procedimento incidentale, che in sé, per le sue caratteristiche, impone deroghe al regime delle impugnazioni.

Del resto, anche la finalità a cui risulta improntata la disciplina impugnatoria delle ordinanze di ammissione alla prova ex art. 464-quater c.p.p. - di ridurre sensibilmente le ipotesi di regressione del procedimento, se non addirittura di eliminarle del tutto e di garantire il massimo favore all'istituto della messa alla prova - non può - come pure dedotto con l'orientamento negativo - costituire il fondamento per escludere dal punto di vista soggettivo il procuratore generale dai legittimati all'impugnazione, non solo perché il comma 7 non consente letteralmente tale interpretazione selettiva, ma anche perché l'esigenza di immediata definizione delle questioni riguardanti i requisiti di ammissibilità della messa alla prova risulta garantita dall'apposito rimedio previsto del ricorso diretto e autonomo per cassazione del pubblico ministero, in deroga all'art. 586 c.p.p..

In definitiva, il procuratore generale è legittimato ad impugnare ai sensi art. 464-quater, comma 7, c.p.p., l'ordinanza di ammissione alla prova.

3.4. La norma in questione prevede per i soggetti legittimati il rimedio ad hoc del ricorso per cassazione, senza precisazioni quanto ai vizi deducibili, sicché la facoltà di impugnazione da parte del procuratore generale presso la Corte di appello (al pari del procuratore della Repubblica presso il tribunale), dell'ordinanza ammissiva alla prova potrà avvenire per i motivi consentiti dall'art. 606 c.p.p., relativi a violazioni di legge e a vizi di motivazione, come già evidenziato in motivazione da Sez. U. Rigacci, trattandosi di un rimedio che non soffre limitazioni quanto ai motivi deducibili.

La possibilità di impugnazione diretta dell'ordinanza di ammissione alla prova implica che essa debba essere portata a conoscenza, mediante lettura in udienza o mediante notifica o comunicazione dell'avviso di deposito, non solo alle parti del procedimento che hanno diritto all'avviso della data dell'udienza, ai sensi dell'art. 127 c.p.p., ma anche, come espressamente indicato nell'art. 128 c.p.p., "a tutti coloro cui la legge attribuisce il diritto di impugnazione" (Sez. 1, n. 41629 del 15/04/2019, Lorini, Rv. 277138).

Tra i soggetti in favore dei quali deve essere eseguita la comunicazione dell'avviso di deposito, pertanto, vi è senz'altro il procuratore generale presso la corte di appello, titolare, al pari del procuratore della Repubblica presso il Tribunale, del diritto di ricorrere per cassazione, ai sensi dell'art. 464-quater, comma 7, c.p.p..

Nel caso di specie tale comunicazione non risulta essere stata effettuata nei confronti del Procuratore generale della Corte d'appello di Trento che ha impugnato le ordinanze di ammissione alla prova unitamente alla sentenza di estinzione del reato ex art. 464-septies c.p.p..

Va, per inciso, evidenziato che diverso sarebbe il caso in cui il Procuratore generale, pur avendo ricevuto comunicazione dell'ordinanza di messa alla prova, non avesse provveduto ad impugnarla tempestivamente, derivando da ciò la impossibilità di esperire rimedi avverso l'ordinanza di ammissione alla prova, ovvero di dedurre con l'impugnazione della sentenza i vizi propri dell'ordinanza in questione.

4. Deve essere data risposta positiva al secondo quesito rimesso alla decisione delle Sezioni Unite, riguardante la possibilità per il procuratore generale di impugnare la sentenza di estinzione del reato, pronunciata ai sensi dell'art. 464-septies c.p.p. e, nel caso di mancata comunicazione dell'ordinanza di ammissione alla prova, di impugnare tale ordinanza, in uno alla sentenza di estinzione del reato.

L'omessa comunicazione dell'ordinanza di ammissione alla prova non esclude, infatti, il potere del procuratore generale di impugnazione di essa unitamente alla sentenza che dichiara estinto il reato ex art. 464-septies c.p.p., secondo la regola generale fissata dall'art. 586 c.p.p., atteso che, sebbene sia previsto un apposito rimedio impugnatorio dall'art. 464-quater, comma 7, c.p.p., nondimeno l'impossibilità di accedere ad esso da parte del legittimato all'impugnazione, stante l'esaurimento della fase di esperimento del rimedio, nonché della messa alla prova, comporta la riespansione del potere di impugnazione, secondo le regole generali dettate per le ordinanze in uno ai rimedi avverso di esse esperibili.

In proposito, deve premettersi che la sentenza di estinzione del reato per esito positivo della prova, pronunciata in pubblica udienza successivamente alla costituzione delle parti, ha natura di sentenza di proscioglimento ed è perciò impugnabile con l'appello del "pubblico ministero", ai sensi dell'art. 593, comma 2, c.p.p..

Giova sul punto richiamare il principio affermato con l'ordinanza delle Sez. U, n. 3512 del 28/10/2021, Lafleur, Rv. 282473, secondo cui la sentenza di proscioglimento, pronunciata nella udienza pubblica dopo la costituzione delle parti, non è riconducibile al modello di cui all'art. 469 c.p.p., ma deve considerarsi sempre pronunciata in applicazione della regola di giudizio di cui all'art. 129 c.p.p. e la relativa sentenza risulta appellabile nei limiti in cui la legge lo consente.

