I messaggi WhatsApp hanno natura di corrispondenza, anche dopo la ricezione da parte del destinatario, e agli stessi va applicata la disciplina relativa all'acquisizione di corrispondenza di cui all'art. 254 c.p.p.
Lo ha precisato la Seconda Sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 25549 depositata il 28 giugno 2024.
La Suprema Corte supera così l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i messaggi "whatsapp" e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell'art. 234 c.p.p., per cui la loro acquisizione processuale non soggiace né alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 266-bis cod. proc. pen.), né a quella del sequestro di corrispondenza di cui al citato art. 254 cod. proc. pen. (vedi da ultimo Cass., sez. II pen., sentenza n. 39529 del 2022).
Sul tema è intervenuta anche la Corte costituzionale, con sentenza n. 170 del 2023 (caso Renzi), stabilendo che la posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea rientrano nella nozione di corrispondenza. La Consulta ha chiarito che considerare tali messaggi come semplici documenti una volta che non sono più in transito, limiterebbe l'ambito di protezione offerto dall'art. 15 della Costituzione, riducendolo solo alle corrispondenze cartacee, sempre meno diffuse.
In concclusione, l'acquisizione di messaggi da piattaforme come WhatsApp deve essere regolata con le stesse procedure previste per il sequestro di corrispondenza tradizionale, assicurando così una protezione legale omogenea per tutte le forme di comunicazione elettronica considerate corrispondenza ai sensi della normativa vigente.
In tema di mezzi di prova, i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp e gli SMS conservati nella memoria di un dispositivo elettronico conservano la natura di corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo o per altra causa, essi non abbiano perso ogni carattere di attualità, in rapporto all'interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento "storico", sicché -fino a quel momento- la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'art. 254 cod. proc. pen. per il sequestro della corrispondenza.
Cassazione penale, sez. II, 15/05/2024 (dep. 28/06/2024) n. 25549
RITENUTO IN FATTO
Tu.An., Vi.Co. e Ma.Da., per il tramite dei rispettivi procuratori speciali e con ricorsi separati, hanno impugnato la sentenza in data 08/11/2022 della Corte di appello di Lecce, che ha riformato la sentenza in data 03/02/2023 del G.u.p. del Tribunale di Lecce, riducendo la pena inflitta per i reati loro rispettivamente ascritti.
In particolare:
Tu.An. è stato condannato per il reato di cui all'art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309 del 1990, contestato ai capi A), B), E) ed F) e per il reato di cui agli artt. 56 e 629 cod. pen. contestato al capo D);
Vi.Co. e Ma.Da. sono stati condannati per il reato di cui all'art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309 del 1990, contestato ai capi 1) e 2).
Deducono:
1. Tu.An.
1.1. "Violazione di legge e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione... in ordine a tutti i motivi di appello....
Il ricorrente denuncia l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione con riguardo a tutti i temi sviluppati con l'atto di appello, con particolare riguardo alle deduzioni relative all'estraneità dell'imputato ai reati ascrittigli, all'insussistenza di responsabilità penale, all'assoluto difetto di prova in ordine alla responsabilità dell'imputato, all'assoluto difetto di effettiva motivazione (che si assume solo apparente) in ordine all'iter logico attraverso cui il Tribunale è pervenuto all'affermazione della responsabilità dell'imputato (per la carenza dell'elemento oggettivo del reato); all'aspetto sanzionatorio, al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ai lavori di pubblica utilità ai sensi dell'art. 73, comma 5-bis, D.P.R. n. 309 del 1990.
Tutti temi che vengono illustrati con il ricorso, evidenziandosi, tra l'altro:
- che Tu.An. è tossicodipendente e che le contestazioni relative alla droga andavano più correttamente ricondotte all'ipotesi dell'uso personale e che comunque non c'era la prova della loro materialità trattandosi di c.d. droga parlata, mancando altresì una loro reale offensività;
- che con riguardo al tentativo di estorsione in danno di No. si configurava un'ipotesi di turpiloquio o di minaccia, visto che la condotta non aveva avuto alcun seguito, per come si evince dall'imputazione, dove viene specificato che l'imputato non riusciva nel suo intento per cause indipendenti dalla sua volontà; specifica che doveva ritenersi configurata un'ipotesi di desistenza e che comunque non vi è stata lesione del bene giuridico protetto;
- con riguardo alla negazione delle circostanze attenuanti generiche, lamenta l'erroneità della sentenza, che non considera che le ipotesi di spaccio contestate sono circoscritte territorialmente e temporalmente, così rendendosi necessario l'adeguamento della pena. Tanto più a fronte della resipiscenza e dello stato di incensuratezza di Tu.An. Lamenta la mancata considerazione dello stato di tossicodipendenza e la possibilità di riconoscere i benefici di cui all'art. 73, comma 5-bis, D.P.R. n. 309 del 1990. Analoghe considerazioni vengono sviluppate anche in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti comuni;
- con riguardo al trattamento sanzionatone) lamenta l'eccessività della pena.
2. Ma.Da.
2.1. Inosservanza di norma processuale in relazione all'acquisizione dei messaggi whatsapp.
A tale proposito il ricorrente premette che l'affermazione di responsabilità a carico di Ma.Da. è fondata interamente sul contenuto dei messaggi whatsapp acquisiti in violazione degli artt. 254 e 353 cod. proc. pen. oltre che del disposto dell'art. 125, comma 3, cod. proc. pen.
Tanto perché, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 2023, tali messaggi rientrano nella nozione di corrispondenza e, in quanto tali, per la loro acquisizione deve essere applicata la normativa prevista per tale ipotesi dal codice di rito, a pena di inutilizzabilità.
