Per il riconoscimento di una riparazione per l'ingiusta detenzione a seguito dell'emissione di un mandato di arresto europeo (MAE), è sufficiente che sia intervenuta una sentenza irrevocabile di rifiuto della stessa.
Lo ha precisato laQuarta Sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 20255 deposita il 12 maggio 2023, respingendo il ricorso dell’Avvocatura dello Stato.
La Suprema Corte ha precisato che affinché sia riconosciuto l’indennizzo per ingiusta detenzione non è necessario che sia stata pronunciata nello Stato di emissione una sentenza irrevocabile di proscioglimento del consegnato. Inoltre, non viene richiesto al giudice della riparazione di verificare l’esistenza delle condizioni per la pronunzia di una sentenza favorevole alla consegna.
I giudici di legittimità hanno sottolineano che sussiste una una distinzione fondamentale tra il regime estradizionale e quello del MAE. Mentre nel primo l'arresto di un individuo nei cui confronti sia stato emesso un mandato di arresto provvisorio implica una valutazione discrezionale da parte della polizia giudiziaria (art. 716 c.p.p.), nel secondo, l'arresto si configura come un atto dovuto (art. 11 Legge n. 69 del 2005). Quest'ultimo è subordinato esclusivamente alla verifica che la segnalazione nel Sistema d'Informazione Schengen (SIS) sia stata effettuata da un'autorità "competente" di uno Stato membro dell'UE e che questa sia avvenuta nelle "forme richieste".
Ai fini del riconoscimento della riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta a seguito dell’emissione di un mandato di arresto europeo, non è necessario che sia stata pronunziata nello Stato di emissione una sentenza irrevocabile di proscioglimento del consegnato, né è richiesta al giudice della riparazione la verifica dell’esistenza delle condizioni per la pronunzia di una sentenza favorevole alla consegna, essendo sufficiente che sia intervenuta una sentenza irrevocabile di rifiuto della stessa.
Cassazione penale sez. IV, Sentenza 12/01/2023, (ud. 12/01/2023, dep. 12/05/2023), n. 20255
RITENUTO IN FATTO
1. Con l'ordinanza indicata in epigrafe la Corte di appello di Genova ha accolto l'istanza di riparazione avanzata ai sensi degli artt. 314 e s. da J.P. e da O.K., liquidando loro una somma a titolo di indennizzo. La Corte di appello ha ritenuto che il riconoscimento dell'indennizzo fosse "naturale corollario" della emissione di una sentenza di rifiuto della consegna dei predetti allo Stato belga, che in vista della stessa aveva emesso un mandato di arresto Europeo che aveva determinato l'applicazione di una misura custodiale a carico dei predetti.
2. Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso per la cassazione il Ministero dell'Economia e delle Finanze, a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, lamentando, con un primo motivo, la violazione degli artt. 125,314,714-716 c.p.p. ed il vizio della motivazione.
Ad avviso del ricorrente la torte distrettuale ha errato nell'applicare per analogia l'istituto dell'estradizione passiva in quanto il mandato di arresto Europeo ha una disciplina autonoma e speciale e, in relazione alla detenzione che ne è seguita, non è possibile prescindere da una decisione di proscioglimento irrevocabile, che nella specie non ricorre. Si cita, al proposito, la sentenza di questa Corte n. 2623/2019.
Con un secondo motivo si è dedotta ancora la violazione di legge, in relazione all'art. 314 c.p.p., e s.s., art. 125 c.p.p., art. 714 c.p.p., comma 3 nonché agli artt. 213 e 738 c.p.c., perché, ritenendo di applicare la disciplina in materia di estradizione, la Corte di appello avrebbe dovuto verificare la insussistenza delle condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione. Il Ministero resistente aveva chiesto alla Corte territoriale di attivare i poteri officiosi per accertare presso le autorità belghe quale fosse stato l'esito del giudizio penale presupposto ma l'istanza è stata implicitamente disattesa. Tuttavia, secondo l'insegnamento di Sez. 4, n. 18172/2017, il giudice della riparazione è tenuto ad avvalersi della possibilità prevista dagli artt. 213 e 738 c.p.c. di chiedere anche di ufficio alla P.A. informazioni scritte su atti e documenti di cui essa sia in possesso. Nella specie, nella sentenza di rifiuto della consegna si rappresentavano circostanze che rendevano possibile l'emissione successiva di una sentenza delle autorità belghe che costituisse valido titolo per richiedere l'estradizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1. In primo luogo, è opportuno rammentare che questa Corte si è già pronunciata per la ammissibilità della riparazione della detenzione instaurata in vista della consegna di una persona allo Stato che ha emesso il mandato di arresto Europeo, quando quella si riveli ingiusta (Sez. 4, n. 2678 del 12/12/2008, dep. 2009, Rv. 242505).
