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Suicidio assistito in Svizzera, fornire informazioni non è istigazione al suicidio

Corte di Cassazione, sez. V Penale, Sentenza n.17965 del 14/02/2024 (dep. 07/05/2024)

Fornire informazioni circa la possibilità di accedere al suicidio assistito in Svizzera può integrare il reato di istigazione al suicidio ex art. 580 del codice penale?

Della questione si occupa la Quinta Sezione Penale della Cassazione con la sentenza n, 17965 depositata il 7 maggio 2024.

La Suprema Corte ricorda che il reato di istigazione al suicidio richiede una fattispecie plurisoggettiva necessaria impropria, che prevede una azione autolesiva del soggetto passivo, non punibile di per sé, e una condotta del soggetto attivo, che si traduce in un'istigazione o nell'agevolazione dell'atto suicida. Perché la condotta sia considerata reato, deve esistere un "intrinseco finalismo" mirato all'esito finale del suicidio.

Nel caso di specie, una donna aveva effettuato un suicidio assistito in Svizzera dopo aver sofferto di sindrome stiloidea o di Eagle. Un anno prima del suicidio, aveva contattato l'imputato, presidente di Exit Italia, per informazioni sul suicidio assistito. L'imputato, assolto in primo grado dal Gup, veniva condannato dalla Corte di appello di Catania per il reato ex art. 580 del codice penale.

La Cassazione, analizzando il caso, ha evidenziato le "plurime lacune e fratture logiche" nella motivazione della Corte d'Assise d'appello. La sentenza d'appello non aveva adeguatamente dimostrato che le informazioni fornite dall'imputato fossero state dirette a rafforzare la volontà suicida della donna, piuttosto che rappresentare una generica espressione delle opinioni dell'imputato sul fine vita.

La partecipazione morale imputata all'accusato, secondo la Cassazione, rappresentava un mero antecedente dell'azione autolesiva della donna, senza un intrinseco finalismo diretto all'esito suicidario. Inoltre, la Cassazione ha criticato il tentativo dei giudici di attribuire all'imputato una "posizione di garanzia" nei confronti di chi si rivolge all'associazione, un concetto che avrebbe richiesto un obbligo di dissuasione dal suicidio non supportato dalla legge.

Infine, la Cassazione ha messo in discussione il nesso causale tra la conversazione telefonica e il suicidio, avvenuto dopo un significativo intervallo temporale, e la presunta vulnerabilità psicologica della donna, basata su un ragionamento ritenuto insufficientemente supportato da prove concrete.

Per tali ragioni, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Assise di appello di Catania.

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Cassazione penale, sez. V, sentenza 14/02/2024 (dep. 07/05/2024) n. 17965

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte d'Assise d'appello di Catania, in riforma della pronunzia di assoluzione perché il fatto non sussiste emessa dal G.u.p. del Tribunale di Catania a seguito di giudizio abbreviato ed accogliendo l'appello del pubblico ministero, ha condannato, anche agli effetti civili, Co.Em. per il reato di istigazione al suicidio di Gi.Ba.

La vicenda riguarda il suicidio assistito della Gi.Ba., avvenuto in una clinica svizzera nel marzo del 2019. La stessa si era determinata a tale soluzione in ragione delle condizioni in cui era costretta a vivere per i costanti dolori di cui soffriva a causa della sindrome stiloidea o di Eagle da cui era afflitta e che l'avevano altresì portata a manifestare forme depressive. Poco più di un anno prima la Gi.Ba. contattava l'imputato per assumere informazioni sulla possibilità di accedere al suicidio assistito in Svizzera e ciò in quanto il Co.Em. era il presidente dell'associazione Exit Italia, impegnata nella promozione di una "cultura di dignità della morte", che agiva in accordo con l'associazione elvetica Dignitas, presso la cui clinica la persona offesa avrebbe poi effettivamente portato a compimento il suo proposito suicidario. Nel corso del primo contatto telefonico, avvenuto la viglia di Natale del 2017, l'imputato e la Gi.Ba. intrattenevano una lunga conversazione i cui contenuti venivano successivamente pubblicati dall'imputato sul bollettino dell'associazione da lui presieduta e confermati nell'interrogatorio reso dallo stesso nel corso delle indagini preliminari. Venivano poi documentati alcuni messaggi di posta elettronica inviati dalla Gi.Ba. al Co.Em. tra la fine di luglio e l'inizio di agosto del 2018, nei quali la donna informava l'imputato circa l'avanzamento della procedura avviata con Dignitas e lo ringraziava per il supporto e i consigli ricevuti, nonché numerosi contatti telefonici intervenuti nello stesso periodo tra i due, desunti dai tabulati delle rispettive utenze. Sulla base del compendio probatorio così sintetizzato, la Corte territoriale ha quindi concluso, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, che l'imputato abbia rafforzato il proposito suicidario manifestato dalla persona offesa, realizzando una delle condotte tipizzate dall'art. 580 c.p. In particolare il giudice dell'appello ha provveduto anzitutto, ai sensi dell'art. 603 comma 3 c.p.p., alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale disponendo l'esame dei consulenti tecnici del pubblico ministero e della difesa, nonché dei fratelli e di un'amica della vittima, per poi fondare il proprio convincimento soprattutto sulle risultanze del resoconto effettuato dall'imputato del contenuto della prima conversazione telefonica intrattenuta con la Gi.Ba. e delle considerazioni cliniche provenienti dagli esperti auditi, ritenendo che la sofferenza derivante dai dolori causati dalla patologia da cui la stessa era affetta - ed amplificata dalla sindrome depressiva in cui era caduta - l'aveva resa vulnerabile e dunque esposta all'influenza delle sollecitazioni dell'imputato tese a persuaderla della ragionevolezza della scelta di accedere al suicidio assistito.

