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Falso avvocato, quando scatta il reato di esercizio abusivo della professione?

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza n.13341 del 14/02/2024 (dep. 02/04/2024)

Qualificarsi come “avvocato” e svolgere attività stragiudiziali, pur non essendo iscritti all'Albo degli Avvocati, integra il reato di esercizio abusivo della professione (art. 348 c.p.)?

È il quesito che si pone la Sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 13341 depositata il 2 aprile 2024.

La questione nasce dalla condanna di una persona alla pena di tre mesi e dieci giorni di reclusione per aver effettuato, identificandosi come "avvocato", atti propri della professione legale, in particolare nel contesto di trattative per la risoluzione di una questione civilistica senza l'adeguata iscrizione all'albo professionale. Tale condanna, confermata in appello, porta al ricorso in Cassazione dell'imputata.

Nel caso di specie, l’imputata era stata condannata alla pena mesi tre e giorni dieci di reclusione per il reato di cui all’art 348 Cp per aver compiuto atti tipici della professione forese, qualificandosi nella corrispondenza come "avvocato" e svolgendo attività stragiudiziale nelle trattative per la composizione bonaria di un contenzioso civilistico. Contro tale condanna, confermata in appello, l’imputata ricorre in Cassazione.

La Suprema Corte sottolinea che il reato di esercizio abusivo di una professione, secondo l'articolo 348 del codice penale, si configura quando si compiono atti che, sebbene non esclusivamente riservati a una determinata professione, sono chiaramente riconducibili ad essa, soprattutto se questi atti vengono eseguiti con una certa continuità, onerosità e organizzazione, al punto da creare l'apparenza di una professione regolarmente esercitata, in assenza di indicazioni contrarie (Cassazione, Sezioni Unite n. 11545 del 2011).

È invece escluso il reato quando il soggetto si limita all'occasionale complimento di una attività stragiudiziale, non potendo una prestazione isolata essere sintomatica di un'attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato.

Nella vicenda in esame, risultava accertato che l'imputata si era qualificata come "collega" di un altro avvocato e aveva avuto incontri personali con un teste per il mancato pagamento di fatture, per le quali la imputata aveva provveduto ad intimare ai debitori morosi il pagamento con l'avvertenza di procedere legalmente con decreto ingiuntivo. Per questi motivi la Cassazione rigetta il ricorso.

Alla luce di queste considerazioni, la Cassazione rigetta il ricorso.

Reato di esercizio abusivo di una professione, atti non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, atti tuttavia compiuti con continuatività, onerosità e organizzazione, configurabilità

Integra il reato di esercizio abusivo di una professione di cui all'art. 348 cod. pen., il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.

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Cass. pen., sez. VI, ud. 14 febbraio 2024 (dep. 2 aprile 2024), n. 13341

(Presidente Di Stefano – Relatore Calvanese)

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Venezia confermava la sentenza del 30 ottobre 2020 del Tribunale di Venezia, che aveva condannato l'imputata M.M. per il reato di esercizio abusivo della professione (art. 348 cod. pen.) alla pena mesi tre e giorni dieci di reclusione.

Con l'imputazione era stato contestato all'imputata di aver compiuto atti tipici della professione forese, qualificandosi nella corrispondenza come "avvocato" e svolgendo attività stragiudiziale nelle trattative per la composizione bonaria di un contenzioso civilistico, pur non essendo iscritta all'Albo degli Avvocati (fatto accertato in data 30 maggio 2014 e aggravato dalla recidiva reiterata specifica infraquinquiennale).

2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputata, denunciando, a mezzo di difensore, i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.

2.1. Vizio di motivazione in relazione all'attribuzione all'imputata del reato.

La difesa con l'appello aveva contestato che colei che aveva agito dietro il nome dell'"avvocato M.M." fosse l'odierna ricorrente.

Il teste dell'accusa S. non aveva avuto infatti alcun contatto visivo con la persona che si qualificava in tal modo, ma solo rapporti cartolari o telefonici e nessun altro teste escusso aveva effettuato il riconoscimento della imputata. Il teste R. non ricordava se la donna conosciuta nel suo studio si fosse presentata come rappresentante di una società; il teste C. ha escluso che la imputata si fosse qualificata come avvocato.

