Pubblicato il

Aborto illegale, infanticidio e omicidio: il confine fra le fattispecie

Corte di Cassazione, sez. I Penale, Sentenza n.22711 del 02/02/2023 (dep. 25/05/2023)

La condotte di soppressione realizzate nei confronti di un feto nel caso di un avanzato stato di gestazione integrano il reato di interruzione illegale di gravidanza, infanticidio o omicidio?

La questione è affrontata dalla Cassazione, sezione I penale, con la sentenza n. 22711 depositata il 25/05/2023.

Nel caso di specie, una donna incinta oltre il termine legale per un aborto, un’amica, un medico ospedaliero e un altro agevolatore, sono stati condannati per l'omicidio volontario di un feto di ventidue settimane.

Secondo la difesa invece condotta integrava il reato, meno grave, di interruzione volontaria di gravidanza previsto dalla L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 19, comma 3. Il feto era morto prima del distacco dall'utero materno, e quindi non era vitale al momento dell'inizio del travaglio. Inoltre, il feto non aveva mai respirato né aveva raggiunto un grado di maturità sufficiente ad assicurargli la possibilità di avere una vita autonoma al di fuori dell'utero materno.

La Cassazione, tuttavia, respinge la tesi difensiva, facendo riferimento all'articolo 578 del codice penale e alla Legge n. 194 del 1978, articolo 7, comma 3, per stabilire l'inizio della vita rilevante ai fini dell'integrazione dell'oggetto del reato di omicidio.

In particolare, la Suprema Corte ha stabilito che integrano gli estremi dell'omicidio non solo la condotta di soppressione del prodotto del concepimento, di cui risulta accertata la possibilità di vita autonoma, eseguita senza osservare le prescrizioni ed i limiti temporali previsti dalla legge, ma anche quella che, posta in essere prima del travaglio ed allo scopo di provocarlo, sia comunque proseguita durante il parto in stretta successione cronologica producendo i suoi effetti lesivi sul feto vitale all'inizio del travaglio ma deceduto prima dell'espulsione.

Pertanto, secondo la Cassazione, tutte le condotte di soppressione realizzate nei confronti di un feto che è vitale all'inizio del travaglio ed ha, per l'età gestazionale, "possibilità di vita autonoma" extrauterina sono riconducibili alle fattispecie omicidiarie di cui agli artt. 575,589 e 578 c.p.

L'interruzione volontaria di gravidanza prevista dalla Legge n. 194 del 1978, art. 19, è invece configurabile solo se le condotte di soppressione del feto sono interamente compiute ed esaurite prima dell'inizio del travaglio.

Alla luce della ricostruzione fattuale della sentenza impugnata, la condotta contestata in concorso agli imputati è stata qualificata come omicidio doloso in puntuale applicazione degli esposti principi.

Aborto, infanticidio, omicidio, inizio del travaglio, possibilità di vita autonoma, configurabilità

Al di fuori dai casi espressamente consentiti dalla L. n. 194 del 1978, tutte le condotte di soppressione realizzate nei confronti di un feto che è vitale all'inizio del travaglio ed ha, per l'età gestazionale, "possibilità di vita autonoma" extrauterina sono quindi sussumibili nelle fattispecie omicidiarie di cui agli artt. 575, 589 e 578 c.p. a seconda se l'evento morte è posto in essere con coscienza e volontà, contro la volontà ma a causa di un atteggiamento negligente, imprudente o imperito, ovvero se il feto sia ucciso dalla madre determinata dalle condizioni di abbandono morale e materiale e ciò a prescindere se il decesso si sia verificato all'interno o all'esterno dell'alveo materno.

Le fattispecie incriminatrici previste dalla L. n. 194 del 1978, art. 19 sono, invece, configurabili se le condotte di soppressione del feto sono interamente compiute ed esaurite prima dell'inizio del travaglio.

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

Cassazione penale, sez. I, Sentenza 02/02/2023 (dep. 25/05/2023) n. 22711

(Presidente Mogini - Relatore Aliffi)

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata nel preambolo, la Corte di assise di appello di Catanzaro, decidendo sull'appello del pubblico ministero (così convertito ex art. 580 c.p.p. l'originario ricorso per cassazione) e degli imputati, ha riformato la sentenza, in data 17 febbraio 2020, con cui la Corte di assise di Cosenza aveva dichiarato F.N., R.S., Z.P. e G.S. colpevoli dei reati di omicidio premeditato (capo A) e falso ideologico (capo B) ed il solo G. anche del delitto di furto aggravato (capo C) e, per l'effetto, li aveva condannati, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche: F.N. e Z.P. alla pena di anni 23 di reclusione, G.S. alla pena di anni 25 di reclusione e R.S. a quella di anni 24;

Più in dettaglio la Corte distrettuale:

- ha dichiarato nulla la pronuncia nei confronti di F.N. e non doversi procedere nei confronti di G.S., R.S. e Z.P. in ordine al delitto di falso ideologico e del solo G. in ordine al delitto di furto aggravato;

- ha rideterminato il trattamento sanzionatorio nelle pene della reclusione rispettivamente di anni 14 per R.S., anni 16 per Z.P. ed anni 18 per G.S. ritenendo le già concesse attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti.

2. Nell'esaminare i motivi di appello la corte di Assise di appello ha, in premessa, ricostruito la complessa vicenda oggetto delle imputazioni, sulla base del materiale probatorio raccolto, costituito, oltre che da documentazione e dichiarazioni testimoniali, da informazioni ricavate dai tabulati telefonici e dalle risultanze dell'attività di intercettazione telefonica e ambientale eseguita in altro procedimento penale per plurimi delitti di falso e truffa commessi al fine di ottenere risarcimenti assicurativi ed erogazioni previdenziali attraverso false denunce di sinistri stradali e incidenti avvenuti sul luogo di lavoro.

Secondo la conforme ricostruzione dei giudici del merito, l'interruzione della gravidanza di R.S., verificatisi la sera del (Omissis), e la morte del prodotto del concepimento rappresentano gli eventi conclusivi di un "piano voluto, ponderato e meditato da tutti gli imputati", che ha preso avvio per volere della R. e dell'amica F.N., già alla fine del mese di aprile dell'anno 2012, e che, a partire dei primi giorni del mese di maggio, si è arricchito del contributo determinante di Z. e del medico in servizio presso l'ospedale di (Omissis), G..

In ordine cronologico le tappe fondamentali della vicenda son state sintetizzate nei termini che seguono.

- Alla fine del mese di aprile del 2012 F.N. incontrava l'operatore sociosanitario, N.C., presso il bar gestito dal compagno della F. ma di proprietà di Z.P., chiedendogli informazioni sulla possibilità di una sua amica, la R., incinta da più di tre mesi, di praticare in ospedale l'interruzione di gravidanza. N. informava la F. che l'aborto dopo il terzo mese non poteva essere eseguito in ospedale perché illegale.

- Nei giorni 1 e 3 maggio G., su sollecitazione di Z., contattava telefonicamente la F. e la R.; quest'ultima, immediatamente dopo l'ultima telefonata con il medico, richiamava, a sua volta la F. con la quale aveva una lunga conversazione.

- Il 3 maggio, qualche ora dopo i contatti telefonici con la F. e G., la R. si recava presso il pronto soccorso dell'ospedale di (Omissis) riferendo ai sanitari di essere rimata ferita a causa di un incidente stradale e di lamentare dolori addominali. Sottoposta a visita, veniva riscontrato il regolare decorso della gravidanza, di cui veniva annotato l'inizio in coincidenza con l'ultima mestruazione del 22 novembre 2011, nonché le condizioni di pieno benessere del feto.

- Dal 3 al 6 maggio la R. rimaneva ricoverata nello stesso ospedale dove era in servizio G., sorpreso in una data imprecisata ma anteriore al (Omissis), da un ostetrica subito dopo avere trafugato dalla medicheria un farmaco abortivo il Cervedil, lo stesso che il G., qualche mese dopo, nel luglio, aveva proposto ad altra donna incinta, S.F., ricoveratasi per simulare lesioni cagionatale da un falso incidente stradale nell'ambito di una truffa alla compagnia di assicurazione, al fine di provocare l'interruzione di gravidanza da ascrivere tra gli effetti del sinistro e lucrare un più ingente indennizzo.

- Dal 5 maggio i contatti e le telefonate tra F.N., Z.P. e G.S., spesso seguiti da lunghe conversazioni tra la F. e la R., si intensificano.

- La mattina del 5 maggio, grazie all'intermediazione di Z., F. e G. avevano un primo incontro de visu.

- Nei giorni 8, 9 e 10 maggio, in più conversazioni la F., Z. e G., sia pure con molta cautela, parlavano, sia per telefono che con messaggi, della necessità di non procrastinare ma di risolvere il prima possibile il comune problema rappresentato dall'interruzione della gravidanza della R., che proprio il 10 maggio aveva superato l'età gestazionale massima oltre la quale l'aborto non è più praticabile ( G. fa presente alla F. di avere individuato "l'unico modo per stopparsi che è anche ottimo" incaricandola di informare Z. perché l'operazione doveva essere definita entro la sera perché i "termini massimi erano agli "estremi").

- Nei giorni successivi i contatti telefonici fra Z. e F. e fra F. e R. proseguivano.

- La sera del 15 maggio venivano eseguite sulla R. le pratiche abortive. Per tale ragione i contatti telefonici fra la R. e la F., assai intensi nel corso della mattina, cessavano dalle 18.11 alle 23.30 e la F. si relazionava ripetutamente con persone in grado di fornire consigli medici (telefonava non solo l'operatore sanitario N. ma, a partire dalle 17.13, per tre volte al centralino dell'ospedale) e con Z. così interessato all'operazione in corso da essere contattato più volte specialmente dalle 20.48 alle 21.55, arco temporale in cui era avvenuto il travaglio ed il parto della R..