A sostegno dell'assunto viene riportata la motivazione della sentenza della Corte costituzionale.
2.2. Vizio di omessa motivazione in relazione alla riconducibilità a Ma.Da. dell'utenza n. 329/1872831 e (motivo 2.3.) in relazione alla identificabilità di Ma.Da. con il volto ritratto nella foto versata in atti.
Con riguardo all'utenza telefonica il ricorrente ha prodotto un estratto dell'Elenco Telefonico Nazionale dal quale -sostiene- si evince che l'utenza telefonica in questione è stata intestata all'imputato dal 2016 al 2019, così dimostrandosi che non era più nella sua disponibilità all'epoca dei fatti, da almeno due anni.
Deduce, dunque, la contraddittorietà e l'illogicità della motivazione spesa dalla Corte di appello per superare tale dato inoppugnabile.
Aggiunge che non è possibile valorizzare in senso contrario il riferimento a tale Ma.Da.,contenuto nella messaggistica, atteso che in Italia esistono ben 117.000 persone con questo nome; che non può avere valenza probatoria neanche la fotografia che si assume inviata da Tu.An., con quella che viene indicata come la foto di Ma.Da., con l'indicazione del suo numero di telefono, atteso che i giudici non hanno indicato quali atti hanno utilizzato per verificare la corrispondenza del volto della foto al viso dell'imputato.
2.4., 2.5., 2.6. Vizio di motivazione, violazione di legge e inosservanza di norma processuale in relazione alla ritenuta responsabilità dell'imputato per i cinque episodi di spaccio contestati.
Con tali motivi il ricorrente sostiene che l'affermazione della responsabilità per i fatti di spaccio è avvenuta sulla base di una lettura congetturale e insuscettibile di verifica empirica del contenuto di messaggi whatsapp di significato oggettivamente neutro, oltre che prive di riscontro.
Si denuncia anche la mancanza di una motivazione rafforzata, pure richiesta in relazione alle ipotesi di c.d. droga parlata, in quanto indispensabile al fine di dimostrare che il contenuto delle conversazioni sia effettivamente riferibile alla compravendita di sostanza stupefacente.
Si lamenta ancora l'omessa motivazione su tutta una serie di doglianze esposte con l'atto di appello in relazione a ciascuno dei cinque episodi di spaccio.
Doglianze che vengono ripercorse al fine di dimostrare la fondatezza del motivo.
Lamenta altresì la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., in quanto l'imputato è stato condannato per un fatto diverso dia quello descritto nell'imputazione, là dove i giudici hanno riconosciuto che un fatto di spaccio non era stato commesso vendendo la droga a tale "Mi.St." (per come indicato nell'imputazione), bensì vendendola a tale "St.", non meglio identificato in sentenza.
2.7. Motivazione apparente in relazione alla negazione della particolare tenuità del fatto.
A tale riguardo si assume che la Corte di appello ha negato l'ipotesi di cui all'art. 131-6 bis cod. pen. sulla base di un'unica frase di stile, priva di reali contenuti, con la quale è stata ritenuta la non occasionalità della condotta.
Aggiunge che la non occasionalità della condotta non è ostativa al riconoscimento della causa di esclusione della colpevolezza.
2.8. Mancanza di motivazione in relazione alla negazione delle circostanze attenuanti generiche.
A tale proposito il ricorrente si duole della mancata considerazione di tutta una serie di elementi favorevoli pure indicati nell'atto di appello, quali lo stato di incensuratezza, la sporadicità degli eventi contestati, il ristretto arco temporale della condotta e il quantitativo assai modesto dello stupefacente asseritamente ceduto.
2.9. 2.10. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'attenuante di cui all'art 62, comma primo n. 4, cod. pen.
A tale proposito si deduce, anzitutto, la violazione di legge, in quanto la Corte di appello ha escluso l'attenuante valutando la complessiva condotta riferita a tutti e cinque gli episodi, mentre l'esame andava effettuato con riguardo a ogni episodio singolarmente considerato, con riguardo al lucro ottenuto o auspicato in relazione a ciascuno di essi.
In relazione al vizio di motivazione, si evidenzia che 'attenuante è stata negata valorizzando episodi di spaccio riconducibili a Tu.An. e per i quali la stessa Corte di appello aveva riconosciuto l'estraneità di Ma.Da.
2.11. Violazione degli artt. 163 e 164 cod. pen.
Con l'ultimo motivo d'impugnazione il ricorrente osserva che il beneficio della sospensione condizionale della pena è stata erroneamente negata sulla base dell'unico presupposto dell'asserita reiterazione dei reati.
3. Vi.Co.
3.1. "Manifesta illogicità della motivazione... con riferimento al concetto di droga parlata".
Il ricorrente premette che in ipotesi di c.d. droga parlata la motivazione deve essere sostanzialmente rafforzata, ma nel caso in esame la motivazione dei giudici del merito è affetta da illogicità, in quanto non rispetta il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, non considerando una serie di elementi indicati dalla difesa, quali lo stato di tossicodipendenza di Vi.Co. e il fatto che dalle conversazioni captate dal telefono cellulare di Tu.An., utilizzate a carico di Vi.Co., non emerge in maniera inequivocabile la quantità e il genere della sostanza stupefacente asseritamente ceduta.
3.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio.
Secondo il ricorrente la Corte di appello non ha soddisfatto l'obbligo di motivazione richiesto nell'ipotesi in cui il trattamento sanzionatorio si discosti dal minimo edittale.
3.3. Violazione di legge e vizio di motivazione per la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche per la presenza della recidiva reiterata.