2. Avverso la sentenza, nell'interesse dell'imputato, hanno proposto ricorso entrambi i suoi difensori.

2.1 Il ricorso proposto dall'avv. Del Sorbo articola quattro motivi.

2.1.1 Con il primo deduce violazione di legge e vizi della motivazione con riguardo all'ordinanza del 24 ottobre 2022 con la quale la Corte ha disposto la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, lamentando l'omessa esplicitazione delle ragioni della ritenuta assoluta necessità di procedere a tale rinnovazione.

2.1.2 Con il secondo motivo il ricorrente denunzia analoghi vizi in ordine alla mancata rinnovazione dell'esame dell'imputato nonostante la riforma della pronunzia assolutoria di primo grado sia stata fondata esclusivamente sul resoconto dallo stesso pubblicato della conversazione intrattenuta il 24 dicembre 2017 con la vittima e nonostante il Co.Em. nel corso del suo interrogatorio avesse negato di aver in qualche modo influenzato la Gi.Ba. in merito alla scelta del suicidio assistito.

2.1.3 Con il terzo motivo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione in merito all'affermazione della responsabilità dell'imputato.

Sotto un primo profilo il ricorrente denunzia il difetto di motivazione rafforzata della decisione impugnata, avendo la Corte territoriale omesso il doveroso confronto con lo sviluppo argomentativo della pronunzia di primo grado e l'esplicitazione delle ragioni della ritenuta maggiore persuasività della propria interpretazione del significato del compendio probatorio di riferimento, soprattutto con riguardo al tema dell'effettiva influenzabilità della vittima, che il giudice di prime cure aveva escluso. In proposito viene eccepito che quello d'appello avrebbe sostanzialmente travisato sul punto le dichiarazioni rese dai consulenti, procedendo ad una indebita identificazione tra la riconosciuta vulnerabilità della Gi.Ba. e l'affermata influenzabilità della medesima, invero mai sostenuta dagli esperti auditi e invece ritenuta senza peraltro considerare il rilevante intervallo temporale intercorso tra il primo contatto con l'imputato e l'esecuzione del suicidio la cui significanza è stata invece sottolineata dal consulente Ag.

E sul punto manifestamente illogica sarebbe in particolare la critica rivolta dalla sentenza alle dichiarazioni della consulente Ga., che pure ha escluso che la condizione di fragilità di un soggetto possa di per sé tradursi nella sua influenzabilità. Non solo, i giudici del merito avrebbero omesso di considerare come la vittima abbia perseguito il proprio disegno con determinazione, rimanendo incurante alle sollecitazioni di segno contrario delle persone a lei più vicine e dimostrando così semmai di non essere influenzabile.

Parimenti illogico sarebbe poi l'estremo tentativo della Corte di delimitare la asserita influenzabilità della Gi.Ba. al solo periodo corrispondente alla corrispondenza telefonica con l'imputato, trattandosi di ipotesi smentita dalle dichiarazioni del consulente Ag., che ha escluso la possibilità di un rapporto di immediatezza tra la diagnosi della sindrome di Eden e l'eventuale suggestionabilità del soggetto che l'abbia ricevuta. In definitiva la Corte avrebbe indebitamente desunto dalla riconoscibile vulnerabilità della vittima, dovuta alla sofferenza causata dalla malattia, la sua influenzabilità, invero priva di riscontro alcuno nel compendio probatorio di riferimento, evidenziando dunque l'apoditticità delle conclusioni raggiunte dai giudici del merito in proposito.

Sotto un diverso profilo il ricorrente lamenta come in maniera parimenti apodittica la sentenza avrebbe ritenuto la conversazione intercorsa tra l'imputato e la vittima il 24 dicembre 2017 idonea a rafforzare il proposito suicidano di quest'ultima. In tal senso viene osservato come il resoconto pubblicato dal Co.Em. di tale conversazione non costituirebbe l'esatta trascrizione della medesima, bensì una mera sintesi del suo contenuto, talché ultroneo sarebbe il significato attribuito dai giudici dell'appello al riferimento operato al fatto che la Gi.Ba. avesse rivelato qualche resistenza a mettere in atto l'intento suicidario per dedurne la valenza persuasiva delle opinioni espresse dall'imputato sulla dignità ed i vantaggi del suicidio assistito. Peraltro il Co.Em. si sarebbe per l'appunto limitato a comunicare mere opinioni sulla preferibilità di una morte assistita ad una vita di sofferenza.

Infine, del tutto generica e lacunosa sarebbe la motivazione della sentenza in merito all'accertamento della sussistenza del dolo del reato, la cui struttura richiederebbe non solo la consapevolezza di rafforzare con la propria condotta l'altrui proposito suicida, ma altresì la prova di quello specifico consistente nel fine che il suicidio avvenga. Ed in tal senso non avrebbe in alcun modo trattato il tema della prefigurazione e volontà dell'evento da parte dell'imputato quale conseguenza della sua condotta.

2.1.4 Con il quarto motivo il ricorrente deduce vizi di motivazione in merito al denegato riconoscimento delle attenuanti generiche, pur a fronte dell'incensuratezza dell'imputato, statuizione illogicamente fondata sul difetto di rivisitazione critica dei fatti e di resipiscenza da parte del Co.Em. e, in maniera del tutto apodittica, sulle presunte modalità "subdole" di coartazione della volontà della vittima.

