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Appello del procuratore generale: i chiarimenti delle Sezioni Unite

Corte di Cassazione, sez. Unite Penale, Sentenza n.21716 del 23/02/2023 (dep. 22/05/2023)

Quali presupposti legittimano il procuratore generale ad appellare la sentenza ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p.?

L'acquiescenza del procuratore della Repubblica al provvedimento (art. 593-bis, comma 2, c.p.p.) è riferibile anche al pubblico ministero che abbia presentato le conclusioni nel giudizio di primo grado?

In assenza delle condizioni per l'appello del procuratore generale di cui all'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., il ricorso per cassazione dello stesso può essere qualificato come ricorso immediato ex art. 569 c.p.p. ovvero come ricorso ordinario ai sensi degli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p.?

Sono queste le questioni di diritto a cui hanno risposto le Sezioni Unite Penali della Cassazione con la sentenza n. 21716 depositata il 22 maggio 2023.

Di seguito i principi di diritto enunciati:

La legittimazione del procuratore generale a proporre appello avverso le sentenze di primo grado a seguito dell'acquiescenza del procuratore della Repubblica consegue alle intese o alle altre forme di coordinamento richieste dall'art. 166-bis disp. att. c.p.p. che impongono al procuratore generale di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni del procuratore della Repubblica in merito all'impugnazione della sentenza.

L'acquiescenza del procuratore della Repubblica al provvedimento (art. 593-bis, comma 2, c.p.p.) non è riferibile anche al pubblico ministero che abbia presentato le conclusioni nel giudizio di primo grado.

In assenza delle condizioni per presentare appello ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., il procuratore generale non è legittimato a proporre ricorso immediato per cassazione ex art. 569 c.p.p. né ricorso ordinario ai sensi degli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p.

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Cassazione penale, sez. un., sentenza 23/02/2023, (dep. 22/05/2023), n. 21716

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata il Tribunale di Catanzaro dichiarava non doversi procedere nei confronti di A.V. in relazione ai reati di cui agli artt. 570, comma 1, c.p. (capo 1) e 12-sexies L. 1 dicembre 1970, n. 898 (capo 2), ora previsti dall'art. 570-bis c.p., commessi, dal (Omissis) con perduranza, in danno rispettivamente di M.C., dopo la loro separazione coniugale e dopo lo scioglimento del relativo vincolo matrimoniale, e dei figli A.R. e A.P., in quanto delitti ritenuti entrambi estinti per intervenuta remissione di querela.

2. Avverso tale sentenza presentava ricorso immediato ai sensi dell'art. 569 c.p.p. il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Catanzaro, il quale, con un unico motivo, deduceva la violazione di legge in relazione ai citati artt. 12-sexies L. n. 898 del 1970 e 570-bis c.p., per avere il Tribunale di Catanzaro erroneamente dichiarato la estinzione del reato di omessa corresponsione dell'assegno divorzile, contestato al capo d'imputazione 2), benché si tratti di illecito procedibile d'ufficio.

In particolare, il ricorrente evidenziava come il rinvio contenuto nel predetto art. 12-sexies all'art. 570 c.p. si riferisse esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto codicistico di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità; e come tale valutazione fosse tuttora valida, anche dopo che l'art. 12-sexies era stato formalmente abrogato dall'art. 7 D.Lgs. n. 1 marzo 2018, n. 21, dato che la relativa disposizione incriminatrice era in sostanza confluita in quella dettata dall'art. 570-bis c.p., inserito nel codice dall'art. 2, comma 1, lett. c), D.Lgs. cit.

3. Con ordinanza del 18 ottobre 2022 la Sesta Sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 618 c.p.p., avendo la questione sottoposta al suo esame dato luogo nella giurisprudenza di legittimità ad un contrasto interpretativo.

Il Collegio rimettente ha rilevato come vi siano contrapposti orientamenti in ordine all'esegesi della disposizione dettata dall'art. 593-bis c.p.p. introdotta nel codice di rito dall'art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 6 febbraio 2018, n. 11, nell'ambito di una più ampia riforma della disciplina delle impugnazioni penali che, come noto, stabilisce che "Nei casi consentiti, contro le sentenze del giudice per le indagini preliminari, della corte d'assise e del tribunale può appellare il procuratore della Repubblica presso il tribunale", mentre "il procuratore generale presso la corte d'appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento".

Per un primo indirizzo giurisprudenziale, nel caso di ricorso per cassazione proposto dal procuratore generale presso la corte di appello avverso sentenza astrattamente appellabile, ma per la quale, ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., non sussistono le condizioni legittimanti il diritto da parte dello stesso a proporre appello (avocazione o acquiescenza al provvedimento da parte del procuratore della Repubblica), ricorre l'ipotesi di ricorso immediato per cassazione (ovvero "per saltum"), con conseguente operatività, in caso di accoglimento dell'impugnazione, del meccanismo di rinvio al giudice competente in grado di appello ex art. 569, comma 4, c.p.p.: ciò perché, si afferma, la mancanza delle suddette condizioni legittimanti non incide sull'ontologica esistenza del diritto ad impugnare in capo al procuratore generale, ma esclusivamente sulla possibilità del suo concreto esercizio (in questo senso, tra le altre, Sez. 2, n. 15449 del 14/01/2022, Tiesi, Rv. 283197; Sez. 5, n. 10692 del 10/12/2021, dep. 2022, De Gennaro, Rv. 282846, in un caso in cui il ricorso "per saltum" era stato presentato dal procuratore generale prima della scadenza del termine entro il quale il procuratore della Repubblica avrebbe potuto proporre appello; Sez. 3, n. 3165 del 22/11/2019, dep. 2020, Tortorici, Rv. 278637).

Per l'indirizzo giurisprudenziale contrapposto, nel caso di ricorso per cassazione proposto dal procuratore generale presso la corte d'appello che, ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., non abbia legittimazione ad impugnare la sentenza, non ricorre l'ipotesi di ricorso immediato per cassazione (cd. "per saltum"), essendo il ricorso ordinario l'unico rimedio "soggettivamente" esperibile: sicché, in caso di annullamento della sentenza da parte della Corte di cassazione, il rinvio va disposto non al giudice competente per l'appello, come previsto dall'art. 569, comma 4, c.p.p., ma al giudice che ha emesso la sentenza impugnata (in questo senso, tra le diverse, Sez. 4, n. 33867 del 28/10/2020, Ruberti, Rv. 279918; Sez. 5, n. 34998 del 20/10/2020, P., Rv. 279985; Sez. 5, n. 13808 del 18/02/2020, Faye, Rv. 279075).

Tuttavia, il Collegio rimettente ha segnalato come le incertezze ermeneutiche abbiano riguardato anche altre questioni strettamente connesse riguardanti ulteriori aspetti applicativi della disciplina "de qua". In particolare, ci si è chiesti quali siano i presupposti che, in generale, legittimano il procuratore generale ad appellare la sentenza ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p. ovvero il modo in cui può essere manifestata l'acquiescenza del procuratore della Repubblica; se tale forma di acquiescenza sia riferibile alla sola figura del procuratore della Repubblica presso il tribunale, come indicato nell'art. 593-bis, comma 1, c.p.p., o anche a quella del rappresentante dell'ufficio del pubblico ministero che ha formulato le sue conclusioni nel corso del giudizio di primo grado, in quanto titolare di un'autonoma legittimazione ad impugnare ai sensi dell'art. 570, comma 2, cod. proc. pen; ed ancora, quali siano la natura della legittimazione del procuratore generale ad appellare ai sensi dell'art. 593-bis c.p.p. e la relazione esistente tra tale forma di legittimazione e quella a proporre il ricorso per cassazione, "per saltum" a mente dell'art. 569 c.p.p. o, in alternativa, "ordinario" a norma degli artt. 606, comma 2, e 608 dello stesso codice di rito, avverso la sentenza emessa dal giudice di primo grado.

4. Con decreto del 14 dicembre 2022 il Presidente aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissandone la trattazione nelle forme e con le modalità di cui all'art. 23, commi 8 e 9, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, e successive modificazioni (i cui effetti sono stati prorogati dall'art. 94, comma 2, D.Lgs. n. 10 ottobre 2022, n. 150, introdotto dall'art. 5-duodecies del D.L. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito dalla L. 30 dicembre 2022, n. 199).