Nel caso in esame la sentenza impugnata è stata pronunciata a seguito della comparizione delle parti all'udienza pubblica fissata per il giudizio e successivamente alla verifica della loro regolare costituzione, nonché all'esito del decorso del periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, di guisa che trattasi di una sentenza pronunciata nella fase dibattimentale e, come tale, appellabile.

Il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Trento ha, tuttavia, impugnato la sentenza ex art. 464-septies c.p.p. e le ordinanze di messa alla prova con ricorso per cassazione e tale impugnazione va ritenuta ammissibile, in quanto collocabile nell'alveo del ricorso immediato di cui all'art. 569 c.p.p..

Invero, la parte che ha diritto di appellare la sentenza di primo grado - e specificamente il procuratore generale ai sensi dell'art. 608, comma 4, c.p.p. - può proporre direttamente ricorso per cassazione per violazione di legge, ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 3 dell'art. 569 c.p.p..

Con il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento risultano chiaramente dedotti, con il primo e secondo motivo di ricorso, vizi di violazione di legge relativi alla illegittima ammissione alla prova dell'ente e alla conseguente declaratoria di estinzione del reato.

Anche con il terzo e quarto motivo di ricorso - specificamente riguardanti le ordinanze di ammissione alla prova della società (Omissis) s.p.a. del 12 marzo 2018 e 12 aprile 2019 - il Procuratore generale, a dispetto del riferimento in epigrafe al vizio di motivazione, di cui all'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., lamenta in concreto la ricorrenza di vizi di violazione di legge. Infatti, deduce la sussistenza di una motivazione meramente apparente delle ordinanze suddette, laddove in premessa contengono rispettivamente un mero richiamo alla "sussistenza delle condizioni oggettive e soggettive di cui all'art. 168- bis c.p." ed al fatto che il reato presupposto rientra "tra quelli di cui all'art. 168- bis c.p.", senza spiegare come e perché l'ente possa essere ammesso alla prova e svolgere lavoro di pubblica utilità, ovvero un'attività alternativa.

La mancanza di motivazione, cui va equiparata la mera apparenza della medesima, rientra nella nozione di violazione di legge, a sostegno del ricorso per saltum, previsto dall'art. 569 c.p.p..

Del resto l'erronea attribuzione del "nomen juris" non pregiudica l'ammissibilità del mezzo di impugnazione di cui l'interessato, ad onta dell'inesatta "etichetta", abbia effettivamente inteso avvalersi; all'uopo il giudice ha il potere-dovere di provvedere all'appropriata qualificazione dell'impugnazione proposta e dei vizi prospettati, privilegiando rispetto alla formale apparenza la volontà della parte di attivare il rimedio all'uopo predisposto dall'ordinamento giuridico (Sez. U, n. 16 del 26/11/1997, dep. 1998, Nexhi, Rv. 209336).

Nella fattispecie in esame, trattandosi, dunque, di ricorso per saltum, anche nei confronti delle ordinanze impugnate con la sentenza di estinzione del reato, non possono che essere dedotti vizi di violazione di legge, come di fatto è avvenuto.

5. Devono in conclusione essere affermati i seguenti principi di diritto: "Il procuratore generale è legittimato ad impugnare con ricorso per cassazione, per i motivi di cui all'art. 606 c.p.p., l'ordinanza di ammissione alla prova di cui all'art. 464-bis, c.p.p., ritualmente comunicatagli, mentre, in caso di omessa comunicazione della stessa, è legittimato ad impugnare quest'ultima insieme alla sentenza di estinzione del reato".

6. L'ammissibilità del ricorso immediato per cassazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento comporta la necessità della soluzione della questione sulla quale è incentrato il ricorso in esame, relativa alla possibilità per l'ente di essere ammesso alla prova, ai sensi dell'art. 168-bis c.p., nell'ambito del processo instaurato a suo carico per l'accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato ex D.Lgs. n. 8 giugno 2001, n. 231.

Le norme relative alla messa alla prova non contengono alcun riferimento agli "enti" quali possibili soggetti destinatari di esse e neppure le norme del D.Lgs. n. 231 del 2001, sebbene introdotte antecedentemente a quelle disciplinanti l'istituto della messa alla prova per gli imputati maggiorenni, contengono agganci o richiami deponenti per l'immediata applicabilità dell'istituto di più recente introduzione agli enti. Gli artt. 34 e 35 del D.Lgs. n. 231 del 2001, infatti, nel dettare le disposizioni generali sul procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative dipendenti da reato, oltre a prevedere l'osservanza delle norme specificamente dettate dal decreto, contengono un richiamo esclusivamente alle disposizioni del codice di procedura penale e alle disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili.