Si denuncia l'omessa motivazione sulla negazione delle circostanze attenuanti generiche, non essendo a tal fine sufficiente il generico riferimento ai precedenti penali, anche specifici, dell'imputato.
Vengono richiamati i principi espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 141 del 21 giugno/11 luglio 2023, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69, comma quarto, cocl. pen.
Da ciò si fa discendere che le circostanze attenuanti generiche non possono essere escluse per la presenza della recidiva reiterata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di Ma.Da. è infondato con riguardo al primo motivo di ricorso, inammissibile nel resto.
1.1. Con il primo motivo d'impugnazione il ricorrente denuncia l'inutilizzabilità dei messaggi WhatsApp utilizzati a suo carico, in quanto si assume che la loro acquisizione doveva avvenire con le forme previste dagli artt. 253 e 254 cod. proc. pen., trattandosi di corrispondenza.
Per risolvere la questione così sollevata vanno considerati i chiarimenti offerti dalla Corte costituzione con la sentenza n. 170 del 2023 (udienza del 7 giugno 2023), con la quale è stato specificamente affrontato il tema della natura di tale tipologia di messaggi, quando essi si trovino riposti, statici e giacenti nella memoria dei telefoni cellulari, degli smartphone o di qualsiasi altro dispositivo di natura analoga, dopo il loro invio e la loro regolare ricezione.
1.1.1. La Corte costituzionale ha anzitutto affrontato il tema della differenza tra il sequestro di corrispondenza e le intercettazioni di comunicazioni di conversazioni e, a tal fine, in assenza di una definizione di queste ultime contenuta nel codice di procedura penale, ha richiamato la sentenza delle Sezioni Unite penali n. 36747 del 28 maggio 2003, che ha chiarito che le intercettazioni consistono nella "apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti estranei al colloquio".
Sulla base di tale definizione, la Corte costituzionale ha puntualizzato che per aversi intercettazione debbono ricorrere due condizioni, la prima delle quali è di ordine temporale: la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell'estraneo, ossia deve essere colta nel suo momento "dinamico", con la conseguente estraneità a tale nozione dell'attività di acquisizione del supporto fisico contenente la memoria di una comunicazione già avvenuta e, quindi, oramai quiescente nel suo momento "statico".
La seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l'apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in maniera occulta, ossia all'insaputa dei soggetti tra i quali intercorre la comunicazione.
Nel caso dell'acquisizione dei messaggi custoditi nella memoria del dispositivo mancano entrambe tali condizioni, con la conseguenza che non può parlarsi di intercettazioni con riguardo alla loro acquisizione.
1.1.2. Così escluso che l'acquisizione dei messaggi di che trattasi possa considerarsi un'intercettazione, la Corte costituzionale ha poi rimarcato che essi rientrano senz'altro nell'amplissima nozione di corrispondenza, che abbraccia ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) e che prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero.
Con l'ulteriore precisazione che la garanzia di cui all'art. 15 della Costituzione -che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza della "della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione", consentendone la limitazione "soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria" - si estende "a ogni strumento che l'evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini educativi, compresi quelli elettronici e informatici".
Da qui la certa riconducibilità alla nozione di corrispondenza della posta elettronica, dei messaggi WhatsApp e più in generale della messaggistica istantanea, che -quindi- rientrano nella sfera di protezione dell'art. 15 della Costituzione, "apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi".
La Corte ha sottolineato ulteriormente che "soccorre, peraltro, nella direzione considerata anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale non ha avuto incertezze nel ricondurre sotto il cono di protezione dell'art. 8 CEDU -ove pure si fa riferimento alla "corrispondenza" tout court- i messaggi di posta elettronica (Corte EDU, grande camera, sentenza 5 settembre 2017, Barbulescu contro Romania, paragrafo 72; Corte EDU, sezione quarta, sentenza 3 aprile 2007, Copland contro Regno Unito, paragrafo 41), gli SMS (Corte EDU, sezione quinta, sentenza 17 dicembre 2020, Saber contro Norvegia, paragrafo 48) e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite internet (Cotte EDU, Grande Camera, sentenza Barbulescu, paragrafo 74)"; che -a livello di legislazione interna- l'art. 616 cod. pen., come sostituito dall'art. 5 della Legge n. 547 del 1993, nell'ambito dei delitti contro l'inviolabilità dei segreti, include espressamente nella nozione di corrispondenza, oltre a quella epistolare, telegrafica e telefonica, anche quella "informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza".
1.1.3. Così escluso che l'acquisizione dei messaggi possa rientrare nella nozione di intercettazione e una volta riconosciuto in via generale che essi rientrano nella nozione di corrispondenza, la Corte costituzionale evidenzia che l'interrogativo principale da risolvere è quello di stabilire se i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp e la messaggistica istantanea in generale mantengano la natura di corrispondenza anche quando siano stati ricevuti e letti dal destinatario e ormai conservati e giacenti nella memoria dei dispositivi elettronici dello stesso destinatario o del mittente.
