Il tentativo nel reato di violenza sessuale è configurabile non solo nel caso in cui gli atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere un abuso sessuale non si siano estrinsecati in un contatto corporeo, ma anche quando il contatto sia stato superficiale o fugace e non abbia attinto una zona erogena o considerata tale dal reo per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla volontà dell'agente.
È quanto ribadito dalla Sesta Sezione della Cassazione con la sentenza n. 4607 depositata il 3 febbraio 2023.
La Suprema Corte precisa che nel reato di violenza sessuale:
In tema di violenza sessuale, il tentativo è configurabile non solo nel caso in cui gli atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere un abuso sessuale non si siano estrinsecati in un contatto corporeo, ma anche quando il contatto sia stato superficiale o fugace e non abbia attinto una zona erogena o considerata tale dal reo per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla volontà dell'agente, mentre per la consumazione del reato è sufficiente che il colpevole raggiunga le parti intime della persona offesa (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente che il contatto corporeo sia di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi all'azione dell'aggressore o che quest'ultimo consegua la soddisfazione erotica.
Pertanto, può parlarsi di tentativo del reato previsto dall'art. 609 bis c.p. in tutte le ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poiché l'agente non ne ha raggiunto le zone genitali o erogene ovvero non ha provocato un contatto tra le proprie parti intime e la vittima.
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, Sentenza n.4607 del 24/01/2023 (dep. 03/02/2023)
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di cassazione, con sentenza del 23 gennaio 2018, accogliendo il ricorso dell'imputato, ha annullato quella della Corte d'appello di Catanzaro, con la quale era stata confermata la sentenza del Tribunale cittadino di condanna di W.F. per il reato di cui all'art. 609 bis c.p., comma 3 e art. 61 c.p., comma 1, n. 5, ai danni di A.R.S. (in *****), rinviando per nuovo esame ad altra sezione della Corte territoriale che, all'esito del rinnovato giudizio, ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado - rideterminando la pena, previo riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante e con i doppi benefici - e confermato nel resto.
2. La difesa dell'imputato ha proposto ricorso, formulando cinque motivi.
Con il primo, ha dedotto i vizi di cui all'art. 606 c.p.p., lett. b), c) e d), in relazione alla valutazione della prova, all'art. 609 bis c.p., all'obbligo di motivazione e al canone di giudizio, nonché la mancanza, anche sub specie di travisamento di atti processuali, ovvero la contraddittorietà della motivazione, in relazione alla configurabilità del reato di violenza sessuale, avuto riguardo alle prove dichiarative e alla mancata considerazione dell'intero compendio probatorio acquisito nel corso del dibattimento di primo grado, con evidente, omesso riscontro dei principi di diritto enucleati dalla Corte rimettente.
In particolare, la difesa rileva che, nonostante la lunga articolazione processuale della vicenda, non sarebbe stata ancor oggi operata una corretta valutazione del compendio probatorio, non essendo stato dimostrato come le prove a sostegno dell'ipotesi accusatoria siano sufficienti a superare la forza di resistenza di quelle a difesa. I giudici del merito si sarebbero affidati a una ricostruzione enucleata solo sulla scorta di tre riferiti testimoniali, a fronte di una dozzina di testimonianze, il dibattimento avendo prodotto due verità processuali contrapposte, con le quali i giudici del rinvio avevano l'obbligo di misurarsi. Al contrario, secondo la difesa, difetterebbe nella sentenza una ricostruzione chiara dell'accaduto; una corretta qualificazione giuridica della condotta; una valutazione della attendibilità della persona offesa e dei testi a carico; infine, una motivazione sulla ritenuta irrilevanza del riferito a discarico, punto sul quale rileva anche la violazione dell'obbligo del giudice del rinvio di uniformarsi al principio di diritto enunciato da quello rimettente.
Rileva, altresì, che la Corte, dopo aver affermato che il narrato della persona offesa era confermato da una serie di elementi concordanti, non ha tuttavia indicato quali fossero, difettando nella sentenza una puntuale e dettagliata ricostruzione dei fatti, essendosi i giudici del rinvio limitati a trascrivere l'esame dibattimentale della persona offesa, depurato da parti sovrabbondanti o irrilevanti. Così facendo, si è impedito però di comprendere le ragioni per le quali l'ultima versione della dichiarante, nonostante il lasso temporale trascorso rispetto ai fatti, sia stata ritenuta maggiormente attendibile e tale da superare le contraddizioni emerse in sede di primo esame, contestandosi anche il metodo motivazionale adottato dall'estensore, il quale avrebbe motivato riferendosi alle ultime dichiarazioni, senza porle a raffronto con le precedenti, nelle parti in cui divergono.