- Alle 21.40 la R. e la F. giungevano insieme presso il Pronto soccorso dell'ospedale di (Omissis) dove i sanitari che per primi visitavano la R. avevano modo di notare "in mezzo alle gambe un feto nato pretermine perfettamente conformato ed attaccato al cordone ombelicale".

- Nella qualità di medico di turno al pronto soccorso interveniva G., il quale constatava la morte del feto senza tentare manovre rianimatorie e disponeva il ricovero della R. presso il reparto di ginecologia dove si verificava in modo spontaneo e completo l'espulsione della placenta (c.d. secondamento del parto);

- La R., in sede di anamnesi, riferiva alla ginecologa di turno, Dott.ssa P., di essere rimasta vittima di un incidente stradale, provocato dalla condotta del conducente di un veicolo diverso da quello a bordo del quale viaggiava, e di essere stata costretta, dopo essere riuscita a risalire dalla scarpata dove era precipitata l'auto, a chiedere aiuto per telefono ad un'amica, la F. che, prontamente intervenuta sul posto, l'aveva accompagnata con la sua automobile in ospedale.

- La Dott.ssa P. sollecitava immediatamente l'intervento della polizia giudiziaria, insospettita dall'inverosimiglianza della versione fornita dalla R. e dello stridente contrasto tra le ottime condizioni fisiche di quest'ultima e gli eventi traumatici riferiti nonché dalle modalità con cui era avvenuta l'espulsione del feto del tutto incompatibile con un aborto causato da un improvviso evento traumatico ma, al contrario, provocata da un vero e proprio travaglio di parto al quale era seguito in maniera fisiologica, spontanea e completa il secondamento.

- La F. non riusciva ad indicare ai Carabinieri, portatisi al Pronto soccorso, il luogo in cui aveva soccorso l'amica ed entrava in uno stato di fibrillazione al punto da chiedere di ritornare in ospedale dove G. redigeva un certificato attestante il suo stato di ansia che impediva la sua collaborazione nella prosecuzione delle indagini.

- Nei giorni successivi i contatti frenetici tra gli imputati si interrompevano drasticamente.

2.2. Alla luce delle indicazioni fornite dalla ginecologa P., degli accertamenti autoptici sul feto nonché delle convergenti conclusioni dei consulenti delle parti e dei periti nominati nel dibattimento di primo grado è circostanza pacifica ed incontestata che l'interruzione della gravidanza di R.S., con il conseguente decesso del feto prematuramente espulso, non è stata cagionata dall'incidente stradale cui aveva nell'immediatezza fatto riferimento la R., ma si è verificata a causa ed in conseguenza delle manovre meccaniche di "pinzamento", realizzate con l'ausilio di uno strumento chiamato "pinza di Martin" mediante le quali è stata dilatato il collo dell'utero così da indurre le contrazioni.

Secondo la Corte distrettuale, dai medesimi accertamenti ed in particolare dalle risultanze della perizia collegiale eseguita dallo specialista in ostetricia e ginecologia prof. C.N. e dallo specialista in anatomia patologica Dott. R.A., avvalendosi degli ausiliari prof. F.R., anatomopatologo, e del medico legale G.P. risulta dimostrato, con altrettanta certezza, che:

- la gravidanza di R.S. era iniziata il 21 novembre 2011 (come riferito dall'interessata nella prima visita in ospedale il 27 gennaio 2012 e ripetuto nelle visite successive) ed aveva avuto un decorso regolare (come confermato da tutti gli esami ecografici);

- il feto al momento dell'induzione del parto si trovava in una condizione di totale benessere;

- l'espulsione del feto è avvenuta in ambiente domestico in cui non era possibile prestare attività specialistiche, rianimatorie ed assistenziali necessarie per mantenerlo in vita;

- il feto espulso aveva, secondo il metodo di calcolo del cosiddetto regolo ostetrico che individua l'inizio della gravidanza con il primo giorno dell'ultima mestruazione, un'età gestazionale di 24 settimane + 4 giorni;

- l'effettivo sviluppo e il livello di maturità del feto erano, alla luce delle analisi e agli esami compiuti dai periti, perfettamente compatibili con l'età gestazionale calcolata in astratto sulla base della data dell'amenorrea;

- alla data in cui la R. si è volontariamente sottoposta alle manovre di interruzione di gravidanza, il feto di oltre 24 settimane di età gestazionale aveva raggiunto, secondo i criteri della scienza medica indicati nelle carte di Firenze e di Roma la "possibilità di vita autonoma" in presenza della quale la L. n. 194 del 1978, art. 7, comma 3, a prescindere dalla manifestazione di capacità respiratoria extrauterina, rende obbligatoria l'adozione di ogni misura idonea a rianimarne e salvaguardarne la vita nel caso in cui si verifica o uno spontaneo parto prematuro o sia necessaria l'interruzione della gravidanza a causa di un grave pericolo per la vita della donna;

- la morte del feto si è verificata non prima dell'inizio del travaglio e a sacco chiuso, a causa di un improvviso gasping respiratorio e conseguente inalazione di liquido amniotico, ma dopo l'inizio del travaglio e a cagione dello stesso, quindi allorquando il prodotto del concepimento aveva già acquisito autonomia di vita, divenendo essere nascente che passa dalla vita uterina alla vita extrauterina.

2.3. In conclusione, ritengono i Giudici del merito che ciascun imputato abbia fornito, in puntuale esecuzione dell'inziale progetto criminoso, un contributo causale determinante ai fini della consumazione in concorso del reato omicidiario loro ascritto e dello strumentale reato di falso ideologico:

- la R. si è consapevolmente e volontariamente sottoposta alle manovre meccaniche traumatiche idonee ad innescare il travaglio a seguito del quale ha partorito il feto che aveva in grembo causandone la morte;

- la F., dopo essere stata in costante contatto con la R. già dalle prime ore del mattino a partire dalle ore 18, ha assistito alle manovre abortive poste in essere a casa dell'amica e, a parto avvenuto, l'ha portata in ospedale, avvalorando la tesi, strumentale all'occultamento dell'aborto volontario, di averla soccorsa dopo un incidente verificatosi poco tempo prima.

- Z., oltre ad avere messo in contatto la R. e la F. con G., ha personalmente seguito tutte le fasi di esecuzione del piano, rimanendo in continuo collegamento telefonico con la F. non solo nelle ore fatidiche in cui sono state eseguite le manovre abortive, ma anche durante il ricovero ospedaliero della R.; in quest'ultimo frangente, aveva supportato la F., costretta a fronteggiare l'imprevisto evento dell'arrivo dei carabinieri che le chiedevano conto di un incidente mai verificatosi.

- G., oltre ad avere fornito tutte le istruzioni necessarie per l'esecuzione delle pratiche abortive, operando quale medico di turno presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale di (Omissis) ha immediatamente avallato la tesi del falso incidente statale diagnosticando la morte del feto, senza nemmeno compiere elementari verifiche e non ponendo né alla R. né alla F. alcuna domanda volta a chiarire la causa e le modalità del tragico evento, e prontamente redigendo il verbale di pronto soccorso e i referti necessari per dare al racconto delle due complici un convincente supporto probatorio.

3. La Corte di assise di appello, in accoglimento dell'eccezione sollevata da F.N. ha dichiarato nulla la sentenza emessa dalla Corte di assise di Cosenza, in data 17 febbraio 2020 ed ha rimesso gli atti al giudice del primo grado.

Osserva a ragione della decisione che la Corte di assise, preso atto che la F. era stata dichiarata irreperibile nella fase delle indagini preliminari in occasione della notifica dell'avviso ex art. 415 bis c.p.p. e che era rimasta assente per tutto il dibattimento, avrebbe dovuto disporre la sospensione del processo e provvedere agli altri adempimenti previsti dagli artt. 420-quater e 420-quinquies c.p.p.. Si era, invece, limitata a disporre nuova notifica del decreto ex art. 429 c.p.p. al difensore in applicazione dell'art. 159 c.p.p.. La pacifica mancata ricezione da parte dell'imputata di una valida notifica dell'atto introduttivo del processo aveva determinato una nullità assoluta della sentenza appellata che doveva, pertanto, essere dichiarata ex art. 604 c.p.p., comma 4, con trasmissione degli atti relativi alla posizione processuale della F. alla Corte di assise, cui comunque era demandata la verifica sulla regolare instaurazione dell'udienza preliminare.

4. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso, per il tramite dei rispettivi difensori di fiducia, gli imputati F.N., R.S., Z.P. e G.S..

4.1. F.N. ha articolato due motivi.

4.1.1. Con il primo deduce violazione di legge processuale, in relazione agli artt. 179,157,169 e 419 c.p.p., nonché vizio di motivazione.

La Corte di assise di appello avrebbe dovuto trasmettere gli atti al Giudice dell'udienza preliminare e non alla Corte di assise.

L'imputata non solo era stata destinataria della notificazione della richiesta di rinvio a giudizio e dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare eseguita in violazione degli artt. 157 e 169 c.p.p. - che, nel disciplinare la prima notificazione all'imputato non detenuto che non ha dichiarato o eletto domicilio, impongono di accertare il luogo di residenza o dimora del destinatario - ma era stata, già in precedenza, nella fase delle indagini preliminari, dichiarata illegittimamente irreperibile non avendo neanche il pubblico ministero compiuto tale indispensabile accertamento sul suo luogo di residenza.

4.1.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge processuale in relazione agli artt. 157,419 e 420-quater c.p.p..

La procedura seguita per notificare gli atti di cui all'art. 419 c.p.p. ha disatteso anche la disciplina prevista nell'art. 420-quater c.p.p. In tema di assenza, applicabile al procedimento ai sensi della L. 28 aprile 2014, n. 67, art. 15-bis in ragione dell'intervenuta emissione del decreto di irreperibilità.