A tale proposito la Corte costituzionale ha evidenziato che su tale tema si fronteggiano due opposte concezioni:
A) Secondo l'una concezione, la corrispondenza già ricevuta e letta dal destinatario non è più un mezzo di comunicazione, perde la natura di corrispondenza e diventa un semplice documento. Tale concessione assume che la nozione di corrispondenza coincide con l'atto di "corrispondere", che si esaurisce nel momento in cui il destinatario prende cognizione della comunicazione. Concezione, questa, che trova eco in un orientamento consolidato della Corte di cassazione, che ha definito i confini applicativi della fattispecie del sequestro di corrispondenza delineata dall'art. 254 cod. proc. pen. ciò, sia con riguardo alla corrispondenza epistolare (tra le altre, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 23 aprile-12 giugno 2014, n. 24919; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 19 aprile-18 luglio 2012, n. 28997), sia in relazione ai messaggi elettronici. Con tale orientamento, invero, la Corte di cassazione ha affermato che i messaggi di posta elettronica, SMS e WhatsApp, già ricevuti e memorizzati nel computer o nel telefono cellulare del mittente o del destinatario, hanno natura di "documenti" ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen. La loro acquisizione processuale, pertanto, non soggiace né alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 266-bis cod. proc. pen.), né a quella del sequestro di corrispondenza di cui al citato art. 254 cod. proc. pen., la quale implica una attività di spedizione in corso (in quest'ultimo senso, con riguardo alle singole categorie di messaggi che di volta in volta venivano in rilievo, ex plurimis, tra le ultime, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 1 luglio -19 ottobre 2022, n. 39529; Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 16 marzo-8 giugno 2022, n. 22417; Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 10 marzo-6 maggio 2021, n. 17552).
B) Secondo l'altra concezione, al contrario, la natura di corrispondenza non si esaurisce con la mera ricezione del messaggio e la presa di cognizione del suo contenuto da parte del destinatario, ma permane finché la comunicazione conservi carattere di attualità e di interesse per i corrispondenti, venendo meno solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in documento "storico", cui può attribuirsi un valore restrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio.
1.1.4. A fronte di tali due contrapposte posizioni definitorie, La Corte costituzionale ha dunque chiarito che la natura di corrispondenza va correttamente intesa nel senso espresso dalla seconda concezione, in quanto la degradazione della comunicazione a mero documento quando non più in itinere restringerebbe l'ambito della tutela costituzionale apprestata dall'art. 15 Costituzione alle sole ipotesi -sempre più rare- di corrispondenza cartacea; tutela che sarebbe del tutto assente in relazione alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all'invio segue la ricezione con caratteri di sostanziale immediatezza.
In tal senso osserva ulteriormente:
- che "la Corte europea dei diritti dell'uomo non ha avuto, d'altro canto, esitazioni nel ricondurre nell'alveo della "corrispondenza" tutelata dall'art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione "statica", ossia già avvenuti (con riguardo alla posta elettronica, Corte EDU, sentenza Copland, paragrafo 44; con riguardo alla messaggistica istantanea, Corte EDU, sentenza Barbulescu, paragrafo 74; con riguardo a dati memorizzati in floppy disk, Corte EDU, sezione quinta, sentenza 22 maggio 2008, Iliya St.v contro Bulgaria, paragrafo 42). Indirizzo, questo, recentemente ribadito anche in relazione... al sequestro dei dati di uno smartphone, che comprendevano anche SMS e messaggi di posta elettronica (Corte EDU, sentenza Saber, paragrafo 48)".
- che "La stessa Corte di cassazione si è espressa, peraltro, in senso ben diverso quando si è trattato di individuare la sfera applicativa del delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza delineato dall'art. 616 cod. pen. Essa ha ritenuto, infatti, che tale disposizione incriminatrice tuteli proprio e soltanto il momento "statico" della comunicazione, cioè il pensiero già fissato su supporto fisico, essendo il profilo "dinamico" oggetto di protezione nei successivi artt. 617 e 617-quater cod. pen., che salvaguardano le comunicazioni in fase di trasmissione da interferenze esterne (presa di cognizione, impedimento, interruzione, intercettazione) (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 29 settembre-4 novembre 2020, n. 30735; Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 2 febbraio-15 marzo 2017, n. 12603). In quest'ottica, la giurisprudenza di legittimità ha quindi ripetutamente affermato che integra il delitto di violazione di corrispondenza la condotta di chi prende abusivamente cognizione del contenuto della corrispondenza telematica ad altri diretta e conservata nell'archivio di posta elettronica (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 25 marzo-2 maggio 2019, n. 18284; Cass., sentenza n. 12603 del 2017). In direzione analoga appare, altresì, orientata la Corte di cassazione civile (in tema di licenziamento disciplinare, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 10 settembre 2018, n. 21965)".
1.1.5. Facendo tesoro delle precise indicazioni della Corte costituzionale, dunque, va necessariamente abbandonato l'orientamento (riassunto al superiore paragrafo 1.1.3. e ribadito anche da Sez. 6 - , Sentenza n. 22417 del 16/03/2022, Sgromo, Rv. 283319 - 01) secondo cui i messaggi WhatsApp (i messaggi di posta elettronica e la messagistica istantanea) devono considerarsi alla stregua di documenti, dovendosi affermare -in senso contrario- il seguente principio di diritto:
"In tema di mezzi di prova, i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp e gli SMS conservati nella memoria di un dispositivo elettronico conservano la natura di corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo o per altra causa, essi non abbiano perso ogni carattere di attualità, in rapporto all'interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento "storico", sicché -fino a quel momento- la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'art. 254 cod. proc. pen. per il sequestro della corrispondenza".
1.1.6. Così stabilita la natura dei messaggi WhatsApp e individuata la norma applicabile per la loro acquisizione, va rilevato che nel caso concreto non vi è stata la violazione dell'art. 254 cod. proc. pen. denunciata dal ricorrente.
L'art. 254 cod. proc. pen., in ossequio alle garanzie apprestate dall'art. 15 della Costituzione, dispone sostanzialmente che il sequestro della corrispondenza avvenga su disposizione ovvero sotto il controllo dell'Autorità Giudiziaria.
