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Gara d'appalto, allontanamento con minaccia, due reati in concorso?

Corte di Cassazione, sez. Unite Penale, Sentenza n.30016 del 28/03/2024 (dep. 22/07/2024)

Chi con minaccia allontana gli offerenti da una gara pubblica, commette solo il reato di turbata libertà degli incanti, o è punibile anche per estorsione?

Questo quesito è stato affrontato dalle Sezioni Unite Penali della Cassazione con la sentenza n. 30016 depositata il 22 luglio 2024.

La Suprema Corte ha risolto un contrasto giurisprudenziale stabilendo che è configurabile il concorso formale tra i reati di estorsione e turbata libertà degli incanti quando l’allontanamento degli offerenti con violenza o minaccia “abbia causato un danno patrimoniale derivante dalla perdita di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile per effetto della partecipazione alla gara”.

Inoltre, la Cassazione ha precisato che nella nozione di danno patrimoniale rilevante per il delitto di estorsione “rientra anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale”.

Estorsione, nozione di danno patrimoniale, perdita di “chance”, criteri di individuazione

Nella nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto di estorsione rientra anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale.

Delitto di turbata libertà degli incanti, allontanamento dell’offerente, con violenza o minaccia, concorso formale con il delitto di estorsione, condizioni

La condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani l’offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, oltre ad integrare il reato di cui all’art.353 cod. pen., può integrare altresì quello di cui all’art. 629 cod. pen., ove abbia causato un danno patrimoniale derivante dalla perdita di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile per effetto della partecipazione alla predetta gara.

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Cassazione penale, sez. un., sentenza 28/03/2024 (dep. 22/07/2024) n. 30016

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 26 novembre 2021 la Corte d'Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Nola in data 8 maggio 2017, riqualificato ai sensi degli artt. 56,629, secondo comma, cod. pen. e degli artt. 628, secondo comma, n. 3, 416-bis 1 cod. pen. il reato di estorsione aggravata commesso ai danni di Ug.Lu. ed altri membri della sua famiglia (capo R), ha ritenuto An.Ge. responsabile dei reati di partecipazione ad un'associazione camorristica denominata "clan (Omissis)" (capo A), tentata estorsione aggravata e turbata libertà degli incanti (così come contestati nel capo R) a seguito della predetta riqualificazione), riducendo ad anni 12 e mesi 8 di reclusione la pena irrogatagli in primo grado.

La Corte di appello, inoltre, ha ritenuto responsabili: a) Ci.Pa. e De.Gi. dei reati di estorsione aggravata e turbata libertà degli incanti commessi in concorso con altri imputati ai danni di Ca.Gi. e Da.Fr. (capo Q), confermando la condanna di entrambi alla pena di anni sette di reclusione ed Euro quattromila di multa; b) Sa.Vi. del reato di estorsione aggravata commesso in concorso con Fr.Ma. e Co.Pa. ai danni di Gu.Gi. (capo C), nonché del reato di usura aggravata commesso, in concorso con altri imputati, ai danni di Ma.Pi. (capo P) e dei reati di estorsione aggravata e turbata libertà degli incanti commessi ai danni dei predetti Ca.Gi. e Da.Fr. in concorso con Ci.Pa., De.Gi. ed altri imputati (capo Q), confermandone la condanna alla complessiva pena di anni otto, mesi sei di reclusione ed Euro seimila di multa, unificati i predetti reati nel vincolo della continuazione.

2. Avverso la richiamata sentenza della Corte di appello di Napoli i difensori dei predetti imputati hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, i cui contenuti vengono qui di seguito sinteticamente illustrati.

Nei loro confronti la Sesta Sezione penale di questa Corte ha disposto, all'udienza del 11 luglio 2023, la separazione del procedimento rispetto alle posizioni degli altri coimputati, i cui ricorsi sono stati decisi con sentenza emessa in pari data.

3. Nell'interesse di An.Ge. è stato proposto ricorso formulando i seguenti motivi.

3.1. Con un primo motivo si censurano violazioni di legge e vizi della motivazione, anche per travisamento della prova, in ordine alla ritenuta partecipazione all'associazione di stampo camorristico denominata "clan (Omissis)" (capo A), per avere la sentenza impugnata omesso l'esame delle deduzioni svolte nell'atto di appello e in una memoria depositata all'udienza del 28 settembre 2021.

Si assume, al riguardo, che la Corte distrettuale non avrebbe valutato le argomentazioni difensive in ordine ai seguenti profili: a) la intestazione fittizia di un terreno ubicato nell'agro di S, operata dal sodalizio in favore di An.Ge., sebbene al riguardo fosse intervenuta una decisione assolutoria della Corte di appello di Napoli, che rivelava, piuttosto, una intimidazione da lui subita nei confronti dell'organizzazione criminale; b) la erronea identificazione di Fa.Ma. con la persona (tale "Omissis") cui la Corte distrettuale ha fatto riferimento là dove ha richiamato il contenuto di un'intercettazione (n. 308 del 2 luglio 2009) per sostenere che l'An.Ge. era preoccupato della reazione che il predetto poteva avere in merito a talune problematiche emerse in campo societario.

Non poteva trattarsi di Fa.Ma., ad avviso del ricorrente, perché nell'intercettazione si fa riferimento ad un'uscita di tale "Omissis" dal carcere mentre il Fa.Ma. era stato condannato all'ergastolo nel 2005.

3.2. Con un secondo motivo si deducono violazioni di legge ex artt. 192, commi 3 e 4, 238-bis cod. proc. pen. e vizi della motivazione, anche per travisamento della prova, in ordine alla partecipazione del ricorrente all'associazione contestata nel capo A), là dove la sentenza impugnata avrebbe erroneamente valorizzato gli elementi relativi alla sua vicinanza e frequentazione con un esponente del "clan (Omissis)" (Sa.Gi.), alla conoscenza delle dinamiche criminali del territorio, alla partecipazione a conversazioni ove si discorreva dell'organizzazione del sodalizio e all'interessamento mostrato per alcune vicende rilevanti per la sua operatività, senza individuare, tuttavia, il contributo "dinamico e funzionale" che egli avrebbe concretamente offerto per la realizzazione delle finalità proprie dell'associazione.

3.3. Con un terzo motivo si lamenta l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità e inutilizzabilità con riferimento agli artt. 64,210, comma 6, 191 cod. proc. pen., 16-quater D.L. 18 gennaio 1991, n. 8, 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen. e correlati vizi della motivazione riguardo alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Mo.Ma.

Secondo il ricorrente, in occasione dell'esame cui si è proceduto nell'udienza dibattimentale tenutasi il 26 gennaio 2016 dinanzi al Tribunale di Nola il predetto collaboratore avrebbe dovuto prestare giuramento ai sensi degli artt. 210, comma 6, 497, comma 3, cod. proc. pen., avendo egli reso dichiarazioni quale indagato di reato connesso, senza avvalersi della facoltà di non rispondere.

Le sue dichiarazioni accusatorie, inutilizzabili in quanto tardivamente rese e non documentate nell'apposito verbale illustrativo, sarebbero, peraltro, generiche e prive di congrui elementi di riscontro esterno in relazione alle attività truffaldine che il "clan (Omissis) in cooperazione col gruppo Fa.Ma." avrebbe organizzato ed attuato anche in forza del contributo offerto dal ricorrente.

3.4. Con un quarto motivo si lamentano violazioni di legge e vizi di motivazione in relazione alla ricostruzione della vicenda oggetto dell'imputazione di tentata estorsione di cui al capo R), avendo la Corte distrettuale affermato la responsabilità del ricorrente sulla base del rilievo, erroneamente argomentato, che le persone offese (ossia i componenti della famiglia Ug.) avrebbero dichiarato in sede di esame dibattimentale fatti e circostanze diversi rispetto a quanto emerso dalla prova captativa. Analoghe considerazioni vengono svolte riguardo alle dichiarazioni rese ex art. 210, comma 1, cod. proc. pen. da Sa.Gi., ritenuto non credibile dai Giudici di merito sebbene egli, sollecitato ai sensi dell'art. 503 cod. proc. pen., avesse confermato le dichiarazioni precedentemente rese nella fase delle indagini preliminari.

3.5. Il quinto motivo prospetta violazioni di legge e vizi della motivazione riguardo alla commisurazione della pena, avendo la Corte distrettuale erroneamente ritenuto più favorevole, rispetto all'imputazione ex art. 416-biscod. pen. (capo A), la legge 24 luglio 2008, n. 125, sebbene la condotta di partecipazione dovesse essere temporalmente inquadrata nel 2005, con la conseguente applicazione di quanto previsto, per il correlativo trattamento sanzionatorio, dalla precedente legge 5 dicembre 2005, n. 251.

L'entità della pena, peraltro, sarebbe stata determinata in eccesso rispetto a quella irrogata per i capi e i promotori dell'associazione, senza spiegare le ragioni che giustificherebbero una pena base individuata nella misura di anni undici di reclusione per il reato di cui all'art. 416-bis, comma 6, cod. pen., con l'ulteriore aumento di mesi sei ex art. 81 cod. pen. per il reato di cui all'art. 416-bis, comma 4, cit.

Si assume, infine, l'illegalità della pena per avere la Corte di appello applicato un ulteriore aumento di mesi sei di reclusione a titolo di continuazione per il reato di cui al capo Q), sebbene per tale reato il ricorrente sia stato assolto.

4. Nell'interesse di Ci.Pa. i difensori hanno proposto ricorso deducendo i motivi di seguito indicati.

4.1. Con un primo motivo si censurano violazioni di legge e difetto di motivazione per non avere la Corte di appello dato risposta ai rilievi difensivi mossi in ordine alla ricostruzione della condotta estorsiva oggetto del capo Q).

Si assume, al riguardo, che nell'atto di appello erano state indicate le ragioni che, alla luce di quanto emerso dalle intercettazioni, consentivano di escludere l'esistenza di qualsiasi contatto o intesa tra il ricorrente e Sa.Gi. prima del 18 maggio 2009, riscontrando in tal modo la versione dei fatti fornita dall'imputato nel corso del suo interrogatorio.

La Corte distrettuale, di contro, avrebbe travisato le risultanze probatorie ed erroneamente retrodatato l'ipotizzato accordo collusivo ad un momento antecedente l'aggiudicazione provvisoria, senza considerare che da nessuna fonte di prova risultava avvenuto un incontro con il Sa.Gi. anteriormente alla prima asta del 27 gennaio 2009 e che solo in seguito all'aggiudicazione provvisoria del bene il ricorrente parlò della vicenda con An.Ge.

4.1.1. Ulteriori vizi della motivazione vengono indicati con riferimento all'asserito coinvolgimento del Sa.Gi. nell'asta pubblica oggetto della richiamata imputazione e in particolare alla ipotizzata condotta di allontanamento degli offerenti (i predetti Ca.Gi. e Da.Fr.), avendo la Corte territoriale omesso di approfondire i rilievi difensivi svolti sia in merito al corretto inquadramento dei rapporti tra Ci.Pa., An.Ge. e Sa.Gi., che al contributo causale offerto da quest'ultimo: non è emersa, infatti, alcuna prova che il Sa.Gi. abbia direttamente contattato le su indicate persone offese, né che egli sia intervenuto in via mediata attraverso il ricorso ad atti di violenza o minaccia, risultando, piuttosto, la natura millantatoria delle espressioni da lui utilizzate nei colloqui oggetto di intercettazione.

4.1.2. Si lamentano, inoltre, vizi di contraddittorietà e carenza della motivazione riguardo alla valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni rese dalle su indicate persone offese e dal loro difensore nel corso della procedura esecutiva (l'Avv. Sito), là dove costoro hanno riferito di essersi spontaneamente ritirati dalla gara, perché ritenuta non più conveniente dopo la presentazione dell'offerta in aumento del sesto a seguito dell'aggiudicazione provvisoria.

4.2. Con un secondo motivo si deducono vizi di inosservanza della legge penale e mancanza di motivazione con riferimento al requisito del danno richiesto ai fini della configurabilità del reato di estorsione, per avere la Corte distrettuale individuato il danno nella perdita di chance, trascurando, però, di considerare il fatto che, nel caso in esame, si è trattato della partecipazione ad un incanto in seguito ad un'offerta di aumento del sesto a condizioni diverse e più onerose per tutti i partecipanti, sicché non può correttamente ritenersi che i predetti aggiudicatari provvisori fossero titolari di un diritto patrimoniale sub condicione, come invece affermato nelle conformi decisioni di merito.

Dall'intervenuta aggiudicazione provvisoria discenderebbero, in tesi, effetti rescissori su qualsivoglia diritto patrimoniale o aspettativa di diritto, configurandosi al riguardo un mero diritto di partecipazione alla gara successiva, senza alcuna compromissione del patrimonio degli interessati.

Richiamata l'esigenza di un'interpretazione tassativizzante del requisito del danno da estorsione, in linea con la dimensione necessariamente offensiva dell'illecito penale, dovrebbe essere rivisitata l'interpretazione sinora accolta dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui nella nozione di danno correlata al reato dì estorsione rientra qualsiasi situazione idonea ad incidere negativamente sull'assetto economico di un soggetto, ivi compresa la delusione di aspettative e chance future di arricchimento o di consolidamento dei propri interessi nel peculiare ambito delle procedure di gara.

Nella medesima prospettiva, inoltre, si censurano analoghi vizi con riguardo al coefficiente psichico dell'ipotizzato concorso del Ci.Pa. nel reato di estorsione, non essendo emersi elementi di prova da cui evincere l'esistenza di una "pressione illecita" da lui operata sugli aggiudicatari provvisori. La Corte territoriale, sul punto, avrebbe omesso di verificare se all'imputato potesse attribuirsi la responsabilità per aver voluto un reato diverso (la turbativa d'asta) da quello ritenuto in concreto provato (l'estorsione).

4.3. Con un terzo motivo si prospettano vizi di inosservanza della legge penale unitamente a quelli di mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione alla configurabilità dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa, per avere la sentenza impugnata ravvisato la finalità agevolativa nella mera interazione del ricorrente con ambienti criminali o nell'esistenza di stretti rapporti personali con taluni esponenti del sodalizio.

4.4. Nell'interesse del predetto ricorrente, inoltre, i difensori di fiducia hanno depositato motivi nuovi, con i quali sono stati dedotti vizi di erronea applicazione della legge penale e di illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla nozione di danno nel reato di estorsione.

Si assume al riguardo che, pur volendo ritenere legittima la configurazione del delitto de quo nell'ipotesi in cui il danno sia ravvisabile unicamente nella perdita di chance, sarebbe pur sempre necessario dimostrare la sussistenza di un nesso causale tra il danno ingiustamente subito e la perdita delle possibilità di incremento economico-patrimoniali che ne sia derivata. Sarebbe dunque indispensabile la dimostrazione della impossibilità di conseguire un vantaggio patrimoniale che, viceversa, con forte probabilità statistica, il soggetto passivo avrebbe potuto acquisire ove avesse preso parte all'asta.

Nel caso in esame, di contro, mancherebbe la prova sia di una concreta diminuzione patrimoniale, sia dell'esistenza di una forte probabilità statistica che le persone offese potessero aggiudicarsi i beni, qualora avessero partecipato all'asta.

5. Nell'interesse di De.Gi. è stato proposto ricorso formulando i seguenti motivi.

5.1. Con un primo motivo si deducono violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento alla ritenuta configurabilità del concorso nel reato di estorsione di cui al capo Q), avendo la Corte territoriale basato la sua decisione su un ragionamento di tipo meramente presuntivo, legato al fatto che l'imputato sarebbe l'imprenditore nel cui interesse è stata consumata la turbativa d'asta, in assenza di ulteriori elementi di fatto di sicuro valore indiziante e sebbene fosse stato accertato l'autonomo e preventivo interesse anche del coimputato Ci.Pa.

La sentenza impugnata si sarebbe limitata a descrivere l'iter della procedura, senza considerare il fatto che la revoca della precedente aggiudicazione in favore delle parti offese era seguita ope legis alla tempestiva offerta in aumento presentata dalla figlia del ricorrente.

Erroneamente valutati dalla sentenza impugnata devono ritenersi, in particolare, gli elementi indiziari individuati dalla Corte d'Appello relativamente: a) ai vari passaggi della procedura fallimentare pendente dinanzi al Tribunale di Nola; b) ai tabulati relativi al flusso di comunicazioni intercorse sull'utenza del Ci.Pa.

in data 19 giugno 2009; c) alla sentenza dichiarativa del fallimento della "Car. Ves. Srl", d) ai risultati delle intercettazioni ambientali disposte sull'utenza cellulare del Sa.Gi.; e) al contenuto "confessorio" del verbale di interrogatorio del Ci.Pa., acquisito dal Tribunale ai sensi dell'art. 513 cod. proc. pen. e utilizzabile solo nei confronti del predetto imputato; f) alla deposizione resa in dibattimento dall'Avvocato Sito, laddove precisava di aver inserito nell'istanza di svincolo degli assegni una clausola di riserva di partecipazione alla gara non perché richiesto dai suoi clienti, ma solo a tutela della sua professionalità.

5.2. Con un secondo motivo si prospetta un travisamento della prova, per avere la Corte territoriale attribuito valore probatorio preponderante alla "piena confessione" che l'imputato avrebbe reso nell'interrogatorio dinanzi al P.M., sebbene il Tribunale avesse negato qualsiasi valore confessorio alle relative dichiarazioni.