Di ciò non sembra dubitare neppure il Ministero ricorrente, che infatti si duole non già dell'astratta ammissibilità della riparazione della detenzione instaurata in connessione ad un mandato di arresto Europeo (d'ora innanzi MAE) ma del fatto che, attraverso il rinvenimento di analogie tra il MAE e l'estradizione, si sia ritenuto di poter prescindere dalla esistenza di una decisione irrevocabile di proscioglimento.
L'assunto del Ministero resistente, per il quale sarebbe invece necessaria una pronuncia siffatta, è infondato. Si vorrebbe mutuare, per la detenzione patita in forza di MAE, una condizione che indubbiamente è prevista dal testo dell'art. 314 c.p.p. ma che, alla luce dell'interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina della riparazione per l'ingiusta detenzione sollecitata in più di un'occasione dalla Corte costituzionale, è già stata ritenuta non necessaria in un non piccolo novero di casi, in cui il diritto è stato riconosciuto pur se al di fuori del perimetro tracciato dal testo della legge.
1.2. Come è stato già rilevato in Sez. 4, n. 52813 del 19/09/2018, Maroci, Rv. 275197, l'istituto della riparazione per l'ingiusta detenzione ha conosciuto un'evoluzione interpretativa che lo ha condotto ad un più vasto ambito di applicazione, rispetto a quello definito dal legislatore nel dare attuazione alla Legge-Delega 16 febbraio 1987, n. 81. Secondo la previsione codicistica, l'indennizzo compete in primo luogo a chi, sottoposto a custodia cautelare, è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, sempre che non abbia concorso con colpa grave o dolo all'adozione del provvedimento restrittivo (comma 1); inoltre compete a chi è stato prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p. (comma 2).
Alle medesime condizioni, l'indennizzo può essere riconosciuto a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione o sentenza di "non luogo a procedere" (comma 3).
Una più risalente interpretazione riteneva che, poiché il diritto è riconoscibile solo in caso di proscioglimento pronunciato per ragioni di merito e l'art. 314 c.p.p., comma 4 dispone che "il diritto alla riparazione è escluso... per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all'applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo", se il provvedimento restrittivo della libertà è fondato su più contestazioni, il proscioglimento con formula non di merito anche da una sola di queste, sempreché autonomamente idonea a legittimare la compressione della libertà, impedisce il sorgere del diritto, irrilevante risultando il proscioglimento dalle altre imputazioni (ex multis, Sez. 4, n. 18343 del 02/03/2007 - dep. 15/05/2007, P.G. in proc. Ferlini, Rv. 236411). Di conseguenza, si reputava non indennizzabile la detenzione che, imposta per reato per il quale intervenga proscioglimento nel merito, sia stata subita anche per reato per il quale venga ritenuta mancante la prescritta condizione di procedibilità (Cass. Sez. 4, n. 5949 del 13.12.2002, rv. 226152); o anche per reato estinto per prescrizione (Cass. Sez. 4, n. 3590 del 04/12/2006 - dep. 31/01/2007, Di Grazia e altro, Rv. 236010).
Secondo il tenore delle disposizioni, inoltre, non può essere ottenuto l'indennizzo quando la detenzione subita non abbia avuto funzione cautelare ma sia stata espiata in esecuzione della condanna inflitta con pronuncia definitiva; e altrettanto dicasi per l'ipotesi che venga sofferto un periodo di detenzione cautelare superiore alla pena che risulta inflitta con il giudicato.