In particolare, per quello che qui rileva, l'art. 254, comma 2, cod. proc. pen. dispone che "Quando al sequestro procede un ufficiale di polizia giudiziaria, questi deve consegnare all'autorità giudiziaria gli oggetti di corrispondenza sequestrati,
senza aprirli o alterarli e senza prendere altrimenti conoscenza del loro contenuto".
La norma, in sostanza, vieta alla polizia giudiziaria di avere accesso al contenuto dei messaggi e consente il sequestro del loro "contenitore" (sia esso un plico cartaceo ovvero il dispositivo elettronico che contiene messaggi trasmessi in forma telematica) che deve essere consegnato all'autorità giudiziaria, unica legittimata a verificarne il contenuto, senza che la polizia giudiziaria possa accedervi di propria iniziativa.
Nel caso concreto in esame, i messaggi a carico di Ma.Da. sono stati rinvenuti nella memoria dello smartphone di Tu.An.
Ciò premesso, la loro acquisizione è avvenuta nel rispetto delle forme ora sunteggiate, in quanto la polizia giudiziaria si è limitata al sequestro dello smartphone, senza accedere ai suoi contenuti. Lo smartphone veniva, dunque, messo a disposizione dell Pubblico ministero che, con proprio provvedimento, disponeva l'accesso alla memoria dello smartphone e l'estrapolazione dei contenuti dei messaggi conservati nella sua memoria.
Dalla lettura della doppia sentenza conforme, invero, emerge che, al momento della perquisizione presso la sua abitazione, Tu.An., alla richiesta degli investigatori di consegnare lo smartphone in questione, reagiva cercando di distruggerlo e danneggiandolo in varie parti, così rendendolo inaccessibile.
La polizia giudiziaria provvedeva, dunque, al suo sequestro, che nel relativo verbale datato (Omissis), veniva così descritto: "... cellulare marca H., completamente rotto".
Il dispositivo così sequestrato veniva messo a disposizione dell'autorità giudiziaria, nella specie del Pubblico ministero che, con successivo decreto in data 24/02/2021, convalidava il sequestro, con decreto motivato.
L'accesso ai contenuti dello smartphone e, dunque, al contenuto dei messaggi, avveniva solo in un momento successivo, sempre a opera del pubblico ministero, che disponeva apposita consulenza tecnica.
Non è rilevabile, pertanto, la violazione dell'art. 254 eoe. proc. pen., atteso che la polizia giudiziaria si è limitata a sequestrare il solo smartphone, che consegnava all'autorità giudiziaria senza accedere ai suoi contenuti.
Dal che consegue che -seppur corretta la qualificazione dei messaggi WhatsApp quale corrispondenza- non si è avuta la violazione di legge denunciata dal ricorrente in relazione alla loro acquisizione.
Da qui l'infondatezza del primo motivo di ricorso.
1.2. I restanti motivi di ricorso sono inammissibili perché meramente reiterativi delle medesime questioni sollevate con l'impugnazione di merito, affrontate e compiutamente risolte dalla Corte di appello.
Invero, i giudici dell'appello: a) hanno affrontato il tema dell'Elenco Telefonico Nazionale e hanno ritenuto che il dato dell'attivazione e disattivazione dell'utenza intestata a Ma.Da. quivi registrata fosse recessivo rispetto alle risultanze investigative ampiamente illustrate alla pagina 13 della sentenza impugnata; b) hanno disatteso le argomentazioni difensive in punto di responsabilità in relazione ai cinque fatti di spaccio, osservando che le stesse erano caratterizzate da una lettura parcellizzata delle risultanze investigative, mentre il compendio probatorio andava letto unitariamente. Con l'ulteriore rilievo che le argomentazioni difensive mancavano di ogni confronto con tutti gli elementi ritenuti a carico dell'imputato, con particolare riguardo ai messaggi intercorsi tra lui e Tu.An.
Sulla base di tale preliminare osservazione, i giudici hanno dunque ripercorso gli elementi a carico dell'imputato dalla pagina 14 alla pagina 18 della sentenza impugnata, nel cui ambito viene data ampia risposta a tutte le deduzioni difensive.
c) La Corte di appello ha altresì spiegato le ragioni per cui l'attività di spaccio descritta al capo 2) della rubrica dovesse intendersi realizzata nei confronti di tale St. e non di Mi.St., per come indicato nell'imputazione.
1.2.1. Su tale ultimo punto il ricorrente eccepisce la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., sul presupposto che la Corte di appello ha ritenuto la responsabilità per un fatto di spaccio riferito a tale "St." rimasto ignoto, mentre nell'imputazione veniva indicato che il fatto di spaccio era riferito a tale Mi.St.
La deduzione è manifestamente infondata, per le ragioni che si vanno a esporre. Questa Corte, invero, ha già avuto modo di chiarire che è astrattamente configurabile la violazione del principio della correlazione tra l'imputazione contestata e la pronuncia solo quando il fatto, ritenuto in sentenza, si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità, nel senso che sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione e variazione dei contenuti essenziali dell'addebito (Sez. 3, n, 9973 del 22/09/1997, Angelini, Rv. 209245; nello stesso senso, Sez. 2 - , Sentenza n. 16827 del 07/03/2019, Furiassi, Rv. 276210 - 02; Sez. 3, Sentenza n. 11659 del 24/02/2015, EL, Rv. 262911 - 01; Sez. 5, Sentenza n. 44862 del 06/10/2014, Moldovan, Rv. 261286 - 01).