Sotto altro profilo, poi, la difesa lamenta la mancata valutazione delle prove a discarico, alla stregua delle quali sarebbe stato introdotto il tema dell'assenza dell'imputato presso il centro di accoglienza ove sarebbe accaduto il fatto nella giornata indicata in imputazione (8/6/2015), facendo rinvio al riferito di G.C.W. e A.N., soggetti per i quali il primo giudice aveva disposto la trasmissione degli atti alla competente Procura della Repubblica per il delitto di falsa testimonianza, ad onta della circolarità delle varie deposizioni, avendo le due Corti d'appello "glissato" sul punto.
Ne discenderebbe, secondo il ragionamento della difesa, che i giudici territoriali non avrebbero superato l'incertezza sulla presenza dell'imputato all'interno dei luoghi ove si sarebbero consumati i fatti, concludendo nel senso che la Corte avrebbe, anche se solo implicitamente, ritenuto di non doversi confrontare con tali prove, a causa della decisione del primo giudice di trasmettere gli atti alla Procura competente, laddove, per evocare il dubbio sulla presenza dell'imputato nel luogo e nell'ora del delitto, sarebbe bastato considerare la testimonianza C., non valutata dai giudici d'appello nonostante il dictum del giudice rimettente, la dichiarante avendo affermato di avere visto l'imputato in un centro Caritas, presso il quale lavorava, una sera tra le giornate del 8 e del 9 giugno 2015 in Lametia, avendolo accompagnato presso un centro di accoglienza ove viveva l'amico B.J..
La difesa, inoltre, rileva ulteriori incongruenze, rispetto al riferito accusatorio: i giudici territoriali hanno recepito l'affermazione secondo la quale le stanze che si aprivano sul corridoio, luogo dell'agguato, sarebbero state vuote, laddove in primo grado era emerso che A.P. e la sua fidanzata M.A., si erano trovati all'interno della loro stanza e, ciononostante, non avevano udito le urla della persona offesa; inoltre, la persona offesa aveva dichiarato di essere rimasta nella sua stanza sino all'indomani mattina, laddove i coniugi iracheni che l'avevano soccorsa avevano riferito che la donna si era recata nella loro stanza e aveva cenato insieme a loro; inoltre, una fotografia avrebbe smentito la affermazione per la quale la persona offesa non conosceva il suo presunto aggressore se non di vista e per nome, dimostrando invece una certa "confidenza" tra i due.
Tali incongruenze sarebbero rimaste irrisolte, avendo scelto la Corte d'appello di affidare all'ultima versione dei testi d'accusa la propria decisione, senza confrontarsi con le precedenti dichiarazioni, i due testi oculari avendo confermato, se possibile "in peggio", le proprie precedenti dichiarazioni, rendendo di fatto una versione dei fatti unitaria, laddove la Corte territoriale non avrebbe neppure dato corretta risposta alla indicazione del giudice rimettente quanto al riferito del secondo teste, il quale aveva affermato che, nel momento in cui la luce era andata via, tutte le donne si erano recate in cucina e tutti gli uomini si erano recati a risolvere il problema.
Con un secondo motivo, ha dedotto gli stessi vizi, questa volta con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto: in base alla versione della persona offesa, difetterebbero elementi per ritenere dimostrata la brama sessuale che avrebbe sorretto l'azione dell'imputato, la violenza della presa della donna non potendo considerarsi di per sé espressiva di tale connotazione della condotta. Pertanto, essa non avrebbe potuto essere considerata idonea a integrare gli estremi del reato contestato, sia in quanto arrestatasi in una fase che non si concilia con la consumazione, ma anche perché, ove effettivamente materializzatasi, avrebbe potuto al più integrare gli estremi della violenza privata. Sotto altro profilo, il deducente rileva la necessità che la condotta venga valutata alla stregua del fatto che l'agente appartiene a comunità diversa dalla nostra, con costumi e usanze dissimili.
Con un terzo motivo, ha dedotto analoghi vizi, con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 5, obiettando al ragionamento della Corte che i luoghi e i tempi in cui si sarebbe verificata l'azione sarebbero incompatibili con la ragione giustificativa del maggior disvalore della condotta, trattandosi di un corridoio lungo il quale si aprivano più stanze abitate e non isolato e, comunque, non tale da aver reso difficili o addirittura impossibili le reazioni della vittima.
Con il quarto motivo, ha dedotto violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, inammissibilità, inutilizzabilità o decadenza e vizio motivazionale, quanto al giudizio di comparazione, per avere i giudici territoriali operato una diminuzione non massima per le generiche riconosciute prevalenti, avendo enfatizzato solo il comportamento processuale dell'imputato.
Infine, con il quinto motivo, la difesa ha dedotto violazione di legge, violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, inammissibilità, inutilizzabilità o decadenza, oltre a vizio motivazionale, quanto alle statuizioni civili, quantificate in misura sproporzionata all'effettivo disvalore della condotta, tenuto conto del fatto che la vittima aveva continuato ad avere rapporti amicali con l'imputato, dimostrando così di non aver riportato particolari conseguenze a seguito del fatto, avendo pure rimesso la querela.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso va rigettato.
