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Diffamazione sul gruppo WhatsApp, scatta l’aggravante?

Corte di Cassazione, sez. I Penale, Sentenza n.37618 del 19/05/2023 (dep. 14/09/2023)

Se durante una conversazione su un gruppo WhatsApp una persona viene offesa, può configurarsi il reato di diffamazione nella sua forma aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3?

Sul punto, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 37618 del 14 settembre 2023, risponde con un chiaro no.

La Suprema Corte sottolinea che l'aggravante in questione si verifica quando l'offesa viene perpetrata attraverso un "mezzo di pubblicità", cioè in un contesto in cui può essere vista da un numero di persone indeterminato, come nel caso di un'offesa pubblicata sul web o sui social media.

Tuttavia, nel caso di un gruppo WhatsApp, l'offesa è diretta ad un numero ristretto di individui, chiaramente identificati e che hanno precedentemente accettato di far parte del gruppo. Questo rende la comunicazione riservata.

Nel caso di specie, un carabiniere era stato accusato di diffamazione continuata pluriaggravata, a seguito dell'invio di messaggi offensivi ad alcuni militari all'interno del loro gruppo WhatsApp. La tesi del Pm, che aveva sostenuto l'aggravante dell'art. 595 c.p., comma 3, facendo riferimento alla giurisprudenza relativa alle email e ai social, è stata però respinta.

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Cassazione penale, sez. I, Sentenza 14/09/2023 (ud. 19/05/2023) n. 37618

IN FATTO E IN DIRITTO

1. La Corte Militare di Appello, con sentenza resa in data 12 ottobre 2022 ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di C.P.A. in riferimento al reato di cui all'art. 227 comma 1 c.p. mil.pace, così riqualificata l'originaria imputazione (art. 227 comma 1 e comma 2 c.p. mil. pace), per mancanza della richiesta di procedimento.

In primo grado il Tribunale Militare di Napoli aveva affermato la penale responsabilità del C. con condanna alla pena di mesi cinque e giorni cinque di reclusione militare, nonché la responsabilità civile.

La contestazione riguarda il reato di diffamazione continuata pluriaggravata. In sostanza il C. - Luogotenente dell'Arma dei Carabinieri - comunicando con altri militari della stazione di (Omissis) tramite l'applicativo Whatsapp in una chat denominata "(Omissis)" tra aprile del 2017 e gennaio del 2018 avrebbe inviato più messaggi offensivi nei confronti di altri militari ( G.R., L.S., M.A., M.M., F.D.).

I contenuti dei messaggi sono riportati nel capo di imputazione (da pag. 4 a pag. 7 della sentenza).

1.1 Punto essenziale della decisione, fermo restando il contenuto diffamatorio di taluni dei messaggi inviati in chat, riguarda l'aggravante dell'aver recato offesa con un "mezzo di pubblicità". La richiesta di procedimento, condizione di procedibilità, non è stata formulata per il C. e l'ipotesi di diffamazione non aggravata non sarebbe procedibile.

Il dato normativo così recita:

Il militare, che, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende la reputazione di altro militare, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a sei mesi.

Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, o è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione militare da sei mesi a tre anni.

1.2 Secondo la Corte Militare di Appello l'avvenuto utilizzo di una chat di Whatsapp (cui erano iscritte in tutto sette persone) non integra l'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 227 c.p. mil.pace.

In particolare è da escludersi che l'utilizzo della chat ristretta possa far ritenere integrata l'ipotesi dell'offesa recata con un mezzo di pubblicità.

Non rileva, infatti che il messaggio (destinato ad un numero ristretto di persone) possa essere inoltrato ad altri, posto che simile azione sarebbe opera del destinatario e non del mittente (e peraltro nel caso in esame tale ipotesi non si è verificata).

Si pone l'accento, dunque, non tanto sul mezzo tecnologico utilizzato (potenzialmente idoneo a concretizzare una diffusione ampia dei contenuti lesivi) quanto sul numero ristretto (sette soggetti) di aderenti alla chat

Si tratta, dunque, di una modalità comunicativa che, in rapporto alle caratteristiche concrete dell'azione, non integra la particolare ipotesi del comma 2 dell'art. 227 c.p. mil.pace.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale Militare.

2.1 Si deduce erronea applicazione di legge in riferimento alla ricorrenza della circostanza aggravante dell'offesa arrecata cori il mezzo di pubblicità.

Il PG ricorrente sostiene che la soluzione in diritto adottata dalla Corte Militare di Appello, con esclusione della aggravante, è erronea.

Si citano arresti di questa Corte di legittimità in cui si è ritenuto: a) che l'aggravante sussista in caso di post pubblicati sulla piattaforma Facebook; b) in caso di invio plurimo di mails; c) in caso di utilizzo del fax.