È stato altresì precisato che può sussistere violazione del principio di corrispondenza tra accusa e sentenza solo quando tra il fatto descritto e quello accertato non si rinviene un nucleo comune identificato dalla condotta, e si manifesta, pertanto, un rapporto di incompatibilità ed eterogeneità, che si risolve in un vero e proprio stravolgimento dei termini dell'accusa, a fronte dei quali l'imputato è impossibilitato a difendersi (Sez. 4, n. 27355 del 27/01/2005, Capanna, Rv. 231727; Sez. 6, n. 81 del 06/11/2008, Zecca, Rv. 242368; Sez. 6, n. 6346 del 09/11/2012, Domizi, Rv. 254888; Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015, dep. 03/02/2016, Addio, Rv. 265946).
A tutto ciò si aggiunga l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, (così Sezioni Unite, Sentenza n. 36551 del 15.7.20:10, Carelli, rv. 248051).
Evenienza, questa, che non si è verificata nel caso in esame, dove il fatto descritto nell'imputazione non è stato modificato, atteso che la condotta punita dalla norma incriminatrice -ossia la condotta di vendita non autorizzata di stupefacente-è rimasta immutata, mentre nel corso del giudizio si è soltanto appurato che l'acquirente non era Minafra St., ma un altro non meglio identificato St..
Vale evidenziare che l'esatta individuazione del nominativo dell'acquirente non è un elemento costitutivo del reato in esame ed è collocato al di fuori della struttura della fattispecie incriminatrice e che, in quanto tale, non influisce sulla sua sussistenza, una volta acclarata l'effettiva verificazione della condotta di rilevanza penale, rimasta invariata nella sua concreta attuazione.
In tal senso è stato più volte affermato che "Non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza quando vi è corrispondenza tra l'individuazione degli elementi tipici della fattispecie contestata e l'accertamento contenuto nella sentenza di condanna, a nulla rilevando eventuali difformità quantitative e qualitative degli elementi di definizione della condotta, dell'evento e del nesso causale in considerazione della relatività delle tecniche descrittive utilizzate nella redazione della imputazione. (Fattispecie in tema di tentata estorsione, in cui la Corte ha ritenuto irrilevante l'e-ronea o imprecisa indicazione dell'ammontare delle somme pretese e della cadenza con la quale le stesse dovevano essere versate, risultando decisiva ai fini dell'affermazione di responsabilità la sola formulazione delle minacce per conseguire il preteso pagamento, poi non avvenuto)", (Sez. 2 - , Sentenza n. 12328 del 24/10/2018 Ud., dep. il 2019, Calabrese, Rv. 276955 - 01; nello stesso senso: Sez. 2 - , Sentenza n. 7812 del 20/12/2019 Ud, (dep. il 2020, Tacci, Rv. 278087 - 01; Sez. 6, Sentenza n. 29114 del 30/03/2012, Lorusso Rv. 253225 - 01).
Da ciò discende la manifesta infondatezza della censura difensiva.
1.2.2. Con specifico riguardo al trattamento sanzionatorio, la Corte di appello ha negato le circostanze attenuanti generiche ritenendo la non occasionalità delle condotte di spaccio, di maggior valenza rispetto allo stato di incensuratezza dell'imputato; ha negato l'attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n. 4, cod. pen. osservando che l'attività delinquenziale produceva un lucro che non poteva definirsi modesto, per come emerso dalle dichiarazioni raccolte in sede di sommarie informazioni testimoniali, oltre che dagli elenchi rinvenuti presso Tu.An., dove risultavano gli importi e il prezzo ricavato dalla vendita di stupefacente a soggetti per cui erano state elevate le imputazioni anche a carico di Ma.Da.. Tutte tali considerazioni sono state ritenute altresì rilevanti dalla Corte di appello al fine di escludere la causa di esclusione della colpevolezza di cui all'art. 131-bis cod. pen. Infine, la Corte di appello ha negato la sospensione condizionale della pena osservando che proprio la non occasionalità della condotta produceva una prognosi sfavorevole quanto alla possibilità che Ma.Da. si potesse astenere in futuro da rinnovate condotte illecite.
Tale motivazione soddisfa appieno l'obbligo di motivazione in punto di negazione del beneficio in esame, atteso che il presupposto soggettivo fondamentale per la sua concessione è Ila prognosi favorevole sul futuro comportamento del reo.
A tale ultimo proposito va ricordato che la valutazione giudiziale sulla futura astensione del colpevole dalla commissione di ulteriori reati deve essere fondata sui parametri previsti dall'art. 133, per l'esercizio del potere discrezionale del giudice, e deve essere effettuata in concreto, riferita al momento della decisione: peraltro, il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l'obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell'art. 133, potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti in senso ostativo alla sospensione (in questo senso, Sez. 5 - , Sentenza n. 17953 del 07/02/2020, Filipache, Rv. 279206 - 02; Sez. 5, Sentenza n. 57704 del 14/09/2017, P., Rv. 272087 - 01).
1.2.3. La presenza di un puntuale e adeguato apparato argomentativo, elaborato in risposta alle deduzioni difensive fa emerge la manifesta infondatezza della denuncia di omessa motivazione, diffusamente esposta con i vari motivi di ricorso.
1.2.3.1. A ciò si aggiunga che -conseguentemente- le doglianze articolate nel ricorso non sono volte a evidenziare violazioni di legge o mancanze argomentative e manifeste illogicità della sentenza impugnata, ma mirano a sollecitare un improponibile sindacato sulle scelte valutative della Corte di appello e reiterano in gran parte le censure già sollevate dinanzi a quel Giudice, che le ha ritenute infondate sulla base di una lineare e adeguata motivazione, strettamente ancorata a una completa e approfondita disamina delle risultanze processuali, nel rispetto dei principi di diritto vigenti in materia.