2. La Corte rimettente, richiamate le doglianze articolate con il ricorso, ha ritenuto fondata la prima (e, quindi, assorbite le altre), rilevando che con essa si era lamentata: l'inadeguata valutazione delle prove a carico e a discarico; la conseguente insufficiente e incompleta ricostruzione della vicenda; evidenziati, sia alcune contraddizioni nelle dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile, che il ritardo nella presentazione della querela; e la scarsa attendibilità di uno dei testimoni diretti, J.E., che aveva più volte modificato la sua versione dei fatti. Nonostante la formulazione di tali censure da parte dell'appellante, esplicitate analiticamente nell'atto d'appello, attraverso l'esame delle risultanze dell'istruttoria dibattimentale, la Corte territoriale si era però limitata a riportare la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale, omettendo di considerare adeguatamente quanto esposto nell'atto d'impugnazione, a proposito della scarsa attendibilità della persona offesa, affermando che l'evidenziazione delle discrepanze delle sue dichiarazioni, in particolare a proposito del vestito indossato al momento del fatto (se una veste da preghiera o una maglietta scollata), rappresentava una doglianza meramente esplorativa, inutile al fine della valutazione delle dichiarazioni della vittima, senza altro aggiungere riguardo alla sua credibilità e alle ragioni della irrilevanza di dette discrepanze. La Corte territoriale ha, inoltre, ritenuto che le dichiarazioni della persona offesa fossero riscontrate da quanto riferito da J.A., accorso sul luogo dopo aver sentito le urla della vittima e del quale non erano state illustrate le dichiarazioni, sicché non era stato chiarito che cosa avesse riferito e per quali ragioni tali dichiarazioni, provenienti da persona che non aveva assistito ai fatti, costituissero riscontro di quanto dichiarato dalla persona offesa, consentendo di superare le incongruenze rilevate dalla stessa Corte d'appello nelle dichiarazioni della moglie, J.E., circa la sua presenza all'interno del centro di accoglienza, nel quale si verificarono i fatti. Inoltre, la Corte di merito aveva ritenuto irrilevante il riferito testimoniale di P.J. (secondo cui, allorché andò via la luce elettrica, le donne sarebbero andate tutte in cucina a preparare la cena e gli uomini a cercare di risolvere il problema elettrico), motivando alla stregua della genericità del riferimento fatto a gruppi di uomini e di donne, senza far cenno alla persona offesa e all'imputato, che ben potevano essersi attardati nel corridoio in cui si sarebbe verificata l'aggressione sessuale. Ma anche tale affermazione è stata ritenuta dal giudice rimettente congetturale, siccome intesa a superare l'affermazione della presenza di tutte le donne in cucina (incompatibile con l'aggressione da parte dell'imputato nel corridoio del centro di accoglienza) sulla base di una ipotesi, non suffragata dalla indicazione di alcun elemento concreto. In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata è stata considerata carente nella ricostruzione delle modalità di verificazione della vicenda, non esplicitate nonostante le specifiche censure formulate dall'appellante, ma anche a proposito della qualificazione giuridica della condotta (se come tentativo di violenza sessuale o violenza privata, non essendo stato chiarito, pur in presenza di censure specifiche sul punto, quali siano state la portata e l'oggetto della condotta dell'imputato, quali parti del corpo della persona offesa egli avesse attinto e se tale condotta fosse connotata da intento di appagamento sessuale); e delle ragioni della attendibilità della persona offesa e dei testi a carico e della irrilevanza di quanto riferito dai testimoni indicati dalla difesa.
Allo stesso modo, la Corte rimettente ha ritenuto fondate le doglianze formulate in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche e alla configurabilità della circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., comma 1, n. 5, rispetto alla quale ha ritenuto addirittura del tutto mancante ogni giustificazione della maggiore offensività della condotta ai sensi della norma citata, della quale, neppure nella parte ricostruttiva della vicenda, era dato rilevare i presupposti di fatto e in relazione alla quale non erano state esaminate le censure sollevate con l'atto d'appello.
3. Il giudice del rinvio, nella sentenza in questa sede censurata, ha svolto il rinnovato giudizio, procedendo intanto alla rinnovazione della istruzione dibattimentale, che ha ritenuto necessaria alla luce dei rilievi formulati dal giudice rimettente, mediante l'audizione della persona offesa, dei due testi d'accusa ( J.A. e J.E.) e dei testi O. e P.. E, all'esito, ha ritenuto pienamente confermata la penale responsabilità dell'imputato.
