Integra il reato di diffamazione il riferirsi ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche.
La diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa, a condizione che essi siano, in quel momento e in quel luogo (virtuale o non), in grado di difendersi.
Cassazione penale sez. V, 14/12/2022, (ud. 14/12/2022, dep. 19/01/2023), n.2251
Ritenuto in fatto
1. In riforma della sentenza con cui il Tribunale di Varese aveva condannato C.A. per il reato di cui all'art. 595, comma 3, c.p., alla pena di Euro 800 di multa e al risarcimento dei danni, liquidati in Euro 2000, nei confronti della parte civile C.G., la Corte d'appello di Milano, con sentenza indicata in epigrafe, ha riqualificato il fatto ai sensi dell'art. 594 c.p., assolvendo l'imputato perché il fatto non costituisce più reato. Secondo il capo d'imputazione, C.A. offendeva la reputazione di C.G., perché, comunicando attraverso il soda network "Facebook" e pubblicando opinioni in un "post" pubblico dedicato ai problemi di viabilità del comune di Luino, faceva espresso riferimento a deficit visivi della parte civile ("punti di vista, anche storta"... "mi verrebbe da scrivere la lince, ma ho rispetto per la gente sfortunata", con più "emoticon" simboleggianti risate), dileggiandola.
2. Avverso la sentenza indicata in epigrafe, ha presentato ricorso la parte civile C.G., per il tramite del proprio difensore di fiducia, Avv. Antonio Battaglia, articolando le proprie censure in un unico motivo, col quale deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) del codice di rito, erronea applicazione della legge penale, oltre che vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale riqualificato il fatto alla luce dell'art. 594 c.p. A parere della difesa, il presupposto da cui la Corte territoriale ha preso le mosse per fondare la propria decisione di riforma ("un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona", p. 4 della motivazione dell'impugnata sentenza) sarebbe del tutto inidoneo a descrivere la condotta dell'imputato; condividere quel presupposto significherebbe, secondo la difesa, trascurare "i più precipui contenuti che caratterizzano la reputazione di una persona". Alla riqualificazione del fatto nella fattispecie d'ingiuria, la Corte d'appello sarebbe inoltre giunta sulla base di un ulteriore erroneo presupposto, vale a dire la possibilità, di cui la parte offesa poteva avvantaggiarsi, di replicare in via immediata alle espressioni offensive pubblicate su una chat. Così argomentando, la Corte d'appello avrebbe però trascurato di considerare che i messaggi lesivi della reputazione del C. avevano intanto raggiunto non soltanto quest'ultimo, bensì anche una moltitudine di persone, a nulla rilevando, dunque, che la parte offesa abbia avuto la possibilità d'interloquire con l'imputato in quel contesto comunicativo.
3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. 28/10/2020, n. 137, conv. con L. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Dott. ssa Perla Lori, la quale ha chiesto l'annullamento dell'impugnata sentenza, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è fondato.
2. La prima parte della succinta motivazione dell'impugnata sentenza risulta, invero, di non immediata comprensione. Coglie nel segno la difesa di parte civile nel rilevare l'incongruenza motivazionale nel punto in cui la Corte territoriale afferma, dapprima, che "l'imputato ha volto gravi offese alla parte civile, denigrandola per il deficit visivo", per poi ritenere, nell'immediato prosieguo della motivazione, che non vi sia stato pregiudizio per la reputazione del C., perché "un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona" e avendo l'imputato, con offese siffatte, "messo in cattiva luce se stesso".
Allorché il Giudice d'appello scrive che "un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona", non è dato comprendere se egli stia semplicemente esprimendo una affermazione di principio (condivisibile, ma priva di rilievo per il thema decidendum), oppure se, con quella frase, abbia inteso escludere la configurabilità della diffamazione, intendendo forse alludere al fatto che il dileggio di una persona ipovedente non vale anche a scalfirne il valore e, quindi, a lederne la reputazione.
In ogni caso, l'eccezione difensiva va condivisa, dacché la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un'aggressione alla reputazione di una persona, come già statuito da questa Corte (Sez. 5, n. 32789 del 13/05/2016, Ceresa, Rv. 267399 - 01: integra "il reato di diffamazione il riferirsi ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche"; nella fattispecie la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione di condanna nei confronti del soggetto che, comunicando con più persone, qualificava la persona offesa nel contesto di una discussione come "la zoppetta""). Che la reputazione individuale (da non confondersi, naturalmente, con la mera considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, posto che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all'art. 595 c.p. è eminentemente relazionale, tutelando il senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale) sia "un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona" è stato ricordato, più di recente dalla Corte Cost., con sentenza n. 150 del 2021. Ed è proprio la correlazione tra dignità e reputazione a venire in rilievo nel caso di specie, posto che le espressioni adoperate dell'imputato sottendono una deminutio della persona offesa, che, in quanto ipovedente, non avrebbe dignità di interlocuzione pari a quella degli altri utenti della piattaforma.
La seconda parte della motivazione è invece chiara nell'esporre le ragioni che hanno portato la Corte territoriale a ravvisare nella condotta del C. gli estremi del depenalizzato delitto d'ingiuria.
Nondimeno, questo Collegio ritiene di disattendere la valutazione della Corte territoriale sul punto, ricordando che l'elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore (Sez. 5, n. 10313 del 17/01/2019, Vicaretti, Rv. 276502).
Nei casi in cui il limite tra ingiuria e diffamazione si fa più opaco, il punto, allora, è capire se e quando l'offeso sia stato concretamente in condizioni di replicare.
Se è vero, come scrive il Giudice d'appello, che "la parte civile ha potuto ed era in grado di replicare alle offese, diffuse sulla chat", è vero anche che tale possibilità si è data in un momento successivo alla pubblicazione delle offese sul soda network "Facebook". Pronunciandosi sul discrimine tra diffamazione e ingiuria in caso di offese espresse per il tramite di piattaforme telematiche con servizio di messaggistica istantanea e comunicazione a più voci ("Google Hangouts"), questa Corte ha chiarito che soltanto il requisito della contestualità tra comunicazione dell'offesa e recepimento della stessa da parte dell'offeso (come, appunto, nel caso di messaggistica istantanea con annesso servizio di videochiamata e chiamate cd. VoIP -voce tramite protocollo internet) vale a configurare l'ipotesi dell'ingiuria.
In difetto del requisito della contestualità, che non risulta in alcun modo emerso nel corso del processo (e che, in generale, va di volta in volta verificato, in relazione alle specificità dei singoli casi), l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore (Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742 - 01: fattispecie in tema di "chat" vocale sulla piattaforma "Google Hangouts"); nel qual caso, si profila l'ipotesi della diffamazione. In considerazione dei tanti, possibili contesti (legati o non al progresso tecnologico) in cui un'espressione offensiva può esternarsi, può dunque osservarsi - parafrasando una decisione di questa Corte (Sez. 5, n. 38099 del 29 maggio 2015, Cavalli, n. m.) che "la diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa", a condizione che essi siano, in quel momento e in quel luogo (virtuale o non), in grado di difendersi.
3. Questo Collegio ritiene, pertanto, che la sentenza impugnata vada annullata limitatamente agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2023.