Orbene, queste ed altre limitazioni, derivanti dallo stretto, tenore letterale del dettato codicistico, sono state progressivamente superate dalla giurisprudenza, costituzionale e di legittimità. Già con risalenti pronunce venne adottata una interpretazione estensiva della previsione di cui all'art. 314 c.p.p., comma 3, risolvendo in senso affermativo il dubbio se l'ipotesi di cui al comma 1 si applicasse anche al decreto di archiviazione, quale che ne sia la ragione (Sez. 4, n. 1585 del 18/12/1993 - dep. 19/05/1994, Fazari, Rv. 197642). Quanto all'ipotesi di reato estinto per prescrizione, l'orientamento maggioritario formatosi nella giurisprudenza di legittimità, militante per la insussistenza del diritto, è stato dapprima contrastato da talune pronunce, per le quali la detenzione sofferta per reato dichiarato prescritto va tenuta in considerazione e raffrontata, al fine di valutarne la ingiustizia, all'entità della pena che sarebbe stata inflitta in caso di condanna (Sez. 4, n. 40094 del 6/7/2005, Cinanni, n. m.; Sez. 4, n. 36898 dell'8.7.2005, Femia, n. m.), quindi fatto presupposto di un sospetto di illegittimità costituzionale dell'art. 314 c.p.p., comma 1, nella parte in cui non prevede la riparazione per la detenzione subita in relazione a reato per il quale è intervenuto proscioglimento non nel merito. Peraltro, con l'ordinanza di rimessione la Corte di cassazione ampliò il raggio della questione - sollevata anche a riguardo dell'art. 314 c.p.p., comma 4, in relazione agli artt. 2,3,24,76 e 77 Cost. - investendo la Corte costituzionale anche del profilo concernente la mancata previsione del diritto alla riparazione della custodia cautelare sofferta per una durata superiore alla pena inflitta (Sez. U, n. 25084 del 30/05/2006, Pellegrino ed altro, Rv. 234144).
1.3. Ponendo per il momento da parte l'esito di tale giudizio di costituzionalità, ha rilevanza rimarcare che proprio il giudice delle leggi ha impresso un impulso decisivo al moto espansivo del diritto, indicando al giudice ordinario la necessità di cogliere, nella diversità delle vicende, il nucleo fondante dell'istituto, rappresentato non già da un particolare esito del procedimento penale quanto dalla oggettiva lesione della libertà personale. Il primo arresto che merita di essere rammentato in questa sede è la sentenza n. 310 del 1996, con la quale il Giudice delle leggi dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 314 c.p.p. nella parte in cui non prevede il diritto all'equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione. Il silenzio serbato a riguardo di tale evenienza dal legislatore è stato ritenuto ingiustificato alla luce del fatto che la detenzione conseguente ad ordine di esecuzione illegittimo offende la libertà della persona in misura non minore della detenzione cautelare ingiusta e che la legge delega lascia trasparire l'intento del legislatore delegante di non introdurre, su questo piano, ingiustificate differenziazioni tra custodia cautelare ed esecuzione di pena detentiva. Come del resto - ricordò la Corte costituzionale l'art. 5 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta; art. 5 che la stessa legge delega indica - in uno con le norme delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale - tra le norme alle quali il nuovo codice si deve adeguare.
L'erosione dell'originario caposaldo conobbe un ulteriore avanzamento nella sentenza n. 109 del 1999, con la quale venne dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 314 c.p.p., comma 1, nella parte in cui non prevede la riparazione anche per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziati di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per la custodia cautelare;
e dell'art. 314 c.p.p., comma 2, nella parte in cui non prevede che lo stesso diritto nei medesimi limiti spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insussistenti le condizioni per la convalida. Ancora una volta la Corte costituzionale sottolineò che nella legge di delegazione è ben presente l'esigenza che tutte le offese arrecate alla libertà personale mediante "ingiusta detenzione" siano riparate, indipendentemente dalla durata di queste e quale che sia l'autorità dalla quale la restrizione provenga; e ciò, conformemente all'art. 5, comma 5, della Cedu, il quale prevede espressamente il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzioni di sorta.