La Corte di appello non ha di fatto risposto a tale censura.

2.2. Violazione di legge in relazione alla sussistenza del reato contestato.

La fattispecie penale in esame richiede il compimento di atti tipici riservati alla professione protetta.

Nel caso dell'avvocato la legge n. 247 del 2012 stabilisce quali siano le attività esclusive dell'avvocato, tra le quali pone anche la consulenza legale e l'assistenza legale stragiudiziale, purché connesse all'attività giurisdizionale.

Nel caso in esame la attività contestata all'imputata ha ad oggetto soltanto contatti cartolari e telefonici e non una vera e propria trattativa (in tal senso il testo S.), o attività limitate al recupero di crediti (attività non esclusiva dell'avvocato).

2.3. Vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

Nel negare le attenuanti generiche sulla base dei precedenti penali, la Corte di appello non ha considerato le censure difensive (volte a far rilevare come dai fatti in contestazione la ricorrente non avesse riportato altre pendenze o condanne e quindi la risalenza nel tempo dei precedenti penali).

Considerato in diritto

1. Il ricorso è complessivamente infondato.

2. Quanto al primo motivo, va rilevato che con l'appello la ricorrente aveva soltanto dedotto che dalle deposizioni utili per fondare la sua penale responsabilità (ovvero quelle rese dai testi S. e R.) non erano emersi rapporti "diretti" con la imputata ma soltanto di tipo epistolare (fax e mail), senza alcun accertamento sulla reale provenienza e riferibilità alla stessa della documentazione proveniente dalla sedicente "avvocato M.M."; mentre l'unica teste che aveva conosciuto effettivamente in persona la imputata (ovvero la C.) aveva riferito fatti irrilevanti ai fini della imputazione o che deponevano per la sua assoluzione.

Così correttamente inquadrata la questione sollevata con l'appello (che non riguardava pertanto il tema dell'accertamento della identità effettiva della persona autrice della condotta contestata, sostenuto nel ricorso), deve escludersi che la sentenza impugnata sia affetta dal vizio denunciato di omessa motivazione.

Al riguardo va rammentato il consolidato orientamento di legittimità, secondo cui l'obbligo di motivazione del giudice dell'impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell'atto d'impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell'appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all'art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Rv. 260841).

Ne consegue pertanto che l'omesso esame di un motivo di appello da parte del giudice dell'impugnazione non dà luogo ad un vizio di motivazione rilevante a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. allorché, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente assorbito e disatteso dalle spiegazioni svolte nella motivazione in quanto incompatibile con la struttura e con l'impianto della stessa nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la "ratio decidendi" della sentenza medesima (Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Rv. 277593).

Esaminato il motivo di ricorso in questa prospettiva, va rilevato che la Corte di appello, se pur non ha espressamente risposto al motivo, ha comunque evidenziato nella motivazione della sentenza impugnata le ragioni della infondatezza della tesi difensiva.

In primo luogo, ha rilevato che, contrariamente all'assunto difensivo, i rapporti tenuti dai testi con la persona, qualificatasi come M.M., fossero stati anche diretti e non solo attraverso comunicazioni scritte.

L'imputata aveva avuto con l'avvocato S. anche rapporti telefonici, nei quali si era qualificata come "collega"; con la teste C. aveva avuto incontri personali (si era recata personalmente presso lo studio legale della M.M., dove fuori c'era anche una targa) per il mancato pagamento di fatture, per le quali la imputata aveva provveduto ad intimare ai debitori morosi il pagamento con l'avvertenza di procedere legalmente con decreto ingiuntivo (attività compensata dietro l'emissione di regolare fattura); con il teste R. aveva avuto plurimi incontri (dapprima nel suo studio nel 2014, nel quale si era presentata come avvocato specializzata nel recupero crediti; successivamente in altri tre incontri personali, nei quali aveva continuato a qualificarsi come avvocato), nei quali aveva consegnato all'imputata una serie di fascicoli, venendo rassicurato che la pratica "stava andando avanti" e ricevendo anche atti del giudice di pace (attività per la quale aveva pagato un acconto).