L'applicazione "estensiva" ovvero "analogica" dell'istituto della messa alla prova agli enti - in mancanza di norme di richiamo o di collegamento - ha fatto registrare nella giurisprudenza di merito decisioni contrastanti, contrapponendosi ad un gruppo di ordinanze negative all'ammissione dell'ente alla prova (cfr. ad es. Trib. Milano, 27/3/2017; Trib. Bologna, 10/12/2020; Trib. Spoleto, 21/4/2021), altre pronunce, invece, favorevoli (Trib. Modena, 19/10/2020; Trib. Bari, 22/6/2022), tra cui quella oggetto di impugnazione.

6.1. Le ragioni ostative all'applicazione estensiva dell'istituto di cui all'art. 168-bis c.p. agli enti risultano enunciate nelle ordinanze negative con argomentazioni diversificate. In particolare, è stato messo in risalto come la sospensione del procedimento con messa alla prova si manifesti, dal punto di vista afflittivo, attraverso lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, rientrante a pieno titolo nella categoria delle sanzioni penali, ma, in assenza - de jure condito- di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui all'art. 168-bis c.p. alla categoria degli enti, deriva che l'istituto in esame, in ossequio al principio della riserva di legge, non risulta applicabile ai casi non espressamente previsti e, quindi, alle società in relazione alla responsabilità amministrativa ex D.Lgs. n. 231 del 2001 (Trib. Milano, 27/3/2017).

Sotto altro versante è stato evidenziato che l'applicazione analogica non sarebbe praticabile, poiché la lacuna normativa conseguente al mancato coordinamento della disciplina sostanziale della messa alla prova con il D.Lgs. n. 231 del 2001 appare essere in realtà intenzionale. Rispecchia la precisa scelta del legislatore di escludere l'ente dall'ambito soggettivo di applicazione dell'istituto. Inoltre, vi è incompatibilità strutturale tra la disciplina della messa alla prova e quella della responsabilità amministrativa degli enti, connotate da ratio diverse, inconciliabili negli aspetti sostanziali ed anche processuali. L'art. 168-bis c.p. modellato sulla figura dell'imputato persona fisica, in un'ottica, non soltanto special-preventiva, riparativa e conciliativa, ma soprattutto rieducativa, non è applicabile all'ente, con la conseguenza che deve ritenersi indebita l'estensione della sospensione del procedimento con messa alla prova all'ente, in quanto si rischierebbe di introdurre, per via giurisprudenziale, un nuovo istituto del quale lo stesso giudice sarebbe chiamato a declinare i presupposti sostanziali e processuali (Trib. Bologna, 10/12/2020).

Inoltre è stato evidenziato che, pur volendo ritenere che l'ammissione alla prova dell'ente si risolva in un'interpretazione analogica in bonam partem, astrattamente consentita, tale estensione sarebbe, comunque, inibita dal fatto che il percorso esegetico astrattamente concepito lascerebbe in concreto ampi margini di incertezza operativa, non essendo precisato quale sia l'ambito di applicazione della messa alla prova per gli enti e non essendo chiari i requisiti oggettivi di ammissibilità, a differenza di quanto, invece, previsto per gli imputati persone fisiche, con riferimento ai quali l'art. 168-bis c.p. richiede che non ne abbiano già usufruito in precedenza e che si proceda per reati puniti con pena pecuniaria, ovvero detentiva non superiore nel massimo a quattro anni di reclusione (Trib. Spoleto, 21/4/2021).

6.2. Con il diverso orientamento di merito favorevole all'ammissione alla prova dell'ente, attraverso l'interpretazione "estensiva", ovvero "analogica", dell'art. 168-bis c.p., è stata ritenuta, invece, la piena compatibilità dell'istituto della messa alla prova con il sistema delineato dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

All'uopo è stato evidenziato che l'ammissibilità dell'ente alla sospensione del procedimento con messa alla prova è subordinata al possesso di un imprescindibile prerequisito da parte della società, ovvero l'essersi la stessa dotata, prima del fatto di un modello organizzativo valutato inidoneo dal giudice, poiché solo in questo caso sarebbe possibile formulare un giudizio positivo in ordine alla futura rieducazione dell'ente, che dimostrerebbe così di essere stato diligente e di aver adottato un modello ritagliato sulle proprie esigenze specifiche per quanto valutato non idoneo dal giudice (Trib. Modena, 19/10/2020).

Con altra ordinanza (Trib. Bari, 22/6/2022), l'ammissione alla prova dell'ente è stata giustificata, con percorso argomentativo più articolato, in base al presupposto che l'applicazione della disciplina della messa alla prova dell'ente non determina una violazione dei principi di tassatività e di riserva della legge penale, generando effetti favorevoli per l'ente. Comunque, il difetto di coordinamento tra la disciplina sostanziale della messa alla prova e quella di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001 non è espressione della scelta del legislatore di escludere gli enti dall'ambito soggettivo di applicazione dell'istituto in questione. Anche il sistema di responsabilità da reato degli enti risponderebbe a una logica di prevenzione del crimine da perseguire attraverso la rieducazione dell'ente, ossia la prevenzione speciale in chiave rieducativa, declinandosi essa in maniera peculiare. Neppure costituirebbero argomenti idonei ad escludere l'applicabilità della messa alla prova dell'ente, l'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella dell'autore del reato, che comunque non impedirebbe all'ente di accedere al procedimento speciale della messa alla prova, atteso che l'esito positivo della prova estingue l'illecito amministrativo. Inoltre, l'incertezza applicativa della messa alla prova all'ente non sarebbe ostativa, traducendosi nella fisiologica sfera di discrezionalità, nell'ambito della quale si muove il giudice in sede di applicazione analogica della legge e che la Costituzione limita quando possano derivare effetti negativi, non sussistenti in tale ipotesi.