Con istanza trasmessa il 24 gennaio 2023 l'Avvocato generale presso questa Corte ha chiesto di poter discutere oralmente della causa; con provvedimento adottato in pari data il Presidente aggiunto ha disposto in conformità.

5. Nell'odierna udienza pubblica l'Avvocato generale ha concluso come sopra indicato, riportandosi in parte al contenuto delle note di udienza in precedenza depositate in cancelleria il 16 febbraio 2023.

In dettaglio, dopo aver ricordato che la ratio dell'inserimento nel codice di rito penale dell'art. 593-bis è stata quella di evitare che il giudice di secondo grado possa essere chiamato a decidere su più atti di appello, semmai di contenuto non coordinato, presentati contro la medesima sentenza di primo grado da più organi dell'ufficio del pubblico ministero, l'Avvocato generale ha rilevato come, per un verso, il sostenere che l'acquiescenza del procuratore della Repubblica debba essere intesa come inutile decorso del relativo termine per impugnare finirebbe per privare il procuratore generale, in assenza di una adeguata modifica della disciplina del computo di quei termini, di tempi congrui per poter predisporre e presentare il proprio atto di impugnazione. Per altro verso, ha argomentato che la disciplina in vigore non permette di affermare che il procuratore generale debba necessariamente chiedere al procuratore della Repubblica una formale dichiarazione di acquiescenza da allegare al proprio atto di appello. Al contrario, valorizzando il dettato dell'art. 166-bis disp. att. c.p.p. (secondo cui " Al fine di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni relative all'impugnazione delle sentenze di primo grado, il procuratore generale presso la corte d'appello promuove intese o altre forme di coordinamento con i procuratori della Repubblica del distretto"), pure inserito dall'art. 8 D.Lgs. n. 11 del 2018, è possibile prevedere che il procuratore generale, in occasione della presentazione di un atto di appello avverso una sentenza di primo grado, debba attestare di aver raggiunto quella intesa con il procuratore della Repubblica, così "veicolando" dinanzi al giudice di secondo grado le ragioni della propria legittimazione: attestazione in assenza della quale - come nel caso di specie è accaduto - l'atto di impugnazione deve considerarsi inammissibile.

Quanto alle altre questioni controverse, l'Avvocato generale ha sostenuto che: l'acquiescenza del procuratore della Repubblica, presupposto per l'appello del procuratore generale (che potrebbe essere integrata anche dal fatto concludente del decorso del termine per impugnare previsto per il primo di tali soggetti) vada riferita anche al pubblico ministero che ha presentato le sue conclusioni nel corso del giudizio di primo grado; e, in assenza delle condizioni di legittimazione a proporre appello ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., il ricorso per cassazione proposto dal procuratore generale, sia che lo stesso venga qualificato come ricorso immediato sia che venga presentato come ricorso ordinario, va ritenuto inammissibile.

6. Il difensore dell'imputato si è associato alle conclusioni dell'Avvocato generale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le questioni di diritto per le quali il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite sono le seguenti:

"quali presupposti legittimino il procuratore generale ad appellare la sentenza ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p. ";

"se l'acquiescenza del procuratore della Repubblica al provvedimento (art. 593-bis, comma 2, c.p.p.) sia riferibile anche al pubblico ministero che abbia presentato le conclusioni nel giudizio di primo grado";

"se, in assenza delle condizioni per l'appello del procuratore generale di cui all'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., il ricorso per cassazione dello stesso possa essere qualificato come ricorso immediato ex art. 569 c.p.p. ovvero come ricorso ordinario ai sensi degli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p. ".

2. Sul tema oggetto della prima delle tre questioni innanzi delineate sono riconoscibili nella giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti.

2.1. Per un primo indirizzo interpretativo, l'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., nel prevedere che "il procuratore generale presso la corte di appello può appellare soltanto (...) qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento", indica chiaramente l'acquiescenza come un "presupposto la cui positiva esistenza deve risultare perché sussista quella legittimazione (ad impugnare), la cui assenza genera le conseguenze processuali di cui all'art. 591, comma 1, lett. a), c.p.p. " (così Sez. 5, n. 34831 del 16/06/2021, Vergari, non mass.; in senso conforme Sez. 5, n. 4269 del 07/12/2021, dep. 2022, Di Iorio, non mass.; Sez. 5, n. 30906 del 08/10/2020, Simola, non mass.; Sez. 5, n. 13808 del 18/02/2020, Faye, non mass.).

In particolare, si è sostenuto che l'acquiescenza è un "fattore costitutivo della legittimazione ad impugnare" da parte del procuratore generale e non un mero "fatto processuale la cui esistenza deve essere verificata nel momento in cui il giudice di secondo grado è chiamato ad esaminare l'impugnazione. E ciò perché il processo di impugnazione è pendente a partire dal momento in cui l'impugnazione è proposta ed è a quella data che vanno verificati i requisiti di ammissibilità" (così, in particolare, Sez. 5, n. 4269 del 07/12/2021, dep. 2022, Di Iorio, cit.). Ne consegue che non è "la proposizione dell'appello del procuratore della Repubblica che rende a posteriori inammissibile l'appello del procuratore generale, ma è la dimostrata acquiescenza, secondo la chiara lettera dell'art. 593-bis c.p.p., a fondare la legittimazione - altrimenti insussistente - del procuratore generale" (Sez. 5, n. 30906 del 08/10/2020, Simola, cit.).

Da tali premesse si è desunto che, al fine di garantire una coerenza razionale al nuovo "‘meccanismo" impugnatorio - che, senza alcuna modifica della disciplina della decorrenza dei termini per impugnare, è caratterizzato dal riconoscimento al procuratore della Repubblica di un diritto ad impugnare in via principale e al procuratore generale del medesimo diritto esercitabile, però, solo in via sussidiaria - deve essere valorizzata la disposizione dettata dall'art. 166-bis disp. att. c.p.p. (pure inserita dal D.Lgs. n. 11 del 2018) che richiede la promozione tra quegli uffici requirenti di intese o altre forme di coordinamento. In tale prospettiva "l'acquiescenza è un dato che deve risultare dagli atti e che il giudice dell'impugnazione deve verificare positivamente" (così, in particolare, Sez. 5, n. 34831 del 18/06/2021, Vergari, non mass.; in senso conforme Sez. 3, n. 14242 del 03/03/2021, Anedda, non mass.).

Ulteriore corollario - si è aggiunto - è che l'acquiescenza prevista dall'art. 593-bis, comma 2, c.p. non può essere tacita, ma deve essere necessariamente espressa: con l'inevitabile effetto che, in mancanza di quella manifestazione espressa di acquiescenza, il procuratore generale è legittimato ad impugnare la sentenza di primo grado solamente se sia già inutilmente spirato il termine per proporre l'impugnazione per il procuratore della Repubblica; mentre l'appello presentato dal procuratore generale quando i termini per impugnare per il procuratore della Repubblica sono ancora in corso, va giudicato inammissibile (Sez. 5, n. 4269 del 07/12/2021, dep. 2022, Di Iorio, cit.; Sez. 5, n. 34831 del 18/06/2021, Vergari, cit.).

2.2. Secondo un diverso indirizzo interpretativo, l'acquiescenza del procuratore della Repubblica prevista dall'art. 593-bis, comma 2, c.p.p. non costituisce un presupposto che condiziona la esistenza della legittimazione ad impugnare del procuratore generale, ma rappresenta un mero fatto processuale da verificare nel momento in cui il giudice di secondo grado è chiamato ad esaminare l'impugnazione. Ritenere, al contrario, che l'acquiescenza debba esistere nel momento in cui viene presentata l'impugnazione finirebbe per determinare conseguenze del tutto irragionevoli, perché "contrae la legittimazione ad impugnare del procuratore generale a quel breve arco di tempo determinato dalla diversa decorrenza di fatto dei termini di impugnare delle due autorità, mentre l'art. 166-bis disp. att. c.p.p. dispone che, proprio al fine di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni relative all'impugnazione della sentenza di primo grado, il procuratore generale promuove intese o altre forme di coordinamento con i procuratori della Repubblica del distretto (...) Ne consegue che è ben possibile che il procuratore della Repubblica abbia comunicato la propria acquiescenza ad una pronuncia e il procuratore generale abbia voluto esercitare il proprio potere sussidiario prima dello spirare dei termini per il procuratore della Repubblica, senza dovere attendere che venga meno la legittimazione ad impugnare del procuratore della Repubblica. Sarà il giudice dell'impugnazione a verificare se il procuratore generale ha fatto legittimo utilizzo del suo potere, desumendo l'acquiescenza dalla mancata impugnazione" (così Sez. 2, n. 6534 del 15/12/2021, dep. 2022, De Dominicis, Rv. 282814-02; in senso conforme Sez. 1, n. 30919 del 22/06/2022, Montefusco, non mass.; Sez. 2, n. 15449 del 20/04/2022, Tiesi, non mass.; Sez. 3, n. 14242 del 03/03/2021, Anedda, Rv. 281577-01).