Qualche anno dopo, affrontando proprio la questione che le era stata rimessa dalle S.U. in causa Pellegrino, la Corte costituzionale ha ritenuto ingiustificato anche il limite derivante dalla necessità che sia intervenuto proscioglimento nel merito, dichiarando l'art. 314 c.p.p. costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, nell'ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all'equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni. Dopo tale pronuncia il massimo organo di nomofilachia ha statuito che il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione spetta anche quando la durata della custodia cautelare risulti superiore alla misura della pena inflitta con la sentenza di primo grado, alla quale abbia fatto seguito una sentenza di appello dichiarativa della estinzione del reato per prescrizione, precisando che, ai fini della quantificazione dell'indennizzo, non si deve tenere conto della parte di detenzione cautelare patita che corrisponda alla condanna inflitta in primo grado (Sez. U, n. 4187 del 30/10/2008, dep. 2009, Pellegrino, Rv. 241855).
Con la sentenza n. 230 del 2004 il giudice delle leggi ha ricondotto all'area di disciplina dell'art. 314 c.p.p., comma 2 il caso di colui che abbia subito un periodo di custodia cautelare sulla base di un'ordinanza emessa per un fatto per il quale egli era già stato giudicato ovvero aveva addirittura scontato la pena inflitta con precedente sentenza di condanna. Si è affermato che la norma non esclude che l'accertamento negativo circa la sussistenza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p. consegua in modo implicito ad una sentenza irrevocabile che accerti che l'azione penale non poteva essere esercitata perché preclusa da precedente giudicato, visto che non può non concludersi che anche la misura cautelare disposta per il medesimo fatto per il quale l'imputato era già stato giudicato risulta priva dei requisiti che ne legittimano l'adozione, stante l'evidente nesso di strumentalità dell'azione cautelare rispetto all'azione penale.
1.4. Risulta del tutto evidente, quindi, che secondo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità non la pronuncia di una determinata statuizione condiziona il diritto alla riparazione bensì una oggettiva lesione del diritto. E quando il tessuto normativo non offra tutela va esplorata la possibilità di un'interpretazione costituzionalmente conforme. Sulla scorta di tale criterio direttivo, dopo averlo escluso (Sez. 6, n. 1648 del 22/04/1997, Priebke E, Rv. 208145; Sez. 6, n. 31130 del 08/07/2003, Napar G O, Rv. 226208), dando seguito alle indicazioni offerte dalla sentenza n. 231 del 2004 della Corte costituzionale, questa Corte ha riconosciuto il diritto alla riparazione della detenzione ingiustamente patita nell'ambito della procedura di estradizione passiva, a riguardo della quale la disciplina codicistica risulta silente. Con la citata decisione il giudice delle leggi ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 314 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 2,3,13 e 24 Cost., nella parte in cui, in tema di estradizione passiva, non prevede la riparazione per ingiusta detenzione nel caso di arresto provvisorio e di applicazione provvisoria di misura custodiate su domanda dello Stato estero che si accerti carente di giurisdizione. Infatti, ha rilevato come sia possibile dare alla norma una interpretazione in senso conforme al fondamento solidaristico della riparazione per l'ingiusta detenzione, in ragione della quale il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione va ricollegato alla presenza di una oggettiva lesione della libertà personale, comunque ingiusta alla stregua di una valutazione "ex post"; e pertanto anche qualora tale lesione derivi da un titolo di detenzione che trovi origine nell'ambito della procedura di estradizione. Nelle decisioni successive questa Corte ha ritenuto ammissibile la richiesta di riparazione attinente a detenzione subita nell'ambito di procedure estradizionali (cfr. Sez. 6, n. 21748 del 13/05/2008, Dakhlaoui, Rv. 239940; Sez. 4, n. 2678 del 12.12.2008, dep. 2009, Pramstaller, n. m.). Le Sezioni Unite, in particolare, prendendo in esame la questione "se la misura coercitiva a fini estradizionali perda efficacia nel caso in cui lo Stato richiedente non prenda in consegna l'estradando nel termine di legge a causa della sospensione dell'efficacia, disposta dal giudice amministrativo, del provvedimento ministeriale di concessione