5.3. Con un terzo motivo si lamenta l'erronea applicazione dell'art. 192 cod. proc. pen. in relazione alla ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni delle persone offese, il cui contenuto era stato valorizzato nell'atto di appello per dedurne l'assenza di qualsiasi pressione subita dalle persone offese per non partecipare all'asta del 19 maggio 2009.

5.4. Con un quarto motivo si censurano l'erronea applicazione della legge penale e il difetto di motivazione in relazione alla configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 416 bis. 1 cod. pen., dai Giudici di merito ritenuta nonostante la mancanza di elementi obiettivamente dimostrativi del ricorso alla forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo.

5.5. Con un quinto motivo si lamentano violazioni di legge e vizi della motivazione in ordine alla denegata concessione delle attenuanti generiche, dalla Corte distrettuale erroneamente motivata sulla base del rilievo che le stesse già nel giudizio di primo grado sarebbero state ritenute equivalenti alle riconosciute aggravanti, sebbene l'omessa concessione fosse stata pacificamente evidenziata dal Tribunale nel relativo calcolo della pena.

5.6. Con l'ultimo motivo si deduce la mancanza di motivazione in ordine al motivo di appello avente ad oggetto la statuizione di confisca di beni non più in vincutis, attesa l'intervenuta revoca del sequestro preventivo a suo tempo operata dal P.M.

6. I difensori di Sa.Vi. hanno proposto nel suo interesse due distinti ricorsi.

Nel primo ricorso vengono formulati i motivi di seguito indicati.

6.1. Con un primo motivo si censura la violazione degli artt. 267, 268, 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. in ordine alla utilizzabilità delle intercettazioni disposte attraverso l'inserimento di un captatore informatico nel telefono cellulare in uso a Sa.Gi., senza alcuna indicazione preventiva del P.M. e senza alcuna autorizzazione specifica da parte De.Gi. delle indagini preliminari, con la conseguente impossibilità di verifica sul rispetto dei termini e sui tempi di proroga delle attività di intercettazione.

6.2. Con un secondo motivo si lamentano violazioni della legge penale in relazione agli artt. 110,629,116,393 cod. pen. e l'omessa motivazione in ordine alla richiesta difensiva di riqualificare ex art. 393 cod. pen. i fatti di cui al capo C), per essersi il Sa.Vi. adoperato ai fini del recupero di una somma di denaro che sapeva essere riferibile ad un credito legittimamente vantato dal coimputato Co.Pa.

Al riguardo si assume, segnatamente: a) l'intervento del ricorrente si sarebbe limitato ad una attività di occasionale intermediazione posta in essere nell'esercizio arbitrario di un diritto del Co.Pa. che, alla stregua di quanto prospettato allo stesso Sa.Vi., era legittimamente vantato ed astrattamente azionabile in giudizio, a nulla rilevando che nella vicenda siano rimaste coinvolte, peraltro in periodi diversi, alcune persone ritenute appartenenti ad un'associazione camorristica; b) i concorrenti, al più, realizzarono un fatto diverso da quello voluto dal Sa.Vi., con la conseguente necessità di applicare la diminuzione di pena prevista dall'art. 116 cod. pen.

6.3. Con un terzo motivo si lamenta la violazione degli artt. 76,78,79,538 cod. proc. pen. con riferimento al risarcimento dei danni erroneamente disposto in favore di Gu.Gi., persona offesa dal reato di cui al capo C), sulla base del rilievo che il predetto si è costituito parte civile nei confronti degli altri coimputati e non contro l'odierno ricorrente.

6.4. Con un quarto motivo si prospetta la violazione degli artt. 110 e 644 cod. pen. e vizi di illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta configurabilità degli elementi costitutivi del reato di usura commesso ai danni di Ma.Pi. (capo P), non avendo la Corte distrettuale considerato che solo a seguito di specifiche e reiterate insistenze della persona offesa l'imputato - suo amico di lunga data - partecipò ad una riunione con Sa.Gi. e Di.Pi. - effettivo titolare del credito usurario e mai prima di allora incontrato dal Sa.Vi. - al cui esito le parti interessate concordarono le nuove modalità di pagamento del dovuto.

In tale occasione, peraltro, il ricorrente sarebbe intervenuto quale terzo estraneo all'illecito rapporto negoziale, nell'esclusivo interesse della persona offesa e al fine di renderle meno pesante la situazione debitoria.

6.5. Con un quinto motivo si censurano violazioni di legge in relazione agli artt. 353 e 629 cod. pen. e correlati vizi di illogicità della motivazione per avere la Corte di appello travisato la prova in merito alla responsabilità concorsuale del ricorrente nei fatti di reato commessi nell'ambito della procedura di incanto dei beni della società "Car. Ves. Srl", non emergendo dagli atti alcuna prova che egli abbia, assieme al coimputato Ca.Gi., materialmente prestato il suo contributo per bloccare fisicamente le persone offese ed il loro avvocato al fine di impedirne la partecipazione all'udienza fissata a seguito dell'offerta in aumento del sesto. Nel caso in esame, peraltro, difetterebbe non solo un atto di disposizione patrimoniale, ma la stessa prova dell'ingiusto profitto, con la conseguente non configurabilità del delitto di estorsione.

6.6. Con un sesto motivo si lamentano violazioni di legge e vizi della motivazione relativamente alla circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis. 1 cod. pen., che la Corte distrettuale ha ritenuto automaticamente applicabile per tutte le condotte contestate nei capi C), P) e Q), sulla base del mero contributo concorsuale che il ricorrente avrebbe offerto unitamente ad alcuni esponenti del sodalizio camorristico, nonostante i relativi fatti di reato risultassero estranei al programma criminoso dell'associazione.

La presunta ripartizione delle quote dei proventi estorti nell'ambito della vicenda oggetto del capo C) non comporta di per sé l'agevolazione della consorteria, cui il ricorrente peraltro non ha partecipato, né la su indicata aggravante potrebbe ritenersi integrata, in relazione all'altra vicenda oggetto del capo P), per il solo fatto di aver garantito un contatto, futuro ed eventuale, con un interlocutore solvibile, senza spiegare se vi sia stato un eventuale reimpiego a fini illeciti delle somme corrisposte dalla persona offesa.

Con riferimento al reato di cui al capo Q), inoltre, la Corte territoriale avrebbe travisato la prova della partecipazione a titolo concorsuale sulla base di una indimostrata attività che il ricorrente avrebbe fisicamente posto in essere nei confronti degli aggiudicatari provvisori.

6.7. Con il settimo motivo si censura la violazione dell'art. 12-sexies della legge 7 agosto 1992, n. 356, e dell'art. 240-bis cod. pen., unitamente al vizio di omessa motivazione in relazione alla confisca, sul rilievo che i beni oggetto della misura ablativa si trovavano da tempo assai risalente nella disponibilità della famiglia del ricorrente.

7. Con un secondo ricorso sono stati altresì dedotti i seguenti motivi.

7.1. Il primo motivo lamenta violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione alle censure formulate nell'atto di appello riguardo alla rilevanza del contributo causale che l'imputato avrebbe consapevolmente apportato alla realizzazione in forma concorsuale della condotta estorsiva di cui al capo C).

Si deduce, in particolare, l'omessa valutazione delle argomentazioni difensive sia in ordine alla ritenuta attendibilità della persona offesa - che non ha riconosciuto nel Sa.Vi. uno dei partecipanti agli incontri verificatisi per la consegna materiale degli assegni dal Gu.Gi. al Co.Pa. ai fini della regolamentazione delle modalità di definizione della sua esposizione debitoria - che all'assenza, nelle conversazioni intercettate, di elementi idonei a dimostrare la partecipazione del ricorrente agli incontri nel corso dei quali si sarebbe verificata la condotta estorsiva.

7.2. Con un secondo motivo si deducono violazioni della legge penale e vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla qualificazione delle condotte delittuose contestate nel capo C) come di natura estorsiva e non ai sensi della diversa fattispecie di cui all'art. 393 cod. pen. ovvero del concorso anomalo ex art. 116 cod. pen.

7.3. Con un terzo motivo si prospettano violazioni di legge e vizi della motivazione, anche per travisamento della prova, in ordine alla configurabilità dell'aggravante prevista dall'art. 416-bis 1 cod. pen., poiché, pur contestata in forma alternativa nell'imputazione di cui al capo C), è stata dalla Corte d'Appello ritenuta implicitamente sussistente, con riferimento alla posizione del Sa.Vi., sotto il solo profilo soggettivo della finalità dell'agevolazione mafiosa, omettendo qualsiasi valutazione in ordine al profilo oggettivo della predetta circostanza.

7.4. Nel quarto motivo si censurano violazioni di legge e vizi della motivazione in ordine all'esame dei motivi di appello relativi all'affermazione della responsabilità del ricorrente per il reato di cui al capo P), avendo la Corte distrettuale omesso di considerare il fatto che l'imputato, legato da un risalente vincolo di amicizia con la persona offesa, si limitò ad individuare una persona (il Sa.Gi.) che potesse agevolarla nella riduzione delle pretese usurarie fatte valere nei suoi confronti, attraverso la totale eliminazione degli interessi previsti sulle somme prestate a capitale, senza richiedere, peraltro, alcuna forma di compenso, per sé stesso o per altri, come prezzo del suo intervento, ed anzi sollecitando la stessa persona offesa a rivolgersi ai carabinieri per denunciare l'illiceità dell'esposizione debitoria maturata nel rapporto intercorso con Di.Pi.

7.5. Il quinto motivo lamenta l'erronea applicazione della legge penale unitamente a vizi della motivazione rispetto ai motivi di gravame con i quali era stata richiesta l'esclusione dell'aggravante di cui all'art. 416-bis.l cod. pen. nella sua duplice accezione, oggettiva e soggettiva, in relazione al reato di cui al capo P).

7.6. Con un sesto motivo si deducono violazioni di legge e vizi della motivazione riguardo all'affermazione della responsabilità a titolo concorsuale nel reato di estorsione di cui al capo Q), avendo la sentenza impugnata erroneamente valutato le censure che investivano, in particolare, la ricostruzione del contributo operativo che il ricorrente avrebbe offerto alla realizzazione dell'azione estorsiva.

Dalle fonti di prova in atti risultava, di contro, che il suo comportamento era consistito nell'informarsi, attraverso non meglio precisati canali, della volontà di due imprenditori (Ca.Gi. e Da.Fr.) di partecipare o meno ad un'asta giudiziaria indetta il 19 maggio 2009 nell'ambito di un procedimento fallimentare che vedeva coinvolta una società ("Car. Ves." Srl) in precedenza amministrata da De.Gi.

Sotto tale profilo si censura, in particolare, la tenuta logica del percorso motivazionale volto a privilegiare le risultanze probatorie offerte dal contenuto delle intercettazioni, rispetto al quadro emergente dalle deposizioni delle persone offese e del loro difensore, erroneamente ritenute inattendibili dai Giudici di merito sebbene le stesse fornissero concreti elementi per una ricostruzione alternativa della vicenda, escludendo la responsabilità penale del ricorrente sia in ordine alla condotta estorsiva che alla turbativa dell'asta pubblica.

7.7. Con un settimo motivo si censurano l'erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione per avere i Giudici di merito ritenuto sussistenti, in relazione al capo Q), entrambe le ipotesi di reato di cui agli artt. 353 e 629 cod. pen. in luogo della sola fattispecie di turbata libertà degli incanti.

Si evidenzia, al riguardo, che le decisioni di merito hanno ritenuto la configurabilità del danno per la perdita di chance in relazione all'omessa presentazione di eventuali offerte.

Tale opzione ermeneutica, però, stravolgerebbe la natura del delitto di estorsione, che rientra nel perimetro delle fattispecie ad evento naturalistico, determinandone l'attrazione alla diversa categoria del reato di pericolo concreto attraverso il recepimento in sede penale di una concezione del danno prettamente civilistica.

Assume inoltre il ricorrente che la scelta di ricondurre la mera perdita di un'occasione di partecipazione ad un'asta pubblica nel perimetro di offensività della fattispecie tipica determinerebbe lo svuotamento della ratio della norma incriminatrice, perché verrebbe sanzionato in sede penale il mero pericolo concreto che l'azione possa aver interrotto una concatenazione di eventi, al cui esito il soggetto che ha subito il comportamento ostruzionistico avrebbe potuto conseguire un arricchimento patrimoniale.

Pur volendo prescindere dalla correttezza della interpretazione estensiva del concetto di danno patrimoniale la sentenza impugnata, peraltro, avrebbe omesso di considerare la circostanza che Ca.Gi. e Da.Fr. avevano ritirato i titoli e non avevano predisposto, nelle more tra il ritiro della cauzione e la data dell'udienza, alcun atto funzionale alla partecipazione alla gara o idoneo, comunque, a determinare un quadro di condizioni connotato da una forte probabilità statistica ai fini dell'aggiudicazione del complesso immobiliare.

7.8. Con l'ottavo motivo si lamentano violazioni di legge e vizi della motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416 bis. 1 cod. pen. con riferimento ai reati di cui al capo Q) della rubrica, per non avere la Corte di appello esaminato le censure prospettate in ordine al duplice profilo, oggettivo e soggettivo, della aggravante, con particolare riguardo all'assenza di elementi indicativi della potenziale idoneità della condotta estorsiva ad avvantaggiare la consorteria criminale dei Fa.Ma.

7.9. Il nono motivo lamenta violazioni di legge e vizi della motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche, avuto riguardo all'omessa considerazione della condotta post delictum, caratterizzata sia dalla volontà dell'imputato di collaborare e chiarire la sua posizione processuale, sia dall'assenza di recidiva nell'arco temporale degli ultimi tredici anni.

7.10. Con un decimo motivo si prospettano vizi della motivazione in relazione alla confisca dei beni ex art. 12-sexies legge cit., per avere la Corte distrettuale omesso di considerare le doglianze prospettate sia in merito all'assenza di legami tra i cespiti oggetto di ablazione e l'ipotizzata condotta illecita, che alla tracciabilità delle risorse economiche pervenute nella disponibilità del ricorrente in ambito familiare ovvero grazie alla percezione di redditi da lavoro.

8. Con ordinanza n. 41379 del 11 luglio 2023, depositata il 12 ottobre 2023, la Sesta Sezione Penale ha rimesso i ricorsi alle Sezioni Unite, prospettando l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale sia in ordine alla configurabilità del concorso formale tra i reati di estorsione e di turbata libertà degli incanti o delle licitazioni private nella condotta di allontanamento degli offerenti con violenza o minaccia, sia riguardo alla possibilità di ricondurre il ed. danno da perdita di chance nella nozione di danno patrimoniale prevista dall'art. 629 cod. pen.

Esaminati gli elementi costitutivi delle predette fattispecie incriminatrici, la richiamata ordinanza ne ha evidenziato la diversità con particolare riguardo all'elemento soggettivo e all'evento, individuando nella lesione dell'autonomia negoziale determinata dalla condotta di allontanamento del privato da una gara il profilo comune all'oggettività giuridica di entrambe, in quanto tale rilevante per la configurazione di un rapporto di specialità, con la conseguente integrazione della sola fattispecie di turbata libertà degli incanti.

Fatta salva la configurabilità del concorso formale tra i due reati nell'ipotesi, pacificamente riconosciuta, in cui dalla condotta di estorsione derivi la perdita di un bene materiale, la Sezione rimettente ha individuato due diversi orientamenti giurisprudenziali relativamente alle situazioni in cui non sia riscontrabile una deminutio patrimonii apprezzabile sul piano materiale: da un lato, infatti, si è ritenuta la configurabilità di un concorso apparente di norme tra i reati di estorsione e di turbata libertà degli incanti, sulla base del rilievo che la seconda fattispecie assorbe in sé l'intero disvalore dell'evento criminoso quando il danno del delitto di estorsione consiste nella lesione della libertà di partecipare o meno ad una gara ed influenzarne l'esito, quale bene giuridico già tutelato dal reato di turbativa d'asta; dall'altro lato, si è formato un orientamento secondo cui tra i due reati sussiste un concorso formale, in ragione dei rilevanti elementi differenziali riscontrabili nell'oggetto giuridico e negli elementi costitutivi delle relative fattispecie.

Entro tale prospettiva, la Sezione rimettente ha posto in rilievo la necessità di ricostruire, alla luce della elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale sviluppatasi nel settore civile, il corretto significato da attribuire alla nozione di chance, per stabilire se nel danno del reato di estorsione rientri qualsiasi perdita di chance o soltanto quella delineata dalla giurisprudenza civile, che a tal fine presuppone l'accertamento di una concreta e consistente possibilità di conseguire vantaggi economicamente apprezzabili.

L'ordinanza di rimessione ha concluso il suo percorso argomentativo affermando che solo ove si prospetti una chance accompagnata da una concreta probabilità di successo potrebbe configurarsi il danno del delitto di estorsione, con la conseguente integrazione degli elementi costitutivi di entrambe le fattispecie.

Nella diversa ipotesi in cui siffatta probabilità fosse esclusa, dovrebbe parimenti escludersi la configurabilità del danno e, quindi, del reato di estorsione, con l'ulteriore conseguenza della impossibilità di ravvisare il concorso dei reati, non essendovi uno stesso fatto riconducibile a due distinte fattispecie astratte di reato.