Anche i provvedimenti impugnati dal Procuratore generale con il ricorso in esame si inscrivono nel filone interpretativo dell'ammissibilità della messa alla prova dell'ente, senza tuttavia dar conto, come già rilevato, delle specifiche ragioni deponenti per la soluzione positiva.

7. Le Sezioni Unite ritengono di privilegiare l'interpretazione, secondo cui l'istituto della messa alla prova, di cui all'art. 168-bis c.p., non può essere applicato agli enti in relazione alla responsabilità amministrativa dipendente da reato, di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, con la conseguenza che il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento nei confronti delle ordinanze di ammissione alla prova della società (Omissis) s.p.a. e della sentenza di estinzione del reato ex art. 464-septies c.p.p. è fondato.

Prima di dar conto delle ragioni in favore di tale opzione interpretativa occorre brevemente riassumere i punti di approdo della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, rilevanti in questa sede, riguardanti le due discipline da porre a confronto - quella di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001 e quella della messa alla prova ex art. 168-bis c.p. - al fine di saggiarne la compatibilità e, dunque, la possibilità di applicare il procedimento di messa alla prova all'ente.

7.1. Quanto alla prima, occorre rilevare come il tema della natura della responsabilità amministrativa degli enti sia stato affrontato dalla giurisprudenza di legittimità sino alla sentenza Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261112, con indirizzi non univoci, a fronte di un nutrito dibattito anche dottrinario, in merito alla effettiva natura di tale modello di responsabilità, più marcatamente penale, a dispetto della intitolazione del D.Lgs. n. 231 del 2001 "Responsabilità amministrativa dell'ente".

In alcune pronunce di legittimità - quantunque incidentalmente - è stata rimarcata la natura amministrativa della responsabilità da reato (Sez. U, n. 34476 del 23/01/2011, Deloitte & Touche, Rv. 250347; Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255369; Sez. 4, n. 42503 del 25/06/2013, Ciacci, Rv. 257126).

In altra pronuncia, invece, sono stati segnalati i tratti penalistici di tale responsabilità, che risulta aver superato il principio "societas delinquere et puniri non potest" con l'introduzione nel nostro ordinamento di uno specifico ed innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi, fuoriuscente dagli schemi tradizionali del diritto penale, dotato di apposite regole, quanto alla struttura dell'illecito, all'apparato sanzionatorio, alla responsabilità patrimoniale, alle vicende modificative dell'ente, al procedimento di cognizione e a quello di esecuzione, il tutto finalizzato ad integrare un efficace strumento di controllo sociale, contemperando i profili di generai-prevenzione, primario obiettivo della responsabilità degli enti, con le garanzie che ne devono rappresentare il necessario contraltare.

Con ulteriori pronunce, infine, la natura della responsabilità amministrativa degli enti è stata ricondotta ad un tertium genus (Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, Scarafia, Rv. 247665-666; Sez. 6, n. 36083 del 09/07/2009, Mussoni, Rv. 244256) rispetto ai modelli tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa.

Tale ultima impostazione è stata quella, invero, che il legislatore ha inteso privilegiare nel delineare il sistema di responsabilità dell'ente, come chiaramente evincibile dalla Relazione ministeriale di accompagnamento al D.Lgs. n. 231 del 2001, nella quale, dopo la premessa - secondo cui il legislatore delegante non avrebbe incontrato controindicazioni alla creazione di un sistema di vera e propria responsabilità penale degli enti, con superamento dell'antica obiezione legata al presunto sbarramento dell'art. 27 Cost., e cioè all'impossibilità di adattare il principio di colpevolezza alla responsabilità degli enti - è stato evidenziato come, ciò nondimeno, il legislatore abbia inteso optare per un tipo di responsabilità amministrativa. Tale responsabilità, tuttavia, poiché conseguente a reato e legata (per espressa volontà della legge delega) alle garanzie del processo penale, diverge in non pochi punti dal paradigma di illecito amministrativo ormai classicamente desunto dalla L. n. 689 del 1981, con conseguente nascita di un tertium genus, coniugante i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo, nel tentativo di contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia.

La natura della responsabilità amministrativa dell'ente, riconducibile ad un tertium genus, è stata fatta propria, altresì, come già accennato in premessa, dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24 aprile 2011, Espenhahn, Rv.261112. Secondo tale decisione il sistema normativo introdotto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, appunto, cogliendo nel segno le considerazioni della Relazione che accompagna la normativa della responsabilità amministrativa degli enti quando descrivono un sistema che coniuga i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo. Parimenti - ha ancora evidenziato la pronuncia in questione - non è dubbio che il complesso normativo in esame sia parte del più ampio e variegato sistema punitivo e che abbia evidenti ragioni di contiguità con l'ordinamento penale a causa della connessione con la commissione di un reato (che ne costituisce il primo presupposto), della severità dell'apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento.