dell'estradizione", hanno espresso a chiare lettere l'adesione alla prospettiva interpretativa indicata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 231/2004, ribadendo come nei confronti dei soggetti di cui è richiesta l'estradizione gli estremi dell'ingiusta detenzione possono e debbono comunque essere valutati, ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione; ma non sulla base dei parametri ricavabili dagli artt. 273 e 280 c.p.p., la cui applicabilità è esclusa esplicitamente dall'art. 714 c.p.p., comma 2, bensì "verificando se risulta ex post accertata l'insussistenza delle specifiche condizioni di applicabilità delle misure coercitive, per tali soggetti individuate a norma dell'art. 714 c.p.p., comma 3 nelle "condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione". Per le Sezioni Unite "al di fuori del limite indicato, non v'e' ulteriore spazio per l'esperimento dell'azione di riparazione per l'ingiusta detenzione a fini estradizionali. Ne consegue che, in caso di sentenza irrevocabile favorevole all'estradizione, la detenzione eventualmente patita a tal fine dall'estradando non può considerarsi ingiusta e non può costituire, pertanto, titolo per un favorevole epilogo della procedura di cui agli artt. 314 e 315 c.p.p." (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251691, in motivazione, richiamando la precisazione già operata in Corte Cost. n. 231/2004).
1.5. Alla luce dell'insegnamento delle Sezioni Unite la sentenza Maroci ha concluso che il diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione occorsa nell'ambito di una procedura di estradizione passiva si coordina a condizioni peculiari. La prima di esse è che non deve essere stata pronunciata sentenza irrevocabile favorevole all'estradizione. Non assume invece alcun rilievo che non sia stata emessa, ed abbia assunto forza di giudicato, una delle pronunce alle quali fa riferimento l'art. 314 c.p.p., commi 1 e 3. Diversamente da quanto ritenuto da Sez. 6, n. 21748 del 13/05/2008, Dakhlaoui, Rv. 239940, superata dall'insegnamento impartito dalle S.U., il diritto alla riparazione non presuppone che la detenzione sia stata instaurata in violazione degli artt. 273 e 280 c.p.p.. Per le ipotesi di misure coercitive da adottare nei confronti della persona "della quale è domandata l'estradizione", la ragione risiede nella esplicita esclusione dell'applicabilità di tali norme, operata dal solo art. 714 c.p.p.. Ciò non di meno, la sussistenza di gravi indizi assume indiretta valenza, in forza della previsione dell'art. 705 c.p.p., che detta le condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione. A riguardo dell'arresto da parte della polizia giudiziaria (art. 716 c.p.p.) e dell'applicazione provvisoria di misure cautelari nei confronti della persona la cui domanda di estradizione non sia ancora pervenuta (disciplinata dall'art. 715 c.p.p.), per i quali non si rinviene analoga previsione, è stato ritenuto irragionevole che debbano trovare applicazione gli artt. 273 e 280 c.p.p. in ipotesi caratterizzate da una delibazione che, salvo per il profilo concernente il pericolo di fuga, attiene a condizioni meramente procedurali (ovvero che lo Stato estero abbia dichiarato che nei confronti della persona è stato emesso provvedimento restrittivo della libertà personale ovvero sentenza di condanna a pena detentiva e che intende presentare domanda di estradizione; che esso abbia fornito la descrizione dei fatti, la specificazione del reato e delle pene previste per lo stesso, nonché gli elementi per l'esatta identificazione della persona). Dovendosi considerare, inoltre, che l'espressa previsione di un giudizio "sostanziale" limitato alla ricorrenza del pericolo di fuga conferma l'estraneità ad esso della verifica delle condizioni previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.. In sintesi, anche per le ipotesi disciplinate dall'art. 715 c.p.p. e dall'art. 716 c.p.p. non assumono rilievo le condizioni poste per l'adozione di misure coercitive dagli artt. 273 e 280 c.p.p.; le misure coercitive disposte nell'ambito di una procedura di estradizione passiva trovano nel pericolo di fuga il presupposto atto a giustificare l'applicazione del provvedimento limitativo della libertà personale; esso può essere inteso come pericolo di allontanamento dell'estradando dal territorio dello Stato richiesto, con conseguente rischio di inosservanza dell'obbligo assunto a livello internazionale di assicurarne la consegna al Paese richiedente.