2.2 Anche il ricorso proposto dall'avv. Corcelli articola quattro motivi.

2.2.1 Con il primo vengono dedotti erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito all'affermazione di responsabilità dell'imputato. In tal senso viene anzitutto contestato che sulla base delle dichiarazioni dei consulenti esaminati nel giudizio d'appello possa effettivamente ritenersi accertato che la Gi.Ba. versasse in condizioni di vulnerabilità e influenzabilità, peraltro nemmeno richieste ai fini dell'integrazione della fattispecie di cui all'art. 580 c.p. Non di meno la motivazione della sentenza sarebbe illogica e contraddittoria nella misura in cui finirebbe per ipotizzare una sorta di influenzabilità selettiva della vittima, avendo la Corte ammesso che la stessa sia rimasta impermeabile alle ripetute sollecitazioni a desistere dal proprio intento provenienti da familiari e amici. La Corte avrebbe poi omesso di considerare che dalle deposizioni dei fratelli della vittima sarebbe emerso che quest'ultima aveva iniziato a manifestare il proprio intento suicidano ben prima di entrare in contatto con il Co.Em.

Sotto altro profilo il ricorso lamenta che in ogni caso il giudice dell'appello avrebbe in maniera solo apodittica, alla luce del contenuto delle prove acquisite, ritenuto che i comportamenti effettivamente addebitabili all'imputato abbiano incentivato la Gi.Ba. a porre fine alla propria vita, fondandosi di fatto unicamente sul resoconto pubblicato dal Co.Em. del primo contatto telefonico intercorso tra i due. In proposito la Corte territoriale peraltro non avrebbe considerato che il suddetto contatto è avvenuto oltre un anno prima dell'esecuzione del suicidio, periodo nel quale la vittima è sempre rimasta pienamente capace di intendere e volere, come testimoniato dai consulenti, e nel corso del quale, dunque, non sarebbe più stata influenzabile. In definitiva, in maniera illogica e del tutto sconnessa al compendio probatorio di riferimento, il giudice del merito avrebbe sostenuto che ella sarebbe stata influenzabile soltanto nel corso della conversazione intrattenuta con l'imputato il 24 dicembre 2017. Non di meno in maniera altrettanto apodittica la Corte avrebbe affermato la natura altamente persuasiva della condotta tenuta dal Co.Em. nel corso di quel colloquio, omettendo di motivare dunque sull'efficacia causale del suo comportamento.

Infine, il difensore lamenta altresì la carenza di motivazione sulla configurabilità del dolo tipico del reato contestato.

2.2.2 Con il secondo motivo viene denunziato il difetto di motivazione rafforzata della sentenza impugnata, priva di un confronto critico con quella della pronunzia assolutoria di primo grado, mentre con il terzo deduce violazione di legge in merito alla disposta rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. Oltre a denunziare il difetto di motivazione della relativa ordinanza in merito all'assoluta necessità della rinnovazione, l'avv. Corcelli rileva come solo formalmente la Corte abbia proceduto ai sensi del terzo comma dell'art. 603 c.p.p., avendo di fatto ammesso le nuove prove ai sensi del comma 3-bis dello stesso articolo in violazione di quanto previsto da tale disposizione nel testo riformulato dal D.Lgs. n. 150 del 2022 - da ritenersi applicabile in forza del principio tempus regit actum - posto che nel caso di specie si è proceduto nel primo grado di giudizio nelle forme del rito abbreviato non condizionato ad integrazione probatoria.

2.2.3 Con il quarto motivo viene denunziata ulteriore violazione di legge in merito alla mancata esclusione delle parti civili Pa. e Gi.Fr. per il mancato conferimento di formale procura speciale ex art. 100 c.p.p. al nuovo difensore dalle stesse nominato nel corso del giudizio di primo grado, dovendosi dunque ritenere illegittima la motivazione con la quale la Corte territoriale ha rigettato l'analoga eccezione proposta nel giudizio d'appello evocando il mero riferimento all'intervenuta costituzione di parte civile contenuto nell'atto di conferimento del mandato difensivo.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono fondati nei termini e nei limiti di seguito esposti.

2. In realtà infondati sono i primi due motivi del ricorso proposto dall'avv. Del Sorbo e il secondo motivo del ricorso proposto dall'avv. Corcelli nella parte in cui attinge i medesimi punti della decisione impugnata.

2.1 Quanto alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale disposta ai sensi dell'art. 603 comma 3 c.p.p., va anzitutto ribadito che tale iniziativa è certamente consentita anche nel giudizio d'appello conseguente allo svolgimento con le forme del rito abbreviato di quello di primo grado (ex multis Sez. 2, n. 30776 del 10/05/2023, Chionna, Rv. 284947). Non è poi in dubbio che la stessa sia subordinata alla constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza la richiesta integrazione probatoria; si tratta dunque di un accertamento che è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se sostenuta da una adeguata motivazione (ex multis Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620). Motivazione che deve riflettere quello che è il contenuto meramente ricognitivo della situazione di potenziale stallo probatorio rilevato dal giudice, senza però tradursi in una sorta di anticipazione del giudizio finale, atteso che egli può anche ritornare, res melium perpensa, sulla propria decisione e, senza necessariamente contraddirsi, anche sulla valutazione in relazione alla quale è stata ordinata la rinnovazione (Sez. 4, n. 34730 del 12 luglio 2011, Alialo, Rv. 251112). Ricordato che in ogni caso l'acquisizione di una prova nuova in appello, eventualmente adottata in assenza del presupposto dell'assoluta necessità dell'integrazione, non determina l'inutilizzabilità della stessa (Sez. 6, n. 48093 del 10/10/2018, G., Rv. 274230), l'ordinanza impugnata non può dunque ritenersi motivata solo apparentemente, come invece eccepito, posto che la Corte territoriale ha individuato i punti della decisione cui erano correlate le iniziative probatorie assunte (peraltro in parte sollecitate dalla stessa difesa dell'imputato) alla luce delle censure poste alla base dell'impugnazione della senza assolutoria di primo grado. Né può ritenersi che il giudice dell'appello abbia sostanzialmente ed irritualmente proceduto alla rinnovazione istruttoria sulla base dell'art. 603 comma 3-bis c.p.p., come apoditticamente eccepito nel secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Corcelli, posto che la Corte mai ha fatto riferimento a tale disposizione, ma, si ripete, si è limitata ad esercitare il potere officioso riconosciutogli dal terzo comma dello stesso articolo per come sollecitatogli dalle stesse parti.