A fronte di tale evenienza va ribadito che "In tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili i motivi che riproducono pedissequamente le censure dedotte in appello, al più con l'aggiunta di espressioni che contestino, in termini meramente assertivi ed apodittici, la correttezza della sentenza impugnata, laddove difettino di una critica puntuale al provvedimento e non prendano in considerazione, per confutarle in fatto e/o in diritto, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non sono stati accolti", (Sez. 6 - , Sentenza n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521 - 01); ovvero che "È inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso", (Sez. 2 - , Sentenza n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710 - 01).
1.2.3.2. Da tale rilievo discende per conseguenza un'ulteriore ragione d'inammissibilità, in quanto le questioni sollevate si risolvono in una inammissibile valutazione delle risultanze processuali alternativa a quella ritenuta dai giudici di merito e, in quanto tale, non sono scrutinabili in sede di legittimità, atteso che il compito demandato dal legislatore alla Corte di cassazione non è quello di stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti ovvero quello di condividerne la giustificazione. Il compito del giudice di legittimità è quello di verificare la conformità della sentenza impugnata alla legge sostanziale e a quella processuale, cui si aggiunge il controllo sulla motivazione che, però, è restrittivamente limitato alle ipotesi tassative della carenza, della manifesta illogicità e della contraddittorietà. Con l'ulteriore precisazione che la carenza va identificata con la mancanza della motivazione per difetto grafico o per la sua apparenza; che l'illogicità deve essere manifesta -ossia individuabile con immediatezza- e sostanzialmente identificabile nella violazione delle massime di esperienza o delle leggi scientifiche, così configurandosi quando la motivazione sia disancorata da criteri oggettivi di valutazione, e trascenda in valutazioni soggettive e congetturali, insuscettibili di verifica empirica; la contraddittorietà si configura quando la motivazione si mostri in contrasto -in termini di inconciliabilità assoluta-con atti processuali specificamente indicati dalla parte e che rispetto alla struttura argomentativa abbiano natura portante, tale che dalla loro eliminazione deriva l'implosione della struttura argomentativa impugnata.
Nessuna di tali evenienze è stata di fatto denunciata con i motivi in esame.
1.3. Da quanto esposto discende che il ricorso di Ma.Da. -complessivamente valutato complessivamente- va rigettato.
2. I ricorsi di Tu.An. e di Vi.Co sono entrambi inammissibili per le ragioni esposte ai superiori paragrafi 1.2.3.1. e 1.2.3.2., atteso che anche in questo caso le questioni sollevate con i rispettivi ricorsi sono meramente reiterative delle identiche questioni di merito avanzate con l'atto di appello, affrontate e compiutamente risolte dalla Corte di appello e oggi trasfuse nei rispettivi ricorsi, con cui, pertanto, vengono avanzate questioni non scrutinabili in sede di legittimità.
2.1. Con riguardo alla posizione di Tu.An., La Corte di appello ha ampiamente esposto le ragioni per cui ha ritenuto la responsabilità di Tu.An. per i reati ascrittigli, illustrando dalla pagina 7 alla pagina 9 i plurimi elementi emersi a suo carico, dai quali era emersa la sua attività di spaccio. Tra i molti elementi, sono stati evidenziati il rinvenimento di un bilancino di precisione, di materiale utilizzato per il confezionamento delle dosi e delle dosi già preconfezionate oltre che un elenco manoscritto cui veniva annotata tutta la contabilità dell'attività delittuosa, ivi compresi i nomi dei "clienti". Contabilità che trovava riscontro nel contenuto dei messaggi contenuti nel suo smartphone.
La Corte di appello ha altresì rimarcato come per la sua attività di spaccio, Tu.An. si giovasse della costante collaborazione di Vi.Co. e di Ma.Da., al cui riguardo ha rinviato alla lettura delle pagine da 5 a 19 della sentenza di primo grado, evidenziando comunque che gli usuari delle utenze telefoniche annotate sul registro contabile erano stati identificati e alcuni di essi avevano confermato l'acquisto dello stupefacente.
La stessa Corte di appello ha evidenziato la legittimità del rinvio alle argomentazioni della sentenza impugnata, alla luce di quanto chiarito dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che ha spiegato che, seppur l'articolo 6 par. 1 della Convenzione obbliga i giudici a motivare le loro decisioni, tale obbligo non può essere inteso nel senso di esigere una risposta dettagliata a ciascun argomento (Van de Hurk c. Paesi Bassi, 19 aprile 1994, par. 61), così che, rigettando un ricorso, il giudice di appello può, in linea di principio, limitarsi a fare propri i motivi della decisione impugnata (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Costantino Di Silvio c. Italia, 20 ottobre 2015; Ruiz Torija c. Spagna, 9 dicembre 1994).
La Corte di appello ha altresì evidenziato che l'appello non si confronta con i contenuti delle dichiarazioni rese dagli acquirenti dello stupefacente, limitandosi a contrastare il significato dei messaggi rinvenuti nella memoria dello smartphone; che con l'appello si assume che nel caso in esame ci si troverebbe di fronte alla c.d. droga parlata, là dove, in realtà. Ci si trova di fronte a ipotesi di spaccio verificate in concreto, in quanto confermate dalle concordi dichiarazioni degli acquirenti, che hanno riferito circa la quantità, la qualità, il prezzo e le modalità di acquisto della sostanza stupefacente.