Non rileva, invece, la insussistenza delle condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione.
Infine, il diritto alla riparazione per la detenzione subita a fini estradizionali va accertato tenendo presente la varietà delle situazioni: ove all'arresto eseguito ai sensi dell'art. 716 c.p.p. non sia seguita la convalida, purché la statuizione sia divenuta definitiva, il diritto alla riparazione non richiede altra condizione positiva. Lo stesso dicasi per l'applicazione provvisoria della misura coercitiva ai sensi dell'art. 715 c.p.p., ove essa sia stata revocata ai sensi del comma 6 del medesimo articolo o definitivamente annullata a seguito del ricorso previsto dall'art. 719 c.p.p.. Per contro, quando alle misure precautelari sia seguita la prosecuzione del vincolo perché presentata la domanda di estradizione, o quando la misura venga adottata ai sensi dell'art. 714 c.p.p., si determina una situazione speculare a quella prevista dall'art. 314 c.p.p., comma 1 e il diritto alla riparazione è condizionato alla pronuncia di una sentenza sfavorevole alla estradizione (ferma restando la ipotizzabilità di un'ingiustizia formale nel caso in cui la misura adottata venga ritenuta illegittima con decisione irrevocabile).
2. Quanto ritenuto in tema di riparazione della detenzione subita nell'ambito della procedura di estradizione passiva vale, mutatis mutandi, anche in tema di limitazione della libertà personale patita nell'ambito della procedura del MAE.
Il Ministero resistente ha posto in evidenza alcune differenze correnti nelle discipline afferenti ai due istituti. Tuttavia, si tratta di diversità che non sono utili a offrire indicazioni sul tema posto con il ricorso (vengono segnalati dal ricorrente la specificità dei motivi di rifiuto della consegna ed i termini più rigorosi per la definizione della procedura di consegna); mentre privo di pertinenza al caso che occupa è il principio in tema di riparazione della detenzione patita per ordine di esecuzione illegittimo, pure evocato dal Ministero ricorrente.
Peraltro, si tratta di prospettazione incoerente rispetto alle più specifiche deduzioni che ascrivono alla Corte di appello di non aver considerato che nel caso che occupa non è stata adottata decisione di proscioglimento irrevocabile, per l'esponente qui richiesta proprio come nella procedura estradizionale; e di non aver verificato l'insussistenza delle condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione.
In realtà, la disciplina del mandato di arresto Europeo, quale introdotta dalla L. n. 69 del 2005, tra gli Stati membri dell'Unione Europea trova applicazione elettiva, in luogo delle disposizioni del codice di rito dedicate all'estradizione, per tutte le richieste di esecuzione relative a reati commessi successivamente al 7 agosto 2002; per quelle concernenti reati commessi prima di tale data restano applicabili le disposizioni in materia di estradizione vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore della citata legge (art. 40, comma 2, che fa salvo quanto previsto dal comma 3).
Come per l'estradizione passiva, la disciplina contempla l'arresto da parte della polizia giudiziaria, soggetto a convalida da parte dell'A.G., e l'applicazione di misure cautelari da parte della Corte di appello.
Quanto al primo, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che mentre nel regime estradizionale l'arresto da parte della polizia giudiziaria della persona nei cui confronti sia stato emesso mandato di arresto provvisorio implica una valutazione discrezionale (art. 716 c.p.p.: "nei casi di urgenza, la polizia giudiziaria può procedere all'arresto"), in quello del MAE l'arresto si configura come atto dovuto (L. n. 69 del 2005, art. 11: "la polizia giudiziaria procede all'arresto"), subordinato alla sola verifica che la segnalazione nel SIS sia stata effettuata da un'autorità "competente" di uno Stato membro dell'U.E. e che questa sia avvenuta nelle "forme richieste" (disciplinate, per quello che qui interessa, dall'art. 95 della citata Convenzione Schengen) (Sez. 6, n. 20550 del 5/6/2006, Volanti, Rv. 233743; Sez. 6, n. 40614 del 21/11/2006, Arturi, non mas. sul punto; Sez. 6, n. 2833 del 19/12/2006, dep. 2007, Pramstaller, non mas. sul punto).