2.2 Parimenti infondata è l'eccezione relativa alla mancata audizione dell'imputato nel giudizio d'appello ai sensi dell'art. 603 comma 3-bis c.p.p., in quanto non tiene conto delle modifiche apportate a tale disposizione dal D.Lgs. n. 150 del 2022.

2.2.1 Non è in dubbio, infatti, che il testo originario della norma (introdotta dalla I. n. 103 del 2017) comportava l'obbligo di rinnovare le prove dichiarative decisive oggetto di diversa valutazione in caso di riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado, anche se pronunziata a seguito di giudizio abbreviato e che la violazione di tale obbligo determinava una nullità di ordine generale a regime intermedio della sentenza d'appello, denunciabile in sede di giudizio di legittimità (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785). Né è in dubbio che il medesimo obbligo riguardasse anche le dichiarazioni rese dall'imputato "in causa propria" (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267488; Sez. 3, n. 16131 del 20/12/2022, dep. 2023, B., Rv. 284493; Sez. 6, n. 27163 del 05/05/2022, Burigo, Rv. 283631).

Non di meno il citato decreto legislativo ha rimodulato l'ambito di applicazione della suddetta disposizione, circoscrivendo espressamente l'obbligo di rinnovazione alle prove dichiarative assunte nel corso del dibattimento di primo grado ovvero a seguito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato ai sensi degli artt. 438 comma 5 e 441 comma 5 c.p.p. E' dunque escluso che il giudice dell'appello, il quale intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado pronunziata a seguito di giudizio abbreviato, sia tenuto ad assumere l'esame dell'imputato, qualora questi abbia reso dichiarazioni esclusivamente nel corso delle indagini preliminari, come per l'appunto avvenuto nel caso di specie.

2.2.2 Né rileva che la modifica normativa sia entrata in vigore solo successivamente all'impugnazione della sentenza di primo grado.

Come noto, in tema di successione di leggi processuali nel tempo, con riferimento alla materia delle impugnazioni, le Sez. U n. 27614 del 29/03/2017, Lista, Rv. 236537, hanno stabilito che ai fini dell'individuazione del regime applicabile, in assenza di disposizioni transitorie, deve farsi riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell'impugnazione. Per superare il conflitto tra disposizioni processuali che si succedono nel tempo, la sentenza suindicata ha evidenziato la necessità che si individui correttamente l'actus cui fare riferimento per fissare il corretto parametro intertemporale, parametro che, con specifico riferimento al campo processuale, è costituito dall'art. 11, primo comma, preleggi. Si è così precisato che l'atto "va considerato nel suo porsi in termini di autonomia rispetto agli altri atti dello stesso processo", non potendosi accogliere una nozione indifferenziata di atto processuale. Ed infatti la citata pronunzia ha, in via esemplificativa, individuato alcune specie di atti, rispetto ai quali il parametro intertemporale finisce per essere diversamente modulato: "l'atto con effetti istantanei, che si esaurisce nel suo puntuale compimento"; l'atto ad esecuzione istantanea che però "presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga", ancorato ad un altro atto che definisce la catena procedimentale divenendone centrale; l'atto "strumentale e preparatorio rispetto ad una successiva attività del procedimento", che realizza una fattispecie processuale complessa. In tal senso il Supremo Collegio ha inteso sottolineare come la tipologia cui è riconducibile il singolo atto processuale finisca necessariamente per condizionare la regola tempus regit actum nella sua concreta applicazione.

2.2.3 Ed in tal senso successivamente Sez. Unite, n. 11586 del 30/09/2021, dep. 2022, D., Rv. 282808, in motivazione, hanno avuto modo di chiarire che il principio affermato dalla sentenza Lista si riferisce all'atto di impugnazione in senso stretto, che consente il passaggio al successivo grado di giudizio, ricompreso nella tipologia degli atti con effetti istantanei. Ed in tal senso la medesima pronunzia da ultima evocata ha invece escluso che lo stesso principio possa essere applicato alla disciplina introdotta nel 2017 nel comma 3-bis dell'art. 603 c.p.p., la quale "non è intervenuta a regolamentare in modo innovativo l'atto di impugnazione in quanto tale ovvero il regime stesso dell'impugnazione, ma ha introdotto una nuova regola processuale sulla istruttoria in appello". Nella necessità, dunque, di individuare l'actus per definire il corretto parametro intertemporale, le Sezioni Unite hanno riconosciuto che la regola posta dalla disposizione citata riguarda una regola procedimentale del giudizio di appello, che viene ad operare nel caso di ribaltamento della precedente decisione assolutoria, escludendo che in tal caso sussista alcun atto processuale già perfezionatosi e idoneo a produrre i propri effetti prima dell'entrata in vigore della legge n. 103 del 2017.