Ha, quindi, esaminato la lunga deposizione della prima, affermando l'assenza di motivi di astio o rancore e di intenti calunniatori o diffamatori e, quindi, la sua attendibilità, ritenendo la credibilità del riferito, in merito al quale ha sottolineato la dettagliata e puntuale ricostruzione dei fatti dalla stessa offerta, connotata da precisione, costanza e coerenza anche rispetto alle precedenti dichiarazioni, la stessa essendo suffragata da ulteriori e concordanti elementi probatori (prove testimoniali) acquisiti in sede di istruzione dibattimentale, provvedendo a riportarne interi stralci nella sentenza impugnata, dai quali emerge che, in quella sede, erano stati affrontati i temi sui quali si erano focalizzate le censure difensive (tra cui il vestiario indossato, il periodo dell'anno, le parti del corpo toccate).
Tale narrato è stato ritenuto particolarmente articolato, avendo la donna descritto in modo preciso e lucido, con dovizia di particolari, la condotta dell'imputato, il luogo del fatto e le modalità dell'azione. La dichiarante è stata ritenuta del tutto serena nella rievocazione dell'evento, pienamente consapevole delle dichiarazioni rese, pur avendo manifestato a tratti naturali reticenza e pudore. I giudici del rinvio non hanno registrato incongruenze o contraddizioni tali da sminuirne l'attendibilità e, alla stregua del suo racconto, hanno proceduto alla descrizione dei fatti accaduti la sera in cui, presso il centro di accoglienza, era andata via la luce, riassumendoli alle pagg. 33 e 34 della sentenza impugnata. Hanno, poi, valutato le rinnovate dichiarazioni rese dai testi J., A. e E., ritenendole di natura tale da confermare quelle della persona offesa, essendosi i due trovati nel corridoio quasi contemporaneamente e avendo la persona offesa riferito di essere stata soccorsa, infatti, da entrambi e le testimonianze O. e P., precisando, quanto al primo, che costui aveva affermato di non ricordare nulla e di non sapere cosa fosse successo esattamente tra l'imputato e la persona offesa, la seconda avendo affermato di avere appreso da un'altra donna che l'imputato voleva "toccare" la persona offesa.
I giudici del rinvio, poi, hanno ritenuto corretta la qualificazione giuridica del fatto, ritenendo dimostrato l'intento di soddisfazione sessuale che aveva denotato la condotta, avendo l'imputato stretto a sé la vittima fortemente, palpandole il seno con forza, toccandole le parti più intime e cercando di buttarla a terra, così ponendo in essere atti sessuali violenti, consistiti nel brutale toccamento delle parti intime e anche dei genitali della persona offesa, concretamente determinando una intrusione nella sua sfera sessuale.
L'aggravante è stata confermata valutando le condizioni nelle quali l'azione era stata posta in essere: il fatto era stato consumato in un corridoio buio, privo di fonti di luce diverse dalla corrente elettrica, in quel frangente assente; il luogo era deserto, avendo l'uomo sorpreso la vittima alle spalle, approfittando di condizioni tali da ostacolarne la difesa.
Le circostanze attenuanti generiche sono state riconosciute, peraltro in termini di prevalenza, avendo la Corte ritenuto di non poterle valutare nella massima estensione (addivenendo a una riduzione pari a un quarto) per non avere l'imputato manifestato alcun segno di ravvedimento nel corso del processo.
La somma liquidata a titolo di risarcimento dei danni subiti, poi, quantificata dal primo giudice equitativamente in complessivi Euro 10.000,00, è stata ritenuta adeguata e congrua rispetto alla sofferenza inflitta alla vittima.
4. Il primo motivo è infondato.
Alcune premesse sono necessarie, in relazione ai temi con esso introdotti.
Deve, intanto, precisarsi - quanto ai limiti derivanti al giudice del rinvio dalla pronuncia di annullamento - che, nella specie, il vizio rilevato dal giudice rimettente è quello motivazionale, cosicché va ribadito che il giudice del rinvio in tale ipotesi è chiamato a compiere un nuovo completo esame del materiale probatorio con i medesimi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, fermo restando che egli non può ripetere il percorso logico censurato dal giudice rescindente e deve fornire adeguata motivazione sui punti della decisione sottoposti al suo esame (sez. 5 n. 42814 del 19/6/2014, Cataldo, Rv. 261760, in fattispecie in cui, nell'affermare il principio, la Corte ha aggiunto che, invece, nel caso di annullamento con rinvio per violazione o erronea applicazione della legge resta ferma la valutazione dei fatti come accertati nel provvedimento annullato).
In tal senso, dunque, va inteso l'orientamento secondo il quale la Corte di cassazione risolve una questione di diritto anche quando giudica sull'adempimento del dovere di motivazione: il giudice di rinvio, in sostanza, pur conservando la libertà di decisione mediante un'autonoma valutazione delle risultanze probatorie relative al punto annullato, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato a una determinata valutazione delle risultanze processuali (in motivazione, sez. 3 n. 43550 del 8/7/2016, Balkoci, che richiama anche sez. 5, n. 7567 del 24/9/2012, dep. 2013, Scavetto, Rv. 254830).