7.2. Se la responsabilità amministrativa dell'ente deve ritenersi concettualmente inquadrabile in un tertium genus, alla stregua dei principi condivisibilmente sanciti dalla sentenza Espenhahn, la messa alla prova ex art. 168-bis c.p. deve, invece, inquadrarsi nell'ambito di un "trattamento sanzionatorio" penale.

L'istituto della messa alla prova dei maggiorenni, ispirato all'analogo istituto previsto per i minori ex artt. 28 e 29 del D.P.R. n. 448 del 22 settembre 1998, introdotto dalla L. 28 aprile 2014 n. 67, è volto alla risocializzazione del reo, assicurando in relazione alla finalità specialpreventiva un percorso che tiene conto della natura del reato, della personalità del soggetto e delle prescrizioni imposte, così da consentire la formulazione di un favorevole giudizio prognostico. Esso si inscrive in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice - nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria, o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti di cui all'art. 550, comma 2, c.p.p. - decide con ordinanza (ai sensi dell'art. 464-quater c.p.p.) sulla richiesta dell'imputato (formulata secondo le forme e modalità di cui all'art. 464-bis c.p.p.) di sospensione del procedimento con messa alla prova, quando, in base ai parametri di cui all'art. 133 c.p., reputi idoneo il programma di trattamento e ritenga che l'imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. Il procedimento di ammissione alla prova comporta la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l'affidamento dell'imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. L'esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede, ai sensi dell'art. 168-ter comma 2 c.p. e 464-septies c.p.p..

In definitiva, il procedimento in questione dà luogo ad una fase incidentale in cui si svolge un vero e proprio "esperimento trattamentale", sulla base di una prognosi di astensione dell'imputato dalla commissione di futuri reati, che, in caso di esito positivo, determina l'estinzione del reato (Sez. U, n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238).

La natura sostanziale, oltre che processuale, e "sanzionatoria" dell'istituto della messa alla prova è stata più volte affermata, sia dalla giurisprudenza costituzionale che da quella di legittimità.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 240 del 2015, ha avuto modo di precisare che il nuovo istituto ha effetti sostanziali, perché dà luogo all'estinzione del reato, ma è connotato da un'intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio.

D'altra parte la regolamentazione della messa alla prova è affidata a disposizioni normative contenute sia nel codice penale, che in quelle del codice di rito, a testimonianza della duplice anima dell'istituto in questione.

Gli effetti sostanziali della messa alla prova sono stati chiaramente posti in rilievo dalla sentenza Sez. U, n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238, con la quale è stato evidenziato come la nuova figura, di ispirazione anglosassone, realizzi una rinuncia statuale alla potestà punitiva, condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita e, sebbene si connoti per una accentuata dimensione processuale, che la colloca nell'ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio, di essa va riconosciuta, soprattutto, la natura sostanziale. "Da un lato, dunque, nuovo rito speciale, in cui l'imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall'altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene "infranta" la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto".

La sentenza Sorcinelli ha, ancora, rilevato come con la L. n. 67 del 2014 - che ha introdotto la messa alla prova e la particolare tenuità del fatto - il legislatore ha dato impulso ad un profondo ripensamento del sistema sanzionatorio che ancora "gravita tolemaicamente intorno alla detenzione muraria". Il carattere innovativo della messa alla prova, in particolare, segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio, perseguendo finalità specialpreventive e di soddisfacimento delle esigenze di prevenzione generale tramite un trattamento che conserva i caratteri sanzionatori, seppure alternativi alla detenzione.

Rilevanti, al fine di tracciare il percorso attraverso il quale si è affermato che la messa alla prova si traduce in un "trattamento sanzionatorio", si presentano le più recenti pronunce della Corte costituzionale, che, investita delle legittimità di norme riguardanti l'istituto in questione, ha avuto modo di delineare in maniera sempre più chiara la portata dell'istituto, tenendo conto dei principi affermati dalla sentenza Sorcinelli.

Con la sentenza n. 91 del 2018, la Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies c.p.p., in riferimento all'art. 27, comma 2, Cost., sollevate in quanto le disposizioni censurate "prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva". In proposito ha evidenziato che, se è vero che nel procedimento di messa alla prova manca una condanna, è anche vero che correlativamente non vi è un'attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell'imputato e su sua richiesta, pur in difetto di un formale accertamento di responsabilità, viene disposto un trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata nel caso di un'eventuale condanna. "La sospensione del procedimento con messa alla prova può essere assimilata all'applicazione della pena su richiesta delle parti (ex art. 444 c.p.p.), perché entrambi i riti speciali si basano sulla volontà dell'imputato che, non contestando l'accusa, in un caso si sottopone al trattamento e nell'altro accetta la pena. Per queste caratteristiche anche il patteggiamento è stato sospettato di illegittimità costituzionale, sostenendosene il contrasto con la presunzione di non colpevolezza contenuta nell'art. 27, comma 2, Cost., ma questa Corte con più decisioni ha ritenuto la questione priva di fondamento (Corte Cost. sent. n. 91 del 2018)".