2.2.4 I principi affermati dalla sentenza da ultima menzionata non possono non trovare applicazione anche in riferimento all'ulteriore fenomeno successorio che ha interessato l'art. 603 comma 3-bis c.p.p., ossia quello dovuto alle già illustrate modifiche che la norma ha subito ad opera del D.Lgs. n. 150 del 2022, atteso che, anche in questo caso, la questione di diritto intertemporale non riguarda un singolo atto che abbia esaurito i propri effetti, quale quello di impugnazione, bensì un procedimento ricompreso nel giudizio di impugnazione, ancora non esaurito, rispetto al quale il principio tempus regit actum deve essere riferito al momento in cui l'atto complesso del procedimento stesso viene ad essere compiuto.

Ne consegue che, contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, legittimamente il giudice dell'appello non ha proceduto alla rinnovazione dell'interrogatorio dell'imputato in accordo con quanto previsto dal vigente testo del comma 3-bis dell'art. 603, come del resto singolarmente sostenuto nel secondo motivo del ricorso proposto dall'altro difensore dell'imputato.

2.3 Infondato è infine il quarto motivo del ricorso dell'avv. Corcelli. La Corte territoriale ha infatti interpretato il contenuto dell'atto di designazione del nuovo difensore delle parti civili, inferendone in maniera logica che lo stesso contenga la volontà delle parti civili di conferirgli procura richiesta dall'art. 100 c.p.p., la quale non richiede per la sua validità il ricorso a formule sacramentali.

3. Colgono invece nel segno il terzo motivo del ricorso dell'avv. Del Sorbo ed il primo e la prima parte del secondo motivo del ricorso dell'avv. Corcelli.

3.1 E' innanzi tutto necessario ricordare l'insegnamento delle Sezioni Unite, per cui il giudice di appello che riformi la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679).

Obbligo che, come pure le stesse Sezioni Unite hanno avuto successivamente occasione di precisare, deve essere declinato in maniera differente a seconda che l'overturning abbia ad oggetto una pronunzia di condanna o di assoluzione, poiché la presunzione d'innocenza e la regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio impongono soglie probatorie asimmetriche in relazione al diverso epilogo decisorio, il che ha evidenti riflessi anche sul piano della estensione dell'obbligo di motivazione (Sez. U. n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430).

Nel caso del ribaltamento della condanna, infatti, l'onere di confutazione della sentenza impugnata si traduce in quello di giustificare i motivi per cui le ragioni del primo giudice non consentono di escludere ricostruzioni alternative del fatto, sulla scorta di un'operazione di tipo essenzialmente demolitivo, fermo restando che le ricostruzioni alternative di cui si tratta non devono essere solo astrattamente ipotizzabili, ma risultano plausibili in quanto ancorate alle evidenze processuali.

Qualora ad essere sovvertita sia, invece, una pronunzia assolutoria, il giudice dell'impugnazione non è più chiamato ad argomentare il dubbio processualmente plausibile dell'innocenza dell'imputato, bensì la certezza della sua colpevolezza, che gli impone di giustificare per quale motivo il diverso apprezzamento delle risultanze processuali deve ritenersi come l'unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilità del primo giudizio.

In tal senso il giudice dell'appello non può, dunque, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio, perché ritenuta preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato, ma deve provvedere ad una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. In definitiva il giudicante è chiamato, attraverso il confronto con l'apparato giustificativo della sentenza del primo giudice, a confrontarsi con la regola di giudizio che presiede all'affermazione della responsabilità penale dell'imputato.

3.2 Alla luce delle rassegnate coordinate esegetiche è agevole riconoscere la fondatezza dei rilievi difensivi concernenti il difetto di motivazione rafforzata della sentenza impugnata.

In tal senso non può non rilevarsi come la Corte territoriale si sia limitata a riassumere il percorso giustificativo seguito dal G.u.p. del Tribunale di Catania, per poi accantonarlo, senza mai effettivamente confrontarsi effettivamente con le argomentazioni articolate dal primo giudice e finendo per contrapporre alle stesse la propria valutazione del compendio probatorio, priva però una argomentata critica delle ragioni per cui quella contenuta nella sentenza di primo grado debba ritenersi logicamente viziata.

E' sì vero che nel caso di specie, come già ricordato, la geometria della piattaforma cognitiva è mutata a seguito della articolata rinnovazione istruttoria disposta nel giudizio d'appello, ma ciò non costituisce di per sé circostanza idonea a legittimare l'aggiramento dell'obbligo di motivazione rafforzata. Infatti, quelle assunte non erano - o non erano in larga parte - prove totalmente inedite ed era, dunque, onere del giudice dell'appello esplicitare in che termini dall'audizione dei consulenti tecnici e dei testimoni escussi siano stati ricavati, a posteriori, elementi di valutazione effettivamente innovativi dell'analogo materiale raccolto nel corso delle indagini preliminari sulla base del quale il primo giudice aveva fondato la propria decisione, giustificando così la sostanziale pretermissione della motivazione che l'ha sostenuta.

4. Ma anche volendo prescindere dalla violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata -si ripete, di per sé esiziale ai fini della valutazione della effettiva corrispondenza della motivazione alla regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio - non può esimersi dall'evidenziare le plurime lacune e fratture logiche che caratterizzano l'apparato giustificativo della sentenza impugnata.