9. Con decreto della Prima Presidente in data 27 ottobre 2023 i ricorsi sono stati assegnati alle Sezioni Unite per la trattazione all'odierna udienza pubblica, tenutasi in forma orale ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile in forza di quanto disposto dall'art. 94, comma 2, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 e successive modifiche), a seguito delle relative richieste formulate dai difensori degli odierni ricorrenti.

10. Nell'interesse di Sa.Vi. l'Avv. Paolo Cerruti ha depositato il 5 marzo 2024 una memoria con documentazione allegata, ove si ribadiscono le censure già esposte nel ricorso e vengono illustrati ulteriori argomenti a sostegno della configurabilità di una nozione di perdita di chance intesa come danno derivante dalla perdita di una ragionevole aspettativa patrimoniale, la cui soglia percentuale di probabilità dovrebbe assestarsi ad un livello sufficientemente elevato in modo da rendere seria la possibilità di guadagno.

11. Nell'interesse di De.Gi. gli Avv.ti Raffaella Monaldi e Valerio Izzo hanno depositato in data 11 marzo 2024 una memoria con la quale si ribadiscono le argomentazioni già svolte a sostegno dell'erronea configurabilità del delitto di estorsione contestato nel capo Q), sul rilievo che la caducazione dell'aggiudicazione provvisoria in conseguenza della riapertura della gara non consentiva di individuare, in capo alle persone offese, alcuna concreta possibilità di aggiudicarsi il bene, in considerazione sia del consistente impegno di spesa richiesto per superare l'offerta in aumento formulata da De.Te., sia dell'assenza di qualsiasi iniziativa rivelatrice di una loro volontà di partecipazione alla gara.

Nel caso in esame, pertanto, sarebbe configurabile la sola fattispecie di cui all'art. 353 cod. pen., avuto riguardo alla presenza di tratti "specializzanti" rispetto alla condotta di estorsione, nella cui nozione di danno non potrebbe rientrare la perdita di un mero diritto di partecipazione alla gara.

12. Nell'interesse di Ci.Pa. gli Avv.ti Vincenzo Maiello e Sergio Cola hanno depositato il 12 marzo 2024 una memoria in cui, ripercorsa l'evoluzione giurisprudenziale della nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della integrazione del reato di estorsione, si evidenziano i rischi di un'eccessiva dilatazione che deriverebbe, sul piano dei principi di legalità e di offensività, dalla sostituzione dell'evento naturalistico di danno con la generica aspettativa del conseguimento di vantaggi economici favorevoli, cui collegare, solo ipoteticamente, situazioni potenzialmente pregiudizievoli.

13. Con requisitoria depositata il 13 marzo 2024 la Procura generale ha illustrato le sue conclusioni chiedendo di rispondere in senso affermativo al primo quesito posto nell'ordinanza di rimessione, relativo alla configurabilità del concorso formale tra i reati di estorsione e di turbata libertà degli incanti o delle licitazioni private nella condotta di allontanamento degli offerenti con violenza o minaccia, sulla base del rilievo che nessun concorso apparente di norme sussiste tra i reati di cui agli artt. 353 e 629 cod. pen., a condizione che la condotta materiale e l'elemento soggettivo abbiano in concreto realizzato anche il fatto incriminato dall'art. 629 cit., in quanto comprensivo sia del danno patrimoniale in capo alla persona offesa che del profitto ingiusto in capo al soggetto attivo.

L'allontanamento coattivo di un offerente dalla gara, secondo quanto argomentato nella requisitoria, integra già il reato di cui all'art. 353 cod. pen., ma non ancora quello di cui all'art. 629 cod. pen.: solo nell'ipotesi in cui a tale segmento di condotta segue un atto di disposizione patrimoniale, con il trasferimento illecito di un bene o di un'altra utilità dal soggetto passivo, può dirsi integrato anche il concorrente reato di estorsione, configurandosi il relativo danno patrimoniale quale effetto della perdita di un'aspettativa di partecipazione alla gara.

In relazione al secondo quesito, riguardante la possibilità di ricondurre il ed. danno da perdita di chance nella nozione di danno patrimoniale prevista dall'art. 629 cod. pen., la Procura generale ha concluso chiedendo di rispondere in senso affermativo, con la precisazione che il danno patrimoniale in questione è integrato allorquando la condotta illecita dell'agente determini la perdita di un'aspettativa che, connotata dai caratteri di serietà, consistenza ed apprezzabilità, riveli la concreta ed effettiva possibilità di conseguire un determinato risultato o un bene economicamente valutabile.

Entro tale prospettiva si richiamano l'ipotesi dell'offerta già formulata o situazioni di fatto concretamente assimilabili (come, ad es., quella del soggetto già invitato ad una licitazione privata o che abbia già depositato cauzione ex art. 580 cod. proc. civ. nella vendita all'incanto di immobili ecc.), quali inequivoci elementi indicativi della "serietà" dell'aspettativa coltivata, così da poter sicuramente ritenere integrati nei confronti di quei soggetti, in assenza di elementi patologici di evidente segno contrario (ad es., l'assenza dei requisiti di legge legittimanti l'offerta avanzata), i requisiti della necessaria consistenza ed apprezzabilità della partecipazione alla gara.

Analogo rilievo deve attribuirsi, inoltre, alla posizione di colui che si accinga a presentare un'offerta già compiutamente predisposta e che viene coartato proprio nell'atto finale della effettiva presentazione. Non rilevante, invece, deve ritenersi la situazione del soggetto che abbia avuto una semplice "intenzione" poi non coltivata o una mera possibilità non esercitata.

Si osserva, infine, riguardo al nesso causale tra la condotta dell'agente e la perdita della chance, che la valutazione giudiziale non dovrà concentrarsi sulla "certezza" dell'aggiudicazione quale prognosi eziologica della partecipazione (il danno da evento finale non conseguito), dovendo essere, viceversa, la "ragionevole probabilità" perduta con la chance conculcata a costituire il canone metodologico di valutazione dell'aspettativa sul piano causale.

14. Nell'interesse di An.Ge. gli Avv.ti Erasmo Fuschillo e Luigi Spadafora hanno depositato il 21 marzo 2024 una memoria in cui si ribadiscono le argomentazioni già esposte nel ricorso e in una memoria ad esso allegata (precedentemente depositata nel giudizio di appello all'udienza del 28 settembre 2021), replicando alle considerazioni svolte nella requisitoria della Procura generale in ordine alla valutazione di inammissibilità o infondatezza dei profili di doglianza già censurati nei precedenti atti difensivi.

15. I difensori di Ci.Pa., Avv.ti Vincenzo Maiello e Sergio Cola, hanno depositato il 21 marzo 2024 una memoria in cui si ribadiscono le argomentazioni già illustrate nel ricorso e nei successivi atti difensivi in ordine alle questioni di diritto devolute alle Sezioni Unite, replicando alle considerazioni svolte nella requisitoria della Procura generale riguardo alla valutazione di infondatezza dei vizi di motivazione già censurati.

16. I difensori di Sa.Vi., Avv.ti Paolo Cerruti e Andrea Imperato, hanno depositato il 22 marzo 2024 una memoria in cui si ribadiscono le argomentazioni già illustrate nel ricorso e nei successivi atti difensivi, replicando alle considerazioni espresse nella requisitoria del Procuratore generale in ordine alla valutazione di inammissibilità o infondatezza delle già dedotte ragioni di doglianza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Le questioni di diritto per le quali i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite sono le seguenti:

a) "se nella nozione di danno di cui all'art. 629 cod. pen. rientri la perdita dell'aspettativa di conseguire un vantaggio economico"

b) "se, in relazione alla condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani gli offerenti da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, il reato di turbata libertà degli incanti concorra con quello di estorsione".

2. L'esame della prima questione è pregiudiziale rispetto alla seconda, la cui soluzione presuppone logicamente l'individuazione della nozione di danno prevista dall'art. 629 cod. pen. e del rilievo che ad essa deve attribuirsi quale elemento tipico della relativa fattispecie incriminatrice.

Nel reato di estorsione, infatti, il danno costituisce il perno dell'offesa criminale su cui è costruita l'intera fattispecie ed esprime la lesività materiale tipica dell'interesse tutelato, distinguendosi ontologicamente dal danno civile risarcibile previsto dall'art. 185, secondo comma, cod. pen.

L'accertamento di tale elemento costitutivo del reato deve essere svolto secondo i canoni probatori del diritto penale e non può essere affidato a meccanismi di tipo presuntivo, trattandosi di un delitto commesso mediante violenza o minaccia, il cui evento pregiudizievole per il patrimonio della vittima caratterizza l'intera dimensione offensiva del fatto.

Nello schema descrittivo della fattispecie tipica la costrizione consegue alla condotta di violenza o di minaccia e conduce al verificarsi di un altrui danno e di un ingiusto profitto quale duplice effetto finale del reato, causalmente legato alla condotta e determinato dall'evento intermedio del fare o dell'omettere "qualche cosa".

Al riguardo la riflessione dottrinale ha prestato particolare attenzione al tenore della formula lessicale ("qualche cosa") utilizzata dal legislatore per definire l'oggetto della costrizione, rilevando come essa sia genericamente enunciata nella norma incriminatrice, sì da ricomprendervi non solo i beni intesi in senso materiale, ma tutto ciò che può costituire oggetto di un profitto per l'agente o per altri. Diversamente dal reato di rapina, che ha per oggetto soltanto le cose mobili, l'estorsione può dunque aggredire qualsiasi parte del patrimonio della vittima, compresi i beni immobili e le aspettative di diritto.

È altresì diffusa l'opinione secondo cui il danno, quale centro dell'offesa "criminale" sulla quale è imperniato il delitto di estorsione, debba avere un contenuto patrimoniale, determinando una effettiva diminuzione del patrimonio della persona offesa.

La definizione della nozione di danno, pertanto, deve essere determinata in correlazione funzionale a quella di patrimonio, che ne costituisce il presupposto logico-giuridico necessario al fine di individuare il momento effettuale del risultato pregiudizievole della condotta costrittiva.

Seguendo tale impostazione metodologica, la elaborazione dottrinale del concetto penalistico di patrimonio tende a valorizzare un'esegesi orientata a contemperare in maniera equilibrata le diverse esigenze di non restringere troppo l'area della tutela penale, da un lato, e di evitare, dall'altro, un netto contrasto di valutazioni tra il diritto civile e il diritto penale, circoscrivendo la sfera della protezione penale a quei rapporti economici che l'ordinamento giuridico espressamente riconosce e considera meritevoli di tutela, sia pure in forma più attenuata rispetto ai diritti soggettivi in senso stretto: nella nozione di patrimonio, dunque, si fanno rientrare le aspettative dotate di fondamento giuridico, ma non anche le aspettative di mero fatto.

Analoga linea ermeneutica emerge dalla disamina dell'evoluzione giurisprudenziale, progressivamente affinatasi attraverso una ricostruzione del concetto di danno essenzialmente incentrata sulla valorizzazione della sua connotazione di patrimonialità.

Connotazione, questa, il cui contenuto di tutela è stato costantemente declinato dalla giurisprudenza in modo da definire il patrimonio come un insieme non solo di beni materiali, ma di rapporti giuridici attivi e passivi aventi contenuto economico, unificati dalla legge in considerazione dell'appartenenza al medesimo soggetto, così da ricomprendere nel concetto di danno di cui all'art. 629 cod. pen. qualunque situazione idonea ad incidere negativamente sull'assetto economico di un individuo, compresa la delusione di aspettative e chance future di arricchimento o di consolidamento dei propri interessi (Sez. 2, n. 43769 del 12/07/2013, Ventimiglia, Rv. 257303; Sez. 2, n. 34900 del 10/07/2008, Quarti, Rv. 241817; Sez. 1, n. 9958 del 27/10/1997, Carelli, Rv. 208938; Sez. 1, n. 1683 del 22/04/1993, Puglisi, Rv. 194418).

Sulla scia di tale indirizzo, la patrimonialità del danno è stata riconosciuta da questa Corte non solo nelle situazioni in cui la condotta intimidatrice sia diretta ad ottenere la rinuncia alla tutela di un proprio diritto o di una legittima aspettativa nell'ambito dei rapporti di lavoro, costringendo il lavoratore ad accettare condizioni contrarie alla legge e ai contratti collettivi (Sez. 2, n. 3724 del 29/10/2021, dep. 2022, Lattanzio, Rv. 282521; Sez. 2, n. 8477 del 20/02/2019, Scialpi, Rv. 275613; Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017, Tessitore, Rv. 269905; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, Di Vincenzo, Rv. 261553; Sez. 2, n. 43769 del 12/07/2013, Ventimiglia, cit.; Sez. 2, n. 16656 del 20/04/2010, Privitera, Rv. 247350), ma anche nelle ipotesi di coartata desistenza dall'esercizio di una tempestiva azione giudiziaria in vista della legittima tutela dei propri diritti ed interessi, impedendo alla persona offesa di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune (Sez. 2, n. 32083 del 12/05/2023, De Luca, Rv. 285002; Sez. 2, n. 34900 del 10/07/2008, Quarti, cit.; v., inoltre, Sez. 6, n. 1533 del 20/06/1987, Sorrentino, Rv. 177531).

Nell'ambito della medesima prospettiva, inoltre, la caratteristica della patrimonialità del danno è stata riconosciuta anche nelle ipotesi di ed. estorsione contrattuale, quando al soggetto passivo sia stato imposto un rapporto negoziale di natura patrimoniale con l'agente o con altri soggetti, sicché l'elemento dell'ingiusto profitto con altrui danno si ritiene implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, così impedendogli di perseguire i propri interessi economici (Sez. 2, n. 12434 del 19/02/2020, Di Grazia, Rv. 278998; Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana, Rv. 258168).

Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi come tale nozione di patrimonio sia stata di recente ribadita dalle Sezioni Unite in relazione al tema della individuazione del dolo specifico nel delitto di furto, ricollegandovi una definizione assai ampia del fine di profitto, inteso come qualunque vantaggio, non solo di natura patrimoniale, perseguito dall'autore del reato (Sez. U, n. 41570 del 25/05/2023, C., Rv. 285145).

3. Ciò posto, deve essere ora esaminato lo specifico tema legato alla possibilità di ricondurre la perdita dell'aspettativa di conseguire un vantaggio economico (ed. chance) nell'ambito di operatività del danno patrimoniale quale elemento costitutivo del reato previsto dall'art. 629 cod. pen.

L'esigenza di pervenire alla costruzione di un modello definitorio uniforme della nozione di perdita di chance è affiorata solo episodicamente e in modo del tutto frammentario nella elaborazione della giurisprudenza penale formatasi in materia di danno da estorsione.

Né è possibile registrare, al riguardo, una organica ed approfondita disamina dei rilevanti approdi interpretativi che il progressivo affinamento di tale nozione ha consentito di raggiungere, come più avanti si vedrà, nella più recente evoluzione della giurisprudenza civile.

In relazione ad una vicenda fattuale del tutto analoga a quella oggetto della questione rimessa alle Sezioni Unite, ove le persone offese, già aggiudicatane della prima fase della vendita giudiziaria con incanto, avevano subito la delusione dell'aspettativa di consolidamento dei propri interessi a causa dell'azione estorsiva posta in essere dagli imputati, la nozione della perdita di chance non è stata specificamente definita da questa Corte (Sez. 2, n. 41433 del 27/4/2016, Ca.Gi.), ma solo genericamente richiamata nella motivazione, attraverso il riferimento all'ampia nozione di patrimonio accolta da un precedente giurisprudenziale ivi menzionato (Sez. 2, n. 43769 del 12/07/2013, Ventimiglia, cit.).

In un altro caso giunto all'attenzione di questa Corte, la costrizione della vittima a rinunciare ad una propria legittima aspettativa è stata definita quale danno futuro, consistente nella perdita non già di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione da formulare ex ante e da ricondurre, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale (Sez. 5, n. 18508 del 16/02/2017, Fulco, Rv. 270209, ove l'intimidazione era finalizzata a far recedere la vittima dalla richiesta di concessione di un'area demaniale per svolgervi la propria attività economica).

Le richiamate pronunzie, dunque, pur correttamente includendo nel concetto di danno prodotto dal reato di estorsione ogni situazione idonea ad incidere negativamente sull'assetto economico di un soggetto, ivi compresa la delusione delle aspettative di futuro arricchimento o consolidamento dei propri interessi, si sono limitate ad evocare tale nozione senza individuarne con precisione il contenuto e i presupposti necessari per delimitarne l'ambito di operatività.

Deve poi menzionarsi un'altra decisione che, pur esaminando il diverso, ma strettamente connesso, tema della individuazione del profitto del reato in relazione alla confisca per equivalente ai sensi dell'art. 322-ter, comma 2, cod. pen., ha puntualmente richiamato e accolto il concetto di chance elaborato dalla giurisprudenza civile, escludendo la possibilità di ricondurre nella sua sfera applicativa un vantaggio solo futuro, eventuale, sperato, immateriale o non ancora materializzato in termini economico-patrimoniali, ovvero una mera aspettativa di fatto, salvo che la chance, in quanto fondata su circostanze specifiche, non presenti caratteri di concretezza ed effettività tali da costituire essa stessa un'entità patrimoniale a sé stante, autonoma, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione in relazione alla sua proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto (Sez. 6, n. 1754 del 14/09/2017, Bentini, Rv. 271967).