4.2. G. ha articolato tre motivi.

4.2.1. Con il primo denuncia violazione degli artt. 40,110,575 c.p. e art. 577 c.p., comma 1, e dell'art. 192c.p.p., comma 2, e art. 533 c.p.p., comma 1, nonché vizio di motivazione.

Lamenta che la sentenza impugnata, dopo avere escluso qualsiasi responsabilità a titolo di omissione, abbia, comunque, confermato la condanna pur in assenza di un sufficiente quadro indiziario in ordine al suo contributo ex art. 110 c.p. nel cagionare la morte del feto.

Entrambe le pronunce di merito hanno escluso, con accertamento su cui si è formato il giudicato progressivo sostanziale, la sussistenza delle condotte omissive indicate nell'imputazione sicché la tenuta logica della motivazione deve essere misurata solo sull'unica condotta attiva contestata: l'avere indicato le modalità o la pratica da seguire per provocare l'espulsione del feto, avvenuta all'esterno dell'ospedale con pratica etero-indotta mediante intervento meccanico-iatrogeno.

La Corte territoriale, su questo specifico punto e più in generale nella disamina del contributo fornito dal G. quale concorrente morale, ha valorizzato, in via esclusiva, le informazioni fornite dai tabulati telefonici ed il contenuto di alcune conversazioni, telefoniche e ambientali, senza adeguarsi ai rigidi standard probatori indicati dalla giurisprudenza di legittimità anche a Sezioni unite attestandosi su affermazioni meramente assertive e presunzioni.

In mancanza della conoscenza del contenuto delle conversazioni, la mera frequenza dei contatti telefonici di G. con i coimputati può essere valutata quale prova del contributo morale di quest'ultimo solo con il ricorso a congetture o a presunzioni di secondo grado, entrambe inutilizzabili nel giudizio di accertamento della responsabilità penale.

Non può, infatti, escludersi che la R., con la quale il ricorrente non ha mai avuto contatti diretti, si sia determinata autonomamente ad effettuare l'interruzione di gravidanza con modalità operative da lei stessa prescelte.

Ne' in senso accusatorio può essere valorizzata la presenza di G. quale medico di turno del pronto soccorso la sera in cui la R. ebbe a presentarsi con il feto morto se si considera che quest'ultima aveva tenuto le stesse modalità comportamentali già dodici giorni prima quando il G. non era di turno.

4.2.2. Con il secondo motivo denunzia violazione di legge, in relazione all'art. 575 c.p. e L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 19 nonché vizio di motivazione con riferimento all'affermata configurabilità del delitto di omicidio nonostante le risultanze della perizia, correttamente interpretate, abbiano escluso la possibilità di vita autonoma del feto.

La sentenza impugnata, conformandosi a quella emessa in esito al primo grado del giudizio, ha ritenuto configurabile il reato di omicidio sul presupposto di fatto che la morte del feto si sia verificata dopo l'inizio e a cagione del travaglio, senza, tuttavia, confrontarsi con i rilievi difesivi che avevano messo in luce l'incertezza sul momento preciso in cui era avvenuto il decesso del feto.

I periti non avevano in alcun modo chiarito se la morte del feto si era verificata nella fase attiva del travaglio o in quella di latenza o ancora prima; anzi, avevano ritenuto accertate circostanze che militavano in favore della tesi difensiva secondo cui la morte del feto era avvenuta in una fase precedente al travaglio. In tal senso depongono sia l'esame del preparato istologico, che ha accertato il decesso in epoca precedente alla rottura del sacco amniotico, quindi in ambente endouterino, sia la tecnica utilizzata per indurre il travaglio, di tipo meccanico e farmacologico, che determina sin dall'inizio uno stato di sofferenza del feto così acuto da generare il meccanismo asfittico che ne ha cagionato il decesso.

La configurabilità dell'ipotesi di reato meno grave prevista dalla L. n. 194 del 1978, art. 19 è stata esclusa nonostante sia rimasta quanto meno dubbia l'età gestazionale del feto, stimata dai periti tra 23 e 24 settimane, e non sia stata adeguatamente dimostrata la capacità di vita autonoma del prodotto del concepimento.

La Corte distrettuale ha ritenuto superata la ventiquattresima settimana di gestazione ritenendo che il legislatore abbia attribuito rilevanza non ad un concetto giuridico ma ad un parametro medico, che individua come termine iniziale il primo giorno dell'ultima mestruazione, ed abbia inteso la "possibilità di vita autonoma del feto" non come caratteristica soggettiva accertabile con giudizio ex post ed attribuibile ai feti che nascono vivi e manifestano in concreto capacità respiratoria, ma come caratteristica accertabile con valutazione ex ante in tutti i feti che, per l'età gestazionale, decorso della gravidanza, assenza di patologie, hanno chance di vita extrauterina.

Tali asserzioni sono erronee perché fondate su un metodo di calcolo delle settimane di gestazione empirico ed approssimativo (il c.d. regolo ostetrico), anziché sulle conclusioni scientifiche della perizia medico legale C. e R., secondo cui è impossibile determinare l'età di sviluppo del nascituro e la sua conseguente idoneità ad avere vita autonoma fuori dal ventre materno solo partendo dal giorno dell'ultima amenorrea.

Le argomentazioni spese non sono neanche conformi ai criteri indicati dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza Spallone per distinguere il reato di omicidio da quello di cui alla L. n. 190 del 1978, art. 19. In tale pronuncia è stato precisato che è sempre necessario accertare se il nascituro, alla data dell'interruzione della gravidanza, ha acquistato chance di sopravvivenza fuori dall'utero materno perché se difetta tale elemento è sempre configurabile il reato di interruzione volontaria della gravidanza fuori dei casi consentiti dalla legge.

La determinazione dell'età gestionale in 24 settimane + 4 giorni è un errore frutto di una valutazione disancorata dal dato scientifico fornito dalla perizia, che la Corte territoriale ha ripetutamente affermato di avere condiviso. Secondo l'età gestazionale determinata dai periti il feto non aveva alcuna possibilità di vita autonoma al di fuori dell'alveo materno.

La sentenza ha trascurato l'accertamento peritale anche nella parte in cui ha evidenziato che il feto non aveva la maturità necessaria a sopravvivere a causa del travaglio indotto.

4.2.3. Con il terzo motivo denunzia violazione di legge in relazione all'art. 479 c.p. e art. 129 c.p.p., comma 2, nonché vizio di motivazione.

Lamenta la mancata assoluzione nel merito dal reato di falsità ideologica in atto pubblico per insussistenza del fatto.

La Corte territoriale è pervenuta alla declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione sul presupposto che l'imputato abbia redatto una falsa diagnosi. In realtà -, come si evince dal referto allegato al ricorso, G. si è limitato a trascrivere quanto riferito dalla paziente.

4.3. R.S. ha articolato più motivi.

4.3.1. Con il primo denunzia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 110,575 e 577 c.p. e art. 521 c.p.p. nonché vizio di motivazione.

Lamenta che la sentenza impugnata abbia violato il principio di necessaria correlazione con l'imputazione ed abbia seguito un percorso motivazionale contraddittorio, violando il diritto di difesa e i canoni di valutazione della prova di cui all'art. 192 c.p.p..

La Corte di assise appello, pur condividendo la tesi accusatoria recepita dal primo Giudice secondo cui il decesso del feto era stato l'evento conclusivo di un progetto condiviso da tutti gli imputati per simulare il sinistro stradale e adire la compagnia assicurativa per il risarcimento, ha individuato i ruoli dei singoli imputati in contrasto con le condotte descritte nel capo di imputazione. In particolare, ha attribuito alla R. il ruolo, non indicato nell'editto di accusa, di organizzatrice e promotrice dell'intero disegno criminale per di più in assenza di argomentazioni logiche a sostegno del mutamento.

La sentenza impugnata è incappata in più errori ed omissioni.

Ha inserito tra i testimoni sentiti in dibattimento l'operatore sanitario N.C. che non risulta mai escusso nel giudizio.

Ha attribuito valenza indiziante sia all'episodio del furto del farmaco abortivo ascritto a G., nonostante sia rimasto privo di precisa collocazione temporale, sia ad una telefonata tra G. e la F., asseritamente avvenuta in occasione del primo ricovero della R..

Ha ignorato che dal servizio di intercettazione telefonica sulle utenze in uso alla F. e alla R. non è emerso nulla di rilevante se non l'esistenza tra le due di un rapporto di amicizia.

Ha valutato come anomala e compromettente la condotta tenuta da G. una volta accertato, quale medico del pronto soccorso, la morte del feto ignorando che era stato G. a chiamare i Carabinieri e a sollecitare tutti i necessari accertamenti ginecologici sulla madre e sul feto.

Ha, più in generale, posto a fondamento dell'accertamento di responsabilità indizi dal carattere neutro mai gravi e precisi, mentre ha trascurato significativi elementi a discarico, a cominciare dall'esito della perizia medico legale, pretendendo dagli imputati, in palese violazione della presunzione di innocenza, spiegazioni alternative a quella accusatoria del tutto inutili, rimanendo comunque fermo il dato fattuale pacifico che la R. aveva scelto di sottoporsi ad una interruzione volontaria di gravidanza oltre i termini stabiliti dalla legislazione vigente, inizialmente cercando di mascherarlo con il riferimento ad un inesistente incidente stradale.

4.3.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all'art. 575 c.p. e alla L. n. 190 del 1978 e vizio di motivazione per mancata assunzione di prova decisiva.

La Corte territoriale ha attribuito eccessiva rilevanza alle propalazioni dei testimoni e non ha valutato correttamente le risultanze scientifiche. Conseguentemente, ha errato nella qualificazione giuridica dei fatti accertati non prestando la necessaria attenzione ai numerosi e specifici rilievi difensivi.