4.1 In proposito è anzitutto opportuno ricordare che quella configurata dall'art. 580 c.p. è nella sua sostanza una fattispecie plurisoggettiva necessaria impropria, atteso che alla produzione di uno degli eventi tipizzati dalla norma incriminatrice devono necessariamente concorrere l'azione autolesiva del soggetto passivo (di per sé non punibile) e la condotta del soggetto attivo del reato, che deve risolversi in una forma di istigazione, ossia nella determinazione o nel rafforzamento dell'altrui volontà suicida, ovvero di agevolazione dell'esecuzione del suicidio. Ferma restando l'inapplicabilità delle disposizioni sul concorso di persone nel reato, atteso che - come detto - la condotta autolesiva del suicida non integra di per sé un illecito penale, il reato è dunque integrato da una partecipazione morale o materiale all'ideazione od esecuzione dell'altrui proposito suicidario.

In tal senso la condotta dell'agente, per essere tipica, deve assumere una oggettiva efficienza nella causazione dell'evento del reato (Sez. 5, n. 22782 del 28/04/2010, Bagarini, Rv. 247519), la cui produzione deve comunque materialmente rimanere affidata all'azione del soggetto passivo, configurandosi altrimenti diverse ipotesi di reato, come quelle previste dagli artt. 575 e 579 c.p. (Sez. 1, n. 26015 del 02/02/2023, Perria, Rv. 284888). Ed infatti per la legge penale, come sottolineato già nella Relazione al codice penale, il suicidio è un atto volontario compiuto personalmente per procurarsi la morte nella consapevolezza della sua natura autolesiva.

4.2 La condotta di partecipazione morale - contestata all'imputato nella forma, secondo la concorde ricostruzione di entrambi i giudici del merito, del rafforzamento della volontà suicidaria della Gi.Ba. - rappresenta dunque, sul piano condizionalistico, un mero antecedente necessario dell'evento, che influisce, sul piano psicologico, sulla determinazione del soggetto passivo di compiere il gesto autolesivo.

In accordo con la dottrina più accorta deve ritenersi, però, che, per risultare tipica, la condotta di partecipazione morale deve presentare un "intrinseco finalismo" orientato all'esito finale, sussistendo altrimenti il rischio di dilatare oltremodo il perimetro oggettivo della fattispecie fino a ricomprendere qualsiasi condotta umana che abbia comunque suscitato o rafforzato l'altrui volontà suicidaria comunque liberamente formatasi.

4.3 In tali termini ricostruito, il profilo della condotta tipica si riflette sull'oggetto del dolo necessario per la sussistenza del reato, il quale non solo per questo si tinge dei colori di quello specifico - come erroneamente sostenuto nel ricorso dell'avv. Del Sorbo - ovvero di quello intenzionale. Va infatti ribadito che quello richiesto dall'art. 580 c.p. è il mero dolo generico, per la cui integrazione è però indispensabile sia la prefigurazione dell'evento come dipendente dalla propria condotta (Sez. 5, n. 22782 del 28/04/2010, Bagarini, cit.), sia la consapevolezza della obiettiva serietà dell'altrui proposito suicida al cui rafforzamento la propria condotta deve per l'appunto concorrere (Sez. 5, n. 3924 del 26/10/2006, dep. 2007, Vono, Rv. 235623).

4.4 In ragione dei principi illustrati la motivazione della sentenza impugnata appare anzitutto inadeguata nell'individuazione nella condotta attribuibile all'imputato dei caratteri di tipicità della fattispecie contestata.

Ed infatti la Corte territoriale è non poco assertiva sul punto, tanto più che apparentemente sembra ridurre il contributo rafforzativo imputabile al Co.Em. al colloquio di circa un'ora intrattenuto con la Gi.Ba. alla vigilia del Natale del 2017 su iniziativa di quest'ultima. Colloquio i cui contenuti il giudice del merito ha sostanzialmente potuto valutare esclusivamente sulla base del breve resoconto riassuntivo svolto successivamente dallo stesso imputato, con finalità informativo-divulgative sul bollettino dell'associazione da lui presieduta e riportato integralmente alle pagine 25 e 26 della sentenza.

Se dunque le frasi pronunziate dal Co.Em. nel corso di tale interlocuzione con il soggetto passivo del reato - si ripete, per come ricostruite e sintetizzate nello scritto menzionato - devono poter integrare la condotta tipica, la Corte avrebbe dovuto innanzi tutto spiegare in che termini le stesse debbano ritenersi specificamente orientate a rafforzare la volontà della Gi.Ba. di accedere al suicidio - vincendone dunque eventuali resistenze - e non rappresentino piuttosto la generica manifestazione delle astratte opinioni dell'imputato sul fine vita, tanto più che la conversazione di cui si tratta -sempre nei limiti in cui possa ritenersi fedelmente riflessa nel resoconto - sembra aver degradato fin dall'inizio verso temi escatologici privi di evidente rilevanza ai fini della dimostrazione dell'accusa. Ma ancor prima avrebbe dovuto asseverare la sicura corrispondenza, ogni oltre ragionevole dubbio, dell'esatta corrispondenza tra quanto riportato nello scritto e il contenuto - se non addirittura la forma - delle frasi effettivamente comunicate alla Gi.Ba., risultando in tal senso sostanzialmente neutra la generica conferma da parte del Co.Em. nel corso del proprio interrogatorio dell'attendibilità del resoconto, tanto più che in quella sede lo stesso imputato ha dato la propria versione circa il reale tenore e significato della conversazione, che la sentenza non ha sostanzialmente preso in considerazione, nemmeno per confutarla.

4.5 In realtà la Corte sembra in qualche modo essersi resa conto della scarsa consistenza (e certezza) del contenuto del materiale valorizzato in funzione della valutazione di penale rilevanza della condotta dell'imputato ed ha dunque cercato di espanderne i confini o il significato.