Tale orientamento si basa, dunque, sul riconoscimento, giustificato dal dettato normativo dell'art. 570, comma 1, c.p.p., di una legittimazione ad impugnare del procuratore generale esercitabile nel rispetto del termine proprio che la legge processuale riconosce a tale ufficio requirente, indipendentemente dalla scadenza del termine di impugnazione previsto per il procuratore della Repubblica presso il tribunale. Ne deriva che laddove "l'atto di impugnazione proposto dal procuratore generale (...) venga depositato (nei termini propri) prima della decorrenza ultima del termine previsto in favore del procuratore della Repubblica, non può dunque parlarsi di inammissibilità, quanto di una condizione definibile in termini di "sospensione della validità", posto che la conformità al modello legale dell'atto dipende, a ben vedere, da una condizione di fatto (la integrale decorrenza dell'altrui termine senza la proposizione dell'appello) estranea alla volontà del titolare del potere sussidiario". A differenza di quanto accade per tutti gli altri atti di impugnazione, per i quali la verifica dell'esistenza dei requisiti di ammissibilità va fatta con riferimento al momento di esercizio della relativa facoltà da parte del soggetto legittimato, nel "particolare caso disciplinato dall'art. 593-bis c.p.p. ben può ritenersi che il momento di verifica della particolare legittimazione sussidiaria vada identificato non già con il deposito del "proprio" atto di impugnazione, ma con quello della "scadenza" del termine di legge concesso al primo titolare del potere (...) Qualora l'atto di impugnazione sia depositato prima della decorrenza del termine concesso al primo legittimato e se manchi una dichiarazione espressa di rinuncia all'esercizio della facoltà", la verifica circa l'ammissibilità dell'atto di impugnazione del procuratore generale va "resa cronologicamente coincidente con lo spirare del termine concesso al procuratore della Repubblica"; ove, infatti, "si manifesti, in tale momento, l'acquiescenza del procuratore della Repubblica, tale condizione - di fatto e di diritto - rende ammissibile l'impugnazione del procuratore generale, a nulla rilevando il suo previo deposito" (così, in particolare, Sez. 1, n. 30919 del 22/06/2022, Montefusco, cit.).

3. A differenza della seconda delle questioni in esame, in ordine alla quale non sono state registrate prese di posizione nella giurisprudenza delle Sezioni semplici di questa Corte di cassazione - e che per completezza di analisi sarà, comunque, considerata nel prosieguo - anche sulla terza problematica, attinente ai rapporti tra la disciplina dettata dall'art. 593-bis c.p.p. e le disposizioni codicistiche che prevedono la legittimazione a proporre ricorso per cassazione, si è riscontrato nella giurisprudenza di legittimità un contrasto interpretativo.

3.1. Per il primo orientamento il ricorso presentato dal procuratore generale, che non risulti legittimato ai sensi dell'art. 593-bis c.p.p. a proporre appello, va sempre qualificato come ricorso immediato ai sensi dell'art. 569, comma 1, c.p.p..

Tale conclusione è stata sostenuta, in particolare, da una prima pronuncia del 2019 con la quale si è affermato che l'assenza della manifestata acquiescenza da parte del procuratore della Repubblica presso il tribunale non incide sull'ontologica sussistenza del diritto ad impugnare in capo al procuratore generale, ma esclusivamente sulla possibilità di un suo concreto esercizio. L'astratta appellabilità della sentenza di primo grado comporta che il ricorso per cassazione presentato dal procuratore generale vada qualificato come ricorso "per saltum", con conseguente operatività del meccanismo di rinvio al giudice competente di appello previsto dall'art. 569, comma 4, c.p.p. (Sez. 3, n. 3165 del 22/11/2019, dep. 2020, Tortorici, Rv. 278637-01).

Questa opzione ermeneutica, seguita da altre successive sentenze (Sez. 5, n. 47379 del 20/10/2022, Abate, non mass.; Sez. 3, n. 45532 del 07/07/2022, Mancini, non mass.; Sez. 6, n. 17871 del 22/04/2022, Antoniaccio, non mass.; Sez. 2, n. 6534 del 15/12/2021, dep. 2022, De Dominicis, Rv. 282814-02; Sez. 5, n. 10692 del 10/12/2021, dep. 2022, De Gennaro, Rv. 282846-01; Sez. 3, n. 21168 del 21/06/2020, Rusconi, non mass.), è stata ripresa da quella decisione nella quale si è rimarcato come, nella situazione considerata, l'ammissibilità del ricorso del procuratore generale e la sua qualificazione come ricorso immediato si giustifichino per il fatto che "l'impugnazione non ha avuto oggetto un provvedimento che per sua intrinseca natura non era soggetto ad appello" (così Sez. 2, n. 15449 del 14/01/2022, Tiesi, Rv. 283197-01; in senso conforme Sez. 5, n. 40378 del 14/09/2022, Esaltato, non mass.).

3.2. Privilegiando una differente impostazione interpretativa, un secondo orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che, laddove sia precluso al procuratore generale il potere di appellare in pendenza del termine di impugnazione del procuratore della Repubblica, allo stesso modo risulta preclusa la legittimazione al ricorso "per saltum" ex art. 569 c.p.p., essendo consentito in tal caso al procuratore generale, per effetto dell'inappellabilità "soggettiva" della sentenza di primo grado, soltanto la proponibilità del ricorso per cassazione ordinario ex art. 608 c.p.p.: con la conseguenza che, in caso di annullamento della sentenza da parte della Cassazione, il rinvio va disposto non al giudice competente per l'appello ai sensi dell'art. 569, comma 4, c.p.p., ma al giudice che ha emesso la sentenza impugnata (in questo senso Sez. 4, n. 33867 del 28/10/2020, Ruberti, Rv. 279918-01; Sez. 5, n. 34998 del 20/10/2020, P., Rv. 279985-01; Sez. 5, n. 30906 del 8/10/2020, Simola, non mass.; Sez. 5, n. 13808 del 18/02/2020, Faye, Rv. 279075-01).

In altri termini si è detto che, nella ipotesi della presentazione del ricorso per cassazione da parte del procuratore generale prima dello spirare del termine per impugnare riservato al procuratore della Repubblica - situazione nella quale, mancando la forma di acquiescenza tacita richiamata dall'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., il procuratore generale non è legittimato ad appellare - la sentenza di primo grado, inappellabile per il procuratore generale in ragione di quella limitazione soggettiva, deve essere equiparata ad una sentenza inappellabile per le sue caratteristiche procedurali, con la conseguenza che il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero di secondo grado va, in ogni caso, ritenuto ammissibile ed esaminato come ricorso ordinario ai sensi dell'art. 608 c.p.p. (Sez. 5, n. 4269 del 07/12/2021, dep. 2022, Di Iorio, non mass.; Sez. 5, n. 34381 del 18/6/2021, P.G. c. Vergari, non mass.).

4. Per ciò che concerne la prima questione - e cioè, quali siano i presupposti che legittimano il procuratore generale ad appellare la sentenza ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p. - da valutarsi in via logicamente pregiudiziale, il Collegio osserva quanto segue.