La risarcibilità del danno da perdita di chance, infine, è stata affermata da questa Corte in relazione all'istituto processuale della riparazione dell'errore giudiziario, individuandola, in linea con l'impostazione seguita dalla giurisprudenza civile, nella perdita di una concreta occasione favorevole al conseguimento di un bene determinato o di un risultato positivo, sulla base del riferimento ad una situazione soggettiva diversa rispetto a quella relativa al danno cagionato dalla mancata realizzazione del medesimo risultato. Al riguardo, in particolare, si è precisato che deve trattarsi di un pregiudizio concreto e attuale, non ricollegato ad un'ipotesi congetturale, ravvisabile nell'occasione concreta di ottenere un rapporto di lavoro o di partecipare con esito positivo ad un concorso in tema di riparazione dell'errore giudiziario (Sez. 3, n. 26739 del 21/06/2011, Siccardi, Rv. 250663; Sez. 4, n. 24359 del 23/2/2006, Min. Econ. Fin. e Pisano, Rv. 234611, nella cui motivazione si richiama Sez. 3 civ., n. 4400 del 04/03/2004, Rv. 57078).

4. Il danno patrimoniale da perdita di chance è stato riconosciuto dalla giurisprudenza civile di questa Corte sin dagli anni '80 del secolo scorso, con riferimento al settore delle procedure concorsuali espletate dal datore di lavoro per l'assunzione o la promozione dei lavoratori aspiranti al posto ed illegittimamente esclusi dalle relative prove di selezione (Sez. L civ., n. 6506 del 19/12/1985, Rv. 443577).

La risarcibilità di tale categoria di danno è stata poi estesa nei diversi settori della responsabilità professionale (Sez. 2 civ., n. 15759 del 13/12/2001, Rv. 551111) e di quella in campo sanitario (Sez. 3 civ., n. 4400 del 04/03/2004, Rv. 570781), ove le fattispecie di danno che vengono generalmente in rilievo sono quelle nelle quali il comportamento, per lo più omissivo, del medico determina una diminuzione o, addirittura, l'elisione delle possibilità di guarigione o di sopravvivenza del paziente con la conseguente compromissione o perdita, rispettivamente, della salute o della vita del danneggiato.

La nozione di chance non ha un'origine normativa, non essendo rinvenibile alcuna disposizione legislativa che la definisca, ma si è progressivamente delineata in sede giurisprudenziale muovendo dall'elaborazione della dottrina e della giurisprudenza francesi di fine '800.

L'alveo semantico della formula lessicale viene fatto risalire al diritto romano, derivando etimologicamente da un'espressione del latino popolare, cadentia, che indica la maniera di gettare e far cadere i dadi (jater la chance) e sta a significare "buona probabilità di riuscita".

L'assunto fondamentale sul quale viene imperniata la costruzione teorica del danno da perdita di chance è quello secondo cui può dar luogo a un danno risarcibile anche la perdita della sola possibilità di conseguire un risultato vantaggioso, ovvero di evitarne uno sfavorevole. Tale figura giuridica, secondo la dottrina civilistica, evoca problemi diversi a seconda che i suoi elementi identificativi e strutturali vengano in rilievo nel campo della responsabilità contrattuale o extracontrattuale, ovvero con riferimento al danno patrimoniale o non patrimoniale (ad es., riguardo alla ascrivibilità del danno alle categorie del danno emergente ovvero del lucro cessante, all'oggetto della prova da fornire, ai criteri di liquidazione ecc.).

Ma è soprattutto in relazione al c.d. "modello patrimonialistico" che è stato storicamente individuato lo sfondo teorico della evoluzione giurisprudenziale in tema di danno da perdita di chance (Sez. 3 civ., n. 5641 del 09/03/2018, Rv. 648461): la chance patrimoniale, infatti, postula la preesistenza di un "quid" su cui abbia inciso sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa, mentre la chance non patrimoniale, pur essendo anch'essa rappresentata, sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente (segnatamente nel sistema della responsabilità sanitaria), è morfologicamente diversa dalla prima, in quanto si innesta su una preesistente situazione sfavorevole (cioè patologica), rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi un "quid" inteso come preesistenza positiva.

4.1. Limitando l'analisi della predetta nozione alle sole ipotesi "patrimoniali", che specificamente rilevano ai fini della soluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite, questa Corte ne ha costantemente posto in evidenza la natura di situazione di fatto teleologicamente orientata verso il conseguimento di un'utilità o di un vantaggio e caratterizzata, in concreto, da una possibilità di successo non priva di consistenza (Sez. 3 civ., n. 24050 del 07/08/2023, Rv. 668589; Sez. 6 civ., n. 2261 del 26/01/2022, Rv. 663862).

Nella giurisprudenza civile di legittimità è ormai consolidato l'orientamento interpretativo (Sez. 3 civ., n. 5641 del 09/03/2018, cit.; Sez. 3 civ., n. 4400 del 04/03/2004, Rv. 570781) secondo cui "la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d'autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale" (nello stesso senso, ex multis, v. Sez. 3 civ., n. 24050 del 07/08/2023, cit.; Sez. 3 civ., n. 25886 del 02/09/2022, Rv. 665403; Sez. 6 civ., n. 2261 del 26/01/2022, cit.; Sez. 3 civ., n. 28993 del 11/11/2019, Rv. 655791).

La chance non deve essere valutata in relazione al risultato atteso, ma alla perdita della possibilità di conseguirlo: non è il risultato perduto, infatti, ma la perdita della possibilità di realizzarlo a costituire l'oggetto della pretesa risarcitoria (Sez. 3 civ., n. 12906 del 26/06/2020, Rv. 658177; Sez. 3 civ., n. 5641 del 09/03/2018, cit.).

Solo la chance così intesa può assumere, diversamente dalla mera aspettativa di fatto, i caratteri di una situazione giuridica a sé stante, suscettibile di autonoma valutazione patrimoniale e, conseguentemente, di risarcibilità, quale perdita della seria e consistente possibilità di ottenere un risultato sperato, a condizione che ne sia provata la sussistenza (Sez. 3 civ., n. 12906 del 26/06/2020, cit.; Sez. 2 civ., n. 7570 del 18/03/2019, Rv. 653151; Sez. 3 civ., n. 13489 del 29/05/2018).

Nelle decisioni richiamate si precisa, in particolare, che il danno, inteso non in senso meramente ipotetico o eventuale (quale sarebbe stato se correlato al raggiungimento del risultato utile), bensì concreto ed attuale (perdita di una consistente possibilità di conseguire quel risultato), non va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera possibilità di conseguirlo.

Da tale quadro di principi emerge, dunque, la necessità di accertare una linea causale rispetto all'evento di danno rappresentato dalla perdita della possibilità di conseguire un risultato favorevole, seguita da una linea causale autonoma se l'evento di danno è costituito dalla perdita del bene (come, ad es., quello della salute o della vita).

Si tratta di una precisazione rilevante, poiché l'accertamento del nesso causale avente ad oggetto la perdita della chance di conseguire un risultato utile non richiede anche l'accertamento della concreta probabilità di conseguire il risultato finale favorevole, né va confuso con esso.

Per quel che rileva in questa sede, il nesso causale oggetto di prova è quello relativo alla prima delle sequenze causali testé indicate, che lega direttamente la condotta illecita del danneggiante alla perdita della possibilità di conseguire il risultato utile sperato.

Nella medesima prospettiva è stato affermato (Sez. 3 civ., n. 25910 del 05/09/2023, Rv. 669086) il principio secondo cui la prova del danno da perdita di chance si sostanzia: a) nella dimostrazione, che può essere data con ogni mezzo, e quindi anche mediante presunzioni, della esistenza e della apprezzabile consistenza di tale possibilità perduta; b) nell'accertamento del nesso causale tra la condotta colpevole e l'evento di danno (nella specie venivano in rilievo le possibilità lavorative perdute a causa delle condizioni fisiche permanenti, estetiche e funzionali, della persona della danneggiata, con recisione delle concrete possibilità di affermazione nel campo prescelto).

Si è inoltre precisato che il nesso tra condotta ed evento si caratterizza, sul piano della perdita di chance, per la sua sostanziale certezza eziologica (sicché dovrà risultare causalmente certo che alla condotta colpevole sia conseguita la perdita di quella migliore possibilità), mentre l'incertezza si colloca esclusivamente sul piano dell'evento (è incerto, in altri termini, che, anche in assenza della condotta colpevole, la migliore possibilità si sarebbe comunque realizzata).

In altri termini, l'accertamento del nesso di causalità tra il fatto illecito e l'evento di danno (rappresentato dalla perdita non del bene in sé, ma della possibilità di conseguirlo) non è sottoposto ad un regime diverso da quello ordinario, sicché sullo stesso non influisce, in linea di principio, la misura percentuale della suddetta possibilità, della quale, invece, dev'essere provata la serietà ed apprezzabilità ai fini della risarcibilità del conseguente pregiudizio (Sez. 6 civ., n. 2261 del 26/01/2022, cit.).

4.2. Nel solco tracciato dalla giurisprudenza di questa Corte si colloca anche la Corte di giustizia dell'Unione europea, che ha stabilito, in relazione alla posizione dei soggetti lesi da una violazione del diritto dell'Unione in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, il principio secondo cui l'art. 2, par. 1, lett. c), della Direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla Direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 dicembre 2007, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa o ad una prassi nazionali che non ammettono per principio la possibilità, per un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in ragione di una decisione illegittima dell'amministrazione aggiudicatrice, di essere indennizzato per il danno subito a causa della perdita dell'opportunità di partecipare a tale procedura ai fini dell'aggiudicazione dell'appalto (Corte giustizia, 21/12/2023, United Parcel Service/Commissione, C 297/22, par. 69; Corte giustizia, 06/06/2024, Ingsteel, C- 547/22, par. 49).

Al riguardo, in particolare, la Corte di giustizia ha precisato che, se è vero che un danno può risultare dal mancato ottenimento, in quanto tale, di un appalto pubblico e concretizzarsi in un lucro cessante, è altresì possibile che l'offerente illegittimamente escluso subisca un danno distinto, corrispondente all'opportunità perduta di partecipare alla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.

4.3. La figura del danno patrimoniale da perdita di chance è stata oggetto di un'approfondita analisi anche nella giurisprudenza amministrativa, con particolare riferimento ai provvedimenti di natura ampliativa ovvero a quelli che hanno l'effetto di far acquisire al cittadino che si relaziona con il potere pubblico situazioni giuridiche di cui prima non beneficiava.

A fronte di tali evenienze, il privato che si rivolge alla pubblica amministrazione per ottenere un provvedimento favorevole vanta un interesse legittimo c.d. pretensivo, che potrebbe essere frustrato dall'agire illegittimo della controparte pubblica. Qualora tale interesse non possa essere soddisfatto attraverso l'effetto ripristinatorio e conformativo dell'annullamento del provvedimento giurisdizionale, si è ritenuto di attribuire al privato una tutela per equivalente che può essere accordata attraverso lo strumento del risarcimento della perdita di chance, a sua volta inquadrabile nell'alveo della responsabilità aquiliana (Cons. Stato, n. 3217 del 20/05/2019; Cons. Stato, n. 4225 del 31/05/2018; Cons. Stato n. 5323 del 14/09/2006; Cons. Stato, n. 686 del 07/02/2002), nei casi in cui essa abbia raggiunto un'apprezzabile consistenza, condensata nei concetti di probabilità seria e concreta ovvero di elevata probabilità di conseguire il bene della vita sperato.

Nella più recente evoluzione della giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato n. 6268 del 24/06/2021) si è affermato, in linea con il quadro dei principi stabiliti dalla giurisprudenza civile questa Corte, che "(...) l'an del giudizio di responsabilità deve coerentemente consistere soltanto nell'accertamento del nesso causale tra la condotta antigiuridica e l'evento lesivo consistente nella perdita della predetta possibilità. La tecnica probabilistica va quindi impiegata non per accertare l'esistenza della chance come bene a sé stante, bensì per misurare in modo equitativo il 'valore economico della stessa, in sede di liquidazione del 'quantum' risarcibile. Con l'avvertenza che, anche se commisurato ad una frazione probabilistica del vantaggio finale, il risarcimento è pur sempre compensativo (non del risultato sperato, ma) della privazione della possibilità di conseguirlo".

Occorre dunque verificare con "estremo rigore" che "(...) la perdita della possibilità di risultato utile sia effettivamente imputabile alla condotta altrui contraria al diritto; sotto altro profilo, al fine di non riconoscere valore giuridico a "chance" del tutto accidentali, va appurato che la possibilità di realizzazione del risultato utile rientri nel contenuto protettivo delle norme violate".

5. Gli approdi interpretativi stabilmente raggiunti dalla richiamata elaborazione giurisprudenziale rilevano anche ai fini della corretta individuazione del danno patrimoniale nel reato di estorsione, ove la nozione di chance deve essere definita con precisione, nel rispetto dei principi di tassatività e prevedibilità della norma incriminatrice, escludendo dal suo ambito di applicazione ogni situazione che appaia in astratto, o solo genericamente, idonea ad incidere in termini negativi sulla sfera degli interessi economici di una persona.

Non può rientrarvi, dunque, la frustrazione di mere aspettative di fatto, né la perdita di scarse, se non addirittura nulle, possibilità di arricchimento o consolidamento dell'assetto economico-patrimoniale dell'interessato.

5.1. Al riguardo si è già rilevato come la giurisprudenza civile offra una puntuale definizione della predetta nozione, individuandola come "seria e consistente possibilità di ottenere il risultato sperato, la cui perdita, distinta dal risultato perduto, è risarcibile, trattandosi di una situazione giuridica a sé stante e suscettibile di autonoma valutazione patrimoniale, a condizione che di essa sia provata la sussistenza, tenendo, peraltro, conto che l'accertamento del nesso di causa avente ad oggetto la perdita di chance di conseguire un risultato utile non richiede anche l'accertamento della concreta probabilità di conseguire il risultato" (Sez. 3 civ., n. 24050 del 07/08/2023, cit.).

Ne consegue che l'esistenza della responsabilità, ossia il giudizio sull'an, richiede non già la lesione di qualsiasi speranza o aspettativa di fatto, bensì l'accertamento della lesione di un interesse giuridicamente garantito ed autonomamente individuato nei suoi tratti identificativi.

Non si tratta, dunque, della mera declinazione delle note modali di una figura di danno, quanto, invece, della compiuta delineazione di elementi strutturali che, da un lato, ne definiscono oggettivamente la patrimonialità, dall'altro, fanno emergere le condizioni necessarie per accertare l'esistenza e la concreta rilevanza di una situazione giuridica attiva di contenuto patrimoniale, delimitandone il confine con la mera aspettativa di fatto, di per sé non suscettibile di valutazione economica, in quanto vantaggio solo eventuale, sperato, immateriale o non ancora materializzato in termini economico-patrimoniali.

Le frequenti interferenze applicative e le connesse relazioni esegetiche tra i diversi settori dell'ordinamento giuridico suggeriscono, come osservato dalla dottrina, di perseguire l'obiettivo di una tendenziale uniformità interpretativa in tutte quelle circostanze o situazioni in cui l'applicazione della norma penale, pur senza accogliere o modificare le nozioni del diritto civile, trovi in esse una fonte di interpretazione e si fondi sull'utilizzo di concetti giuridici che proprio nel sistema civile offrono una adeguata spiegazione o un utile termine di confronto.

Muovendo da tali esigenze di certezza e prevedibilità dell'ordinamento penale, questa Corte (Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011, Orlando, Rv. 250975) ha già esaminato le questioni relative al significato da attribuire ai concetti giuridici utilizzati nei diversi rami dell'ordinamento, affermando che "... di principio, quando la fattispecie penale utilizza per la designazione di un fatto, o di un istituto, un termine che ha in altro ramo del diritto una propria configurazione tecnica, dovrebbe presumersi che anche il diritto penale lo assuma con analogo significato, giacché il diritto richiede certezze e riconoscibilità, e dunque l'uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più possibile ai canoni della determinatezza e tassatività. Per accogliere ai fini penali una diversa accezione del termine, occorre trovare nella stessa legge penale una ragione, ovverosia quella che autorevole dottrina definisce "una giustificazione conveniente", per "segni certi", della diversa accezione. Tali segni, o indicatori, vanno ricercati, secondo le regole generali sull'interpretazione delle leggi, oltre che nella formulazione della disposizione, nel confronto con altre disposizioni e nella funzione della norma: sulla base, in altri termini, delle "finalità perseguite dall'incriminazione e del più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca", come costantemente ricorda il Giudice delle leggi segnalando la necessità di verificare il rispetto del principio di determinatezza mediante il ricorso al criterio, altresì, dell'offesa (tra molte: Corte cost., sentenze n. 327 del 2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004).".

La configurazione del danno derivante dalla perdita di chance in àmbito civilistico, pertanto, non preclude affatto la possibilità di valorizzarne i contenuti e le finalità attribuendole il medesimo significato a fini penali. Risulterebbe altrimenti paradossale - oltre che contrario ai principi di unità e complessiva coerenza dell'ordinamento giuridico - limitare al solo diritto civile il riconoscimento di un'entità patrimoniale la cui lesione pacificamente costituisca una ragione di danno risarcibile, senza considerane le implicazioni ad essa sottese, con l'applicabilità degli stessi presupposti giustificativi, nel parallelo àmbito del diritto penale.