In tal senso ha anzitutto operato un ambiguo e contraddittorio accenno ai successivi plurimi contatti telefonici e di messaggistica intervenuti tra i due protagonisti della vicenda. Contatti che pure in precedenza aveva ritenuto sostanzialmente neutri - in ragione dell'accertato contenuto dei messaggi ovvero per l'impossibilità di conoscere quello delle telefonate - quasi ad evocare surrettiziamente che vi sia stata da parte dell'imputato una intensa reiterazione di quella che ha assertivamente giudicato essere stato il tentativo di convincere la Gi.Ba. a porre fine alle sue sofferenze. In secondo luogo ha desunto la tipicità della condotta dal fatto che l'imputato non si sia limitato a fornire alla Gi.Ba. le informazioni richieste per mettersi in contatto con la clinica svizzera abilitata a somministrare il suicidio assistito, ma avrebbe per l'appunto divagato, intrattenendo la sua interlocutrice sulla supposta bontà della scelta suicidaria. Premesso che la circostanza non è ancora idonea a dimostrare la tipicità della condotta, è evidente come i giudici del merito abbiano cercato surrettiziamente di configurare in capo al Co.Em. una sorta di posizione di garanzia nei confronti di coloro che si rivolgono all'associazione da lui presieduta, in ragione della quale non gli sarebbe lecito manifestare le proprie opinioni generali sul fine vita, dovendosi invece fare carico della plausibile situazione di fragilità psicologica dei propri interlocutori, se non addirittura di dissuaderli dal loro proposito. Posizione di garanzia la cui base giuridica non è meglio individuata dalla sentenza e la cui insussistenza è invero di lampante evidenza, salvo, forse, nel caso in cui non ricorrano gli estremi della situazione presupposta dall'art. 593 comma secondo c.p., invero mai ipotizzata nel caso di specie.

4.6 Ancora più evidenti sono le lacune e le aporie motivazionali della sentenza impugnata con riguardo alla sussistenza del nesso eziologico tra la condotta imputata al Co.Em. e l'evento del reato contestato.

La prova del nesso condizionalistico è stata sostanzialmente affidata ad un sillogismo fondato sui pareri dei consulenti tecnici e la cui struttura è così sintetizzabile: la Gi.Ba. in ragione delle sofferenze derivanti dalla malattia da cui era afflitta e dello stato depressivo che ne era conseguito era un soggetto fragile, dunque, vulnerabile e per questo influenzabile e di fatto influenzata dai discorsi articolati dal Co.Em. nel corso dell'originario contatto telefonico del dicembre 2017.

Orbene, al di là della forzatura da parte dei giudici di merito del significante di alcuni passaggi delle dichiarazioni dei consulenti - pure denunciata nei ricorsi - e della assoluta vaghezza concettuale della terminologia dispiegata, è possibile ritenere fondata la diagnosi formulata dalla Corte sullo stato di fragilità psicologica in cui la vittima del reato si era venuta a trovare all'epoca in cui entrò in contato con l'imputato, trattandosi di valutazione logicamente sostenuta dal concorde parere dei consulenti, dalle acute sofferenze che la affliggevano (ed ampiamente dimostrate dalla documentazione medica e dalle testimonianze acquisite), nonché dallo stesso fatto che ella avesse già maturato propositi suicidari (circostanza che invero la Corte non ha potuto negare, ma che non ha in alcun modo valutato) e si fosse rivolta all'associazione del Co.Em. per essere indirizzata ad una struttura idonea ad assisterla nella sua decisione di porre fine alla propria vita. Può inoltre ritenersi accettabile, sul piano logico, l'inferenza per cui un soggetto indeterminato che versi nelle condizioni di fragilità assunte possa essere vulnerabile e di conseguenza ipotizzare che possa essere anche influenzabile. Ma ciò ancora non dimostra che effettivamente fosse vulnerabile ed influenzabile la Gi.Ba., né, ciò che più conta, che sia stata realmente condizionata dalle parole dell'imputato nella sua decisione di porre fine alla sua esistenza e che pertanto tale decisione non sia stata liberamente assunta nei termini in cui ciò rileva ai sensi ed ai fini dell'art. 580 c.p. Ed in tal senso il ragionamento della Corte - palesemente condizionato in maniera implicita dal fatto che il suicidio sia stato effettivamente commesso - si rivela dunque un mero paralogismo che, per di più, finisce per esitare in una praesumptio de praesumpto, pacificamente inutilizzabile nel ragionamento probatorio (ex multis Sez. 6, Sentenza n. 37108 del 02/12/2020, Frunza, Rv. 280195).

4.7 II processo logico seguito dalla Corte risulta poi viziato dall'omessa considerazione di numerosi elementi puntualmente additati dai ricorsi.

Anzitutto la apodittica esaltazione dei pareri dei consulenti dell'accusa non si confronta con il fatto che nessuno di essi ha avuto modo, ovviamente, di visitare la Gi.Ba., non avendo dunque avuto cognizione della sua concreta ed effettiva situazione psicologica se non che sulla base delle inevitabilmente frammentarie risultanze processuali. I giudici dell'appello pongono inoltre al centro del ragionamento probatorio quanto riferito dal prof. Ag., attribuendo al suo narrato, però, un significato esorbitante l'effettivo contenuto delle sue dichiarazioni, per come riportate nella motivazione della sentenza, dalle quali si evince che egli è stato in grado di connettere soltanto la scelta suicidarla della donna allo stato di fragilità indotto dalla malattia e ad una non adeguata struttura della sua personalità ad affrontare la sofferenza fisica e psichica cui era sottoposta dalla malattia da cui era afflitta.