4.1. Nel contesto di una più ampia riforma della disciplina codicistica delle impugnazioni penali, l'art. 593-bis c.p.p. è stato inserito dall'art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 6 febbraio 2018, n. 11, al dichiarato scopo di ridurre il carico di lavoro dei giudici di secondo grado, evitando che gli stessi possano essere chiamati ad esaminare atti di impugnazione, semmai neppure coordinati nel loro contenuto, presentati da uffici diversi del pubblico ministero. Al fine di ridurre l'area dell'appello attraverso una razionalizzazione "(del)l'esercizio (del relativo potere) da parte della pubblica accusa", si è inteso stabilire - si legge nella relazione di accompagnamento a quel decreto legislativo - che "il potere dell'appello spetta al procuratore generale solo in alcuni casi e non può sovrapporsi a quello del pubblico ministero di primo grado".

Tale nuovo articolo nel prevedere che, "nei casi consentiti, contro le sentenze del giudice per le indagini preliminari, della corte d'assise e del tribunale può appellare il procuratore della Repubblica presso il tribunale", mentre "il procuratore generale presso la corte d'appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento", ha significativamente modificato il rapporto paritario, disegnato nella disciplina codicistica previgente, tra la legittimazione ad impugnare del pubblico ministero di primo grado e quella del pubblico ministero di secondo grado.

Se l'art. 570, comma 1, c.p.p. prevedeva (e continua, in generale, a prevedere), ai fini dell'esercizio del potere di impugnazione, il principio della tendenziale uguale posizione per il procuratore della Repubblica presso il tribunale e il procuratore generale presso la corte di appello, in quanto titolari di concorrenti legittimazioni tra loro indipendenti, con specifico riferimento all'appello avverso le sentenze di primo grado il nuovo art. 593-bis c.p.p. ha introdotto una deroga a quel principio, disegnando un rapporto differenziato tra tali diversi uffici requirenti. Per il solo appello, alla legittimazione "prioritaria" del procuratore della Repubblica presso il tribunale è affiancata una legittimazione del procuratore generale presso la corte di appello "secondaria" o, come efficacemente asserito dalla dottrina, "sussidiaria" ovvero "condizionata". In pratica, per perseguire la finalità di evitare una duplicazione degli appelli della parte pubblica, il legislatore del 2018, pur lasciando inalterata la doppia titolarità del potere di impugnazione dei due considerati rappresentanti dell'ufficio del pubblico ministero, ne ha condizionato ovvero ne ha limitato l'esercizio con riferimento alla figura del procuratore generale.

Degli effetti di tale novità legislativa vi è già traccia nella più recente giurisprudenza di queste Sezioni Unite che, nell'esaminare altra questione, hanno avuto modo di evidenziare come l'art. 570, comma 1, c.p.p. conferisca espressamente la facoltà di impugnazione "sia al procuratore della Repubblica presso il tribunale che al procuratore generale presso la corte di appello", tenuto conto che "la formulazione della norma indicata è onnicomprensiva, in quanto tale riferibile senza limitazioni ad entrambi gli uffici giudiziari; è di conseguenza consentita al procuratore generale l'impugnazione dei provvedimenti emessi da tutti i giudici del distretto (...) La norma fa salva la deroga di cui all'art. 593-bis c.p.p., successivamente introdotto dall'art. 3 D.Lgs. n. 6 febbraio 2018, n. 11, per effetto della quale il procuratore generale può appellare la sentenza di primo grado solo nei casi di avocazione o qualora vi sia stata acquiescenza del procuratore della Repubblica" (Sez. U, n. 47502 del 29/09/2022, Galdini, non mass. sul punto).

4.2. La disposizione contenuta nel comma 2 dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p. stabilisce che "il procuratore generale presso la corte d'appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento".

Benché la formula sia sincretica, la lettura congiunta del primo e del comma 2 di tale articolo permette di comprendere agevolmente che il "provvedimento" oggetto dell'appello è la sentenza emessa all'esito del giudizio di primo grado dal giudice per le indagini preliminari, dalla corte di assise o del tribunale.

Nessun dubbio applicativo pone, poi, il riferimento al caso dell'avocazione, per l'ovvia considerazione che dal combinato disposto dei commi 1, lett. a), e 2 dell'art. 51 c.p.p. si evince in termini inequivoci che, in tutti i casi di avocazione le funzioni, che nella fase delle indagini e nei procedimenti di primo grado spettano ai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale, sono esercitate dai magistrati della procura generale presso la corte di appello. In siffatte ipotesi, dunque, la legittimazione del procuratore generale non è "secondaria" o "sussidiaria" rispetto a quella del procuratore della Repubblica, bensì prioritaria ed esclusiva.

Di più difficile decifrazione è il significato della formula "qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza", istituto di cui il legislatore della novella non ha fornito una definizione né ne ha indicato in maniera specifica i contorni applicativi.

A differenza di quanto previsto per il processo civile, per il quale l'art. 329 c.p.c. disciplina espressamente l'istituto dell'acquiescenza (stabilendo che, salvi i casi di revocazione, "l'acquiescenza risultante da accettazione espressa o da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge, ne esclude la proponibilità"), il codice del rito penale non conosceva tale figura giuridica prima della riforma del 2018.

In passato, di acquiescenza ad un provvedimento si è parlato, nella giurisprudenza di legittimità, esclusivamente in ordine ai casi di inutile decorso del termine entro il quale la parte legittimata avrebbe potuto presentare impugnazione (così, tra le molte, Sez. 1, n. 31855 del 05/05/2021, Salvi, Rv. 281938; Sez. 5, n. 48239 del 28/10/2019, D., Rv. 278041; Sez. 2, n. 55947 del 20/07/2018, Trisorio, Rv. 274687; Sez. 1, n. 50426 del 28/05/2016, Linguanti, Rv. 269183; vds. anche, Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, p. 3, non mass. sul punto). E si è sempre escluso che l'acquiescenza ad un provvedimento possa essere confusa con l'istituto della rinuncia all'impugnazione regolato dall'art. 589 c.p.p., essendo pacifico che tale negozio processuale a contenuto abdicativo e di natura ricettizia, contenente una manifestazione di volontà espressa, non ammette equipollenti e non può essere validamente attuato prima dell'avvenuta presentazione dell'impugnazione, cioè prima dell'esercizio del diritto che ne costituisce l'oggetto (così, tra le tante, Sez. 1, n. 39219 del 12/02/2014, Argint, Rv. 260510; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012, Fatale, Rv. 254342; Sez. 6, n. 10880 del 29/09/1995, Vaccariello, Rv. 203187). Ragioni, queste, che hanno indotto prudentemente la maggioranza dei primi commentatori della novella a identificare l'acquiescenza dell'art. 593, comma 2, c.p.p. con l'inutile decorso del termine per impugnare previsto per il procuratore della Repubblica presso il tribunale.

Tuttavia, la scelta del legislatore del 2018 di non chiarire espressamente in cosa debba consistere l'acquiescenza del procuratore della Repubblica e, soprattutto, di non modificare la complementare disciplina dei termini per impugnare, sono i fattori all'origine dei dubbi applicativi che hanno creato quei contrasti giurisprudenziali in ragione dei quali è stato poi sollecitato l'intervento di queste Sezioni Unite.

Ed infatti, collegare quella forma di acquiescenza al mero avvenuto decorso del termine per proporre impugnazione per il procuratore della Repubblica e, nel contempo, condizionare la "concorrente" legittimazione del procuratore generale ad appellare alla conoscenza dello spirare di quel termine, ha creato una sorta di "corto circuito" operativo. Ciò perché, come è stato da più parti sottolineato, il decorso del termine per proporre appello potrebbe avere un dies a quo diverso per il pubblico ministero di primo grado (artt. 548, commi 1 e 2, e 585, comma 2, lett. a, b e c, c.p.p.) rispetto a quello previsto per il procuratore generale (artt. 548, comma 3, e 585, comma 2, lett. d, c.p.p.); con la conseguenza che - si è detto - ben potendo il decorso dei due termini coincidere in tutto o in parte, se si ritenesse che il procuratore generale acquista la legittimazione a proporre appello contro una sentenza di primo grado solo dopo aver avuto conoscenza del fatto che il procuratore della Repubblica non ha esercitato il proprio potere di impugnazione nel termine consentitogli, lo stesso pubblico ministero di secondo grado si potrebbe trovare nella gran parte dei casi, per l'esiguità di un congruo intervallo cronologico, nella materiale impossibilità di predisporre e presentare quella impugnazione. Senza escludere - si è aggiunto - il paradosso che, nel caso di deposito della motivazione della sentenza di primo grado senza il rispetto dei termini stabiliti dall'art. 548, comma 2, c.p.p., il procuratore generale che dovesse ricevere la comunicazione di quell'avviso di deposito prima del procuratore della Repubblica, si vedrebbe di fatto privato di ogni possibilità di esercitare quella facoltà di impugnazione.