5.2. Tanto premesso, è evidente che nella prospettiva penalistica, ove il danno patrimoniale integra uno degli elementi essenziali della tipicità del reato di estorsione, non può essere seguita la regola civilistica del "più probabile che non" imponendosi, di contro, l'esigenza di individuare con rigore e in termini di certezza il nesso causale tra la condotta colpevole del soggetto attivo e l'evento di danno prodotto dall'evento intermedio del fare o dell'omettere "qualche cosa".

Nella struttura del reato di estorsione la perdita di una chance può assumere rilievo, quale danno recato ad altri per effetto di una condotta violenta o intimidatoria, se alla possibilità perduta possa attribuirsi un valore economico: solo dalla certezza dell'esistenza di una seria e consistente possibilità di conseguire un risultato utile nei termini sopra indicati discende una lesione, immediata e obiettivamente riconoscibile, del patrimonio del danneggiato, da accertare quindi come un danno attuale e concreto, non come un danno futuro.

Ne consegue che, in ordine agli elementi che descrivono l'offesa propria del danno "criminale", occorre dimostrare in termini di certezza l'esistenza di un nesso causale tra la condotta colpevole e l'evento di danno, inteso quale possibilità perduta di ottenere un risultato migliore o più favorevole, distinguendo i profili della seria ed apprezzabile possibilità dalla mera speranza o dalla generica aspettativa del conseguimento di un risultato positivo.

5.3. Ora, nella giurisprudenza civile di questa Corte (Sez. 3 civ., n. 28993 dell' 11/11/2019, cit.), il tema dell'accertamento del nesso di causalità è stato specificamente esaminato affermando che per individuare un danno da perdita di chance occorrono: a) una condotta colpevole dell'agente; b) un evento di danno (la lesione di un diritto); c) un nesso di causalità tra condotta ed evento; d) una o più conseguenze dannose risarcibili, patrimoniali e non; e) un nesso di causalità tra l'evento e le conseguenze dannose.

Nell'ambito di tale impostazione ermeneutica l'evento di danno costituisce, al tempo stesso, il punto finale della condotta colpevole e il punto di inizio per valutare le conseguenze dirette ed immediate del fatto illecito (ex artt. 1223 e 2056 cod. civ.), ossia la risarcibilità del ed. danno-conseguenza.

È necessario distinguere, pertanto, la prova che la condotta dell'agente abbia determinato un danno da perdita di chance sul piano causale, dalla dimostrazione dell'apprezzabile possibilità di giungere al risultato migliore sul piano dell'evento di danno.

Sotto tale profilo, infatti, la giurisprudenza civile ha posto in rilievo l'impossibilità di sovrapporre o confondere il risarcimento del danno consistente nel "risultato perduto" con il risarcimento del danno consistente nella "possibilità perduta di realizzare il risultato" (ossia la perdita di chance), che è l'evento dannoso di cui occorre fornire la dimostrazione attingendo ai richiamati parametri della apprezzabilità, serietà e consistenza, rispetto ai quali il valore statistico-percentuale, ove in concreto accertabile, può costituire solo un criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto (da ultimo, v. Sez. 3 civ., n. 3824 del 12/02/2024, Rv. 670112).

5.4. Nella diversa prospettiva in cui si colloca l'accertamento del danno patrimoniale quale elemento costitutivo "tipico" di un'offesa rilevante sul piano penale deve essere invece considerata soltanto la linea causale tra la condotta colpevole e l'evento di danno relativo alla perdita della possibilità di conseguire un risultato utile o favorevole, che deve essere provata secondo i principi della causalità propria del diritto penale, non secondo la regola civilistica del "più probabile che non".

Non rileva, infatti, l'ulteriore linea causale che lega l'evento, ossia la lesione di un diritto, alle sue conseguenze dannose, trattandosi di un profilo che attiene, come si è visto, alla risarcibilità del cd. danno-conseguenza ed ai correlati criteri di liquidazione.

La causalità dell'offesa legata alla determinazione del danno "criminale" quale elemento tipico del reato di estorsione va pertanto dimostrata, come affermato dalla costante elaborazione giurisprudenziale di questa Corte (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138), non sulla base dei soli coefficienti di probabilità statistica, bensì mediante l'utilizzo degli strumenti di cui il giudice penale ordinariamente dispone per le valutazioni probatorie, e può ritenersi sussistente quando, considerate tutte le circostanze del caso concreto, possano escludersi processi causali alternativi e si possa affermare in termini di "certezza processuale", ossia di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta a determinare l'evento lesivo, tenendo conto che nella evenienza qui considerata l'evento dannoso è diverso da quello ed. finale, concretandosi nella lesione di una posizione soggettiva di per sé suscettibile di determinare un obiettivo affidamento circa il conseguimento di un risultato utile o di un esito favorevole, il cui accertamento va effettuato secondo i richiamati criteri di derivazione penalistica, venendo altrimenti a mancare la certezza degli elementi integrativi del tipo di danno cagionato al soggetto passivo del reato.

5.5. La circostanza che uno dei poli del rapporto eziologico - ossia la perdita di una chance - presenti nei suoi tratti identificativi una connaturale base valutativa di ordine probabilistico (richiedendosi anche un giudizio prognostico sulla proiezione evolutiva di un determinato evento dannoso) non esclude che la sua ricostruzione in termini fattuali poggi su un solido fondamento di certezza a livello probatorio.

Occorre infatti distinguere l'accertamento della perdita di una chance come evento lesivo del patrimonio, oggetto, in quanto tale, di un rapporto di causalità la cui sussistenza rispetto ad una condotta colpevole deve essere individuata in termini di certezza, dal grado di serietà e consistenza - più o meno elevato e variabile a seconda dei casi - che può caratterizzare in concreto la chance perduta come elemento qualificativo delle specifiche connotazioni che l'evento di danno in questione può assumere nella sua dimensione evolutiva.

Rispetto ai richiamati parametri di apprezzabilità, serietà e consistenza, il valore statistico-percentuale, come dianzi rilevato, "potrà costituire al più criterio orientativo, in considerazione della infungibile specificità del caso concreto onde distinguere la concreta possibilità dalla mera speranza" (Sez. 3 civ., n. 3824 del 12/02/2024, cit.; Sez. 3 civ., n. 28993 dell'11/11/2019, cit.).

5.6. Diverse risultano, invece, l'impostazione metodologica e la prospettiva finalistica seguite nell'ambito del diritto civile, avendo questa Corte affermato che, in tema di responsabilità civile aquiliana, resta ferma la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, poiché nell'accertamento del nesso causale in materia civile vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (Sez. U civ., n. 576 del 11/01/2008, Rv. 600899).

Nel diritto civile, pertanto, il giudizio controfattuale deve essere condotto, diversamente da quel che avviene nel penale, sulla scorta del criterio del "più probabile che non", conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica che non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (ed. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana) (Sez. 3 civ., n. 23197 del 27/09/2018, Rv. 650602).

6. Sulla base delle su esposte considerazioni, al primo quesito deve darsi risposta affermativa enunciando il seguente principio di diritto: "nella nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto di estorsione rientra anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale".

7. Deve essere ora esaminata la seconda questione rimessa alle Sezioni Unite, concernente la configurabilità del concorso formale tra i reati di estorsione e di turbativa d'asta in relazione alla condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani gli offerenti da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private.

Occorre individuare, dunque, il criterio per stabilire se, in presenza di tale condotta, riconducibile ad entrambe le previsioni di cui agli artt. 629 e 353 cod. pen., possa configurarsi il concorso tra le due fattispecie incriminatrici, o se, piuttosto, debba applicarsi una sola di esse.

7.1. Al riguardo, l'ordinanza di rimessione ha correttamente precisato il tema oggetto della questione in esame, rilevando come, a prescindere dall'ipotesi in cui il danno da estorsione si concretizzi nella perdita di un bene materiale (situazione, questa, nella quale non vi sono dubbi sulla integrazione del delitto di estorsione e sul suo concorso con quello di turbativa), il problema del concorso formale tra le due fattispecie si manifesti soprattutto nelle evenienze in cui il danno investa anche la lesione dell'autonomia negoziale, ossia della libertà di regolamentare i propri interessi (Sez. 2, n. 12434 del 19/02/2020, Di Grazia, Rv. 278998; Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016, dep. 2017, Mancuso, Rv. 269364; Sez. 2, n. 6383 del 03/02/2016, Cammarano, non mass.; Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, P.G. in proc. Fontana e altri, Rv. 258168).

Nel reato di estorsione, infatti, l'oggetto della tutela giuridica è costituito dal duplice interesse pubblico alla protezione della inviolabilità del patrimonio e della libertà personale (Sez. 3, n. 27257 del 11/05/2007, Prifti, Rv. 237211; Sez. 2, n. 7390 del 22/03/1986, La Montagna, Rv. 173388), poiché la norma incriminatrice è posta a tutela della complessiva integrità e consistenza del patrimonio rispetto ad atti di aggressione che pregiudicano al contempo la libertà di determinazione della vittima.

Sotto altro, ma connesso profilo, analoga connotazione di plurioffensività è rinvenibile con riferimento alla oggettività giuridica del reato di turbata libertà degli incanti, poiché nella relativa sfera di tutela si ritiene attratto non solo l'interesse della pubblica amministrazione al regolare svolgimento della gara secondo regole concorrenziali, ma anche l'interesse del privato a parteciparvi liberamente e ad influenzarne l'esito secondo il principio della libera concorrenza e attraverso il gioco della maggiorazione delle offerte (Sez. 6, n. 41094 del 31/03/2022, Uggetti, non mass.; Sez. 6, n. 2989 del 15/01/2019, Filippelli, non mass.; Sez. 2, n. 7013 del 05/11/2018, dep. 2019, Morabito, non mass.; Sez. 6, n. 12821 del 11/03/2013, Adami, non mass, sul punto; Sez. 6, n. 8887 del 02/10/2000, Simonazzi, Rv. 218193; Sez. 6, n. 20621 del 27/03/2007, Pallini, Rv. 236618; Sez. 6, n. 10711 del 06/05/1998, Pizzarotti, non mass, sul punto; Sez. 6, n. 8443 del 08/05/1998, Misuraca, non mass, sul punto; in senso contrario, isolatamente, v. Sez. 6, n. 28266 del 07/06/2017, Barbieri, Rv. 270321).

La lesione dell'autonomia negoziale, nell'ipotesi dell'allontanamento da una gara per effetto di una condotta violenta o intimidatoria posta in essere nei confronti dell'offerente, si realizza, infatti, attraverso la compromissione della libertà di curare i propri interessi scegliendo di parteciparvi o meno, sicché la correlata proiezione offensiva della condotta delittuosa è anch'essa rinvenibile nell'area di tutela presidiata dalla fattispecie di turbata libertà degli incanti di cui all'art. 353 cod. pen.

Ne consegue che, in relazione a tale specifico profilo, è possibile individuare, nelle aree di tutela rispettivamente coperte dalle due fattispecie incriminatrici in esame, un punto di intersezione che impone di delimitarne e regolarne i rapporti al fine qui considerato, potendo profilarsi, come evidenziato dalla Sezione rimettente, una relazione di specialità, con la eventuale integrazione del solo reato previsto dall'art. 353 cod. pen.

Il soggetto attivo, infatti, non potrebbe essere punito per due reati i cui elementi costitutivi risulterebbero sostanzialmente coincidenti sul piano dell'offesa recata al bene protetto, fatta salva la diversità del contesto operativo in cui le condotte descritte dall'art. 353 cod. pen. vengono di regola realizzate, inserendosi in un pubblico incanto o in una licitazione privata.

Al riguardo sono emersi due orientamenti interpretativi, che hanno dato luogo ad un contrasto giurisprudenziale i cui termini vengono di seguito illustrati.

7.2. Secondo un indirizzo minoritario (Sez. 6, n. 19607 del 03/03/2004, Del Regno, Rv. 228964), il delitto di turbata libertà degli incanti, in base al principio di specialità espresso dall'art. 15 cod. pen., non può concorrere con quello di estorsione, che di conseguenza deve ritenersi assorbito nel primo (fattispecie in cui si contestavano alla ricorrente entrambi i reati di estorsione e di turbativa d'asta, per avere impedito alle imprese interessate di partecipare alla gara, costringendole, attraverso minacce portate dal concorrente, a rinunziarvi a beneficio di un'impresa che dalla quart'ultima posizione occupata in graduatoria si aggiudicava l'appalto).

Muovendo dalla natura plurioffensiva del reato previsto dall'art. 353 cod. pen., in quanto posto a tutela non solo della libertà di partecipare alle gare nei pubblici incanti, ma anche della libertà di chi vi partecipa ad influenzarne l'esito secondo il principio della libera concorrenza, la richiamata decisione ha fatto leva sul principio di specialità per evitare l'effetto negativo di una duplicazione sanzionatoria per lo stesso fatto, affermando che "... per la specificità della materia, e per la presenza in essa di elementi peculiari che valgono a differenziarne l'impianto normativo, la norma incriminatrice ex art. 353 cod. pen., prevale rispetto a quella concorrente di cui all'art. 629 cod. pen. con la conseguenza che quest'ultimo reato deve ritenersi assorbito in quello di turbata libertà degli incanti".

Siffatta conclusione, secondo la richiamata pronuncia, non viene posta in dubbio dalla diversa obiettività giuridica delle due figure criminose, in quanto nel delitto previsto dall'art. 353 cod. pen., attesa la sua natura plurioffensiva, il bene protetto deve essere "indirettamente" individuato anche nella "(...) libertà di autodeterminazione del partecipante alla gara in un atto di disposizione patrimoniale, quale è quello dell'offerta".

7.3. A tale indirizzo ermeneutico, rimasto isolato nella giurisprudenza di legittimità, se ne contrappone un altro, assai risalente nel tempo e di gran lunga prevalente, secondo cui i delitti di estorsione e di turbata libertà degli incanti possono concorrere formalmente nel caso in cui la condotta materiale e l'elemento soggettivo abbiano in concreto realizzato entrambi i fatti puniti dagli artt. 353 e 629 cod. pen., dal momento che l'estorsione si caratterizza per una coartazione dell'altrui volontà con lo specifico fine del conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, mentre il delitto di turbata libertà degli incanti si connota sia per il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di impedire, turbare la gara o allontanare gli offerenti, sia per essere un reato di pericolo che si consuma nel momento e nel luogo in cui si è impedita o turbata la gara, senza che occorra la produzione di un danno né il conseguimento di un profitto (Sez. 2, n. 4925 del 26/01/2006, Piselli, Rv. 233346; Sez. 2, n. 45625 del 25/09/2003, Ciserani, Rv. 227157; Sez. 2, n. 3797 del 30/11/1989, dep. 1990, Vitali, Rv. 183725).

Tale orientamento, successivamente ribadito da numerose decisioni (Sez. 2, n. 4849 del 16/12/2023, Metitore, non mass, sul punto; Sez. 2, n. 1821 del 29/10/2019, dep. 2020, Alberti, non mass, sul punto; Sez. 6, n. 43548 del 15/05/2019, Alvaro, non mass, sul punto; Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Leo, non mass, sul punto; Sez. 2, n. 11979 del 17/02/2017, Remedia, Rv. 269560; Sez. 2, n. 6383 del 03/02/2016, Cammarano, non mass.; Sez. 5, n. 22200 del 10/04/2013, De.Gi., Rv. 256502; Sez. 2, n. 13505 del 13/03/2008, Gennaro, Rv. 239794; Sez. 2, n. 12266 del 27/02/2008, Magni, Rv. 239753), muove dalla preliminare considerazione della diversa oggettività giuridica delle norme incriminatrici di cui agli artt. 629 cod. pen. e 353 cod. pen., atteso che la prima tutela il patrimonio, attraverso la repressione di atti di coartazione della libertà di determinazione del soggetto nel compimento degli atti di disposizione patrimoniale, mentre la seconda tutela la libera formazione delle offerte nei pubblici incanti e nelle licitazioni private per conto delle pubbliche amministrazioni.

Entro tale prospettiva ermeneutica, in particolare, si è affermato che la condotta estorsiva "non può ritenersi "assorbita" nel reato di turbativa d'asta, né quest'ultimo può ritenersi "consumato" nel primo, diversi essendo i "perimetri" di offensività che le due previsioni, strutturalmente e teleologicamente non sovrapponibili, mirano a delineare" (Sez. 2, n. 4925 del 26/01/2006, Piselli, cit., in relazione ad una fattispecie in cui la condotta materiale ascritta all'indagato, in aggiunta alla turbativa d'asta, era intesa a conseguire un guadagno di gran lunga maggiore rispetto al prezzo di aggiudicazione, attraverso la rivendita dell'immobile alle parti offese, approfittando del loro interesse a non perdere la casa di abitazione).

Ne consegue che, ove la condotta materiale e l'elemento soggettivo abbiano in concreto realizzato entrambi i "fatti" puniti dagli artt. 629 e 353 cod. pen., le relative previsioni concorrono fra loro, "giacché soltanto in questo modo il diverso disvalore che le norme stesse esprimono ed intendono perseguire può dirsi integralmente "coperto" (Sez. 2, n. 4925 del 26/01/2006, Piselli, cit.; cfr. anche Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Leo, non mass, sul punto).

Viene così valorizzata una linea interpretativa basata sull'esigenza di un'analisi strutturale delle figure criminose poste a raffronto, seguendo un'impostazione già accolta da questa Corte (Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 232302), che l'ha ritenuta preferibile rispetto a quella, pur evocata da una parte della dottrina e della giurisprudenza, che segue i criteri di sussidiarietà, assorbimento e consunzione, sulla base del presupposto che gli stessi "esigono scelte prive di riferimenti normativi certi, appunto perché dichiaratamente prescindono dalla struttura delle fattispecie".