Correlativamente al carattere "dovuto" dell'arresto di P.G., la convalida dell'arresto ad opera del Presidente della Corte di appello si basa su presupposti esclusivamente formali: si tratta di verificare cioè se l'arresto sia avvenuto nei "casi previsti dalla legge" e se non vi sia stato un errore di persona (L. n. 69 del 2005, art. 13, comma 2) (Sez. 6, n. 20550 del 5/6/2006, Volanti, Rv. 23374355; Sez. 6, n. 40614 del 21/11/2006, Arturi, non mas. sul punto). La Corte ha rilevato che la L. n. 69 del 2005 demanda al Presidente della Corte di Appello un controllo di tipo diverso da quello compiuto a norma dell'art. 391 c.p.p. sia con riferimento ai termini per la convalida sia con riguardo alle garanzie giurisdizionali sia, infine, in ordine all'adozione della misura coercitiva, esaurendosi il controllo del Presidente della Corte di Appello in una verifica meramente cartolare che non influisce minimamente sull'esito del procedimento di consegna e sulla possibilità, che, nell'ambito di esso, possa essere adottata una misura cautelare più adeguata alle esigenze del singolo caso e, in ogni caso, idonea ad assicurare la consegna dell'estradando allo Stato richiedente (Sez. 6, n. 7708 del 19/2/2007, Sanfilippo, Rv. 235561). Si è inoltre precisato che ai fini dell'efficacia del provvedimento di convalida dell'arresto emesso dal Presidente della Corte d'appello ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 13, comma 2, è sufficiente che pervenga, entro il termine di dieci giorni, la segnalazione della persona nel Sistema Informativo Schengen (S.I.S.) contenente le indicazioni previste dall'art. 6, comma 1, della legge su citata, ad eccezione di quella relativa alla pena minima, non influente sull'applicazione della misura cautelare (Sez. 6, n. 5583 del 26/01/2011, Beleri, Rv. 249232).
Nel caso in cui si sia proceduto all'arresto della persona ricercata, competente a decidere se adottare una misura coercitiva è il Presidente della Corte di appello. Infatti, posto che non può sussistere alcuno iato temporale tra la convalida dell'arresto e la decisione sul protrarsi dello stato di limitazione della libertà personale, è implicito nella disciplina che a decidere su quest'ultimo aspetto debba essere lo stesso organo cui è demandata la decisione sulla convalida, conformemente, del resto, a quanto previsto in materia estradizionale dall'art. 716 c.p.p., comma 3 (mentre per la decisione cautelare da adottare in prima battuta, L. n. 69 del 2005, ex art. 9, comma 4, è competente il giudice collegiale).
In tema di convalida dell'arresto di p.g., si è affermato che i presupposti per l'applicazione della misura custodiale funzionale alla consegna sono quelli elencati nella L. n. 69 del 2005, artt. 9 e 13, e sono costituiti dalle informazioni inserite nel SIS che equivalgono al mandato d'arresto là dove contengano le indicazioni necessarie per l'individuazione dei reati per i quali è richiesta la consegna e la indicazione della legislazione dello Stato di emissione (Sez. 6, n. 7708 del 19/2/2007, Sanfilippo, non mass. sul punto). L'applicazione della misura cautelare non è subordinata ad alcuna "domanda" del p.m., come in generale per le misure cautelari L. n. 69 del 2005, ex art. 9, il provvedimento cautelare de quo deve essere motivato sulla necessità della misura coercitiva in relazione al pericolo di fuga, espressamente richiamato con la espressione riferita "all'esigenza di garantire che la persona della quale è richiesta la consegna non si sottragga alla stessa", L. n. 69 del 2005, ex art. 9, comma 4, e con l'implicita inclusione dei criteri di cui all'art. 274 c.p.p., lett. b), tra le norme applicabili secondo il titolo 1 Libro 4 del codice di procedura penale, L. n. 69 del 2005, ex art. 9, comma 5, (Sez. 6, n. 42803 del 10/11/2005, Fuso, Rv. 232487; Sez. 6, n. 2833 del 19/12/2006, dep. 2007, Pramstaller, non mass. sul punto; Sez. 6, n. 42767 del 5/4/2007, Franconetti, non mass. sul punto).