A tali inconvenienti si è ritenuto di poter fare fronte immaginando che, in pendenza del termine per impugnare previsto per il procuratore della Repubblica, il procuratore generale possa comunque proporre l'appello "al buio", con un atto di impugnazione formalmente ammissibile, ma sottoposto ad una sorta di "condizione sospensiva" di validità; in tale caso la verifica della conformità dell'atto al modello legale può essere effettuata solo in un momento successivo dal giudice dell'impugnazione, al quale sarebbe così affidato il compito di riscontrare la originaria esistenza della legittimazione dell'organo impugnante desumendola dall'inutile decorso del termine per impugnare previsto per il procuratore della Repubblica, cioè dal verificarsi di una ‘condizione sospensivà estranea alla volontà del titolare del potere esercitato in via sussidiaria.

4.3. Tale opzione ricostruttiva, di certo molto suggestiva, e accreditata dalle numerose pronunce che hanno sostanziato il secondo degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità indicato nel punto 2.2, non è condivisa da questo Collegio.

E ciò perché essa appare obiettivamente inconciliabile con il dettato normativo. L'art. 591, comma 1, lett. a), c.p.p. stabilisce, in generale, che "l'impugnazione è inammissibile (...) quando è proposta da chi non è legittimato (...)" e collega, quindi, l'esistenza di tale presupposto al momento genetico della presentazione del relativo atto. L'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., prescrivendo che il procuratore generale può appellare "qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza", indica, invece, chiaramente l'acquiescenza come un elemento costitutivo della legittimazione in capo al pubblico ministero di secondo grado.

Inoltre, va rilevato come l'accoglimento della predetta impostazione ermeneutica si porrebbe in insanabile contrasto con il principio, espressione di un consolidato orientamento di questa Corte di cassazione, secondo il quale la verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge per l'impugnazione va compiuta con riferimento alla presentazione del relativo atto scritto, momento in relazione al quale va effettuato il controllo della esistenza di tutte le condizioni - tra cui la legittimazione della parte che esercita la facoltà - idonee a rendere l'atto medesimo idoneo a produrre validamente l'impulso necessario per dar luogo al giudizio di impugnazione. E' stato, inoltre, reiteratamente puntualizzato che "tutte la cause di inammissibilità del ricorso per cassazione (ad eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione, costituente causa sopravvenuta di inammissibilità) integrano un vizio intrinseco dell'atto (e) impediscono la valida costituzione del rapporto processuale d'impugnazione" (così Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, in motivazione, p. 7.6; nello stesso senso Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164-01; Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266).

4.4. Per comprendere la valenza del nuovo sintagma "acquiescenza del procuratore della Repubblica", l'unico reale aggancio normativo - da valutare in stretta connessione con l'"asfittico" dato testuale dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p. - è contenuto nell'art. 166-bis disp. att. c.p.p., significativamente introdotto dall'art. 8 dello stesso D.Lgs. n. 11 del 2018, secondo cui "Al fine di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni relative all'impugnazione delle sentenze di primo grado, il procuratore generale presso la corte d'appello promuove intese o altre forme di coordinamento con i procuratori della Repubblica del distretto".

Con tale disposizione il legislatore della novella ha voluto affidare al procuratore generale di ciascuna corte di appello il potere-dovere di verificare, volta per volta, con riferimento ad ogni singola sentenza di primo grado emessa da un giudice del distretto, quali siano le intenzioni del procuratore della Repubblica competente, titolare della legittimazione per così dire "principale" ad appellare, e conseguentemente se vi siano le condizioni per lo stesso procuratore generale di esercitare la facoltà di proporre tale impugnazione, in alternativa, sulla base della sua legittimazione "sussidiaria".

Il dato testuale induce a ritenere che la norma non richieda una formalizzazione processuale di una manifestazione di volontà da parte del procuratore della Repubblica, assimilabile ad una sorta di rinuncia ad impugnare ovvero ad altro atto processuale tipico; e tanto meno impone che il termine previsto per tale ufficio per proporre appello sia già spirato. La formula impiegata ("Al fine di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni relative all'impugnazione (...)") lascia intendere che la verifica debba essere compiuta dal procuratore generale durante il decorso di quel termine. Si può, quindi, escludere che il legislatore abbia voluto far riferimento ad una qualche forma di acquiescenza tacita, ricavabile per facta concludentia, perché l'acquiescenza del procuratore della Repubblica, nella indicazione desumibile dal combinato disposto degli artt. 593-bis c.p.p. e 166-bis disp. att. c.p.p., finisce per rappresentare esclusivamente l'espressione del risultato di quella intesa o di altro modulo organizzativo che sia stato scelto per il coordinamento dei due uffici di procura.

La norma de qua neppure prescrive che il procuratore generale presso la corte di appello debba allegare al proprio atto di impugnazione un qualche documento che attesti l'intervenuta acquiescenza da parte del procuratore della Repubblica: di talché è ragionevole ritenere che il procuratore generale - nella logica di "deformalizzazione" che ha qualificato la riforma, tesa ad assicurare "fludità" ed efficienza al sistema delle impugnazioni - non debba certificare formalmente, nel proprio atto di impugnazione, di aver compiuto quella verifica.

Una attenta esegesi letterale di quella disposizione permette, altresì, di rilevare come la disposizione in argomento non richieda affatto che le relazioni tra il procuratore generale presso la corte di appello e i procuratori della Repubblica del distretto debbano essere necessariamente disciplinate, in linea generale, da un apposito protocollo o da altro documento organizzativo. L'adozione di un formale modulo regolamentare che disciplini i rapporti tra i due uffici requirenti è di certo auspicabile, e nella pratica risulta che in quasi tutti i distretti iniziative di tale natura siano state in effetti adottate. Si tratta di accorgimenti per così dire di "soft-law", tesi esclusivamente a favorire le relazioni tra i rappresentanti di quegli uffici, destinati tuttavia ad avere una rilevanza puramente interna, organizzativo-ordinamentale, non anche una valenza processuale: al pari di quanto accade per i protocolli organizzativi e per gli altri strumenti di coordinamento che i diversi uffici del pubblico ministero dovessero adottare a fini investigativi ai sensi dell'art. 371, comma 1, c.p.p., per i quali convincentemente si è negato che una inosservanza delle relative regole possa inficiare la validità degli atti di indagine compiuti da un pubblico ministero (in questo senso Sez. 6, n. 9989 del 19/01/2018, Lillo, Rv. 272536).

L'art. 166-bis disp. att. c.p.p. prevede, infatti, che il procuratore generale e il procuratore della Repubblica raggiungano una intesa ovvero definiscano un accordo come risultato di una qualsivoglia iniziativa di coordinamento tra i due uffici: intesa che, pertanto, ben potrebbe essere raggiunta volta per volta e in maniera informale, con riferimento ad uno o alcuni specifici procedimenti penali. Va, dunque, escluso - al contrario di quanto sostenuto da una parte della dottrina - che i protocolli eventualmente sottoscritti dal procuratore generale della corte di appello con i procuratori della Repubblica del distretto debbano essere allegati dal pubblico ministero di secondo grado al proprio atto di impugnazione. Va anche rifiutata l'idea che la mancata osservanza delle indicazioni, di valenza puramente organizzativa, contenute in documenti di quella natura - che, peraltro, oltre ad avere contenuto molto diverso tra distretto e distretto, potrebbero persino in concreto risultare assenti - possa essere in qualche modo sanzionata processualmente.

In tal senso possono essere condivise le specifiche argomentazioni su tali profili contenute nelle pronunce nelle quali si è evidenziato come quelle intese generali, concretizzatesi in regole protocollari nei rapporti tra gli uffici, "non poss(a)no trovare ingresso nel singolo processo" (così Sez. 2, n. 15449 del 14/01/2022, Tiesi, Rv. 283197, p. 2.2, non mass. sul punto; Sez. 2, n. 6534 del 15/12/2021, dep. 2022, De Dominicis, p. 1.1, non mass. sul punto).