Ha trascurato il contenuto della perizia e, soprattutto, i chiarimenti forniti dai periti nel corso dell'esame dibattimentale (allegato al ricorso ai fini dell'autosufficienza), i quali, in questa sede processuale, hanno precisato, senza incertezze, che il feto espulso dalla R., alla ventiduesima settimana di gestazione e non alla ventiquattresima ed a seguito di induzione meccanica di travaglio abortivo, non aveva mai respirato. Ne' sono stati riscontrati elementi tali da far ritenere vitale il feto nei momenti di pre-espulsione o comunque indicativi della capacità di vita autonoma in una fase post-espulsione.

I periti non hanno risposto al quesito relativo all'epoca della morte del feto rispetto alla rottura del sacco amniotico limitandosi ad individuare situazione potenziale di notevole stress come la emorragia retro placentare causata dalla pratica abortiva.

Erroneamente la vicenda in esame è stata considerata speculare a quella oggetto della sentenza Spallone in cui i feti abortiti avevano un'età gestazionale superiore alla ventiquattresima settimana ed in cui almeno uno aveva respirato autonomamente. Il feto della R., invece, è morto quando ancora era all'interno dell'utero e non ha mai respirato. In assenza di vitalità del feto non rileva che l'aborto sia stato praticato in assenza di un grave pericolo di vita per la donna.

Non è stato fatto buon governo dei principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità per distinguere il reato di interruzione di gravidanza di cui alla L. n. 194 del 1978, art. 19 da quello di omicidio.

Il criterio distintivo è stato ormai pacificamente individuato nell'inizio del travaglio facendo coincidere la transizione dalla vita intrauterina a quella extra uterina con la rottura del sacco amniotico.

Nel caso in esame, in cui il feto è morto in utero precedentemente alla rottura delle membrane ed ancora prima di impegnare il canale uterino e non sono stati riscontrati elementi di natura scientifica né idonei a far ritenere vitale il feto nei momenti di pre espulsione né indicativi della sua capacità di vita autonoma in una fase post espulsione, la condotta degli imputati doveva essere qualificata ai sensi della L. n. 194 del 1978, art. 19 che sanziona tutte le condotte poste in essere in un momento precedente il distacco del feto dall'utero materno a prescindere dalle condizioni che rendono legittima l'interruzione della gravidanza previste dagli artt. 6 e 7 della legge da ultimo citata.

In ogni caso, l'incertezza del dato scientifico sia sull'età gestazionale del feto, cui la Corte ha fatto discendere automaticamente la certezza di capacità di vita autonoma del feto, sia sul preciso momento della sua morte all'interno dell'utero, escludono, sul piano giuridico, la possibilità di qualificare la condotta come integrante il reato di omicidio per la mancanza del bene protetto, quanto meno in osservanza del fondamentale canone di giudizio della condanna dell'al di là di ogni ragionevole dubbio di cui all'art. 533 c.p.p..

4.3.3. Con il terzo motivo denunzia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 43 e 575 c.p..

La Corte distrettuale non ha adeguatamente confutato la tesi difensiva secondo cui l'imputata non ha mai avuto la consapevolezza e la volontà di uccidere ma solo quella di interrompere la gravidanza. Anzi ha espressamente affermato che la R. ha agito con l'elemento soggettivo tipico della fattispecie di cui alla L. n. 194 del 1978, art. 19, decidendo di interrompere la gravidanza senza l'osservanza dei limiti previsti.

La voluta pratica abortiva, realizzata in un momento precedente al distacco del feto dall'utero materno, è stata causa dell'indotto travaglio che, a sua volta, ha determinato il decesso del feto

4.3.4. Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 116 c.p., comma 2.

La sentenza impugnata non ha affrontato la richiesta difensiva di concedere all'imputata l'attenuante prevista in favore del concorrente animato dall'esclusiva volontà di commettere un delitto, l'interruzione volontaria di gravidanza, meno grave di quello concretamente posto in essere, omicidio doloso, non previsto anche a causa di mancanza di diligenza in materia medica.

4.3.5. Con il quarto motivo deduce vizio di motivazione in ordine all'applicazione della regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio.

Sostiene il ricorrente che la condanna, anziché fondarsi su evidenze probatorie certe in grado di superare il ragionevole dubbio, costituisca il frutto di ricostruzioni personalistiche.

4.4. Z.P. ha articolato cinque motivi, alla cui esposizione ha premesso una sintesi, con cui stigmatizza la diversità della condotta concorsuale contestata nel capo di imputazione rispetto a quelle accertate nelle due sentenze di merito.

4.4.1. Con il primo deduce vizio di motivazione per inosservanza sia delle regole di valutazione contenute nell'art. 192 c.p.p., primi tre commi, con riferimento tanto alle prove indiziarie quanto alle dichiarazioni provenienti dal coimputato G., sia per l'utilizzo di argomentazioni congetturali nonché per omessa risposta ai motivi di appello con conseguente inosservanza del principio devolutivo.

Denunzia, altresì, travisamento del contenuto dei tabulati del traffico telefonico nonché delle dichiarazioni rese dal coimputato G., in dibattimento e nelle conversazioni captate, nonché della documentazione relativa ai procedimenti penali pendenti nei suoi confronti e della conversazione telefonica intercorsa alle ore 23.37 del giorno 8 maggio 2012 tra G.S. e l'avv. Berardi.

Evidenzia, con argomentazioni estremamente articolate ed analitiche, numerose criticità ed incongruenze del percorso argomentativo della sentenza impugnata e, soprattutto, la mancanza di convincenti addentellati con il compendio probatorio acquisito ed il ricorso a presunzioni al fine di sopperire all'inidoneità degli elementi indiziari a suffragare l'impianto accusatorio.

Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non ha, adeguatamente ed esaustivamente, esaminato, nonostante la loro decisività i temi relativi:

- alla compatibilità del ruolo di intermediario attribuito a Z. quale trait d'union tra G. e F. con l'accertata esistenza di numerosi contatti telefonici precedenti all'iniziativa di Z.;

- alla reale causa dell'interruzione dei rapporti tra Z. e G. a partire dal 7 maggio, con successivi e ripetuti rifiuti di Z. di incontrare il coimputato, non potendo al riguardo utilizzarsi la spiegazione fornita da G. rimasta priva di riscontri;

- all'identificazione nella F. della "signora" che Z. ha chiesto a G. di incontrare nei pressi di un bar, solo congetturalmente individuato nel Bar (Omissis) gestito di fatto dalla F. in un locale di proprietà di Z.;

- al reale motivo del risentimento apertamente manifestato dal G. e dalla compagna nei confronti di Z. nella telefonata del giorno 8 maggio;

- all'assenza nel verbale della conversazione del giorno 8 maggio tra F. e G. dell'espressione considerata decisiva ("ottimo modo per stopparsi"), carenza non superabile con le ammissioni implicite di G. in sede di esame dibattimentale;

- all'inerenza delle questioni trattate da Z. e G. nelle conversazioni intercettate a questioni diverse dal programmato aborto della R., a cominciare dalle condizioni di salute dello zio di Z.;

- all'alibi fornito dall'imputato troppo sbrigativamente valutato, pur in presenza di convincenti conferme, come "costruito" anziché come un alibi "fallito".

4.4.2. Con il secondo motivo denunzia vizio di motivazione in relazione all'art. 40 c.p., comma 2, art. 43 c.p., comma 1, e art. 110 c.p..

La Corte territoriale si è ingiustificatamente discostata dal consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale il giudice deve necessariamente individuare, anche in presenza della contestazione del concorso di persone, l'autore o il coautore dell'azione materiale tipica.

Non ha indicato in modo adeguato quale sarebbe stato la concreta e specifica condotta attraverso la quale Z. avrebbe fornito, successivamente alla fase organizzativa del reato di procurato aborto illegale, anche un ulteriore contributo causalmente rilevante per la consumazione del nuovo e diverso reato di omicidio commesso dalla R. in concorso con medici rimasti ignoti dopo l'inizio del travaglio, anche con l'omissione delle cure necessarie per la sopravvivenza del feto.

Neanche il dolo è stato approfondito, se non attribuendo rilevanza ad una conversazione dalla quale è stata congetturalmente desunta la consapevolezza di Z. sul superamento da parte del feto dell'età gestazionale idonea ad interrompere legalmente la gravidanza.

Non può neanche ipotizzarsi che il ricorrente avesse la consapevolezza che il feto, a prescindere dall'età gestazionale, avrebbe avuto concrete possibilità di superare il travaglio indotto.

4.4.3. Con il terzo motivo denunzia erronea qualificazione giuridica del fatto per erronea applicazione dell'art. 575 c.p. e della L. n. 194 del 1978, art. 19 e dell'art. 41 c.p., commi 2 e 3.

La Corte di assise di appello ha fornito una motivazione difforme dai principi espressi dalla pur richiamata sentenza della Corte di cassazione nel processo Spallone in tema di nesso causale tra condotta concorsuale ed evento morte del feto. Si è limitata ad ipotizzare, sulla scorta di conversazioni tra il ricorrente e la F., il cui contenuto non è noto, un suo concorso morale anche dopo l'induzione del travaglio ovvero dal momento in cui poteva essere fornito un contributo agevolatore all'omicidio.

Non possono valorizzarsi i pregressi contatti telefonici, anche se ricondotti all'organizzazione dell'aborto illegale, non avendo alcuna efficacia causale sulla successiva e diversa condotta della R., la quale avrebbe potuto decidere autonomamente di mantenere in vita il feto.

La condotta deliberata ed eseguita dalla R. dopo l'inizio del travaglio ha quindi interrotto il contributo causale di Z. ai sensi dell'art. 41 c.p. trattandosi di fatto illecito altrui sopravvenuto da solo sufficiente a determinare l'evento lesivo.