Quanto alla misura adottata dall'organo collegiale, l'ordinanza applicativa deve dare adeguato conto del concreto pericolo di fuga, che costituisce l'unico presupposto cautelare per l'adozione della misura, a norma della L. n. 69 del 2005, art. 9, comma 5, e dell'adeguatezza e proporzionalità della misura a prevenire tale pericolo di fuga, anche con riferimento alla gravità del reato contestato (Sez. 6, n. 20550 del 5/6/2006, Volanti, Rv. 233745).
L'esistenza di cause ostative alla consegna, prevista dalla L. n. 69 del 2005, art. 9, comma 6, come ostativa anche all'adozione di misura coercitiva, presuppone ragioni idonee a ritenerla in concreto e allo stato; e non può essere ritenuta, quando non risulti sulla base di elementi sufficientemente certi, nella sede di sommaria delibazione eseguita al limitato fine cautelare, dovendo ritenersi in caso diverso riservata alla fase dell'apprezzamento dei presupposti della consegna, per cui sono previsti tempi ristrettissimi a pena della perdita di efficacia della misura.
3. Limitando l'analisi agli aspetti devoluti con il ricorso è finalmente possibile rilevare che, da quanto sin qui esposto, risulta che non coglie il dato normativo, come ritessuto dall'interpretazione giurisprudenziale, la tesi del ricorrente della necessità di una decisione di proscioglimento irrevocabile.
Neppure è fondata la tesi della necessità di una verifica delle condizioni per una sentenza favorevole all'estradizione. Nel caso che occupa si tratterebbe, a tutto concedere, di una sentenza favorevole alla consegna della persona; e dovrebbe semplicemente constatarsi che nella vicenda in esame la pronuncia della Corte di appello è stata di rifiuto della consegna.
Ne' può convenirsi con il Ministero ricorrente in ordine alla necessità che la corte distrettuale esercitasse poteri officiosi per l'integrazione del compendio informativo a disposizione, con l'acquisizione di una "nuova" sentenza di condanna pronunciata dalle autorità belghe a carico delle persone per le quali era stata rifiutata la consegna. Si è già scritto che la sola decisione rilevante ai fini che occupano è la sentenza di rifiuto di consegna, divenuta irrevocabile.
In ogni caso, è ben vero che, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, pur essendo onere dell'interessato, secondo i principi civilistici, dimostrare i fatti posti a base della domanda, avuto anche riguardo al fondamento solidaristico dell'istituto in questione, il giudice ha il potere-dovere di acquisire i documenti ritenuti necessari ai fini della decisione, sempre che gli stessi siano conosciuti o conoscibili dalle parti principio formulato in caso in cui non era stata acquisita dalla Corte di appello l'ordinanza cautelare, la sentenza di proscioglimento e il verbale di interrogatorio: Sez. 4, n. 46468 del 14/09/2018, Rv. 274353). Tuttavia, nel caso di specie si sarebbe trattato dell'acquisizione di informazioni in merito ad una pronuncia dell'autorità belga - conseguente alla eventuale restituzione in termini dell'interessato e quindi alla eventuale eliminazione della pronuncia irrevocabile di condanna che, per non essere stata adottata all'esito di un giusto processo, è stata ragione del rifiuto della consegna - di nessuna incidenza sulla vicenda posta all'attenzione del giudice della riparazione, che si connette a un periodo di detenzione che ha trovato causa in quello specifico MAE e nella conseguente irrevocabile sentenza di rifiuto della consegna.
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 gennaio 2023.
Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2023.