4.5. Una lettura logico-sistematica della disposizione generale contenuta nel nuovo art. 593-bis, comma 2, c.p.p., ed il fatto che il legislatore della riforma abbia riservato non ad una norma del codice, ma ad una "di servizio", come quella prevista nel collegato art. 166-bis delle disposizioni di attuazione del codice di rito, la disciplina delle intese giustificative dell'acquiescenza, sono elementi che portano ragionevolmente a ritenere che la novella del 2018 non abbia voluto mutuare criteri formali validi per la operatività di altri istituti, come quello della acquiescenza espressa o tacita regolato dal codice di procedura civile, bensì, affidando al procuratore generale il "potere" (di cui vi è esplicito riferimento nella rubrica dello stesso art. 166-bis) di verificare quale siano le intenzioni del procuratore della Repubblica, "al fine di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni relative all'impugnazione delle sentenze di primo grado", abbia voluto assegnare al rappresentante dell'ufficio di vertice della magistratura requirente del distretto una funzione propulsiva di verifica e coordinamento in vista della razionalizzazione delle impugnazioni avverso il medesimo provvedimento.

E' la ratio di tale innovazione che fa comprendere il significato che il legislatore ha inteso dare alle disposizioni in esame. Se lo scopo del nuovo art. 593-bis c.p.p. è stato quello di evitare che contro la medesima sentenza si possano sommare l'appello del pubblico ministero di primo grado e quello del pubblico ministero di secondo grado, sì da garantire che il giudice dell'appello sia investito di un'unica impugnazione, la correlata opzione legislativa di non modificare la disciplina generale dei termini per proporre l'impugnazione conduce logicamente a sostenere che il procuratore generale presso la corte di appello - ovviamente laddove abbia maturato l'intenzione di proporre appello contro la sentenza di primo grado, se del caso anche a seguito di una sollecitazione formulata dalla parte civile o dalla persona offesa ai sensi dell'art. 572 c.p.p. - debba promuovere le intese ed esercitare la indicata funzione di verifica in maniera tale da definire quale dei due uffici di procura presenterà l'atto di impugnazione.

Tale approdo ermeneutico appare idoneo ad eliminare gli inconvenienti paventati dalla dottrina e dalla giurisprudenza - derivanti dal contestuale decorso dei termini per impugnare per il procuratore della Repubblica e per il procuratore generale presso la corte di appello, e porta a soluzioni applicative coerenti con i principi di sistema del processo penale.

Il procuratore generale che propone un appello contro una sentenza di primo grado riconosce, assumendosi la relativa responsabilità ordinamentale, di avere esercitato il potere-dovere di coordinamento e di preliminare verifica assegnatogli dall'art. 166-bis disp. att. c.p.p., e indica così il proprio ufficio come legittimato ad impugnare ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p..

Non vi è alcuna previsione normativa che autorizzi a sostenere che il giudice dell'impugnazione possa successivamente sindacare il contenuto della intesa raggiunta dal procuratore della Repubblica con il procuratore generale, confermata dalla presentazione da parte di quest'ultimo dell'unico atto di appello. Soluzione, questa, che non comporta alcuna ingiustificata limitazione o altro incongruo sacrificio per le ragioni difensive dell'imputato o delle altre parti private, in quanto tale innovativo "meccanismo" processuale richiede esclusivamente che contro la sentenza di primo grado sia presentato un solo atto di appello della parte pubblica.

L'applicazione "fisiologica" delle norme in esame dovrebbe escludere in radice la possibilità che, a fronte della proposizione dell'appello da parte del procuratore generale, risulti presentato avverso la medesima sentenza anche un atto di appello del procuratore della Repubblica. Laddove un concorso di atti di impugnazione dovesse in concreto verificarsi, tale evento "patologico", conseguenza della mancata osservanza delle regole interne di natura ordinamentale a carattere organizzativo, è l'indice della mancata acquiescenza e della non operatività delle intese: in questo caso l'impugnazione del procuratore generale presso la corte di appello è inammissibile.

4.6. Resta, infine, sullo sfondo il tema concernente la definizione dell'ambito di operatività della disposizione dettata dall'art. 593-bis, comma 2, c.p.p. laddove oggetto dell'atto di appello sia una sentenza di primo grado soggettivamente o oggettivamente cumulativa: situazioni nelle quali ci si potrebbe domandare se la mancata acquiescenza al provvedimento da parte del procuratore della Repubblica precluda in assoluto la legittimazione residuale del procuratore generale oppure se tale organo possa proporre l'impugnazione con riferimento a talune posizioni soggettive o a capi e punti della decisione che non interessati dall'appello ‘principale'.

Si tratta di questione che il Collegio ritiene di non dover esaminare, perché non rilevante nel caso di specie. Peraltro, su tale specifica problematica non è stato registrato un contrasto giurisprudenziale ed è opportuno lasciare che siano le Sezioni semplici, in relazione alle peculiarità delle singole fattispecie, ad approfondire la tematica.

5. Deve essere, a questo punto, esaminata la seguente ulteriore questione: se l'inammissibilità dell'appello del procuratore generale avverso la sentenza di primo grado derivi esclusivamente dall'avvenuta presentazione dell'appello da parte del procuratore della Repubblica presso il tribunale o anche da parte del rappresentante della pubblica accusa che ha formulato le conclusioni nell'udienza del giudizio di primo grado.

I dubbi sono sostanzialmente dovuti alla divergenza esistente tra il testo del dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p. e quello dell'art. 1, comma 84, lett. g), della legge delega 23 giugno 2017, n. 103, in attuazione della quale è stato adottato il più volte citato D.Lgs. n. 11 del 2018. La prima disposizione fa riferimento all'acquiescenza del solo procuratore della Repubblica presso il tribunale; la seconda, invece, fissa per il legislatore delegato il principio "che il procuratore generale presso la corte di appello possa appellare soltanto nei casi (...) di acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice di primo grado", utilizzando così una formula più ampia, comprensiva anche della figura del sostituto procuratore, rappresentante dell'ufficio del pubblico ministero, che ha presentato le conclusioni nel giudizio, titolare di una distinta legittimazione ad impugnare, giusta la previsione dell'art. 570, comma 2, c.p.p..

L'interpretazione lessicale della chiara formula impiegata dal legislatore delegato non sembra lasciare spazio a dubbio alcuno, in quanto il preciso sintagma utilizzato nell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p. ("procuratore della Repubblica") induce a ritenere che la legittimazione del procuratore generale presso la corte di appello non sia condizionata dalle iniziative eventualmente assunte dal pubblico ministero che nel giudizio di primo grado aveva presentato le conclusioni. La novella del 2018, infatti, non ha inciso in alcun modo sull'autonoma legittimazione ad impugnare di tale ultima figura, con la conseguenza che l'appello proposto dal pubblico ministero che ha presentato le conclusioni nel giudizio (art. 570, comma 2, c.p.p.) ben può concorrere con quello del procuratore generale che dovesse risultare legittimato ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p..

Tale soluzione risponde, peraltro, alla logica di un sistema che riconosce al magistrato requirente che partecipa al giudizio e formula le sue conclusioni piena autonomia decisionale rispetto al procuratore della Repubblica: è pacifico che la disposizione dettata dal comma 2 dell'art. 570 c.p.p. deve essere letta come accrescitiva, e non limitativa, dei poteri del rappresentante del pubblico ministero che abbia presentato le conclusioni in udienza, conferendogli una piena e distinta legittimazione all'impugnazione (in questo senso Sez. 1, n. 11353 del 12/10/1992, D'Orazio, Rv. 192894).

Il quadro normativo e giurisprudenziale e', perciò, coerente con l'opzione interpretativa in base alla quale il pubblico ministero che ha presentato le proprie conclusioni in udienza conserva la legittimazione ad appellare la sentenza del giudice di primo grado indipendentemente dalla scelta, operata dal capo del proprio ufficio ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., di prestare acquiescenza a quel provvedimento.