4.4.4. Con il quarto motivo deduce vizio di motivazione in relazione all'accertamento della capacità di vita autonoma del feto al momento dell'induzione del travaglio e al nesso di causalità tra condotta concorsuale ascritta all'imputato ed evento mortale.

La Corte di assise di appello ha ritenuto il feto vitale al momento dell'inizio del travaglio in assenza di approfondimenti tecnici e scientifici sul punto. E' altrettanto plausibile, alla luce delle valutazioni dei periti medico legali, che il travaglio attraverso la somministrazione di farmaci antiabortivi sia stato indotto quando il feto, la cui età gestazionale è rimasta incerta e che poteva pertanto essere inferiore alla 24 settimana, era già morto prima dell'inizio dell'espulsione.

D'altra parte, le uniche informazioni sulla salute del feto durante la gravidanza provengono dalla R., la cui attendibilità non è stata adeguatamente vagliata.

4.4.5. Con il quinto motivo deduce vizio di motivazione in relazione agli artt. 110 e 479 c.p..

Non è stato esaminato in modo esaustivo il motivo di appello relativo alla mancata acquisizione di elementi dimostrativi della condotta di Z. quale concorrente morale.

4.4.6. Con motivi aggiunti tempestivamente depositati, ha ribadito la fondatezza delle censure dedotte nel ricorso.

In particolare, ha evidenziato che la sentenza impugnata:

- ha desunto l'adesione di Z. al progetto abortivo realizzatosi il successivo 15 maggio dalla prosecuzione dei rapporti tra Z. e G. anche dopo il giorno 8 maggio 2012 nonostante da più conversazione telefoniche si desuma chiaramente la loro drastica interruzione a seguito della scelta di Z. di disertare un incontro e non rispondere alle successive chiamate telefoniche di G. - ha individuato quale "causale dei delitti oggetto del presente processo" la truffa assicurativa ton tante "nessuno degli imputati si è mai attivato in tal senso e nessuna azione di risarcimento è stata mai avanzata nel termine biennale previsto dalla legge";

- ha ritenuto Z. "soggetto avvezzo a consumare truffe assicurative nonostante non sia mai stato condannato per reati di questo tipo;

- non ha adeguatamente confutato la ricostruzione alternativa secondo cui R.S. si era determinata autonomamente ad effettuare l'interruzione della gravidanza con modalità operative da lei stessa prescelte e non mediante il progetto abortivo ideato dal Dott. G.;

- ha tratto dalla perizia medico-legale disposta dalla Corte di primo grado informazioni in realtà non presenti, atteso che i periti nel corso del loro esame non avevano specificato se l'aborto del feto si era verificato prima oppure dopo l'inizio del travaglio e se l'epoca della sua morte era successiva o precedente rispetto alla rottura del sacco amniotico;

- ha ignorato che i periti avevano ritenuto preferibile la tesi secondo cui la manovra di pinzamento aveva causato l'interruzione della gravidanza a sacco amniotico chiuso e pertanto immediatamente prima dell'inizio del travaglio, aggiungendo che, in ogni caso, se il travaglio vi era stato aveva portato all'espulsione di un feto già morto e non in condizioni di vitalità e di raggiungimento di un grado di maturità sufficienti ad assicurargli la possibilità di avere una vita autonoma al di fuori dall'utero materno.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Ritiene il Collegio che la sentenza impugnata debba essere annullata senza rinvio nei confronti di G.S. perché i reati ascrittigli sono estinti per morte dell'imputato e che i ricorsi di F.N., R.S. e Z.P. debbano essere rigettati.

1. Il ricorso di G.S. è divenuto improcedibile per la sopravvenuta morte dell'imputato; la sentenza impugnata va, dunque, annullata senza rinvio.

Invero, nelle more del procedimento, in data 25 febbraio 2022, è intervenuto il decesso dell'imputato, come risulta dal certificato di morte depositato, rilasciato in data (Omissis), dal Comune di (Omissis) - (Omissis). Per l'effetto, i reati contestati al medesimo sono estinti, ai sensi dell'art. 150 c.p., con la conseguenza che la sentenza impugnata, per quanto riguarda le statuizioni relative, deve essere annullata senza rinvio.

1.2. Al riguardo, pur registrandosi, nella giurisprudenza di legittimità, l'uso di diverse formule di dispositivo in caso di morte dell'imputato - dichiarazione di improcedibilità del ricorso (Sez. U, n. 30 del 25/10/2000, Poggi Longostrevi, rv. 217245; Sez. 3, n. 8989 del 09/02/2011, Neri, Rv. 249612), dichiarazione di inammissibilità del ricorso (Sez. 6, n. 27309 del 03/06/2010, Ferruzzi, Rv. 247782, in una ipotesi di ricorso del pubblico ministero avverso sentenza di assoluzione dell'imputato medio tempore deceduto) - appare preferibile la pronuncia di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, secondo il disposto di cui all'art. 620 c.p.p., lett. a), (da ultimo Sez. 4, n. 16819 del 20/04/2022, Regazzoni, Rv. 283206 - 01).

1.3. Pertanto, la morte dell'imputato, intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso per Cassazione, impone l'annullamento senza rinvio, con l'enunciazione della relativa causale nel dispositivo, risultando esaurito il sottostante rapporto processuale, ed essendo preclusa ogni eventuale pronuncia di proscioglimento nel merito ex art. 129 c.p.p., comma 2, tanto più quando non risulti dal testo del provvedimento impugnato, come nel caso di specie, l'evidenza (Sez. U, n. 30 del 25/10/2000, Poggi Longostrevi, Rv. 217245).

2. Entrambi i motivi dedotti da F.N., che possono essere esaminati congiuntamente in ragione della connessione delle questioni poste, sono privi di pregio.

L'imputata lamenta che la Corte territoriale, pur rilevando l'invalidità della notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari e dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, perché eseguita, in entrambe le occasioni, con il rito degli irreperibili in assenza delle ricerche previste dagli artt. 157,159 e 169 c.p.p., abbia disposto la regressione del procedimento al primo grado del giudizio e non già nella fase immediatamente precedente all'udienza preliminare, così privandola della facoltà esercitabili solo in tale ultima fase del procedimento.

La decisione della Corte di assise di appello è corretta perché strettamente correlata all'eccezione sollevata dall'imputata che, con i motivi di appello, aveva chiesto dichiararsi la nullità della sentenza della Corte di assise sul rilievo di non avere mai ricevuto notifica del decreto che dispone il giudizio, neanche presenziando alla sua lettura in esito all'udienza preliminare.

Quanto al decreto di irreperibilità emesso nelle indagini preliminari ai fini della notifica dell'avviso ex art. 415 c.p.p., la ricorrente non ha né eccepito la sua nullità né nel giudizio di primo grado, neanche quando era stato esibito dal Pubblico ministero su richiesta della Corte di assise, né in sede di appello, mentre con il ricorso per cassazione ha, per la prima volta ed in termini generici, prospettato la sua emissione in assenza delle previste ricerche senza, tuttavia, allegare circostanze concrete a sostengo.

In siffatta situazione, la Corte di assise di appello non poteva che disporre la regressione del procedimento al giudizio di primo grado non solo in accoglimento dell'eccezione di nullità, relativa al solo decreto che dispone il giudizio (pacificamente notificato in assenza della necessaria ripetizione degli adempimenti funzionali all'emissione di un nuovo decreto di irreperibilità successivo a quello emesso dal pubblico ministero ai fini della notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, divenuto inefficace cfr. a ultimo Sez. 5, n. 50080 del 14/09/2017, Rv. 271540 -), ma soprattutto ed in via preliminare in applicazione dell'art. 604 c.p.p., comma 5-bis, che impone la declaratoria di nullità della sentenza appellata emessa in esito ad un processo in cui non era stata disposta la sospensione prevista dall'art. 420-ter c.p.p. e segg., nei testi precedenti all'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, nonostante l'emersione della condizione di irreperibilità anche di fatto (Sez. 2, n. 29008 del 27/05/2014, Huaco Elias, Rv. 260038 Sez. 3, n. 23906 del 12/05/2016, Patti, Rv. 267384 - 01Sez. 2 -, n. 28726 del 31/05/2022 Amedeo, Rv. 283636 - 01).

Peraltro, nel caso in esame non ricorreva la deroga, prevista per i processi in corso dalla L. n. 67 del 2014, art. 15 bis, comma 2, che consente l'applicazione delle disposizioni vigenti prima dell'introduzione del regime dell'assenza solo se l'imputato, al momento dell'entrata in vigore dell'indicata legge, era stato già dichiarato contumace o comunque era stato destinatario di decreto di irreperibilità. Infatti l'imputata era stata dichiarata irreperibile con decreto emesso dopo il 28 aprile 2015 quando era entrata in vigore la nuova disciplina che, all'art. 604 c.p.p., comma 5 bis, prevede la nullità della sentenza di primo grado ed il rinvio degli atti al giudice di primo grado nel caso di violazione delle disposizioni di cui all'art. 420-ter c.p.p., e segg. (Sez. 2, n. 29008 del 27/05/2014, Huaco Elias, Rv. 260038).

Per opportuna cautela, la Corte di assise, cui sono stati correttamente restituiti gli atti in quanto giudice procedente quando si è verificatà l'accertata nullità, è stata avvisata della necessità di verificare l'integrità del contraddittorio nella fase precedente all'instaurazione dell'udienza preliminare.

3. Il ricorso di R.S. e', nel suo complesso, infondato.

3.1. Il primo ed il quarto motivo non superano il vaglio di ammissibilità proponendo censure formulate in termini generici ed aspecifici o comunque non consentite perché, pur formalmente strutturate come denunzia di vizi motivazionali, si risolvono nella sollecitazione di apprezzamenti da sovrapporre a quelli, non manifestamente illogici, dei giudici del merito, operazione preclusa in questa sede.