Tali criteri, secondo quanto affermato dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite e poi ribadito da Sez. 2, n. 4925 del 26/01/2006, Piselli, cit., sono stati individuati quale ratio e fondamento della disciplina del concorso apparente di norme sulla base della rilevata esistenza, nel sistema, di un principio di ne bis in idem sostanziale secondo il quale, in tutte le ipotesi di concorso dì norme - pur se astrattamente diverse per struttura - sarebbe inibito porre a carico dell'agente lo stesso fatto più di una volta, qualora l'intero disvalore sia compiutamente assorbito da una delle varie fattispecie in ipotesi concorrenti.

Si tratta, tuttavia, come posto in rilievo nelle richiamate decisioni, di un'impostazione ermeneutica non condivisibile, poiché quei criteri, per un verso, presuppongono giudizi di valore tendenzialmente in contrasto con le esigenze di determinatezza e tassatività cui l'intero sistema penale deve ispirarsi, per altro verso risultano privi di base normativa, giacché la clausola di riserva che compare quale ultimo inciso nell'art. 15 cod. pen. consente l'applicazione della norma generale in luogo di quella speciale, considerata sussidiaria, ma soltanto nelle ipotesi espressamente previste: dunque, una norma derogatoria, di stretta interpretazione, e non certo evocabile come "esempio" di un principio generale alternativo rispetto a quello di specialità.

7.4. Così ricostruiti i termini del contrasto, le Sezioni Unite ritengono di aderire al secondo orientamento giurisprudenziale per le ragioni di seguito indicate.

Deve anzitutto ribadirsi, in linea con la prospettiva ermeneutica già tracciata dalle Sezioni Unite, che l'unico criterio idoneo a dirimere i casi di concorso apparente di norme è rinvenibile nel principio di specialità ex art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, dep. 2024, Gambacurta; Sez. U, n. 16153 del 18/01/2024, Clemente, non mass, sul punto; Sez. U, n. 41588 del 22/06/2017, La Marca, Rv. 270902; Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Dì Lorenzo, Rv. 248722; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, Rv. 235962; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, cit.).

Il principio di specialità consente alla legge speciale di derogare a quella generale nel caso in cui le diverse disposizioni penali regolino la "stessa materia", intesa come fattispecie astratta, stesso fatto tipico nel quale si realizza l'ipotesi di reato, con la precisazione che il riferimento all'interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell'applicazione del principio di specialità (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, cit.; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, cit.).

Al riguardo, in particolare, si è affermato che deve definirsi norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.).

Si è inoltre precisato che il criterio di specialità deve intendersi ed applicarsi in senso logico-formale, sicché il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dall'art. 15 cod. pen., risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le relative fattispecie di reato (Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, dep. 2024, Gambacurta; Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, cit.; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.).

Muovendo da tale quadro di principi, la comparazione tra le fattispecie evocate nella questione in esame ne pone in evidenza una profonda diversità sul piano strutturale: ancorché le condotte tipiche di violenza e minaccia siano assimilabili, le due norme incriminatrici intendono prevenire eventi naturalistici diversi.

L'estorsione sanziona la condotta del soggetto che, attraverso le modalità descritte nella norma, costringe la vittima ad un atto dispositivo immediatamente lesivo del bene-patrimonio, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno: nozioni che non possono che connotarsi in senso patrimoniale, come accrescimento o diminuzione delle possibilità del patrimonio di soddisfare esigenze materiali o anche solo spirituali, per effetto di una compressione della libertà di determinazione della persona offesa.

La turbativa, di contro, mira a preservare la genuinità dei pubblici incanti e delle procedure di licitazione privata sanzionando condotte che vanno a detrimento del libero esplicarsi delle regole della concorrenza nell'ambito di una gara.

Al riguardo, in particolare, il nesso eziologico deve legare i comportamenti incriminati e il risultato derivante dal turbamento di una gara, senza che sia necessario un rapporto di immediatezza causale tra violenza o minaccia, costrizione della vittima e atto dispositivo del patrimonio, né una reale coartazione della volontà del soggetto passivo seguita da un accrescimento patrimoniale con il prodursi di un corrispondente altrui danno.

Sulla base del richiamato criterio strutturale, dunque, l'analisi delle due fattispecie poste a raffronto consente di individuare in ciascuna di esse elementi specializzanti diversi, che impediscono di ritenere l'una assorbita nell'altra, ponendole invece in un rapporto di specialità reciproca (Sez. 1, n. 11471 del 10/01/2011, Grillo Brancati, non mass.).

La turbativa d'asta, infatti, si perfeziona attraverso una condotta che può essere di violenza o di minaccia, ma può anche estrinsecarsi in collusioni o altri mezzi fraudolenti, laddove il delitto di estorsione, che "contiene" in sé le condotte della violenza e della minaccia, ma non gli altri comportamenti pure rilevanti per l'integrazione della turbativa d'asta, si caratterizza per lo specifico fine del conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, configurandosi come speciale, sotto il profilo delle modalità della condotta e dell'elemento soggettivo, rispetto al reato di cui all'art. 353 cod. pen., connotato invece dal dolo generico.

Il reato di turbativa, le cui modalità esecutive, diversamente dalla condotta estorsiva, necessariamente si inseriscono nell'ambito di una procedura di gara, è a sua volta speciale sia quanto all'evento, di pericolo e non di danno, sia in ragione dell'elemento soggettivo, caratterizzato dalla coscienza e volontà di impedire o turbare la gara o di allontanarne gli offerenti, facendo uso dei mezzi indicati dalla stessa previsione normativa.

Sotto tale profilo, infatti, questa Corte ha affermato (Sez. 6, n. 41094 del 31/03/2022, Uggetti, non mass.) il principio secondo cui non è necessario che l'azione tipica determini un danno effettivo alla regolarità della gara, "ma è sufficiente anche solo che essa produca un "danno mediato e potenziale", costituito dalla semplice "idoneità" degli atti ad influenzare l'andamento della gara (tra le tante, Sez. 6, n. 10272 del 23/01/2019, Cersosimo, Rv. 275163 - 01), senza che sia necessario quindi dimostrare un'effettiva alterazione dei suoi risultati (Sez. 2, n. 43408 del 23/06/2016, Martinico, Rv. 267967 - 01)".

Condivisibile, pertanto, deve ritenersi la linea interpretativa secondo cui la condotta che realizza un'estorsione non può in nessun caso ritenersi assorbita in quella di turbativa, né quest'ultima può ritenersi "consumata" nell'estorsione, poiché a ciascuna delle fattispecie si ricollegano momenti di tutela differenti sia da un punto di vista strutturale che funzionale, così da porle in una relazione di "complementarietà reciproca" (Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Leo, non mass, sul punto).

All'interno di tale prospettiva assume un particolare rilievo il profilo inerente alla prestazione patrimoniale, quale elemento costitutivo del delitto di estorsione che deve essere causalmente riconducibile alla minaccia o violenza realizzata dall'agente: se, per un verso, la condotta intimidatoria o violenta si manifesta in forma tale da cagionare l'impedimento o la turbativa della gara, così determinando il perfezionarsi del delitto di cui all'art. 353 cod. pen., per altro verso il reato di estorsione richiede, per la sua configurabilità, un quid pluris tra condotta ed evento, costituito da un atto di disposizione patrimoniale da parte del soggetto coartato nella propria libertà di autodeterminazione, da cui poi scaturisce l'ingiusto profitto con altrui danno (Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Leo, non mass, sul punto).

7.5. Discende dalle su esposte considerazioni una prima conclusione, sia pure non definitiva, emergendo con evidenza che le relative norme incriminatrici non sono sovrapponibili sul piano strutturale, ma concorrono formalmente ove siano in concreto ravvisabili gli elementi costitutivi di entrambi i fatti previsti dagli artt. 353 e 629 cod. pen., in rapporto di specialità reciproca fra loro.

8. Ciò posto, le implicazioni logicamente sottese alla formulazione di tale provvisoria conclusione devono essere correlate allo specifico contenuto delle questioni di diritto poste all'attenzione di questa Corte, poiché se la condotta che determina l'allontanamento coattivo dell'offerente da una gara svoltasi nelle forme dei pubblici incanti o delle licitazioni private può di per sé integrare il reato di turbativa previsto dall'art. 353 cod. pen., la stessa non necessariamente realizza in concreto il fatto incriminato dall'art. 629 cod. pen., per il quale si richiede anche la presenza degli elementi costitutivi rappresentati dal danno patrimoniale recato alla persona offesa e dal correlativo ingiusto profitto in capo al soggetto attivo.

8.1. Ai fini della configurabilità dell'estorsione, in particolare, non è sufficiente individuare la presenza del comune segmento di condotta che realizza l'allontanamento coattivo di un offerente dalla gara, ma è necessario che sia ravvisabile in concreto l'ulteriore elemento rappresentato dal verificarsi di un evento pregiudizievole per il patrimonio della persona offesa, in conseguenza di un atto dispositivo o, comunque, del trasferimento di un bene o di un'altra utilità dal soggetto passivo a quello attivo.

Al riguardo si è affermato che nella facoltà di partecipare ad una gara nei pubblici incanti non è di per sé ravvisabile "un elemento attivo del patrimonio", poiché "(...) colui che determina l'allontanamento del concorrente partecipa alla gara per una facoltà propria, che non deriva da quella - inibita - del soggetto vittima della violenza o minaccia" (Sez. 6, n. 48746 del 07/12/2011, Barone ed altri, non mass., che ha escluso la configurabilità del delitto di estorsione in relazione ad una fattispecie di allontanamento dalla gara di un offerente per effetto della minacciosa evocazione di un sodalizio camorristico, ritenendo configurabile il solo delitto di turbativa d'asta).

L'allontanamento da una gara con violenza o minaccia posta in essere nei confronti dell'offerente, pertanto, integra già il reato di turbativa, ma non lambisce ancora la soglia necessaria per ritenere configurabile quello di estorsione, poiché il relativo evento si verifica solo con la realizzazione del "sinallagma" illecito del "profitto ingiusto con altrui danno".

Ne discende che solo nell'ipotesi in cui alla condotta di allontanamento coattivo sia causalmente riconducibile, nei termini dianzi indicati (v., supra, il par. 4.1.), un pregiudizio economicamente valutabile per effetto della perdita, ai danni dell'offerente, di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile legato all'aspettativa di partecipazione ad una gara, può dirsi integrato anche il concorrente reato di estorsione.

Deve escludersi, di contro, il concorso formale di tale reato con quello di turbativa qualora nel caso concreto non sia possibile verificare la presenza di un danno patrimoniale, per non essere stata accertata in capo all'offerente la perdita di una chance connotata dagli elementi qualificativi sopra indicati: nel ricorrere di tale evenienza, infatti, viene a mancare uno degli elementi costitutivi del modello "tipico" del delitto di estorsione, residuando il solo disvalore di evento legato alla realizzazione di una condotta di turbativa, con le correlate lesioni dell'interesse pubblicistico alla regolarità della gara e della libertà di partecipazione del soggetto interessato alla competizione.

Entro tale prospettiva, ad esempio, dovrebbe ritenersi configurabile la sola condotta di turbativa nell'ipotesi in cui si dimostrasse che la persona allontanata per effetto di una condotta violenta o minacciosa non avrebbe potuto conseguire un risultato economicamente apprezzabile, ovvero che l'aggiudicatario sarebbe comunque prevalso con la medesima offerta, giacché il concorrente allontanato, anche nell'eventualità in cui avesse preso parte alla gara, non avrebbe avuto alcuna possibilità di incrementare il proprio patrimonio e compromettere le possibilità di successo dell'effettivo vincitore.

A fronte di tali evenienze, dunque, non si porrebbe affatto il problema di un concorso apparente di norme da risolvere sulla base del principio di specialità, poiché dovrebbe ritenersi integrata esclusivamente la fattispecie incriminatrice della turbata libertà degli incanti, con la conseguente lesione sia della libertà di concorrenza all'interno della procedura competitiva avviata dalla Pubblica amministrazione che dell'interesse, per quest'ultima, di addivenire ad una contrattazione giusta e conveniente, nel rispetto della par condicio dei partecipanti.

8.2. Sotto altro, ma connesso profilo, si rende necessario esaminare i presupposti e gli indici fattuali che consentono di individuare in concreto la condotta di allontanamento dalla gara e di definire la nozione di offerente, poiché la perdita di una chance rilevante ai fini dell'accertamento del danno patrimoniale causato da una condotta estorsiva può diversamente interagire con le peculiari situazioni in cui le condotte di illecita turbativa siano poste in essere nell'ambito dei procedimenti di vendita forzata con le forme dell'incanto.

La perdita di una chance, infatti, può assumere un'incidenza variabile a seconda della fase in cui pende una procedura di gara, sicché assai diverse, al riguardo, possono risultare le evenienze concretamente prospettabili, ove si consideri che, accanto a condotte volte ad intimare l'allontanamento dell'interessato dalla partecipazione ad un'asta, ben possono ipotizzarsi condotte che incidono non solo sul decorso di un procedimento già iniziato, ma anche sulla partecipazione ad una sua fase più avanzata, qual è quella che fa seguito all'aggiudicazione provvisoria del bene.

8.3. Alla condotta di allontanamento da una gara devono ritenersi obiettivamente collegati, secondo un condivisibile orientamento dottrinale, non solo il luogo del suo materiale svolgimento, ma anche i comportamenti volti a distogliere o distornare l'interessato, così includendovi anche le condotte poste in essere da colui che, attraverso le modalità tassativamente elencate dalla norma incriminatrice, spinga in qualche modo altri a non formulare una proposta, ovvero a non persistere nell'espletamento di quegli incombenti indispensabili per prendere parte alla procedura.

Ciò che rileva ai fini della configurazione del reato, pertanto, è l'illegittima induzione degli interessati a non partecipare ad una gara oppure a non perseverare nel parteciparvi.

La turbativa illecita prevista dall'art. 353 cod. pen., infatti, non deve necessariamente verificarsi nel momento in cui la gara si svolge (Sez. 6, n. 07260 del 26/11/2021, dep. 2022, Provvisiero), ben potendo essere perpetrata anche al di fuori di essa, nelle fasi preliminari della procedura complessa che ne precede la indizione (Sez. 6, n. 653 del 14/10/2016, dep. 2017, Venturini, Rv. 269525; Sez. 6, n. 18161 del 05/04/2012, Bevilacqua, Rv. 252638), ovvero successivamente alla chiusura dell'asta e a seguito di aggiudicazione, nel periodo di tempo necessario ai controlli e alle verifiche prodromiche alla stipula del contratto (Sez. 2, n. 34746 del 04/05/2018, Porcari, Rv. 273550; Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Leo, Rv. 270338), purché la condotta sia idonea ad influenzarne o alterarne il risultato finale, determinando quella lesione del principio di libera concorrenza che la norma intende presidiare a salvaguardia degli interessi della pubblica amministrazione.

A prescindere dal frangente temporale in cui si sia estrinsecata la condotta delittuosa, è necessario, pertanto, che i suoi effetti si irradino all'interno della procedura di gara (ad es., nel corso della procedura di aumento del sesto, a seguito dell'aggiudicazione provvisoria nella vendita di immobili), distogliendo gli interessati sia dal presentare un'offerta, sia dall'impegnarsi affinché la stessa prevalga sulle altre.

8.4. Nella nozione di "offerente", inoltre, la dottrina ritiene generalmente compresa non solo la posizione soggettiva di colui che abbia già presentato un'offerta, ma anche di chi si prepari seriamente a presentarla o stia concretamente per farla.

Nell'alveo semantico della formula lessicale utilizzata dal legislatore convivono, dunque, le differenti situazioni di chi abbia ormai provveduto ad avanzare un'offerta e di chi, apprestandosi a fare altrettanto, potrebbe esserne dissuaso, ricadendovi, ad es., sia la posizione soggettiva dell'invitato ad una licitazione privata, sia quella di colui che abbia depositato la cauzione richiesta dall'art. 580 cod. proc. civ. per prendere parte ad una vendita all'incanto di immobili.

In altri termini, si ritiene necessario accertare la presenza di un'attività o di un comportamento da cui obiettivamente traspaia che il soggetto si accinge a presentare un'offerta.

Strettamente connesso al tema della corretta delimitazione dell'ambito di applicazione di tale nozione è il profilo relativo alla possibilità di ricondurvi anche i soggetti incapaci o giuridicamente inidonei a partecipare ad una gara, in quanto sforniti dei requisiti o dei mezzi tecnici espressamente indicati dalla legge o dal bando.

Al riguardo occorrerà verificare, di volta in volta, se la mancanza di alcuni requisiti in capo all'offerente lo renda automaticamente incapace di prendere parte al meccanismo competitivo individuato dalla pubblica amministrazione, ovvero passibile di un provvedimento di esclusione per non essere in possesso di particolari qualifiche o requisiti di ordine tecnico, professionale e finanziario preventivamente richiesti per la partecipazione alla gara, in modo da garantire l'offerta di una prestazione adeguata all'oggetto e alla natura del contratto.

Non potranno ritenersi valide, ad es., un'offerta priva di sottoscrizione, che è un elemento essenziale di tale atto negoziale, la cui assenza ne pregiudica l'ammissibilità, ovvero un'offerta non conforme ai documenti di gara o ricevuta, addirittura, oltre i termini indicati nel bando o nell'invito con cui la stessa viene indetta.