Il carattere innovativo della messa alla prova "segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio" e, proprio sulla base dei principi della sentenza Sorcinelli, Sez. U, n. 36272 del 2016, deve essere riconosciuta, soprattutto, la natura sostanziale dell'istituto, poiché l'esito positivo della prova conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato. Il trattamento programmato - pur sanzionatorio - non è una pena eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un'attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell'imputato, il quale liberamente può farla cessare con l'unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso. In questa struttura procedimentale tuttavia non manca, in via incidentale e allo stato degli atti (perché l'accertamento definitivo è rimesso all'eventuale prosieguo del giudizio, nel caso di esito negativo della prova), una considerazione della responsabilità dell'imputato. Infatti, il giudice, in base all'art. 464-quater, comma 1, c.p.p., deve verificare che non ricorrano le condizioni per "pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129" c.p.p., e anche a tale scopo può esaminare gli atti del fascicolo del pubblico ministero, deve valutare la richiesta dell'imputato, eventualmente disponendone la comparizione (art. 464-quater, comma 2, c.p.p.), e, se lo ritiene necessario, può anche acquisire ulteriori informazioni, in applicazione dell'art. 464-bis, comma 5, c.p.p..

La natura sanzionatoria della messa alla prova per gli adulti risulta poi, ancor più chiaramente, ribadita dalla successiva sentenza n. 68 del 2019, con la quale la Corte costituzionale, nell'enunciare le diverse caratteristiche dell'istituto di cui all'art. 168-bis c.p., rispetto alla messa alla prova per i minorenni, ha appunto sottolineato la connotazione sanzionatoria delle prescrizioni inerenti alla sospensione del processo con messa alla prova per gli imputati adulti, introdotta dalla L. n. 67 del 2014, differentemente dalla messa alla prova per i minorenni, alla quale non può essere ascritta alcuna funzione sanzionatoria.

In tale pronuncia, in particolare, è stato dato conto del fatto che con la sentenza n. 91 del 2018 è stata richiamata in senso adesivo la pronuncia delle Sezioni Unite, Sorcinelli, con la quale si è affermata la duplice natura processuale e sostanziale - del nuovo istituto della messa alla prova per gli adulti, costituente un vero e proprio "trattamento sanzionatorio", ancorché anticipato rispetto all'ordinario accertamento della responsabilità dell'imputato e rimesso comunque - a differenza delle pene - alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte del soggetto; un trattamento che persegue lo scopo - costituzionalmente imposto in forza dell'art. 27, comma 3, Cost. - della risocializzazione del soggetto, sulla base della libera scelta che questi ha compiuto per evitare le conseguenze, da lui ritenute evidentemente più pregiudizievoli, del processo ordinario e della pena che potrebbe conseguirne.

La sentenza n. 68 del 2018 ha enucleato molteplici indici rappresentativi della portata sanzionatoria della messa alla prova: l'obbligo di prestare lavoro di pubblica utilità ovvero le prescrizioni concordate all'atto dell'ammissione al beneficio, incidenti in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto; il rapporto di proporzionalità delle prescrizioni cui il soggetto è vincolato entro rispetto alla gravità del fatto commesso; l'idoneità del programma di trattamento in base ai parametri di cui all'art. 133 del codice penale; non da ultimo la previsione di cui all'art. 657-bis c.p.p..

Con le recentissime sentenze n. 146 del 2022 e 174 del 2022, la Corte costituzionale ha ribadito le innegabili connotazioni sanzionatorie dell'istituto della messa alla prova che, da un lato, è uno strumento di definizione alternativa del procedimento, che si inquadra a buon diritto tra i riti alternativi (Corte Cost. sentenze n. 14 del 2020, n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015) e, nel contempo, disegna un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo e alla pena, (Corte Cost. sentenza n. 68 del 2019), che conduce, in caso di esito positivo, all'estinzione del reato.

8. I riportati punti di approdo della giurisprudenza costituzionale e di legittimità sulle caratteristiche dell'istituto di cui all'art. 168-bis c.p. consentono di affermare la indubbia natura "sanzionatoria" della messa alla prova dei maggiorenni sulla base degli inequivoci indici rivelatori valorizzati nella sentenza n. 91 del 2018 dalla Corte costituzionale, tra cui:

- l'obbligo a carico del soggetto che vi è sottoposto - ai sensi dell'art. 168-bis, comma 3, c.p. - di prestare lavoro di pubblica utilità, consistente in una "prestazione non retribuita (...) di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività" e la cui "durata giornaliera non può superare le otto ore";

- la "prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno";

- gli obblighi che derivano dalle prescrizioni concordate all'atto dell'ammissione al beneficio, che possono comprendere "attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali", prescrizioni, queste ultime, incidenti in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto, sia pure in maniera meno gravosa rispetto a quanto accadrebbe nel caso di applicazione di una pena detentiva;

- il rapporto di proporzionalità delle prescrizioni cui il soggetto è vincolato rispetto alla gravità del fatto commesso, nonché la durata della messa alla prova, variabile a seconda della gravità del reato contestato all'imputato;

- la valutazione dell'idoneità del programma di trattamento "in base ai parametri di cui all'art. 133 del codice penale" e cioè in base ai criteri che sovraintendono ordinariamente alla commisurazione della pena;

- la previsione di cui all'art. 657-bis c.p.p., in caso di condanna conseguente al fallimento della messa alla prova, di scomputare dalla pena ancora da eseguire un periodo corrispondente a quello in cui il soggetto ha effettivamente eseguito le prescrizioni che gli erano state imposte "e ciò sulla base di un coefficiente stabilito dalla legge, che si fonda a sua volta su una valutazione di minore afflittività - ma pur sempre di afflittività - delle prescrizioni medesime rispetto a quella che deriva dalla pena detentiva".