Ad essere rilevante è la "potenzialità diffusiva" del mezzo, li dove la Corte di Appello vira l'indagine su aspetti non dirimenti (il numero degli iscritti alla chat). L'esclusione dell'aggravante andrebbe pertanto rimeditata.

3. Si sono costituite con memoria scritta le parti civili L.S. e M.A., a sostegno del ricorso proposto dal PG.

3.1 Ha depositato memoria difensiva C.P. con atto del 27 aprile 2023.

4. Il ricorso è infondato, per le ragioni che seguono.

4.1 La caratteristica essenziale della diffamazione - per conformazione legale della incriminazione- sta nella offesa della reputazione altrui in un contesto comunicativo.

Tanto la fattispecie di cui all'art. 595 c.p. che quella del codice penale militare di pace (art. 227) richiedono che la comunicazione avvenga verso più persone ed in assenza dell'offeso.

Si tratta di un elemento strutturale della fattispecie, sicché la comunicazione lesiva deve raggiungere almeno due persone (anche in momenti diversi, secondo le precisazioni rese da Sez. V n. 7408 del 4.11.2010, dep. 2011, rv 249599).

Partendo da simile dato, va rilevato che nella nomenclatura legale l'aggravamento tipizzato si ricollega, per quanto qui rileva, all'utilizzo del mezzo della stampa o di qualsiasi altro mezzo di pubblicità.

La ratio va individuata nella "particolare diffusività" del mezzo utilizzato (caratteristica obiettiva della stampa), sicché l'offesa tende, in virtù delle particolari modalità realizzative, a raggiungere un numero cospicuo e indeterminato di persone.

4.2 Tanto premesso, va rilevato che indubbiamente l'evoluzione tecnologica ha consentito di ampliare le forme di comunicazione tramite la rete internet, da ritenersi tendenzialmente uno strumento che rientra nella previsione di legge ove si evocano altri mezzi di pubblicità.

Ciò avviene, in particolare, quando un contenuto lesivo viene reso "pubblico" su un qualsiasi sito internet ad accesso libero.

La libertà dell'accesso al sito che contiene la comunicazione diffamatoria è esattamente parificabile alla scelta di consultazione di una stampa cartacea, sicché nessuna questione può porsi in tema di rispetto del principio di tassatività.

Tuttavia, gli strumenti di comunicazione digitale non sono tutti uguali e non funzionano tutti nel medesimo modo.

In particolare una chat dell'applicativo Whatsapp e', per le sue caratteristiche ontologiche, uno strumento di comunicazione di certo ‘agevolante' ma al contempo `ristrettò, nel senso che il messaggio (di testo o immagine che sia) raggiunge esclusivamente i soggetti iscritti (e reciprocamente accettatisi) alla medesima chat.

4.3 La giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha ritenuto che la pubblicazione di post lesivi sulla piattaforma social Facebook integri l'aggravante del mezzo di pubblicità, come ricordato dal PG ricorrente.

Vanno in tal senso indicate le decisioni Sez. I n. 55142 del 2014 e Sez. V n. 13979 del 25.1.2021, rv 281023, ove si pone l'accento sulla oggettiva potenzialità che, in tal caso, ha il testo lesivo di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.

4.4 Tuttavia a parere del Collegio vi è una rilevante diversità - esclusivamente ai fini della integrazione della particolare aggravante - tra l'utilizzo di un soda/ (strumento che si rivolge - per definizione ad una ampia platea di persone previamente abilitate dal titolare della pagina a consultarne i contenuti, con possibilità di riproporre i testi o le immagini sulla propria bacheca, sì da dare luogo di fatto ad una forma di diffusione incontrollata) e l'utilizzo di una chat di messaggistica ristretta.

Ad essere rilevante, invero, non è il numero di iscritti alla chat (nel caso in esame davvero poco significativo) quanto la conformazione tecnica del mezzo, tesa a realizzare uno scambio di comunicazioni che resta - in tutta evidenza - riservato. La diffusione del messaggio a più soggetti - gli iscritti alla chat - avviene, in altre parole, in un contesto informatico che se da un lato consente la rapida divulgazione del testo dall'altro non determina la perdita di una essenziale connotazione di riservatezza della comunicazione, destinata ad un numero identificato e previamente accettato di persone.

La tensione con il principio di tassatività in ambito penale, ove si voglia realizzare una equiparazione tra i diversi strumenti comunicativi, in rapporto ad una previsione di legge ove si evoca un ‘mezzo di pubblicità', appare del tutto evidente e ciò conduce al rigetto del ricorso.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 19 maggio 2023.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2023.

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