Tale principio, peraltro, va letto in relazione a quello per il quale il giudice di merito non è vincolato né condizionato da eventuali valutazioni in fatto formulate dalla Corte di cassazione con la sentenza rescindente, spettando al solo giudice di merito il compito di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di apprezzare il significato e il valore delle relative fonti di prova (in motivazione, sez. 3, n. 20559 del 24/3/2022, Balestri; ma anche sez. 2, n. 8733 del 22/11/2019, dep. 2020, Le Voci, Rv. 278629-02; sez. 5, n. 36080 del 27/03/2015, Knox, Rv. 264861-01).
Pertanto, non viola l'obbligo di uniformarsi al principio di diritto il giudice di rinvio che, dopo l'annullamento per vizio di motivazione, pervenga nuovamente all'affermazione di responsabilità sulla scorta di un percorso argomentativo in parte diverso ed in parte arricchito rispetto a quello già censurato in sede di legittimità (sez. 4, n. 20044 del 17/3/2015, S., Rv. 263864, in cui la Corte ha precisato che eventuali elementi di fatto e valutazioni contenuti nella pronuncia di annullamento non sono vincolanti per il giudice di rinvio, ma rilevano esclusivamente come punti di riferimento al fine dell'individuazione del vizio o dei vizi segnalati e, non, quindi, come dati che si impongono per la decisione a lui demandata, di talché si devono ritenere inammissibili le censure sollevate in merito). Inoltre, nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento per vizio di motivazione mediante l'indicazione dei punti specifici di carenza o contraddittorietà, il potere del giudice di rinvio non è limitato all'esame dei singoli punti specificati, come se essi fossero isolati dal restante materiale probatorio, essendo il giudice stesso tenuto a compiere anche eventuali atti istruttori necessari per la decisione, nonché avendo l'onere di fornire in sentenza adeguata motivazione in ordine all'iter logico-giuridico seguito per giungere alla propria decisione, rispetto ai singoli punti specificati con la sentenza di rinvio (sez. 5, n. 33847 del 19/4/2018, Cesarano, Rv. 273628).
5. Nel caso in esame, non si ravvisa, intanto, alcuna violazione della regola iuris posta nell'art. 627 c.p.p., comma 3, avendo la Corte d'appello tenuto conto dei rilievi formulati dal giudice dell'annullamento in ordine alle considerazioni svolte dalla Corte d'appello e analizzato, dunque, i motivi del gravame, senza ripercorrere il ragionamento viziato, sviluppato nella sentenza annullata, anche perché il compendio probatorio si è arricchito degli esiti della disposta, ampia rinnovazione istruttoria. Tali esiti sono stati scrutinati alla luce della fondamentale premessa, più volte richiamata dalla stessa Corte di cassazione, quella cioè di dare risposta ai punti di asserita contraddizione tra il riferito dei testi d'accusa (ben tre) e gli assunti difensivi che facevano leva sul riferito di altri testimoni, due dei quali parimenti escussi davanti al giudice del rinvio, altri avendo reso dichiarazioni addirittura vagliate come false già dal giudice di prime cure (il riferimento è ai testi B.J., per il quale la trasmissione degli atti era stata disposta in dibattimento, G.W. e A.N., per i quali il primo giudice ha disposto in sentenza, in relazione alla asserita assenza dell'imputato dal centro di accoglienza il giorno 8 giugno 2015, essendo stata la tesi smentita dagli stessi testi della difesa, O. e P., che lo avevano ivi collocato (cfr. pagg. 20-21 della sentenza appellata)).
Peraltro, non è ultroneo ricordare che, in base al disposto della sentenza di annullamento, è stato richiesto al giudice del rinvio di procedere a una esauriente ricostruzione delle modalità di verificazione della vicenda, previo confronto con le censure difensive e, in base ad essa, alla verifica della qualificazione giuridica della condotta, non essendo stati chiariti la sua portata e l'oggetto, quali parti del corpo della persona offesa fossero state attinte e se tale condotta fosse connotata da intento di appagamento dell'istinto sessuale; infine, di procedere al vaglio di attendibilità della persona offesa e dei testi a carico e alla esposizione delle ragioni della ritenuta irrilevanza di quanto riferito dai testimoni indicati dalla difesa.