9. Se, dunque, la responsabilità amministrativa da reato riguardante gli enti rientra in un genus diverso da quello penale (tertium genus) e la messa alla prova deve ricondursi ad un "trattamento sanzionatorio" penale, sulla base degli indici elencati, deve ritenersi, in conformità alle conclusioni rassegnate dal procuratore generale in sede, che l'istituto della messa alla prova non può essere applicata agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all'art. 25, comma 2, della Costituzione. L'introduzione attraverso provvedimenti giurisdizionali di un "trattamento sanzionatorio" - quello della messa alla prova ad una categoria di soggetti - gli enti - non espressamente contemplati dalla legge quali destinatari di esso, in relazione a categorie di illeciti non espressamente previsti dalla legge penale, si pone in contrasto con il principio di legalità della pena, del quale la riserva di legge costituisce corollario, che si traduce nel principio, secondo cui "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso".

Non possono soccorrere, al fine di ritenere applicabile agli enti l'istituto della messa alla prova, né l'analogia in bonam partem, né tantomeno l'interpretazione estensiva, come invece sostenuto nelle pronunce di merito favorevoli all'applicazione agli enti della messa alla prova.

9.1. Invero, le regole per l'applicazione analogica sono dettate dagli artt. 12 e 14 preleggi, che definiscono il ragionamento per similitudine, ma, nel contempo, ne restringono l'ambito applicativo, disponendo il divieto di analogia in materia penale ("le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati").

In proposito, le Sezioni Unite hanno evidenziato che la sanzione da applicare ad una fattispecie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l'interpretazione analogica. In caso contrario l'interprete della legge si trasformerebbe in legislatore con una marcata incidenza negativa sia sul principio di certezza sia sulla stessa efficacia determinante delle disposizioni penali coinvolte in siffatta operazione interpretativa, diretta a correlare, con l'intervento del giudice, il comportamento del soggetto attivo del reato ad una pena non costituente oggetto di specifica comminatoria legislativa (Sez. U, n. 5655 del 26/05/1984, Sommella, Rv. 164857).

Il divieto di analogia per le norme penali in applicazione del principio di tassatività, ulteriore corollario del principio di legalità, si traduce per il giudice nell'impossibilità di applicare fattispecie e sanzioni, oltre i casi espressamente e specificamente contemplati dalla legge.

9.2. Tale divieto, a maggior ragione, deve trovare applicazione nella fattispecie in esame, in cui viene in questione la traslazione o meglio l'innesto del "trattamento sanzionatorio penale" della messa alla prova in un sistema - quello della responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato - che non solo non è assimilabile ad un sistema penale - ma riguarda appunto gli enti, ossia soggetti giammai indicati quali destinatari di precetti penali, dichiaratamente esclusi dal novero di essi dalla già citata Relazione ministeriale di accompagnamento al D.Lgs. n. 231 del 2001.

Lo stesso D.Lgs. n. 231 all'art. 2, richiama espressamente il principio di legalità, quale principio ineludibile affinché l'ente possa essere sanzionato, evidenziando che "l'ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto".

Dunque, non è consentito ricorrere all'analogia in bonam partem - che, anche ove ritenuta consentita, in certi ambiti, in materia penale - non potrebbe comunque riguardare il caso in esame, tenuto conto del fatto che non vengono in questione sistemi omogenei. Come in precedenza evidenziato, la responsabilità amministrativa degli enti per un fatto integrante reato costituisce un tertium genus, che mutua dal sistema penale solo le garanzie che lo assistono (al contrario della messa alla prova vivente nell'ambito del sistema penale), che non può comportare un trattamento sanzionatorio non previsto dalla legge e che, seppur invocato dall'ente, comporterebbe la scrittura ex novo da parte del giudice del suo ambito di applicazione, di tempi, contenuti e modalità compatibili, all'evidenza in violazione del principio di cui all'art. 25, comma 2, Cost. demandando al giudice la "descrizione" e modulazione della sanzione e, ancor prima, la determinazione delle ipotesi a cui essa consegue.

Risulta evidente, poi, che alcuno spazio può trovare nella fattispecie in esame neppure "l'interpretazione estensiva" delle norme, poiché tale operazione attiene alle ipotesi in cui il risultato interpretativo si mantiene, comunque, all'interno dei possibili significati della disposizione normativa, situazione questa, neppure astrattamente, confacente alla fattispecie in esame.