8.5. Sulla base delle su esposte considerazioni assume uno specifico rilievo, ai fini dell'accertamento del danno patrimoniale causato dalla perdita di una chance per effetto del coattivo allontanamento dell'offerente da una gara, la posizione soggettiva di colui che, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto (ad es., il numero dei concorrenti, la qualità e il contenuto dell'offerta, la tipologia della procedura di scelta, il contesto ambientale ed altri indici fattuali ritenuti sintomatici nella situazione di volta in volta esaminata), abbia presentato un'offerta dotata dei connotati di serietà, congruità e apprezzabile consistenza, o che stia per presentarla sulla base di una intenzione obiettivamente ed univocamente riconoscibile.

Nella medesima prospettiva, inoltre, può in concreto rilevare la posizione del soggetto invitato a partecipare con altri ad una licitazione privata o ad una procedura di selezione competitiva indetta dalla pubblica amministrazione sulla base di criteri oggettivi e previamente indicati.

A diverse conclusioni deve invece giungersi con riferimento alla posizione del potenziale offerente - ovvero di colui che abbia genericamente preso in considerazione l'ipotesi di un'offerta senza poi coltivarla o abbia solo in astratto la possibilità di presentarla - e a quella del candidato non legittimato perché palesemente sguarnito dei mezzi tecnici indispensabili per la competizione o privo dei requisiti di capacità e idoneità necessari per la partecipazione ad una gara, difettando in tali evenienze la presenza dei presupposti formali indispensabili ai fini della configurabilità di un apprezzabile interesse patrimoniale.

9. Conclusivamente, sulla base delle su esposte considerazioni deve darsi risposta affermativa al secondo quesito, enunciando il seguente principio di diritto: "La condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani l'offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, oltre ad integrare il reato di cui all'art. 353 cod. pen., può integrare altresì quello di cui all'art. 629 cod. pen. ove abbia causato un danno patrimoniale derivante dalla perdita di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile per effetto della partecipazione alla predetta gara".

10. Alla stregua dei principi di diritto sopra enunciati può ora procedersi all'esame dei ricorsi, dando la precedenza nell'ordine espositivo alla trattazione dei motivi non attinenti alle questioni di diritto oggetto dell'ordinanza di rimessione, per poi esaminare quelli ad esse direttamente collegati in relazione ai reati rispettivamente contestati ai ricorrenti nei capi Q) e R).

11. I primi due motivi del ricorso proposto nell'interesse di An.Ge. devono essere congiuntamente esaminati, involgendone, sotto vari profili, l'affermazione di responsabilità in ordine al reato associativo contestato nel capo A).

Inammissibili devono ritenersi le relative censure, sia perché specificamente formulate, sia perché orientate a sollecitare una non consentita rivalutazione di elementi di prova già compiutamente vagliati dalle conformi decisioni di merito.

11.1. Invero, diversamente da quanto affermato nel ricorso, la Corte di appello, richiamate le valutazioni già espresse dal Tribunale sulla base delle risultanze univocamente offerte dalle attività di intercettazione e dal complesso delle prove orali e documentali in atti acquisite, ha dato ampiamente conto delle ragioni giustificative della ritenuta partecipazione del ricorrente al sodalizio di stampo camorristico denominato "clan (Omissis)", operante in S e zone limitrofe sotto la direzione di Fa.Ma.

Sotto tale profilo, la sentenza impugnata ha posto in evidenza come da un'iniziale rapporto di contiguità egli, imprenditore nel settore del commercio all'ingrosso di abbigliamento, sia progressivamente divenuto un punto di riferimento per la cura degli interessi associativi nell'area imprenditoriale, non solo per avere stretto rapporti personali diretti con lo stesso Fa.Ma. ed altri esponenti apicali dell'associazione, ma anche per avere agito in sua rappresentanza al fine di promuovere accordi di collaborazione con altre organizzazioni criminali di stampo camorristico (il "clan (Omissis)" di P), caratterizzati dal comune obiettivo della consumazione di truffe ai danni di imprese operanti nel settore tessile e dell'abbigliamento.

Riguardo alla vicenda, risalente alla seconda metà degli anni novanta, dell'intestazione fittizia di un terreno operata in suo favore, ma per conto del Fa.Ma., nel quadro degli investimenti immobiliari della predetta associazione, la sentenza impugnata ne ha illustrato la specifica rilevanza ai fini della ritenuta intraneità del ricorrente al contestato sodalizio, ponendo in evidenza: a) che egli era stato assolto dal reato di fraudolenta intestazione del bene per aver dichiarato all'Autorità giudiziaria di esservi stato costretto nel timore di subire ritorsioni da parte dell'organizzazione criminale; b) che i contenuti delle conversazioni svoltesi tra l'An.Ge. ed un altro esponente di rilievo del sodalizio, Sa.Gi., oggetto dell'intercettazione ambientale avvenuta il 13 luglio 2009, erano chiaramente dimostrativi sia della circostanza che il ricorrente era stato pienamente consapevole della fraudolenta operazione a suo tempo realizzata, tanto da aver chiesto addirittura scusa per quelle dichiarazioni allo stesso Fa.Ma., ricevendone comprensione in occasione di un incontro propiziato dall'intervento di Bi.Bi. (anch'egli esponente di rilievo del sodalizio), sia del fatto che la sua denuncia agli organi inquirenti era avvenuta dopo essere stato informato da terzi dell'imminente iniziativa cautelare che avrebbe potuto essere adottata nei suoi confronti, così riuscendo, con il proprio comportamento, ad evitare l'emissione di un provvedimento cautelare.

A fronte di un simile contesto ambientale, l'identificazione del nome "Omissis" - più volte evocato dagli interlocutori delle richiamate conversazioni - in quello dell'esponente di vertice del "clan (Omissis)" costituisce il logico corollario di un motivato apprezzamento dei Giudici di merito riguardo al tenore verbale e all'inequivoco contenuto di colloqui spontaneamente avvenuti tra due persone che risultavano in possesso di specifiche conoscenze all'interno dell'organizzazione ed erano del tutto inconsapevoli di essere sottoposte ad attività di intercettazione.

Sotto tale profilo deve rilevarsi come la sentenza impugnata abbia fatto buon governo del principio affermato da questa Corte (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, dep. 1996, Fachini, Rv. 203765), secondo cui è legittimo assumere, come elemento di giudizio autonomo, circostanze di fatto raccolte nel corso di altri procedimenti penali, pur quando questi si sono conclusi con sentenze irrevocabili di assoluzione, perché la preclusione del giudizio impedisce soltanto l'esercizio dell'azione penale per il fatto-reato che di quel giudicato ha formato oggetto, ma nulla ha a che vedere con la possibilità di una rinnovata valutazione delle risultanze probatorie acquisite nei processi ormai conclusisi, una volta stabilito che quelle risultanze probatorie possono essere rilevanti per l'accertamento di reati diversi da quelli già giudicati. L'inammissibilità di un secondo giudizio per lo stesso reato non vieta di prendere in considerazione lo stesso fatto storico, o particolari suoi aspetti, per valutarli liberamente ai fini della prova concernente un reato diverso da quello giudicato, in quanto ciò che diviene irretrattabile è la verità legale del fatto-reato, non quella reale del fatto storico.

11.2. Nella medesima prospettiva, inoltre, la Corte distrettuale ha preso in esame e puntualmente disatteso le censure in questa sede reiterate dal ricorrente, ricostruendone il ruolo e lo specifico apporto operativo stabilmente offerto all'interno del sodalizio in esame sulla base delle risultanze offerte dalle numerose intercettazioni già vagliate dal primo Giudice e delle dichiarazioni accusatorie del collaboratore di giustizia Mo.Ma., il cui contributo narrativo è stato motivatamente ritenuto attendibile sia in ragione della genesi della scelta collaborativa, maturata in un contesto criminale diverso, ma vicino al "clan (Omissis)", sia sul piano della precisione, della spontaneità e della coerenza delle dichiarazioni, peraltro sorrette da numerosi e specifici elementi di riscontro.

Al riguardo, in particolare, la Corte d'Appello ha richiamato il contenuto di tali dichiarazioni, là dove il collaboratore ha fatto univocamente riferimento al progressivo inserimento dell'An.Ge. nell'area di interesse imprenditoriale dell'associazione, assumendone il ruolo di referente diretto dei Fa.Ma. per addivenire ad un rapporto di collaborazione con altri sodalizi di stampo camorristico nell'affare dei ed. "acquisti a truffa" nel settore tessile e dell'abbigliamento: settore, del resto, nel quale era inserito anche il suocero del Mo.Ma., quale specifica fonte di conoscenza delle notizie apprese dal collaboratore.

La sentenza impugnata, inoltre, ha dato conto della dinamica operativa e delle specifiche modalità di realizzazione delle azioni criminose oggetto di tali accordi collaborativi in danno di importanti fornitori di merci acquistate e non pagate, evidenziando come lo stesso Sa.Gi. (ben conosciuto dal Mo.Ma., in quanto proveniente anch'egli dalle file dei Vo. e transitato nel "clan (Omissis)" dopo un lungo periodo di detenzione) abbia indicato nell'imputato il referente esclusivo del sodalizio per la realizzazione delle predette attività.

Analoghe considerazioni devono svolgersi in ordine alle circostanze di fatto dalla Corte di appello valorizzate relativamente: a) ai plurimi incontri con il Mo.Ma. ed il suocero per mettere a parte l'An.Ge. del desiderio dei Vo. di entrare in società nell'affare; b) allo stretto legame operativo con il Sa.Gi., recatosi a P assieme all'An.Ge. per comunicare agli esponenti dei Vo., ivi riuniti, l'adesione dei Fa.Ma. alla proposta; c) alle riunioni svoltesi presso la villa del ricorrente, minuziosamente descritta con indicazione di particolari pienamente riscontrati, e alla conoscenza approfondita delle dinamiche interne ed esterne al sodalizio; d) all'intervento, d'intesa con il Sa.Gi., per risolvere le frizioni determinatesi a causa di una "leggerezza" commessa dal suocero del dichiarante, appropriatosi di una parte della quota spettante ai Fa.Ma.; e) alle scuse richieste dal Mo.Ma. all'An.Ge. per aver reagito con uno schiaffo ad un esponente del "clan (Omissis)", che gli intimava di farsi carico dell'ammanco provocato dal suocero; f) all'impegno speso per agevolare, assieme al Sa.Gi., la campagna elettorale del coimputato Ci.Pa. in vista delle elezioni alla carica di Sindaco del Comune di O, con il sostegno dell'organizzazione camorristica; g) all'intervento posto in essere dal Sa.Gi., d'accordo con il ricorrente, per intimidire e scoraggiare i componenti della famiglia Ug. interessati all'acquisto in un pubblico incanto dell'abitazione e di altro bene immobile di proprietà dell'An.Ge., con la conseguente loro aggiudicazione in favore di un prestanome del ricorrente, che risulterà l'unico offerente, lasciando il debitore esecutato nel possesso dei suoi beni; h) alle intercettazioni delle conversazioni in cui il ricorrente ed il Sa.Gi. discorrevano di alcune vicende estorsive, e in particolare di quella riguardante l'imprenditore Ar.An., il quale, sebbene fosse riuscito ad evitare di essere citato in giudizio da terzi solo grazie all'indebita pressione esercitata da esponenti del sodalizio, non aveva adempiuto all'impegno di versare una somma di tremila euro, tanto che lo stesso ricorrente ebbe a manifestare la volontà di recarsi di persona da lui per risolvere la questione.

Le dichiarazioni rese dal collaboratore sono state apprezzate dai Giudici di merito in relazione alle plurime risultanze offerte dalle intercettazioni, coerentemente ritenute dimostrative, con valutazioni insindacabili in questa sede, della condivisione a titolo collettivo di rilevanti informazioni sul funzionamento dell'organizzazione criminale, sulle regole interne che gli affiliati erano tenuti a seguire, sulle caratteristiche delle varie attività intraprese e sulla diversificazione strategica degli investimenti che il sodalizio intendeva effettuare in settori diversi dal traffico di stupefacenti e dalle attività estorsive.

Un quadro probatorio, quello ora indicato, che la sentenza impugnata ha linearmente argomentato, ponendo in rilievo come il contenuto delle intercettazioni abbia offerto specifici elementi di riscontro dell'attendibilità della prova dichiarativa e univocamente dimostrato l'esistenza non di un mero rapporto di frequentazione, per personale amicizia, tra il ricorrente ed il Sa.Gi., ma di una conoscenza approfondita dell'associazione e di un effettivo coinvolgimento operativo nelle sue attività, senza che la tenuta logica della motivazione sia stata disarticolata o incrinata dalle su indicate censure difensive.

11.3. Manifestamente infondato deve ritenersi il terzo motivo di ricorso, poiché dai contenuti dell'esame dibattimentale del predetto collaboratore di giustizia emerge che le condotte da lui attribuite al ricorrente - là dove fa riferimento alla perpetrazione di una serie di truffe concordate dal sodalizio dei Vo. e da quello facente capo ai Fa.Ma. - vedono il dichiarante direttamente coinvolto nelle relative attività quale rappresentante dei primi, tanto che nell'udienza dibattimentale del 26 gennaio 2016 il Pubblico ministero comunicò di averlo iscritto nel registro degli indagati per il delitto di associazione per delinquere finalizzata alla truffa, con l'aggravante prevista dall'art. 7 della legge n. 203 del 1991.

Gli avvertimenti previsti dall'art. 64 cod. proc. pen. e la dichiarazione di impegno prescritta dall'art. 497 cod. proc. pen. per l'imputato in procedimento connesso o collegato che non si avvalga della facoltà di non rispondere riguardano esclusivamente la posizione del dichiarante "non coinvolto nello stesso fatto".

Nel caso di specie, dunque, non sussistono le condizioni per ritenere che il dichiarante dovesse essere chiamato a riferire di fatti involgenti esclusivamente l'altrui responsabilità.

Analoghe considerazioni devono svolgersi con riferimento alla censura di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia, poiché essa non tiene conto del fatto che le stesse sono state acquisite nel corso dell'istruttoria dibattimentale e che il suo esame in contraddittorio ha garantito adeguatamente i diritti difensivi, consentendo di vagliarne l'attendibilità del narrato, secondo canoni di coerenza, costanza e precisione (Sez. 2, n. 39774 del 07/05/2022, Aiello, Rv. 283989).

Né, peraltro, può ritenersi inutilizzabile la deposizione resa in dibattimento dal collaboratore di giustizia nel caso in cui non sia stato possibile acquisire il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione ex art. 16-sexies D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, conv. nella legge 15 marzo 1991, n. 82, in quanto la citata disposizione non collega alcun effetto patologico alla mancata od intempestiva acquisizione di tale atto, pur prevista come obbligatoria (Sez. 2, n. 39774 del 07/05/2022, Aiello, cit.; Sez. 3, n. 19536 del 05/02/2015, Iannicelli, Rv. 263560).

Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi la manifesta infondatezza della censura di inutilizzabilità in ordine alla ipotizzata tardività delle dichiarazioni del predetto collaboratore, che a norma dell'art. 16-quater, comma 9, D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, conv. nella legge 15 marzo 1991, n. 82, come modificata dall'art. 14 della legge 13 febbraio 2001, n. 45, colpisce le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni previsto per la redazione del verbale informativo dei contenuti della collaborazione, poiché tale sanzione trova applicazione solo con riferimento alle dichiarazioni rese fuori del contraddittorio e non a quelle rese nel corso del dibattimento (Sez. 2, n. 34240 del 10/07/2018, Lepre, Rv. 273454).

11.4. Infondate devono ritenersi, fatto salvo quanto più avanti si dirà per i profili attinenti alle questioni di diritto rimesse a queste Sezioni Unite, le censure dedotte nel quarto motivo di ricorso, avendo la Corte d'Appello ragionevolmente basato l'affermazione di responsabilità in merito ai reati di tentata estorsione e turbata libertà degli incanti oggetto del capo R) sulle univoche risultanze probatorie offerte dalla documentazione relativa al procedimento di esecuzione immobiliare iniziato nei confronti di una società dell'imputato presso il Tribunale di Nola, dalle deposizioni testimoniali degli organi investigativi e dalla puntuale e dettagliata disamina delle intercettazioni telefoniche ed ambientali relative alle conversazioni tra lo stesso imputato e Sa.Gi., esponente di rilievo, come si è visto, del sodalizio camorristico egemone in quella realtà territoriale.

Con argomentazioni lineari ed immuni da vizi logico-giuridici rilevabili in questa sede la sentenza impugnata ha preso in esame e coerentemente disatteso le censure difensive, illustrando le note modali della condotta intimidatoria posta in essere nei confronti di alcuni membri della famiglia Ug. mentre stavano visionando l'abitazione di An.Ge., al fine di dissuaderli dal partecipare all'asta relativa a tale immobile.

A seguito delle espressioni dall'inequivocabile contenuto intimidatorio loro direttamente rivolte sia dal Sa.Gi., presente in loco al momento dell'accesso degli Ug., che dallo stesso An.Ge., il quale aveva chiesto ed ottenuto l'intervento del primo per assicurarsi l'esito positivo della procedura di vendita all'asta, le persone offese vennero bruscamente allontanate in occasione del sopralluogo effettuato presso l'abitazione del ricorrente, decidendo di presentare offerte di acquisto solo per uno dei lotti (il numero 3 nella disponibilità di An.Ni.) e non per quello (il numero 4) relativo ai beni di An.Ge., che all'esito della procedura di vendita ne ottenne la effettiva disponibilità grazie alla compiacente partecipazione all'asta di un prestanome, An.Ma., legale rappresentante della società ("Cesin Costruzioni Srl") risultata poi aggiudicataria dei lotti (nn. 2 e 4) cui l'An.Ge. era direttamente interessato.