Più dettagliatamente, la Corte rimettente ha rilevato: un difetto di motivazione in ordine alla attendibilità della persona offesa, censurando la risposta del primo giudice d'appello che aveva svalorizzato le discrepanze denunciate a proposito del vestito indossato dalla donna, liquidandole come meramente esplorative; ha, poi, rilevato un analogo vizio quanto al riferito del teste J.A., non essendo stato chiarito il contenuto delle sue dichiarazioni, siccome provenienti da teste non oculare; ma anche con riferimento alle propalazioni della moglie di costui, rispetto alla quale il tema non chiarito riguardava addirittura la sua presenza all'interno del centro di assistenza; infine, ha censurato la decretata irrilevanza delle dichiarazioni della teste P. da parte della prima Corte territoriale, poiché la affermazione di costei che tutte le donne si erano recate in cucina e tutti gli uomini si erano invece recati a risolvere il problema dell'elettricità era stata superata alla luce di un argomento congetturale (in base al quale la genericità della indicazione della teste era compatibile con la spiegazione per cui l'imputato e la persona offesa potevano essersi attardati nel corridoio).
6. E' fondamentale, al fine di procedere al nuovo scrutinio di legittimità, sottolineare quanto dalla stessa Corte territoriale affermato in premessa: nel giudizio di rinvio si è reso necessario procedere a rinnovazione istruttoria - pur senza una precisa indicazione in tal senso da parte del giudice rimettente - alla luce dei rilievi formulati nella sentenza di annullamento. Lo stesso esame della persona offesa è stato condotto in relazione ai punti controversi, sui quali la difesa aveva opposto l'esistenza di contraddizioni e la Corte di legittimità rilevato un difetto di motivazione.
Pertanto, la rinnovata valutazione riguarda un materiale probatorio arricchitosi attraverso il rinnovato esame testimoniale e la ricostruzione dei fatti è la risultante della valorizzazione di ben tre contributi testimoniali, rispetto ai quali la Corte del rinvio ha rilevato l'assenza di intenti calunniatori o diffamatori o di malanimo o astio nei confronti del soggetto accusato, invero neppure suggeriti a difesa. Essa non è stata contraddetta da elementi di segno contrario, avendo la Corte territoriale valorizzato la convergenza delle dichiarazioni, anche in ordine alla descrizione della condotta tenuta dal soggetto accusato. La persona offesa aveva affermato di essere stata soccorsa da tutti e due i coniugi iracheni, arrivati in stretta successione temporale, e questi, dal canto loro, hanno confermato le dichiarazioni, il marito non ricordando se la moglie avesse visto l'intera azione, la moglie affermando con decisione di avervi assistito. Anche le testimonianze a discarico sono state valutate, avendo la Corte territoriale affermato che il teste O. non ricordava nulla e che la teste P., addirittura, aveva appreso aliunde l'interesse fisico dell'imputato verso la persona offesa.
In tal modo, la Corte del rinvio ha certamente colmato il rilevato gap motivazionale, sia avuto riguardo alla ricostruzione della condotta dell'imputato, che con riferimento alla ritenuta attendibilità del riferito dei testi di accusa e alla credibilità della persona offesa. La difesa, di contro, ha continuato a opporre un difetto di motivazione e ad asserire, in maniera invero del tutto apodittica, pur a fronte di una così importante rinnovazione istruttoria, che le verità processuali sarebbero state due (l'una nel senso ipotizzato dall'accusa, l'altra nel senso della validazione dell'alibi dell'imputato) e che la Corte avrebbe persistito nel mancato confronto con le censure difensive, assumendo l'avvenuta introduzione di un ragionevole dubbio, per avere la teste C. affermato che l'imputato si era trovato a Lametia Terme, non già il giorno dei fatti denunciati, bensì in un giorno compreso nel periodo nel quale i fatti sono stati collocati (la difesa fa riferimento a una delle sere tra il giorno 8 o il giorno 9 del mese di giugno 2015). Le dichiarazioni di tale teste, peraltro, erano già state ampiamente vagliate dal Tribunale che ne aveva rilevato la non conducenza ai fini della validazione dell'alibi, per non avere la dichiarante saputo indicare il giorno nel quale aveva incontrato l'imputato a *****.
Infine, deve rilevarsi la contraddittorietà dell'argomento con il quale la difesa ha inteso rilevare un difetto di motivazione per avere i giudici territoriali fatto riferimento alla prova direttamente assunta, senza richiamare espressamente le precedenti dichiarazioni, assunto che resta del tutto generico, per non avere parte ricorrente specificato le nuove, asserite incongruenze e che è contraddetto dall'affermazione contenuta nello stesso ricorso, secondo la quale tali dichiarazioni altro non erano se non conferme, al più peggiorative, delle precedenti dichiarazioni (cfr. pag. 28 del ricorso).
7. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
La qualificazione giuridica della condotta è del tutto coerente con il riferito testimoniale, ampiamente descritto in sentenza, ma anche con i principi di diritto che governano la materia.