E sul punto manifestamente illogica - per non dire meramente apparente - risulta l'argomentazione articolata dai giudici del merito al fine di svalutare la valenza del parere della dott.ssa Ga., la quale ha tendenzialmente escluso che la Gi.Ba. potesse essere influenzabile attraverso un mero contatto telefonico. Che la consulente della difesa si sia limitata a formulare una "ipotesi" è infatti affermazione del tutto apodittica se riferita ai contenuti della sua deposizione riprodotti nella sentenza, atteso che la stessa ha semplicemente fornito il proprio parere personale di esperto sulla base dei limitati dati fattuali messi a sua disposizione, al pari degli altri consulenti auditi. La Corte avrebbe dunque dovuto spiegare perché tale parere deve ritenersi inattendibile o effettivamente contrastato da quello degli altri esperti, evidenziando le ragioni della preferenza accordata a questi ultimi e perché quelle formulate dagli stessi non debbano parimenti essere ritenute mere "ipotesi".

4.8 Come evidenziato dai difensori e dallo stesso Procuratore Generale nel corso della discussione, ulteriormente rilevante criticità del ragionamento probatorio sviluppato dai giudici del merito è da ravvisarsi nella sostanziale sterilizzazione, ai fini del giudizio condizionalistico, del rilevante intervallo temporale intercorso tra il contatto telefonico intervenuto tra l'imputato e la Gi.Ba. nel dicembre del 2017 e l'esecuzione del suicido, avvenuta nel marzo del 2019.

In proposito va osservato che l'immediata consecutività o comunque la contiguità temporale tra la presunta istigazione e la realizzazione da parte della vittima del proposito suicidano può costituire un concreto indizio dell'esistenza di un rapporto causale tra la condotta ipotizzata e l'evento. Ciò non significa, ovviamente, che un siffatto vincolo temporale rappresenti condizione necessaria per l'affermazione del nesso eziologico, ma è evidente che, qualora la supposta condotta istigatoria sia di molto risalente all'esecuzione del suicidio, è necessario valutare con estrema cautela la sua effettiva natura condizionante anche in considerazione delle ragioni per cui il proposito suicidario è stato portato a termine solo dopo molto tempo. Indagine che la Corte ha sostanzialmente omesso, svalutando apoditticamente, ad esempio, il fatto che i contatti con l'associazione del Co.Em. si fossero interrotti all'inizio dell'agosto del 2018 ovvero il fatto che nell'estate di quell'anno (e dunque circa sei mesi prima del suicidio) la pratica avviata dalla Gi.Ba. presso la clinica svizzera dove ha realizzato il suo proposito era giunta a conclusione (ed in proposito in maniera apodittica la sentenza afferma che i mesi successivi erano serviti alla vittima per raccogliere la documentazione necessaria, senza precisare la fonte processuale che comproverebbe tale circostanza) o, ancora, che nel gennaio del 2019 la stessa aveva subito un ricovero a seguito del quale le sue sofferenze non si erano alleviate e che, anzi, il referto del 4 marzo 2019, rilasciato cioè solo tre settimane prima dell'esecuzione del suicidio (menzionata in sentenza, ma non valutato dai giudici del merito), dava atto della ulteriore recrudescenza delle suddette sofferenze.

In altri termini la motivazione della sentenza non ha dimostrato con la dovuta certezza - limitandosi ad affermarla assertivamente e dunque in maniera solo apparente - l'effettiva influenza della conversazione del 24 dicembre 2017 sulla decisione assunta dal soggetto passivo del reato. Ed in effetti l'unico dato certo offerto dalla sentenza è che, a seguito di tale conversazione, la Gi.Ba. ha acquisito le informazioni necessarie per mettersi in contatto con la clinica svizzera ed avviare la pratica di suicidio assistito, circostanza che gli stessi giudici del merito hanno ritenuto ininfluente ai fini della configurabilità del reato contestato.

4.9 In realtà la Corte sembra essersi resa conto dell'onere dimostrativo imposto dall'intervallo intercorso tra la conversazione intrattenuta nel dicembre 2017 con il Co.Em. e l'esecuzione del suicidio ed in tal senso a p. 41 della motivazione ha ritenuto di dover nuovamente riesumare in maniera allusiva gli ulteriori contatti telefonici e di messagistica intervenuti tra l'imputato e la Gi.Ba. nei sette mesi successivi. Allusione ancora una volta contraddittoria con la neutralità della circostanza riconosciuta in precedenza e con la stessa conclusione assunta, ossia che l'unica condotta ritenuta effettivamente tipica sarebbe proprio quella tenuta dall'imputato nel corso della suddetta conversazione.

4.10 Infine fondate sono altresì le doglianze difensive relative al difetto di motivazione della sentenza sulla configurabilità del dolo del reato, che la Corte territoriale ha implicitamente ritenuto sussistente in re ipsa in ragione del ritenuto valore condizionante della conversazione del 24 dicembre 2017. L'onere motivazionale sul punto è invece ben più ampio, alla luce delle connotazioni che il dolo deve assumere per come ricostruito in precedenza sulla scorta dei principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte (v. supra 4.3). Ammesso - ma si ripete non dimostrato dai giudici del merito - che la condotta contestata all'imputato corrisponda nella sua oggettività (anche nella sua dimensione condizionalistica) a quella tipizzata dall'art. 580 c.p., onere della Corte era quello di evidenziare le ragioni per cui egli non possa eventualmente aver agito in maniera solo imprudente e, qualora avesse ritenuto atteggiarsi il dolo nella sua forma eventuale, se e per quale motivo possa ritenersi che l'imputato si fosse chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi, facendo riferimento ai noti parametri probatori in tal senso individuati dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261105).

5. In conclusione, alla luce dei rilevati vizi motivazionali, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Assise di appello di Catania.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Assise di appello di Catania.

Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2024.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2024.

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