L'inequivoco risultato dell'esegesi letterale e di quella logico-sistematica toglie ogni spazio alla possibilità di valorizzare il diverso esito di una interpretazione teleologica, che una parte della dottrina ha reputato di poter utilizzare per far prevalere sul dato testuale della norma introdotta dal legislatore delegato la volontà del legislatore delegante di evitare duplicazioni di impugnazioni.

Rimane da chiedersi se la riconosciuta divergenza tra il criterio formalmente fissato dalla legge delega n. 103 del 2017 e il diverso testo adottato con il decreto legislativo delegato possa sostanziare un dubbio di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 76 Cost.: questione che, tuttavia, oltre a sembrare non rilevante nel caso di specie, appare manifestamente infondata.

Ed invero, la Corte costituzionale ha, in più occasioni, puntualizzato come il carattere vincolato della legislazione delegata, derivante dalla predeterminazione parlamentare dei principi e criteri direttivi, non escluda margini di discrezionalità nelle scelte che è chiamato a compiere il legislatore delegato (così, ex plurimis, Corte Cost., sent. n. 426 del 2008). In particolare, si è chiarito che, pur sussistendo tra la disposizione delegante e quella delegata un "naturale rapporto di riempimento", l'art. 76 Cost. non è di ostacolo all'emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo da parte del legislatore delegato, il quale non è tenuto "a una mera scansione linguistica delle previsioni dettate dal delegante" (così, tra le molte, Corte Cost., sent. n. 10 del 2018): essendo egli, invece, libero di individuare ragionevoli contenuti attuativi della legge delega, di cui vanno rispettati i limiti invalicabili, ben potendo - come nella fattispecie è accaduto interpretare e scegliere fra le alternative che gli si offrono e valutare le specifiche situazioni da disciplinare (così, tra le diverse, Corte Cost., sent. n. 59 del 2016; e sent. n. 174 del 2005; sull'argomento, seguendo l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, vds. anche Sez. U, n. 17615 del 23/02/2023, Lombardi, p. 9.4, non mass. sul punto; Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, p. 5.3, non mass. sul punto).

6. I percorsi argomentativi fin qui esposti consentono di formulare, in via logicamente consequenziale, ulteriori valutazioni in ordine alla terza delle questioni portate all'attenzione di queste Sezioni Unite, attinente ai rapporti tra la legittimazione "sussidiaria" o "condizionata" del procuratore generale a proporre appello avverso la sentenza del giudice di primo grado (art. 593-bis, comma 2, c.p.p.) e la sua legittimazione a presentare ricorso per cassazione avverso la medesima sentenza.

6.1. Quanto alla facoltà di proporre ricorso immediato o "per saltum", va ricordato come l'art. 569, comma 1, c.p.p. stabilisca espressamente che "La parte che ha diritto ad appellare la sentenza di primo grado può proporre direttamente ricorso per cassazione": formula, questa, che disegna un concetto di appellabilità in senso soggettivo, perché quel mezzo di impugnazione viene considerato come alternativo in relazione alla posizione della parte impugnante. Da tanto è possibile arguire che il procuratore generale in tanto è legittimato a presentare ricorso immediato per cassazione in alternativa all'atto di appello, in quanto sia legittimato a proporre quest'ultimo ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., dunque solo nei casi di avocazione o di acquiescenza del procuratore della Repubblica al provvedimento.

Con l'ulteriore conseguenza che, in tale ipotesi, il ricorso immediato del procuratore generale si converte in appello laddove la sentenza di primo grado sia stata appellata da una delle parti private (o dal rappresentante del pubblico ministero che ha presentato le conclusioni), giusta la previsione degli artt. 569, comma 2, e 580 c.p.p. Qualora, in accoglimento del ricorso immediato, la Corte di cassazione annulli con rinvio la sentenza di primo grado - salvi i casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza impugnata - gli atti dovranno essere trasmessi al giudice competente per il secondo grado.

In assenza dell'acquiescenza del procuratore della Repubblica, a quest'ultimo è lasciata l'alternativa di presentare l'atto di appello o il ricorso immediato per cassazione: in tale situazione - fatta eccezione per i casi del tutto eccezionali di difettoso coordinamento tra l'ufficio di procura di primo grado e quello di secondo grado, sopra esaminati nel punto 4.5 - il ricorso "per saltum" eventualmente proposto dal procuratore generale presso la corte di appello è destinato ad essere dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione.

In relazione a tale aspetto questo Collegio ritiene, pertanto, di non condividere le riflessioni sviluppate nelle pronunce che, sulla base di percorsi talora parzialmente differenti, si inscrivono nell'indirizzo giurisprudenziale in precedenza indicato nel punto 3.1.

6.2. Va ora esaminato il quesito complementare, e cioè se il procuratore generale che non sia legittimato a proporre appello per l'assenza delle condizioni previste dall'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., sia legittimato a presentare contro la sentenza di primo grado ricorso per cassazione "ordinario", ai sensi dell'art. 606, comma 2, c.p.p. ("Il ricorso, oltre che nei casi e con gli effetti determinati da particolari disposizioni, può essere proposto contro le sentenze (...) inappellabili"), ovvero dell'art. 608, comma 1, c.p.p. ("Il procuratore generale presso la corte di appello può ricorrere per cassazione contro ogni sentenza di condanna o di proscioglimento (...) inappellabile").

L'interrogativo concerne la definizione del concetto di "inappellabilità" al quale si riferiscono le disposizioni innanzi richiamate. Se si ritenesse che il legislatore abbia voluto assegnare a quell'aggettivo un significato oggettivo (la sentenza di primo grado deve in ogni caso essere inappellabile dall'ufficio del pubblico ministero inteso a mente dell'art. 570, comma 1, c.p.p.), resterebbe preclusa la legittimazione del procuratore generale a proporre ricorso per cassazione, laddove la sentenza sia appellabile dal procuratore della Repubblica. Se, invece, l'appellabilità è interpretata in chiave soggettiva con riferimento alla specifica posizione del soggetto processuale considerato, si dovrebbe riconoscere al procuratore generale, pur non legittimato a proporre appello, la facoltà di presentare il ricorso "ordinario" per cassazione.

L'esegesi degli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p. non permette di acquisire indicazioni di valenza univoca. Al contrario, l'interpretazione logico-sistematica delle predette disposizioni induce fondatamente a ritenere che, nel riconoscere al procuratore generale la legittimazione a proporre il ricorso per cassazione avverso la "sentenza inappellabile", il legislatore abbia inteso richiamare i casi nei quali è oggettiva la qualità della inappellabilità della sentenza, ossia quelli in cui il codice di rito esclude che l'ufficio del pubblico ministero, in tutte le sue articolazioni, possa presentare appello contro una sentenza di primo grado.

E' il caso della sentenza di condanna (salvo che non abbia modificato il titolo del reato) emessa all'esito di giudizio abbreviato ai sensi dell'art. 443, comma 3, c.p.p.; della sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti (salvo che non si tratti di pronuncia emessa nonostante il dissenso del pubblico ministero) adottata ai sensi dell'art. 448, comma 2, c.p.p.; della sentenza predibattimentale di cui all'art. 469 c.p.p.; della sentenza dibattimentale di condanna emessa in assenza dei presupposti dell'art. 593, comma 1, c.p.p. o in presenza dei requisiti di cui al comma 3 dell'art. 593 c.p.p. In queste ipotesi è pacifico che il procuratore generale possa proporre contro la sentenza di primo grado ricorso per cassazione "ordinario", destinato, in caso di connessione ex art. 12 c.p.p., a convertirsi in appello se tale mezzo di impugnazione sia stato presentato da una delle parti private legittimate; qualora la Corte di cassazione accolga il ricorso e disponga l'annullamento con rinvio, gli atti saranno trasmessi al giudice che ha emesso la sentenza in primo grado, giusta la previsione dell'art. 623, comma 1, lett. d), c.p.p..

Gli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p. non possono, dunque, essere valorizzati in relazione all'ipotesi disciplinata dall'art. 593-bis, comma 2, nella quale - come si è già avuto modo di porre in evidenza - non si può sostenere che la sentenza sia oggettivamente inappellabile, ben potendo l'atto di appello essere proposto dal procuratore della Repubblica presso il tribunale: sicché l'esercizio della relativa facoltà da parte del pubblico ministero di primo grado "consuma" il potere di appello e non serve a modificare, in relazione alla "concorrente" posizione del procuratore generale presso la corte di appello, la natura del provvedimento.