In tema di violenza sessuale, infatti, questa Corte di legittimità ha già chiarito che il tentativo è configurabile non solo nel caso in cui gli atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere un abuso sessuale non si siano estrinsecati in un contatto corporeo, ma anche quando il contatto sia stato superficiale o fugace e non abbia attinto una zona erogena o considerata tale dal reo per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla volontà dell'agente, mentre per la consumazione del reato è sufficiente che il colpevole raggiunga le parti intime della persona offesa (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente che il contatto corporeo sia di breve durata, che la vittima sia riuscita a sottrarsi all'azione dell'aggressore o che quest'ultimo consegua la soddisfazione erotica (sez. 3, n. 4674 del 22/10/2014, dep. 2015, 5., Rv. 262472, in fattispecie in cui è stata ritenuta la fattispecie consumata in relazione alla condotta dell'imputato consistita nel leccamento di una guancia dovuto ad un bacio non riuscito ed al contemporaneo toccamento delle parti intime di una ragazza minorenne). Pertanto, può parlarsi di tentativo del reato previsto dall'art. 609 bis c.p. in tutte le ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poiché l'agente non ne ha raggiunto le zone genitali o erogene ovvero non ha provocato un contatto tra le proprie parti intime e la vittima (sez. 6, n. 10626 del 16/2/2022, Giorgi, Rv. 283003, in fattispecie relativa ad imputato che, dopo essersi abbassato i pantaloni, aveva afferrato la persona offesa per un braccio, spingendola verso un divano; sez. 3, n. 17414 del 18/2/2016, F., Rv. 266900; n. 41096 del 18/10/2011, M., Rv. 251316).
Ciò che, nella specie, è stato ampiamente argomentato dai giudici territoriali, i quali hanno correttamente messo in evidenza sia il palpeggiamento, peraltro violento, delle zone erogene, che l'aspetto della intrusione nella sfera sessuale della vittima, quanto all'elemento della soddisfazione sessuale dell'agente rilevandosi la erronea interpretazione di tale elemento, evocato al fine di dirimere dubbi allorquando la condotta, come nel caso di specie, non si traduca in un evidente attacco alla sfera sessuale della vittima, attraverso il palpeggiamento di zone erogene (seno e genitali).
Infatti, la giurisprudenza ha ben chiarito che la condotta vietata dall'art. 609 bis c.p. è solo quella finalizzata a soddisfare la concupiscenza dell'aggressore o a volontariamente invadere e compromettere la libertà sessuale della vittima, con la conseguenza che il giudice, al fine di valutare la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato, non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ma deve tenere conto dell'intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva (sez. 3, n. 51582 del 2/3/2017, T., Rv. 272362, in cui, in motivazione, la Corte ha escluso che il compimento da parte dell'imputato - che svolgeva attività di animatore volontario presso una struttura in cui erano ospitati bambini e adolescenti - di giochi che implicavano un ripetuto coinvolgimento fisico fosse qualificabile solo per questo " atto sessuale", essendo necessaria una verifica sulla direzione finalistica di tale condotta, volta ad accertare se il contatto corpore corpori fosse stato posto in essere per esclusive finalità ludiche o per soddisfare gli istinti sessuali; n. 38296 del 12/4/2018, C., Rv. 273916, in cui si è chiarito che l'elemento oggettivo del reato previsto dall'art. 609 bis c.p. sussiste anche nel caso in cui il distretto corporeo della vittima attinto dall'agente sia sessualmente indifferente, ma a condizione che la porzione del corpo che l'agente pone a contatto con quello della vittima sia connotata da valenza sessuale, precisando la Corte, in motivazione, che integra la condotta - e non il tentativo - di violenza sessuale il comportamento da parte dell'imputato che, dopo aver alzato ripetutamente il vestito indossato dalla vittima, le aveva toccato le cosce con l'intenzione di raggiungere parti più intime).
8. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato.
La difesa ha contestato, invero del tutto genericamente, il ritenuto maggior disvalore del fatto, a fronte di un rinnovato giudizio sul punto, articolato alla stregua della ricostruzione analitica dei fatti, in base alla quale l'agente aveva certamente approfittato di particolari condizioni di minorata difesa della vittima, tendendole un agguato in un corridoio buio (la cui illuminazione accidentale era esclusa dall'assenza di elettricità in tutto lo stabile), proprio nel momento in cui le persone residenti si trovavano altrove.