3.1.1. Va ricordato, al riguardo, che al giudice della legittimità è riservato il sindacato, oltre che sulle violazioni di legge, sull'apparato motivazionale della decisione al fine di vagliarne la logicità e completezza ma sempre nei limiti tracciati dai profili di censura dedotti che devono confrontarsi criticamente con le argomentazioni e non limitarsi ad affermazioni generiche. Sono, invece precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601 - 01). Quando si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, il ricorrente non può limitarsi ad addurre l'esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085 - 01; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482 - 01; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, M., Rv. 234148).

Non è necessario che la sentenza emessa in esito al giudizio di appello fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole osservazioni o rilievi contenuti nell'atto d'impugnazione. E' sufficiente che il suo discorso giustificativo indichi le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostri di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell'appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (ex plurimis Sez., 1, n. del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260841 - 01 Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Cammi Rv. 277593 - 01).

Nel controllo della motivazione, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento: ciò in quanto l'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non consente alla Corte di una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali. Anche a seguito della modifica apportata all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (ex plurimis più di recente Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217 - 01).

Se il controllo sui vizi di motivazione ha ad oggetto la prova indiziaria, esso non può riguardare la scelta delle massime di esperienza - costituite da giudizi ipotetici a contenuto generale, indipendenti dal caso concreto, fondati su ripetute esperienze, ma autonomi da queste - ma deve limitarsi a verificare se la decisione abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sull'"id quod plerumque accidit", ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima plausibilità (Sez. 1, n. 16523 del 04/12/2020, dep. 2021, Romano Rv. 281385 - 01).

Il travisamento della prova dichiarativa è deducibile solo se ha un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto con conseguente esclusione della rilevanza di presunti errori da questi commessi nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012, dep. 2013, Maggio, Rv. 255087 - 01; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, dep. 2018, Grancini, Rv. 272406 - 01).

3.1.2. In esito ad un controllo ancorato ai rammentati principi può tranquillamente affermarsi che la sentenza impugnata, anche aderendo alle conformi valutazioni di quella di primo grado, ha seguito un percorso motivazionale tutt'altro che illogico o irrazionale, affrontando tutte le questioni riproposte in questa sede dalla difesa della ricorrente e superando i rilievi con argomentazioni puntuali e plausibili e senza incorrere nelle denunciate omissioni o travisamenti.

Non ha utilizzato prove inesistenti (l'operatore sanitario N.C. risulta essere stato esaminato in dibattimento, cfr. pag. 15 sentenza della Corte di assise) ed ha attribuito valenza indiziante a episodi accertati (il furto del farmaco abortivo ascritto a G. nonché la condotta superficiale e sbrigativa tenuta da quest'ultimo in occasione della visita al Pronto Soccorso della R. subito dopo l'espulsione del feto, in netto contrasto con quella della ginecologa le cui perplessità avevano reso inevitabile l'intervento della polizia giudiziaria), escludendone giustificatamente altri (le risultanze del servizio di intercettazione telefonica sulle utenze in uso alla F. e alla R. perché non contenenti dialoghi relativi alla vicenda contestata), senza trascurare le prove scientifiche a cominciare dalla perizia medico legale eseguita in dibattito ai sensi dell'art. 508 c.p.p., esaminata in ogni aspetto rilevante, e le prospettazioni alternative fonte dagli imputati. A quest'ultimo proposito, ha considerato del tutto inattendibile la tesi tardivamente addotta dalla R. secondo cui l'indicazione dell'incidente stradale quale causa dell'interruzione volontaria di gravidanza costituiva un espediente reso necessario dall'esigenza di occultare la scelta, penalmente sanzionata, di ricorrere all'aborto oltre i termini stabiliti dalla legislazione vigente, perché del tutto incompatibile con i rapporti coltivati nelle settimane precedenti con i coimputati ed in particolare con Z. e G..

Non è ravvisabile alcuna violazione del principio di correlazione con l'imputazione.

La Corte di assise di appello ha definito la condotta concorsuale dell'imputata all'interno della cornice necessariamente più generica, indicata dalla contestazione.

3.2. Il secondo motivo, relativo alla valutazione delle risultanze di carattere scientifico e alla qualificazione della condotta come idonea ad integrare il reato di omicidio anziché quello, meno grave, di interruzione volontaria di gravidanza previsto dalla L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 19, comma 3, non è fondato.

Sostiene la difesa della R. che, alla luce degli accertamenti e delle valutazioni contenute nella perizia medico legale e, soprattutto nell'esame dibattimentale dei periti, è rimasto accertato che, a seguito delle manovre abortive di tipo meccanico, il feto, alla ventiduesima settimana di gestazione, era morto prima del distacco dall'utero materno, quando ancora il sacco amniotico era integro. Non solo, quindi, il feto non era vitale al momento dell'inizio del travaglio, ma non aveva mai respirato né aveva raggiunto un grado di maturità sufficiente ad assicurargli la possibilità di avere una vita autonoma al di fuori dall'utero materno.

La condotta di soppressione avrebbe, di conseguenza, riguardato non l'oggetto del reato di omicidio (l'"uomo" di cui all'art. 575 c.p.) e risulterebbe integrato il reato di interruzione volontaria della gravidanza di cui alla L. n. 194 del 1978, art. 19, comma 3, per l'omessa osservanza delle modalità prescritte dai precedenti artt. 6 e 7.

L'assunto è erroneo in fatto ed in diritto.

3.2.1. Per stabilire l'inizio della vita rilevante ai fini dell'integrazione dell'oggetto del reato di omicidio rivestono un ruolo determinante, l'art. 578 c.p. ("La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni") e la L. n. 194 del 1978, art. 7, comma 3, ("Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell'art. 6 e il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto").

Gli interpreti hanno ricostruito in termini divergenti il rapporto tra le due norme.

Dottrina autorevole assegna all'art. 7 comma 3, cit. un ruolo centrale mentre considera l'art. 578 c.p. una disposizione speciale da cui non possono trarsi principi di portata generale.

Prevedendo l'art. 7, comma 3, cit., da una parte, il divieto assoluto di praticare l'interruzione di gravidanza oltre i 90 giorni se il feto ha possibilità di vita autonoma, con l'unica eccezione costituita dalla situazione necessitante della sussistenza di un grave pericolo per la madre, e, correlativamente, a carico del medicò l'obbligo di adottare ogni misura idonea a salvaguardarne la vita, consente di individuare una linea di demarcazione netta tra i reati di aborto e l'omicidio. Mentre i primi, che hanno tutti in comune l'interruzione della gravidanza, in qualunque forma commessi (dolosa, colposa o preterintenzionale)e hanno ad oggetto il concepito ossia il prodotto del concepimento senza "possibilità di vita autonoma", oggetto materiale del reato di cui all'art. 575 c.p. 1) ossia l'"uomo", è inteso come "essere umano, venuto ad esistenza attraverso la fecondazione sessuata o no, sviluppatosi in qualunque ambiente idoneo a portarlo alla maturazione e (corpo umano, femminile o maschile, corpo animale o "madre meccanica") purché capace di vita autonoma, sia esso fuoriuscito o meno dal corpo materno".

Sussiste, pertanto, il delitto di omicidio, commissivo od omissivo, doloso o colposo, a carico del medico che, nel praticare l'aborto, sacrifichi la vita del concepito, che poteva essere salvata, o che, dopo l'aborto, non prende le misure idonee a salvaguardarne la vita.

Commette, invece, il reato della L. n. 194 del 1978, art. 19 il medico che interrompe la gravidanza senza che sussista il suddetto grave pericolo, allorché il concepito sopravviva e, quindi, si abbia soltanto accelerazione del parto. Costituisce, pertanto, duplice omicidio l'uccisione della madre e del concepito non ancora partorito, ma capace di vita autonoma.

Secondo un diverso orientamento dottrinale, che nuove dalla corretta premessa che i confini tra l'aborto, l'infanticidio e l'omicidio non possono ricavarsi dalla differenza del soggetto passivo posto che il concepito, a prescindere dalla sua autonomia, è sempre una forma di manifestazione della vita umana, per risolvere il problema interpretativo non può prescindersi da una lettura congiunta delle due norme in esame.

Dalla L. n. 194 del 1978, art. 7 si ricava che se il concepito è capace di vita autonoma (là dove ricorrono i presupposti della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. a)) l'interruzione della gravidanza è ammissibile; ciò, tuttavia, a patto che venga fatto il possibile dal sanitario per salvare la vita del feto.

L'art. 578 c.p., equiparando l'uccisione del feto durante il parto e l'uccisione del neonato riconosce espressamente nell'inizio del parto il momento dell'inizio della vita umana rilevante per il diritto penale.

Ne deriva che ai fini dell'applicabilità della disciplina dell'omicidio è sempre necessario che il parto - spontaneo, indotto, prematuro o a termine - abbia avuto inizio e che, per converso, l'uccisione del feto autonomo in un momento antecedente al parto, rende applicabile la disciplina dell'interruzione di gravidanza.

3.2.2. La giurisprudenza di legittimità, nel solco tracciato dalla dottrina citata per ultimo, individua l'elemento distintivo delle fattispecie di soppressione del prodotto del concepimento nel momento in cui avviene l'azione criminosa: se essa è realizzata in un momento precedente il distacco del feto dall'utero materno, ad essere integrata è la fattispecie prevista dalla L. n. 194 del 1978, art. 19; se essa e', invece, realizzata dal momento del distacco del feto dall'utero materno - durante il parto se si tratta di un feto o immediatamente dopo il parto se si tratta di un neonato - ad essere integrata è la condotta prevista dall'art. 578 c.p.. Qualora, infine, la condotta diretta a sopprimere il prodotto del concepimento sia posta in essere dopo il distacco, naturale o indotto, del feto dall'utero materno ma in assenza dell'elemento specializzante delle condizioni di abbandono materiale e morale della madre, previsto dall'art. 578 c.p., è configurabile il delitto di omicidio volontario di cui all'art. 575 c.p. e art. 577 c.p., n. 1.