La Corte di appello ha inoltre escluso l'argomento difensivo, secondo cui le attività svolte dall'imputata nei confronti di C. fossero penalmente irrilevanti (come si avrà modo di chiarire nel paragrafo che segue).

Pertanto, alla luce di questi elementi, la tesi alternativa, sostenuta dalla difesa nell'appello quanto all'identificazione dell'autore del carteggio relativo alle pratiche intrattenute con S. e R., risulta adeguatamente superata.

Le restanti censure, in quanto involgenti argomentazioni di merito non sottoposte al giudice dell'appello, devono ritenersi precluse.

3. Privo di fondamento giuridico e in parte anche aspecifico è il secondo motivo, con il quale la ricorrente contesta la sussistenza del reato.

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice il principio secondo il quale integra il reato di esercizio abusivo di una professione di cui all'art. 348 cod. pen., il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, dep. 2012, Cani, Rv. 251819).

In senso conforme a tale orientamento si è, altresì, puntualizzato che non commette il reato di abusivo esercizio della professione di avvocato il soggetto che si limiti all'occasionale complimento di una attività stragiudiziale, non potendo una prestazione isolata essere sintomatica di un'attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato (in questo senso Sez. 6, n. 32952 del 25/05/2017, Rv. 270853; Sez. 6, n. 17921 del 11/03/2003, Rv. 224959; conf. Sez. 2, n. 26113 del 07/05/2019, Rv. 276657; Sez. 6, n. 47675 del 30/10/2023, Rv. 285498).

Si è chiarito che la legge 31 dicembre 2012, n. 247, recante la «Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense», all'art. 2, comma 5 stabilisce che sono attività esclusive dell'avvocato, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla legge, l'assistenza, la rappresentanza e la difesa nei giudizi davanti a tutti gli organi giurisdizionali e nelle procedure arbitrali rituali, mentre al successivo comma 6 aggiunge poi che «fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l'attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all'attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati».

Orbene, sin dal primo grado i Giudici di merito hanno ravvisato l'abusivo esercizio della professione di avvocato nell'attività stragiudiziale, rientrante nella professione legale, portata avanti dalla ricorrente con continuità, organizzazione, onerosità e con modalità tali da creare le apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato (come l'uso della carta intestata a nome di avvocato M.M.).

Come ha spiegato la Corte di appello, tutte le pratiche di cui era stata incaricata la ricorrente erano connesse o strettamente prodromiche (e dunque "connesse") ad un contenzioso civilistico (la pratica S. era relativa ad transazione stragiudiziale per una controversia per il risarcimento danni; la pratica C. prevedeva la diffida dei debitori morosi con l'avvertimento dell'azione legale che sarebbe stata intrapresa - azione legale alla quale la ricorrente, allorquando era stata chiamata ad intraprenderla formalmente, si era sottratta solo adducendo motivi di una riorganizzazione dello studio legale; anche la pratica R. prevedeva il recupero di crediti portata avanti nella prospettiva di azioni legali - tanto che la ricorrente tranquillizzava il cliente sull'andamento dell'attività - che "stava andando avanti" - mostrandogli documenti di un giudice di pace).

4. Neppure può essere accolto l'ultimo motivo, relativo alle attenuanti generiche, posto che la Corte di appello ha attribuito valore ostativo all'elevato numero di precedenti specifici (dieci condanne), che veniva, nella sua significatività, ad assorbire e superare le argomentazioni difensive.

Secondo un principio consolidato, l'adempimento della motivazione sul diniego delle attenuanti generiche non è infirmato dal fatto che particolari situazioni, prospettate dall'imputato, non siano state specificamente prese in esame quando risulti che, con una visione più ampia ed assorbente di tutte le particolarità del caso, il giudice non ha trascurato le argomentazioni difensive ma ha ritenuto di dare la prevalenza a considerazioni di opposta significazione e di maggiore rilievo (tra tante, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 25989; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Rv. 248244; Sez. 4, n. 10226 del 06/07/1994, Rv. 200160).

5. Il rigetto del ricorso comporta la condanna dell'imputata al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

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