Sul punto, giovi un richiamo al diritto vivente per ribadire che, ai fini della sussistenza della circostanza aggravante della cosiddetta "minorata difesa", è necessario che la pubblica o privata difesa siano rimaste in concreto ostacolate e che non ricorrano circostanze ulteriori, di natura diversa, idonee a neutralizzare il predetto effetto (Sez. U, n. 40275 del 15/7/2021, Cardellini, Rv. 282095, in cui, il Supremo organo di nomofilachia ha spiegato, ancorché con riferimento all'orario notturno, ma in linea generale, che, ai fini dell'operatività dell'aggravante in questione, occorre che qualsiasi tipo di circostanza fattuale valorizzabile (di tempo, di luogo, di persona, anche in riferimento all'età) agevoli la commissione del reato, rendendo la pubblica o privata difesa, ancorché non impossibile, concretamente ostacolata; il che impone al giudice di verificare, sulla base di un giudizio di prognosi postuma, operato ex ante ed in concreto, il contesto e le peculiari condizioni che abbiano effettivamente agevolato la consumazione del reato, incidendo in concreto sulle possibilità di difesa e che abbiano facilitato l'azione criminale, rendendo effettiva la signoria o il controllo dell'agente sulla vittima, agevolando il depotenziamento se non l'annullamento delle capacità di reazione di quest'ultima, da valutarsi in relazione al momento in cui l'aggressione viene perpetrata, e non già con riferimento alla possibilità di una reazione successiva, come quella che potrebbe consistere nella denuncia dei fatti)). Inoltre, sempre secondo quanto precisato nella sentenza richiamata, la circostanza aggravante in questione ha natura oggettiva e risulta integrata per il solo fatto, obiettivamente considerato, del ricorrere di condizioni utili a facilitare il compimento dell'azione criminosa, a nulla rilevando che dette condizioni siano maturate occasionalmente o indipendentemente dalla volontà dell'agente.
9. Anche il quarto motivo è manifestamente infondato.
La Corte territoriale ha ritenuto di dover riconoscere le attenuanti generiche, ponendole in termini di prevalenza all'esito del giudizio di comparazione, ma operando una riduzione in misura inferiore al massimo. Ciò ha fatto valorizzando la mancata manifestazione di qualsivoglia resipiscenza rispetto al fatto. La difesa ha criticato tale valutazione, opponendo la esistenza di ulteriori elementi valorizzabili ai fini di un più favorevole bilanciamento degli elementi circostanziale.
Tuttavia, così argomentando, parte ricorrente trascura di considerare che la determinazione della dosimetria della pena rientra nell'apprezzamento discrezionale del giudice di merito, il quale, nella specie, ha fornito idonea giustificazione della sua decisione, alla stregua di parametri legali.
In ogni caso, va ricordata la funzione propria delle attenuanti generiche (quella, cioè, di mitigare la rigidità dell'originario sistema di calcolo della pena nell'ipotesi di concorso di circostanze di specie diversa), funzione, che - a seguito della modifica del giudizio di comparazione delle circostanze concorrenti - ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente difetto di motivazione (sez. 3 n. 44883 del 18/7/2014, Cavicchi, RV. 260627). Nella specie, il giudice ha addirittura ritenuto la prevalenza delle generiche, pur limitandone motivatamente l'effetto, con statuizione che non può essere dunque sindacata in questa sede.
10. Infine, anche il quinto motivo è manifestamente infondato.
Con il motivo d'appello, la difesa si era limitata ad asserire, in maniera del tutto generica e senza indicare elementi di valutazione rilevanti (eccezion fatta per quelli ribaditi in sede di ricorso, vale a dire la circostanza che la persona offesa era rimasta nel centro di accoglienza ove si trovava anche l'imputato e che aveva rimesso la querela) la severità della statuizione e la sproporzione della somma liquidata rispetto all'effettivo disvalore della condotta.
Trattasi di doglianza ai limiti della genericità, in relazione alla quale deve essere valutata, dunque, la risposta data dai giudici territoriali, per i quali la adeguatezza della somma è stata invece ricollegata alle sofferenze patite dalla vittima. Rispetto a tale giudizio, resta meramente apodittica l'affermazione che l'essersi la donna fermata presso il centro di accoglienza evidenzi una minor sofferenza rispetto al reato commesso ai suoi danni in quel luogo.
Sul punto, va ricordato che, in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali e equitativi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (sez. 5, n. 7993 del 9/12/2020, dep. 2021, P., Rv. 280495; sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana, Rv. 258170; sez. 5, n. 35104 del 22/6/2013, Istituto Città Studi, Rv. 257123; sez. 3, n. 34209 del 17/6/2010, Ortolan, Rv. 2 48371).
11. Al rigetto del ricorso segue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile costituita per questo giudizio di legittimità, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Catanzaro con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83 (Sez. U., n. 5464 del 26/9/2019, dep. 2020, De Falco, Rv. 277760, in cui si e', per l'appunto, statuito che - in tema di liquidazione delle spese della parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato nel giudizio di legittimità - compete alla Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 541 c.p.p. e D.P.R. n. 115 del 2002, art. 110, pronunciare condanna generica dell'imputato, mentre è rimessa al giudice del rinvio o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato la liquidazione delle stesse mediante emissione del relativo decreto di pagamento ai sensi dei citati artt. 82 e 83 T.U.S.G.). Va, infine, disposto l'oscuramento dei dati personali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile R.S.A. ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Catanzaro con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Oscuramento dati personali.
In caso di diffusione del presente provvedimento, si dispone che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle persone, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2023.
Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2023.