L'opposta soluzione esegetica, privilegiata in particolare dalle sentenze delle Sezioni semplici sopra richiamate nel punto 3.2, oltre ad apparire incompatibile con la lettera delle norme in esame, finirebbe nei suoi risultati pratici per contrastare con le esigenze di semplificazione del sistema sottese alla disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 11 del 2018.

Consentire che, in presenza dell'esercizio del potere di appellare da parte del procuratore della Repubblica presso il tribunale, il procuratore generale presso la corte di appello sia, comunque, legittimato a proporre il ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, finirebbe per determinare una situazione processuale di difficile gestione, provocata dalla "sovrapposizione" di mezzi di impugnazione eterogenei aventi ad oggetto la medesima decisione, proposti da organi che rappresentano la stessa parte processuale: il che vanificherebbe la finalità perseguita dal D.Lgs. n. 11 del 2018, che - come si è reiteratamente messo in rilievo - è quella di deflazionare il lavoro del giudice di appello attraverso un razionale coordinamento delle iniziative degli uffici di procura di primo e di secondo grado.

In tale contesto non va poi trascurato che tanto nel caso di sentenza oggettivamente cumulativa, avente ad oggetto più capi di imputazione tra loro connessi, che sia oggetto di rimedi impugnatori eterogenei, quanto nel caso di sentenza con un unico capo d'imputazione (v. Sez. 4, n. 18656 del 27/02/2018, Careddu, Rv. 273252), l'applicazione dell'istituto della conversione del ricorso in appello, regolato dall'art. 580 c.p.p., frustrerebbe gli scopi della innovazione introdotta con la riforma del 2018: infatti, si realizzerebbe l'irragionevole effetto di "alimentare" quel fenomeno di duplicazione di atti di impugnazioni omogenei provenienti da articolazioni diverse della stessa parte pubblica, neutralizzando il "meccanismo" processuale fondato sul coordinamento dettato degli artt. 593-bis, comma 2, c.p.p. e 166-bis disp. att. cod. proc. pen., con una sostanziale "restituzione" al procuratore generale di quella legittimazione ad appellare le sentenze di primo grado che la novella aveva inteso trasformare in meramente "sussidiaria" e "condizionata".

6.3. Per completezza va sottolineato che l'opzione ermeneutica che in questa sede si è voluta privilegiare solo in apparenza si pone in contrasto con il principio di diritto di recente enunciato da questa Sezioni Unite, secondo il quale la sentenza di condanna che abbia omesso di applicare una pena accessoria è ricorribile per cassazione per violazione di legge da parte sia del procuratore della Repubblica che del procuratore generale a norma dell'art. 608 c.p.p. (Sez. U, n. 47502 del 15/12/2022, Galdini, Rv. 283754-01).

Tale pronuncia riguardava il caso di una impugnazione presentata avverso una sentenza di condanna, emessa all'esito di giudizio dibattimentale, che non aveva modificato il titolo di reato, non aveva escluso la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale e non aveva stabilito una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato: si trattava, dunque, di una sentenza di primo grado oggettivamente inappellabile ai sensi dell'art. 593, comma 1, c.p.p., impugnata dal procuratore generale ai sensi dell'art. 608 c.p.p., per la quale non si poneva il problema di un possibile concorso di atti di appello proposti sia dal pubblico ministero di primo grado sia da quello di secondo grado.

7. Alla luce delle argomentazioni fin qui esposte, le questioni oggetto di rimessione vanno risolte enunciando i seguenti principi di diritto:

"La legittimazione del procuratore generale a proporre appello avverso le sentenze di primo grado a seguito dell'acquiescenza del procuratore della Repubblica consegue alle intese o alle altre forme di coordinamento richieste dall'art. 166-bis disp. att. c.p.p. che impongono al procuratore generale di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni del procuratore della Repubblica in merito all'impugnazione della sentenza".

"L'acquiescenza del procuratore della Repubblica al provvedimento (art. 593-bis, comma 2, c.p.p.) non è riferibile anche al pubblico ministero che abbia presentato le conclusioni nel giudizio di primo gradò.

"In assenza delle condizioni per presentare appello ai sensi dell'art. 593-bis, comma 2, c.p.p., il procuratore generale non è legittimato a proporre ricorso immediato per cassazione ex art. 569 c.p.p. né ricorso ordinario ai sensi degli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p. ".

8. Alla stregua delle "regulae iuris" innanzi delineate, è possibile passare ad esaminare l'oggetto del ricorso portato all'odierna attenzione delle Sezioni Unite.

8.1. Preliminarmente va rilevato come la sentenza del Tribunale di Catanzaro, oggetto del ricorso, è stata pronunciata nell'udienza fissata per lo svolgimento del giudizio dibattimentale prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, ma dopo la verifica della regolare costituzione delle parti.

Trova, perciò, applicazione il principio secondo il quale la sentenza di proscioglimento, pronunciata nella udienza pubblica dopo il compimento delle formalità previste dall'art. 484 c.p.p. per la costituzione delle parti, non è riconducibile al modello di cui all'art. 469 c.p.p. ed è appellabile nei limiti indicati dalla legge (Sez. U, n. 3512 del 28/10/2021, dep. 2022, Lafleur, Rv. 282473).

Il Procuratore generale, pur potendo proporre appello, ha optato per il ricorso immediato a norma dell'art. 569, comma 1, c.p.p. per fare valere un vizio di violazione di legge ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), dello stesso codice di rito. E' possibile affermare che è lo stesso "fatto processuale" della presentazione di quel ricorso che fa ritenere avverata l'acquiescenza sulla base del risultato dell'intesa raggiunta con il procuratore della Repubblica a mente del combinato disposto degli artt. 593-bis c.p.p. e 166-bis disp. att. cod. proc.: intesa la cui natura "interna" esclude, come si è avuto modo di chiarire, la necessità di certificazioni o attestazioni di sorta da parte del soggetto impugnante.

8.2. Nel merito va detto che il ricorso è fondato.

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio per cui il reato di omessa corresponsione dell'assegno divorzile è procedibile d'ufficio e non a querela della persona offesa, in quanto il rinvio contenuto nell'art. 12-sexies della L. 1 dicembre 1970, n. 898 all'art. 570 c.p. si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità (Sez. U, n. 23866 del 31/01/2013, S., Rv. 255270-01; Sez. 6, n. 23794 del 27/04/2017, B., Rv. 270223).

Tale posizione è stata poi ribadita anche a seguito del fenomeno di successione di leggi penali nel tempo verificatosi con l'introduzione della nuova fattispecie di violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio, di cui all'art. 570-bis c.p., inserito nel codice dall'art. 2, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 1 marzo 2018, n. 21: fattispecie che si pone in continuità normativa con le due precedenti ipotesi di reato di cui ai richiamati artt. 570 c.p. e 12-sexies D.Lgs. cit. (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 20013 del 10/03/2022, B., Rv. 283303).

Va, perciò, confermato che, in tema di reati contro la famiglia, il delitto di omesso versamento dell'assegno periodico per il mantenimento dei figli di cui all'art. 570-bis c.p. è procedibile d'ufficio, in quanto è rimasto immutato il regime della procedibilità previsto per il delitto di cui all'art. 12-sexies L. n. 898 del 1970, richiamato dall'art. 3 L. 8 febbraio 2006, n. 54, la cui abrogazione è stata meramente formale, con trasposizione della relativa ipotesi criminosa nella nuova norma codicistica (così Sez. 6, n. 7277 del 30/01/2020, P., Rv. 278331).

8.3. La sentenza impugnata va, dunque, annullata limitatamente al reato di cui all'art. 12-sexies L. n. 898 del 1970 (capo 2) - ora confluito nella fattispecie prevista dall'art. 570-bis c.p. - con rinvio, per nuovo giudizio su tale capo, alla Corte di appello di Catanzaro, competente ai sensi dell'art. 569, comma 4, c.p.p..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo 2 con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Catanzaro.

Dispone, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n. 30 giugno 2003, n. 196, che - a tutela dei diritti o della dignità degli interessati - sia apposta, a cura della cancelleria, sull'originale del provvedimento, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2023.

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