In questi termini si è espressa la sentenza di questa Corte Sez. 1, n. 46945 del 18 ottobre 2004, ricorrente Spallone, più volte citata nella sentenza impugnata, nella cui motivazione si legge: "feticidio e infanticidio sono unitariamente previsti e puniti dall'art. 578 c.p. che... anche nel testo modificato dalla L. 5 agosto 1981, n. 442... ha mantenuto inalterato il riferimento all'oggetto materiale, su cui ricade l'azione delittuosa: il feto, cioè il prodotto della gestazione o l'essere nascente collegato ancora alla madre tramite il cordone ombelicale (diversamente, si tratterebbe di aborto), ovvero il neonato, cioè l'essere uscito completamente dal ventre materno, con recisione del cordone ombelicale; in entrambi i casi, un essere vivente, anche se non necessariamente vitale, ossia capace di un periodo sufficientemente durevole di vita autonoma è pure immutata, rispetto al testo previgente della norma, la collocazione cronologica del fatto, che deve essere stato commesso immediatamente dopo il parto, ove si tratti di un neonato, o durante il parto, trattandosi di un feto. L'individuazione del limite cronologico ha rilievo ai fini della distinzione dall'aborto, dovendo intendersi la dizione "durante il parto", quale "minimunn" temporale della previsione normativa, nel senso che la condotta è realizzabile dal momento del distacco del feto dall'utero materno, mentre la L. n. 194 del 1978, art. 19 è applicabile se il fatto è commesso in un momento precedente".

Nella giurisprudenza successiva si è precisato che il distacco del feto dall'utero materno da cui dipende la distinzione tra la fattispecie di interruzione di gravidanza e quella di omicidio colposo coincide con l'inizio del travaglio perché è questo momento che segna l'autonomia del feto (Sez. 5, n. 44155 del 21/10/2008, Notaro Sirianni, Rv. 241689 - 01, Sez. 4, n. 7967 del 29/01/2013, Fichera, Rv. 254431 01 e, più di recente, Sez. 4 -, n. 27539 del 30/01/2019, Greco, Rv. 276790 - 01 che in motivazione, richiamando le sentenze Corte Cost. n. 229 del 2015 e Corte Edu, Perrillo c. Italia del 27 agosto 2015, ha precisato che deve ritenersi legittima l'inclusione dell'uccisione del feto nell'ambito dell'omicidio in considerazione dell'intervenuto ampliamento della tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si è estesa fino all'embrione e che, altresì, tale inclusione non comporta una non consentita analogia in "malam partem" bensì una mera interpretazione estensiva, legittima anche in relazione alle norme penali incriminatrici).

Coerentemente con la delineata opzione ermeneutica, le condotte omissive o commissive, dirette a sopprimere il prodotto del concepimento, in avanzato stato di gestazione, poste in essere dopo il distacco, anche se forzatamente indotto, dall'utero della madre non sono sussumibili, nelle fattispecie incriminatrici previste dalla L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 19, che puniscono "chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza senza l'osservanza delle modalità" stabilite dalla legge stessa. Esse, anche se poste in essere successivamente ed in stretta consecuzione cronologica, rispetto al distacco naturale o indotto del feto dall'utero materno, integrano il delitto di omicidio qualora sia assente l'elemento specializzante contemplato dall'art. 578 c.p. (le condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto), purché fino al realizzarsi della condotta che ne cagiona la morte il feto sia vivo. Non si richiede, invece, che il feto sia vitale, poiché costituisce omicidio anticipare, anche di una frazione minima di tempo, l'evento letale. Ne consegue la irrilevanza di anomalie anatomiche e di patologie funzionali potenzialmente idonee a causare la morte del feto in tempi brevi, se questa è cagionata, sia pure con un determinismo di mera anticipazione, dalla condotta volontaria del soggetto agente (sentenza Spallone, pagg. 25 e 26).

3.2.3. Ritiene il Collegio, in continuità con i principi espressi nella giurisprudenza di legittimità da ultima richiamata, che integri gli estremi dell'omicidio non solo la condotta di soppressione del prodotto del concepimento, di cui risulta accertata la possibilità di vita autonoma, eseguita senza osservare le prescrizioni ed i limiti temporali previsti dalla L. n. 194 del 1978 ed in assenza della predisposizione di mezzi idonei di assistenza di cui all'art. 7, comma 3, della medesima legge, realizzata dopo l'inizio del travaglio, indotto o spontaneo - che costituisce il momento in cui la vita del feto, distaccandosi dall'utero materno, assume rilevanza penale autonoma rispetto a quella della madre - ma anche quella che, posta in essere prima del travaglio ed allo scopo di provocarlo, sia comunque proseguita durante il parto in stretta successione cronologica producendo i suoi effetti lesivi sul feto vitale all'inizio del travaglio ma deceduto prima dell'espulsione.

Al di fuori dai casi espressamente consentiti dalla L. n. 194 del 1978, tutte le condotte di soppressione realizzate nei confronti di un feto che è vitale all'inizio del travaglio ed ha, per l'età gestazionale, "possibilità di vita autonoma" extrauterina sono quindi sussumibili nelle fattispecie omicidiarie di cui agli artt. 575,589 e 578 c.p. a seconda se l'evento morte è posto in essere con coscienza e volontà, contro la volontà ma a causa di un atteggiamento negligente, imprudente o imperito, ovvero se il feto sia ucciso dalla madre determinata dalle condizioni di abbandono morale e materiale e ciò a prescindere se il decesso si sia verificato all'interno o all'esterno dell'alveo materno.

Le fattispecie incriminatrici previste dalla L. n. 194 del 1978, art. 19 sono, invece, configurabili se le condotte di soppressione del feto sono interamente compiute ed esaurite prima dell'inizio del travaglio.

Non è di ostacolo alla proposta ricostruzione l'art. 61 c.p., n. 11-quinquies che configura quale aggravante, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale e contro la libertà personale, l'avere commesso il fatto in danno di persona in stato di gravidanza.

Da tale disposizione non si ricava il principio per cui qualunque azione non colposa che cagioni il decesso della donna in stato di gravidanza e del suo feto sia sussumibile nella fattispecie incriminatrice di cui agli all'art. 61 c.p., n. 11-quinquies e art. 575 c.p. Sarà, infatti, configurabile il duplice omicidio della madre e del feto, eventualmente in concorso materiale tra loro, qualora la morte del prodotto del concepimento con possibilità di vita autonoma sia intervenuta anche prima dell'espulsione durante il parto direttamente provocato dall'azione violenta o resosi necessario per salvarlo senza, tuttavia conseguire il risultato sperato.

3.2.4. Alla luce della ricostruzione fattuale della sentenza impugnata, strettamente ancorata alle risultanze probatorie di carattere scientifico valutate complete in ragione della pluralità delle fonti di conoscenza (consulenze di parte e perizia eseguita ai sensi dell'art. 508 c.p.p.) e dell'approfondimento di tutte le tematiche più rilevanti, la condotta contestata in concorso agli imputati è stata qualificata come omicidio doloso in puntuale applicazione degli esposti principi.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente attraverso prospettazioni che non trovano adeguato conforto nelle risultanze di causa o che sono state confutate nel merito, risultano, infatti, accertati, oltre all'insussistenza delle condizioni previste dalla L. n. 194 del 1978 per operare l'interruzione volontaria di gravidanza dopo i primi novanta giorni, la vitalità del feto al momento dell'inizio del travaglio indotto meccanicamente e la sua possibilità di vita autonoma.

Quest'ultima è stata desunta dall'avanzata età gestazionale, calcolata in ventiquattro settimane più quattro giorni secondo il metodo del regolo ostetrico, parametro medico universalmente valido per tutte le gravidanze.

Tale risultato è stato considerato attendibile non solo perché basato su dati ripetutamente forniti dalla stessa R. in più visite ginecologiche (principalmente la data dell'amenorrea) e mai messi in discussione o rettificati dagli esami ecografici e dai referti medici, tutti attestanti il normale andamento della gravidanza e l'assenza di patologie idonee a modificare l'evoluzione fisiologica della crescita del feto (l'ultima visita è stata eseguita in occasione del ricovero ospedaliero del 3 maggio), ma anche sulle risultanze dall'esame autoptico eseguito sul feto che ne aveva accertato, sulla base di dati antropometrici e delle analisi dei reperti istologici di fegato rene e polmone, un livello di maturità perfettamente compatibile con l'età gestazionale. Nello stesso senso deponevano il peso (oltre 700 grammi, quindi più compatibile secondo le tabelle con la venticinquesima settimana), lo sviluppo degli organi genitali e dei più importanti organi interni (polmone, fegato e rene). Trattasi di età del feto in cui, secondo le conoscenze scientifiche e le tecniche di assistenza specialistica dell'epoca, vi erano chance di sopravvivenza non trascurabili grazie al supporto della terapia intensiva prenatale.

Ne' a diversa conclusione conducono i chiarimenti forniti dai periti nel corso dell'esame dibattimentale, allegato al ricorso. Al contrario, il prof. C., dando conto della personale esperienza ospedaliera, ha tenuto a precisare che in caso di parto spontaneo, se concordata con i familiari, l'assistenza dei neonatologi in sala operatoria è praticata addirittura ai feti di 22 settimane, mentre da 24 settimane in poi è automatica sia per gli aborti che per i parti spontanei (cfr. pag. 33 dell'esame dibattimentale).