9.3. I rilievi svolti - dirimenti ed assorbenti al fine di escludere l'applicabilità dell'istituto della messa alla prova agli enti e di ritenere la fondatezza del ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento - danno conto, altresì, della palese infondatezza della questione posta dal difensore della società (Omissis) s.p.a. in sede di conclusioni, circa l'incostituzionalità dell'art. 168-bis c.p., per non essere prevista la sua applicazione agli enti.

10. Per mera completezza espositiva va, in ogni caso, evidenziato che fondate si presentano le ulteriori deduzioni svolte dal Procuratore generale ricorrente e dal Procuratore generale in sede nelle note di udienza, secondo cui la disciplina della messa alla prova ex art. 168-bis c.p., è disegnata e modulata specificamente sull'imputato persona fisica e sui reati allo stesso astrattamente riferibili, caratteristiche queste che la rendono insuscettibile di estensione all'ente quanto alla responsabilità amministrativa, di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001.

La modulazione dell'istituto della messa alla prova sull'imputato - "persona fisica", emerge all'evidenza dalla mera lettura dell'art. 168-bis c.p., laddove si fa riferimento all'affidamento dell'imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma implicante, tra l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, "alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali".

Del pari, il riferimento alla prestazione di lavoro di pubblica utilità - che deve tener conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell'imputato, 7

di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende

sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato con prestazione svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell'imputato e la cui durata giornaliera non può superare le otto ore - non può che attenere alla persona fisica.

Ancora, le condizioni che consentono l'accesso dell'imputato alla messa alla prova - ossia l'allegazione alla richiesta ex art. 464-bis c.p.p. di un programma di trattamento, ovvero la richiesta di elaborazione del predetto programma, contemplante, tra l'altro, " a) le modalità di coinvolgimento dell'imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; b) le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all'attività di volontariato di rilievo sociale (...)" non possono che confermare che il soggetto destinatario del programma sia l'imputato-persona fisica.

Emblematico, poi, risulta il criterio di cui all'art. 464-quater, comma 3, c.p.p. - secondo cui la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all'art. 133 c.p. reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l'imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati- che rende ancor più evidente che la disciplina è stata modellata per l'imputato e per la sua rieducazione e risocializzazione e non può essere traslata ad una persona giuridica, soggetto non "imputato", privo di sostrato psicofisico.

L'operazione ermeneutica - secondo cui gli organi dell'ente, in quanto investiti da un rapporto di immedesimazione organica sono equiparabili all'"imputato" e garantirebbero sufficientemente il soddisfacimento degli obiettivi e delle finalità della messa alla prova - si tradurrebbe, come ben evidenziato dal Procuratore generale, in una sorta di immedesimazione rovesciata in cui le colpe dell'ente ricadrebbero sugli organi e questi sarebbero chiamati a rieducarsi per conto di un diverso soggetto, operazione questa in evidente contrasto anche con le finalità proprie del D.Lgs. n. 231 del 2001.

Va, inoltre, rilevato che l'art. 168-ter c.p.p. prevede che l'esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede, ma non pregiudica l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge, a dimostrazione ulteriore del fatto che le sanzioni diverse da quelle penali, operando in ambiti e per finalità diverse, non sono interessate dal percorso della messa alla prova e possono essere egualmente irrogate.

Peraltro, ulteriori argomenti ostativi all'applicazione della messa alla prova nel sistema della responsabilità amministrativa dell'ente si ricavano anche dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

E' sufficiente all'uopo citare l'art. 67, che, nel prevedere le ipotesi in cui il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere nei confronti dell'ente, richiama esclusivamente i casi previsti dall'art. 60 e l'estinzione per prescrizione della sanzione. In base a tale disposto testuale si deduce che, in caso di esito positivo della messa alla prova, il giudice non potrebbe pronunciare sentenza di non doversi procedere ex art. 464-septies c.p.p., non essendo tale ipotesi prevista tra quelle espressamente indicate di estinzione dell'illecito, con conseguente necessità di "creazione" in tal caso di una causa estintiva dell'illecito al di fuori del sistema espressamente disciplinato dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

Senza considerare, poi, che già sono previste nel D.Lgs. n. 231 forme di riparazione delle conseguenze da reato che rilevano, tuttavia, per l'ente solo in relazione alla mancata applicazione di sanzioni interdittive e non già per l'estinzione di sanzioni pecuniarie.

11. Deve in conclusione essere affermato il seguente principi di diritto:

"L'istituto dell'ammissione alla prova di cui all'art. 168-bis c.p., non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001".

12. Nella fattispecie in esame, pertanto, la fondatezza del ricorso del Procuratore generale ricorrente, quanto alla illegittima ammissione alla prova dell'ente (Omissis) s.p.a. e alla conseguente declaratoria di non doversi procedere nei confronti della società, ai sensi dell'art. 464-septies c.p.p., per essere estinto, per esito positivo della prova, l'illecito di cui all'art. 25-septies, comma 3, D.Lgs. n. 8 giugno 2001, n. 231, comporta l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e delle ordinanze del 12 marzo 2018 e del 12 aprile 2019 del Tribunale di Trento, con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale di Trento per l'ulteriore corso.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e le ordinanze del 12 marzo 2018 e del 12 aprile 2019 del Tribunale di Trento e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Trento per l'ulteriore corso.

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2023.

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472