I giudici dell'impugnazione di merito hanno altresì illustrato le ragioni della responsabilità di Tu.An. per il tentativo di estorsione contestatogli, siccome emergente dalla minaccia di gravi conseguenze inviata a tale (Omissis) ove non gli avesse restituito una somma di denaro riferibile a cessioni di stupefacente, così risultando presenti tutti gli elementi essenziali dell'estorsione, ossia la minaccia intesa a conseguire un ingiusto profitto.
I giudici hanno altresì spiegato che non poteva configurarsi una desistenza, atteso che il profitto non veniva conseguito per la resistenza opposta dalla vittima e non per una scelta volontaria dell'agente, così risolvendo la correlata questione in conformità all'insegnamento di questa Corte, che ha spiegato che perché sia integrata la desistenza dal delitto di cui all'art. 56, terzo comma, cod. pen., la decisione di interrompere l'azione criminosa deve essere il frutto di una scelta volontaria dell'agente, non riconducibile ad una causa indipendente dalla sua volontà o necessitata da fattori esterni (Sez. 3, n. 17158 del 28/11/2018, dep. 2019, F., Rv. 275647 - 01).
I giudici hanno determinato la pena richiamando i criteri di cui all'art. 133 cod. pen., riformandola in senso favorevole all'imputato (applicando la massima estensione della riduzione prevista per il tentativo in relazione all'estorsione) e hanno negato le circostanze attenuanti generiche in ragione della dimostrata professionalità della condotta.
2.2. In relazione alla posizione di Vi.Co. -oltre a valere quanto già esposto per Tu.An. - i giudici hanno illustrato alle pagine da 10 a :.2 le modalità della sua certa identificazione, hanno specificato l'arco temporale della sua collaborazione con Tu.An., siccome emersa dalla messaggistica acquisita, e hanno condiviso la motivazione del giudice di primo grado a suo riguardo; hanno negato l'attenuante di cui all'art. 114 cod. pen. in quanto il suo ruolo collaborativo con Tu.An. era tutt'altro che secondario; hanno negato l'attenuante di cui all'art. 73, comma 7, D.P.R. n. 309 del 1990 osservando che l'atteggiamento di Vi.Co. era stato tutt'altro che collaborativo; hanno negato le circostanze attenuanti generiche in ragione dei precedenti penali, anche specifici.
Anche nei suoi confronti i giudici hanno determinato la pena richiamando i criteri di cui all'art. 133 cod. pen., riformandola in senso a lui favorevole.
2.3. A fronte di un preciso e puntuale apparato argomentativo, anche in questo caso le doglianze articolate nel ricorso non sono volte a evidenziare violazioni di legge o mancanze argomentative e manifeste illogicità della sentenza impugnata, ma mirano a sollecitare un improponibile sindacato sulle scelte valutative della Corte di appello e reiterano in gran parte le censure già sollevate dinanzi a quel Giudice, che le ha ritenute infondate sulla base di una lineare e adeguata motivazione, strettamente ancorata a una completa e approfondita disamina delle risultanze processuali, nel rispetto dei principi di diritto vigenti in materia.
Per come anticipato, dunque, valgono le ragioni di inammissibilità già esposte ai paragrafi 1.2.3.1. e 1.2.3.2.
2.4. A ciò deve aggiungersi anche che entrambi i ricorsi, nel reiterare pedissequamente le medesime questioni contenute nell'atto di appello, trascurano di confrontarsi con le argomentazioni esposte dai giudici dell'impugnazione per rigettarle, così venendo eluso un reale confronto con la motivazione della sentenza impugnata.
A titolo esemplificativo si indica il tema della configurabilità della c.d. droga parlata. Entrambi i ricorrenti, invero, hanno sostenuto -apoditticamente- la mancanza di una motivazione rafforzata richiesta in presenza di un'indagine basata sulla c.d. droga parlata. La Corte di appello, però, -per come già visto- ha spiegato che l'assunto difensivo non poteva ritenersi corretto, in quanto le indagini non erano fondate sulle sole intercettazioni, ma anche sulle dichiarazioni degli acquirenti, che avevano puntualmente confermato i fatti di spaccio emergenti dai messaggi e annotati sulla già richiamata contabilità. I ricorrenti, dal loro canto, ripropongono la medesima questione affermando apoditticamente che si versa in ipotesi di droga parlata, senza alcun confronto con la motivazione della Corte, di cui non si ha traccia nei motivi d'impugnazione.
Tale rilievo porta alla configurazione del vizio di aspecificità, che si configura non solo nel caso della indeterminatezza e genericità, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell'art. 591 comma 1 lett. c), all'inammissibilità (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, Rv. 268823; Sez. 2, Sentenza n. 11951 del 29/01/2014 Rv. 259425, Lavorato; Sez. 4, 29/03/2000, n. 5191, Barone, Rv. 216473; Sez. 1, 30/09/2004, n. 39598, Burzotta, Rv. 230634; Sez. 4, 03/07/2007, n. 34270, Scicchitano, Rv. 236945; Sez. 3, 06/07/2007, n. 35492, Tasca, Rv. 237596).
2.5. Vizio di aspecificità che, peraltro, si rinviene anche in relazione alla determinazione del trattamento sanzionatorio, al cui riguardo i ricorrenti -a fronte di una riforma a loro favorevole- si dolgono della misura della pena in maniera apodittica, senza che siano mosse censure scrutinabili in sede di legittimità.
2.6. Quanto esposto comporta la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi di Tu.An. e di Vi.Co. e la loro condanna al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di Ma.Da., che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibili i ricorsi di Tu.An. e Vi.Co., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Cosi deciso 15 maggio 2024
Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2024.