Che il feto, sicuramente vivo prima dell'induzione meccanica dell'espulsione, sia morto durante il travaglio indotto meccanicamente - e non nell'utero prima del travaglio a sacco chiuso a causa di un improvviso gasping respiratorio ed inalazione del liquido amniotico diverso da quello legato allo scambio fisiologico con il circostanze liquido amniotico - è stato desunto, con argomento logico ineccepibile, dal pregresso stato di benessere del feto e della madre, dall'assenza di condizioni di rischio in grado di determinare un distacco precoce della placenta e dalle modalità concrete con cui l'espulsione stessa era avvenuta ossia attraverso contrazioni protrattesi, a prescindere dal momento esatto di rottura del sacco amniotico, per un periodo prolungato in modo da provocare il distacco parziale della placenta, prima invece integra ed idonea ad assicurare la sopravvivenza del feto, con ematoma retro placentare, conseguente sofferenza ed insulto ipossico fatale per il feto, il tutto nell'ambito di un parto sviluppatosi fisiologicamente fino al secondamento, senza nemmeno rendere necessaria la revisione strumentale dell'utero.

3.3. Il terzo ed il quarto motivo, relativi all'elemento soggettivo dell'omicidio e all'applicazione dell'art. 116 c.p., comma 2, sono aspecifici perché non si confrontano con il reale contenuto della sentenza impugnata, che, coerentemente con le risultanze dibattimentali già esaminate, ha ricollegato la consapevole volontà dell'imputata di cagionare la morte del feto potenzialmente vitale in assenza delle condizioni che rendono legittima l'interruzione della gravidanza, al suo pacifico bagaglio di conoscenze sull'età gestazionale avanzata ed alla sua volontà, ferma ed irremovibile, di ottenere il risultato preso di mira, in disparte delle precise modalità esecutive, ad ogni a costo, quindi anche accettando l'eventualità, non remota ma concreta ed altamente probabile ai confini della certezza, di cagionare la morte del feto vitale durante il travaglio strumentale all'espulsione. Solo in questa prospettiva, a prescindere dalla condivisone del progetto di truffare l'assicurazione ottenendo una somma a titolo di risarcimento comprensiva della perdita del feto in realtà volontariamente abortito, si spiega la scelta di praticare le manovre in ambiente non ospedalizzato, escludendo il ricorso all'assistenza necessaria a garantire la sopravvivenza del feto.

Il delineato atteggiamento soggettivo della R., inquadrabile nel dolo diretto di omicidio, esclude, in radice, che la stessa possa essere considerata un concorrente anomalo in tale reato.

4. Il ricorso di Z.P. propone censure in parte non consentite o inammissibili e nel resto infondate sicché deve essere rigettato.

4.1. I primi due motivi ed in parte il terzo nonché correlati motivi aggiunti, tutti esaminabili congiuntamente in ragione della connessione logica delle questioni, nonostante la analiticità delle critiche, peraltro pedissequamente ripetitive di quelle esposte nell'atto di appello, non superano il vaglio di ammissibilità perché si risolvono, nonostante il formale riferimento a violazioni di legge e a vizi motivazionali, nella prospettazione di ricostruzioni alternative ritenute più plausibili o nella sollecitazione di apprezzamenti estranei al giudizio di legittimità che è sottoposto ai limiti già ricordati nel par. 3.1., cui si rinvia.

Va aggiunto, per completezza, che la Corte territoriale, attraverso una lettura unitaria e non parcellizzata del composito compendio probatorio interpretato senza salti logici e con rigoroso richiamo agli elementi fattuali positivamente accertati, ha compiutamente preso in esame tutti i temi posti dal ricorrente pervenendo alla conclusione, non arbitraria ma plausibile, che Z. non solo era stato messo a conoscenza del piano criminoso che prevedeva l'interruzione della gravidanza delle R. in violazione dei limiti imposti dalla normativa sull'aborto, anche a costo di cagionare la morte del feto con possibilità di vita autonoma, pur di conseguire la certificazione medica, ideologicamente falsa, rilasciata da G. attestante il collegamento tra l'aborto ed un sinistro stradale, ma vi aveva apportato un contributo significativo, di carattere materiale e morale, sia nella fase organizzativa che in quella esecutiva.

A differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, la sentenza impugnata ha dato ampiamente conto delle prove poste a fondamento di ogni condotta concorsuale riferita Z..

Non solo ha evidenziato che, a prescindere dalle risultanze dei tabulati, era stato G. ad ammettere di avere conosciuto per il tramite di Z. la F. e che le conversazioni telefoniche intercorse tra gli imputati dal 5 al 15 maggio, per i precisi riferimenti nonché per loro concatenazione, desunta anche dai tabulati, nonché dalla illogicità delle spiegazioni alternative dei dialoghi fornite dai protagonisti, non potevano che attenere al delineato piano criminoso.

Solo ritenendo accertato il piano criminoso collettivo come individuato dai giudici del merito si spiega perché Z. aveva organizzato, proprio in concomitanza con il primo ricovero della R. in ospedale, quando, cioè, era sopravvenuta l'esigenza di pianificare un diverso iter esecutivo non essendo andato in porto il primo tentativo, un incontro riservato tra G. e la F. nel bar di sua proprietà dove quest'ultima lavorava e, soprattutto, l'esigenza di G. di comunicare immediatamente, vincendo le resistenze e le precauzioni dei complici, a Z. e alla F. l'individuazione di una nuova soluzione in grado di garantire - purché, però, si agisse tempestivamente stante l'intervenuta scadenza dei termini oltre i quali l'aborto non era praticabile - il problema comune dell'interruzione della gravidanza della R., evento quest'ultimo indicato non in temi espliciti ma talmente evocativi ("un modo ottimo per stopparsi") che lo stesso G. nel corso dell'esame aveva finito per ammettere di avere utilizzato quella peculiare espressione per indicare effettivamente problematiche di natura ginecologica, sia pure riferite alla R. e non alla F..

Solo la prosecuzione della partecipazione dello Z. fino all'evento finale giustifica i suoi innumerevoli contatti telefonici il giorno in cui era avvenuto la soppressione del feto (alle 8.43, 9.40, 10.18, 17 dalle 13.39 alle 17.29 e 40 dalle 20.48 alle 23.43) con la F. ossia con la complice che aveva assistito al parto della R. e che, subito dopo, l'aveva accompagnata in ospedale.

Il coinvolgimento di Z. nei termini appena indicati risulta fortemente rafforzata dal sistematico fallimento delle ricostruzioni alternative che lo stesso ha proposto nel corso del procedimento.

Si pensi alla dedotta identificazione in una sua parente, F.M., e non nella F. della signora incontrata da G. nel bar perché smentita dalla diretta interessata, oltre dallo stesso Z. in altre conversazioni (pagg. da 63 a 68) e, soprattutto, alle giustificazioni logicamente inaccettabile fornite in ordine alle ripetute telefonate con la F. in concomitanza con il parto abortivo, con la successiva permanenza in ospedale prolungatasi a causa delle difficoltà insorte dopo l'intervento della polizia giudiziaria ( Z. ha riferito di avere parlato con la F., nonostante il numero delle telefonate e la loro convulsa ripetizione a distanza di minuti anche in ospedale, di questioni ordinarie legate a canoni di locazione arretrati, imprecisati problemi personali, consigli legali).

4.3. Il terzo ed il quarto motivo nella parte in cui denunciano erronea qualificazione giuridica del fatto per erronea applicazione dell'art. 575 c.p. e della L. n. 194 del 1978, art. 19 e dell'art. 41 c.p., commi 2 e 3, e contestano i criteri di accertamento della capacità di vita autonoma del feto al momento dell'induzione del travaglio e del nesso di causalità tra condotta concorsuale ascritta all'imputato ed evento mortale, pongono censure sovrapponibili a quelle dedotte da R.S. nel secondo motivo. Esse, pertanto, sono infondate nei medesimi termini già chiariti nel paragrafo 3.2., cui si rinvia.

4.5. Il quinto motivo, relativo al reato artt. 110 e 479 c.p. è inammissibile, per genericità.

Il ricorrente, senza aver rinunciato alla prescrizione, ha, infatti, impugnato la declaratoria di estinzione del reato per tale causa senza dedurre, come imposto dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 4, n. 8135 del 31/01/2019, Pintilie, Rv. 275219 - 01) specifici motivi a sostegno della ravvisabilità in atti, in modo evidente e non contestabile, di elementi idonei ad escludere la sussistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte sua e la configurabilità dell'elemento soggettivo del reato, affinché possa immediatamente pronunciarsi sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 c.p.p., comma 2, ponendosi così rimedio all'errore circa il mancato riconoscimento di tale ipotesi in cui sia incorso il giudice della sentenza impugnata che, invece, ha, logicamente desunto, il concorso morale di Z. nel falso ideologico dalla sua accertata partecipazione all'intero progetto criminoso di cui la redazione della certificazione da parte del medico del Pronto soccorso G. rappresentava l'obbiettivo ultimo.

5. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti F.N., R.S. e Z.P. al pagamento delle spese processuali.

5.1. F.N., R.S. e Z.P. devono essere altresì condannati in solido tra loro a mente dell'art. 187 c.p., comma 2, alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di legittimità dalla parte civile ASP Regione Calabria Azienda provinciale di Cosenza, spese che devono essere liquidate, in osservanza dei criteri fissati dal D.M. 13 agosto 2022, n. 147, nella misura di Euro quattromila, cui devono aggiungersi gli accessori di legge.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di G.S. perché i reati sono estinti per morte dell'imputato. Rigetta i ricorsi di F.N., R.S. e Z.P., che condanna al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile ASP Regione Calabria Azienda provinciale di Cosenza, che liquida in complessivi Euro quattromila, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2023.

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472