In ordine al contenuto, preciso e inequivoco, delle intercettazioni delle conversazioni svoltesi tra i diretti protagonisti della vicenda, e in particolare tra il Sa.Gi. e l'An.Ge., la Corte distrettuale ha correttamente disatteso l'obiezione difensiva incentrata sulla pretesa natura millantatrice delle dichiarazioni del Sa.Gi., facendo buon governo della regola valutativa, pacificamente affermata da questa Corte (Sez. U, n. 22471 del 2015, Sebbar, Rv. 263714), secondo cui le dichiarazioni auto ed etero accusatorie registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall'art. 192, comma 3, cod. proc. pen.

Diversamente da quanto dichiarato in udienza dibattimentale, ove il Sa.Gi., ascoltato alla presenza del suo difensore quale imputato di reato connesso ai sensi dell'art. 210 cod. proc. pen., affermava di aver finto, nella conversazione intercettata il 7 maggio 2009, di intimidire Ug.Se., la sentenza impugnata ha valorizzato il contenuto, particolarmente dettagliato, delle conversazioni intercettate pochi minuti dopo l'accesso degli Ug. presso la villa dell'An.Ge., dunque in un momento in cui i predetti interlocutori, ignari di essere sottoposti all'attività di captazione, si mostravano consapevoli di avere determinato con il loro minaccioso comportamento una situazione di particolare tensione ed ostilità, volta a mostrare la capacità di intimidazione e condizionamento ambientale del sodalizio criminale egemone sul territorio, cui essi stessi risultavano affiliati, per ottenere l'auspicato effetto dissuasivo dalla partecipazione al pubblico incanto.

Analoghe considerazioni devono svolgersi in ordine alla coerente valutazione delle dichiarazioni dibattimentali rese dalle persone offese (Ug.Lu., Ug.Mi. e Ug.Se., escusso previo accompagnamento coattivo), avendo la sentenza impugnata logicamente incrociato le risultanze offerte da tali prove dichiarative, là dove i testi negavano di aver subito le contestate intimidazioni, con ulteriori e decisivi elementi probatori (quali le intercettazioni telefoniche ed ambientali richiamate nella motivazione e le dichiarazioni testimoniali rese dal curatore fallimentare), che esplicitamente ne dimostravano il carattere di reticenza.

Congruamente accertato dai Giudici di merito deve ritenersi, infine, il ricorso dell'imputato al metodo intimidatorio che caratterizza le forme di manifestazione dell'aggravante speciale ex art. 416-bis. 1 cod. pen., essendosi il ricorrente avvalso, in un contesto di palese ostilità e coartazione ambientale, dell'intervento di Sa.Gi., come lui affiliato al predetto sodalizio camorristico, per esercitare pressioni minacciose univocamente indirizzate al fine di dissuadere i membri della famiglia Ug. dal partecipare alla procedura di gara in corso, prospettando loro le gravi conseguente legate ad un futuro di vita impossibile cui sarebbero andati incontro, qualora avessero osato acquistare l'abitazione e un magazzino del debitore esecutato An.Ge.

11.5. Manifestamente infondato deve ritenersi il profilo di doglianza prospettato nel quinto motivo di ricorso, in ordine all'applicazione delle cornici edittali introdotte per il reato associativo dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92, conv. con modificazioni dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, avuto riguardo alla inequivoca collocazione temporale nell'anno 2009 sia di alcune delle condotte sintomatiche emerse dalle attività di intercettazione, sia dei fatti riferiti dal Mo.Ma., con la conseguente erronea invocazione del diverso regime sanzionatorio introdotto dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251.

Analoghe considerazioni devono svolgersi riguardo alle statuizioni in punto di dosimetria della pena individuata con riferimento al più grave reato associativo sub A) e alla riconosciuta aggravante di cui all'art. 416-bis, quarto comma, cod. pena., avendo la Corte d'Appello confermato, con valutazione insindacabile in questa sede, l'apprezzamento discrezionale al riguardo congruamente operato dal primo Giudice alla luce dei criteri direttivi fissati dall'art. 133 cod. pen.

11.6. I profili relativi alle questioni di diritto rimesse alle Sezioni Unite verranno esaminati più avanti, unitamente a quelli attinenti alla dosimetria della pena complessivamente irrogata, anch'essi dedotti nel quinto motivo di ricorso;

12. Il ricorso proposto nell'interesse di Ci.Pa. è infondato e va rigettato per le ragioni di seguito indicate.

12.1. In ordine al primo motivo la Corte distrettuale ha richiamato il quadro probatorio puntualmente delineato dal primo Giudice in relazione ai reati di estorsione e turbata libertà degli incanti contestati nel capo Q), affermando che era stata "coartata (persino fisicamente) la volontà di Ca.Gi. e Da.Fr., al fine di non farli partecipare all'incanto dei beni staggiti, con conseguente frustrazione delle aspettative e perdite di chance".

A tale epilogo decisorio la Corte d'Appello è pervenuta sulla base delle risultanze univocamente offerte dalle prove documentali e da una serie di intercettazioni che consentivano di ricostruire l'intera vicenda nei termini qui di seguito sinteticamente indicati: a) nell'ambito di una procedura esecutiva avente ad oggetto l'immobile di proprietà della fallita "CAR.VES. Srl" di De.Gi., l'Avv. Sito depositava un'istanza di partecipazione per l'asta del 27 gennaio 2009, con allegata procura speciale sottoscritta da Ca.Gi., quale amministratore unico e legale rappresentante di "Costruzioni Ca. Srl", e da Da.Fr., quale amministratore unico e legale rappresentante di "La Contessa Costruzioni e Immobiliari Srl"; b) il 27 gennaio 2009 veniva depositata anche un'altra istanza di partecipazione all'asta, per persona da nominare, da parte dell'Avv. Vitale, che aveva delegato a parteciparvi l'Avv. Ruocco; c) quest'ultimo e l'Avv. Sito partecipavano all'asta e l'immobile oggetto della procedura veniva aggiudicato provvisoriamente all'Avv. Sito per il valore di Euro 500.000,00; d) il 6 febbraio 2009 De.Te., figlia di De.Gi., presentava un'offerta in aumento ex art. 584 cod. proc. civ. pari ad Euro 654.080,00, sicché il 10 febbraio 2009 il Giudice delegato, preso atto dell'offerta di acquisto in aumento di un sesto, presentata entro il termine di dieci giorni dall'aggiudicazione e dotata di adeguata cauzione, fissava l'udienza del 19 maggio 2009 per l'aggiudicazione dell'immobile; e) il 23 febbraio 2009 l'Avv. Sito, nell'interesse di Ca.Gi. e Da.Fr., chiedeva al Giudice delegato la restituzione degli assegni depositati all'udienza del 27 gennaio 2009, formulando espressamente la riserva di partecipare al successivo incanto, con la precisazione che quella istanza di restituzione dei titoli non poteva essere interpretata nemmeno per facta concludentia come rinuncia a partecipare all'asta successiva; f) all'udienza del 19 maggio 2009 si presentava solo De.Te. e, trascorsi tre minuti senza che nessun'altra offerta venisse presentata, il Giudice aggiudicava l'immobile in via definitiva al prezzo di Euro 654.000,080 a De.Te., che un anno dopo l'avrebbe rivenduto ad una società immobiliare intestata in egual misura alle figlie del Ci.Pa.

12.2. Al riguardo la Corte distrettuale ha affermato, sulla base di argomentazioni linearmente esposte ed immuni da vizi in questa sede rilevanti, che sia i contenuti delle interlocuzioni svoltesi tra il Sa.Gi. ed il Ci.Pa. il 18 maggio 2009 - dunque il giorno prima di quello fissato per la gara conseguente alla presentazione dell'aumento del sesto -, sia quelli oggetto delle successive operazioni captative, dimostravano che l'assenza di altri soggetti interessati all'aggiudicazione dei beni messi all'incanto nell'asta fallimentare non era stata affatto determinata da una decisione di spontaneo ritiro dalla gara in seguito all'offerta in aumento da parte dell'altra interessata, quanto invece dalle forti pressioni esercitate nei riguardi degli aggiudicatari provvisori (ossia di Ca.Gi. e Da.Fr.), entrambi trattenuti fisicamente nell'ufficio del predetto Avvocato nel giorno (il 19 maggio 2009) e nelle ore in cui si svolgeva il pubblico incanto.

Sotto tale profilo, coerentemente con le emergenze processuali, la Corte ha spiegato che, nel contesto delle conversazioni svoltesi con il Ci.Pa. al fine di rivendicare i "meriti" acquisiti nell'operazione e il proprio diritto ad un compenso pattuito nella misura di ventimila euro, Sa.Gi., esponente del "clan (Omissis)" a sua volta condannato quale mandante diretto degli esecutori delle pressioni esercitate su Ca.Gi. e Da.Fr. (ossia Ca.Gi., anch'egli organico al sodalizio, e Sa.Vi.), tentava di dissipare i dubbi manifestati da Ci.Pa. e, per suo tramite, dal coimputato De.Gi., riguardo all'effettivo coinvolgimento dei suoi uomini di fiducia e all'efficacia risolutiva del loro intervento dissuasivo, in un frangente nel quale analoghi "meriti" erano rivendicati anche da un'altra persona (tale Ce.Fe.), a sua volta interessata per il medesimo scopo da De.Gi.

La sentenza impugnata, inoltre, ha puntualmente ricostruito l'intera sequenza dei fatti oggetto delle imputazioni di estorsione e turbata libertà degli incanti contestate sub Q), dando conto segnatamente: a) della precisa rassicurazione che il Sa.Gi. fornì al Ci.Pa. nel corso della conversazione intercettata il 18 maggio 2009, riguardo al fatto che all'udienza per l'aggiudicazione dei beni, fissata il giorno successivo dinanzi al Giudice delegato del Tribunale di Nola, nessun'altra persona diversa da De.Te. si sarebbe presentata, nemmeno per conto dei due aggiudicatari provvisori; b) della circostanza che il Ci.Pa. rappresentò al suo interlocutore le difficoltà incontrate da De.Gi. nel racimolare la somma di denaro promessa per l'intervento del Sa.Gi., invitando costui a ridimensionare l'entità del compenso pattuito; c) del diretto interesse del Ci.Pa. ad ingerirsi nella procedura esecutiva instaurata a carico delle società di De.Gi., avuto riguardo alla prova documentale della successiva alienazione dei beni in favore delle figlie del ricorrente; d) della risalenza temporale della richiesta di intervento di De.Gi. al Ci.Pa., che si rivolse al Sa.Gi. già prima della presentazione dell'offerta in aumento del sesto, sulla base di un accordo per il pagamento della somma di ventimila Euro a titolo di compenso per il suo intervento, avendo i due aggiudicatari provvisori partecipato all'asta nonostante avessero precedentemente rifiutato una rilevante somma di denaro loro offerta per non prendervi parte.

Entro tale prospettiva la Corte d'Appello ha preso in esame le medesime censure dal ricorrente reiterate in questa sede e le ha motivatamente disattese attraverso la combinazione logico-temporale di una serie di dati inferenziali tratti dal compendio probatorio, coerentemente apprezzandone l'inequivoca valenza dimostrativa della responsabilità concorsuale del ricorrente.

A tal fine la sentenza impugnata ha valorizzato: a) il contenuto delle conversazioni intrattenute dal Sa.Gi. nel corso delle intercettazioni e lo specifico elemento di riscontro desunto dall'appuntamento concordato per telefono dal Sa.Vi. con il Ca.Gi. nella stessa giornata del 18 maggio 2009; b) l'informazione di "missione compiuta", trasmessa da Ca.Gi. al Sa.Gi. in presenza del Sa.Vi., riguardo alla messa a disposizione dei beni oggetto della procedura di aggiudicazione e alla correlata possibilità di apprensione; c) l'esplicita assicurazione, rivolta da Sa.Gi. al Ci.Pa. dopo aver parlato con Ca.Gi. e Sa.Vi., riguardo al fatto che i due aggiudicatari provvisori il giorno dopo non sarebbero comparsi in udienza neanche attraverso il loro rappresentante; d) i successivi commenti del Sa.Gi. e dell'An.Ge. sull'irriconoscenza del Ci.Pa. a seguito dell'intervento dissuasivo realizzato dal Sa.Gi. e la sequenza di rivendicazioni del "merito" da costui acquisito circa il buon esito della vicenda; e) l'atteggiamento esitante mostrato dal Ci.Pa. sul riconoscimento del compenso dovutogli e il dubbio, manifestato a nome di De.Gi., che il merito del successo dovesse essere attribuito ad altra persona; f) la consegna, da parte del Ci.Pa. al Sa.Gi., di due assegni di De.Gi., uno dei quali fatto recapitare dal Sa.Gi. alla famiglia del Ca.Gi., esecutore del mandato, nel frattempo sottoposto a misura detentiva.

Logicamente argomentata, dunque, deve ritenersi, diversamente da quanto dedotto nel ricorso, la valutazione di attendibilità delle affermazioni provenienti dal Sa.Gi., che, ignaro di essere sottoposto ad attività di intercettazione, le ha costantemente ribadite nel corso delle conversazioni intrattenute sia con il Ci.Pa. che con l'An.Ge.

Ininfluente, rispetto all'univocità delle risultanze offerte dal su esposto quadro probatorio, deve ritenersi la generica obiezione difensiva riguardo al fatto che il ricorrente, nel corso di un interrogatorio reso dinanzi al P.M., non avrebbe confessato né ammesso la sua responsabilità per l'aiuto che avrebbe offerto a De.Gi., al fine di consentirgli di rientrare nel possesso dei suoi beni pignorati attraverso la richiesta di intervento del Sa.Gi.: il rilievo, privo di specifica valenza contro argomentativa sul piano della complessiva tenuta logica della motivazione, esula dal perimetro del sindacato affidato al giudizio di legittimità, limitandosi ad opporre un diverso apprezzamento di merito sulla valutazione del carattere confessorio o meno dell'atto, senza travolgere né incrinare la coerenza del percorso motivazionale della sentenza impugnata.

Analoghe considerazioni devono svolgersi riguardo all'ulteriore obiezione incentrata sulla ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni rese in dibattimento dai due aggiudicatari provvisori, avendo i Giudici di merito logicamente ricollegato, con apprezzamenti di fatto che evidentemente si sottraggono al vaglio di legittimità, le ragioni giustificative dell'atteggiamento da loro assunto in udienza, coerentemente definito ostruzionistico, alla particolare gravità delle condotte intimidatorie poste in essere ai loro danni, così come emerse ed analiticamente valutate alla luce delle risultanze offerte dalle richiamate intercettazioni.

12.3. Parimenti infondato deve ritenersi il terzo motivo di ricorso, avendo la Corte distrettuale puntualmente illustrato le ragioni giustificative della ritenuta configurabilità della circostanza aggravante prevista dall'art. 416-bis 1 cod. pen.

Sotto tale profilo, infatti, la sentenza impugnata ha posto in rilievo le circostanze, coerentemente ritenute sintomatiche, della ben conosciuta appartenenza del Sa.Gi. e del Ca.Gi. al medesimo sodalizio camorristico del Fa.Ma., delle gravi modalità di realizzazione dell'intervento richiesto dal ricorrente al fine di ottenere il forzoso allontanamento degli aggiudicatari provvisori, e finanche del loro difensore, dalla procedura esecutiva in corso sui beni immobili della società riconducibile a De.Gi., nonché della successiva consegna alla famiglia del Ca.Gi. di una parte della somma di denaro dal Sa.Gi. ricevuta a titolo di compenso, quale forma di sostegno economico offerto in costanza della intervenuta sottoposizione del Ca.Gi. alla misura degli arresti domiciliari: un aiuto, questo, di significativa rilevanza, di cui proprio il Sa.Gi. diede comunicazione al ricorrente in una delle loro conversazioni, rendendolo in tal modo pienamente consapevole anche della finalità agevolatrice del sodalizio da lui perseguita.

12.4. Le censure oggetto del secondo motivo e dei motivi nuovi investono le questioni di diritto oggetto di rimessione alle Sezioni Unite e come tali verranno congiuntamente esaminate nel prosieguo della trattazione.

13. Il ricorso proposto nell'interesse di De.Gi. è infondato e va rigettato per le ragioni di seguito indicate.

13.1. Infondato deve ritenersi il primo motivo, poiché la sentenza impugnata, richiamate le conformi valutazioni già espresse dal primo Giudice, ha preso in esame e puntualmente disatteso le medesime censure dal ricorrente reiterate in questa sede, illustrando, con adeguata motivazione, le ragioni giustificative della configurabilità del concorso nella realizzazione dei reati di cui al capo Q).

Al riguardo, in particolare, la Corte distrettuale ha valorizzato gli esiti delle attività di intercettazione disposte sul cellulare in uso al Sa.Gi. e le risultanze delle prove documentali offerte sia dai tabulati relativi al flusso delle conversazioni registrate sull'utenza telefonica del Ci.Pa., sia dagli atti di una procedura fallimentare pendente dinanzi al Tribunale di Nola nei confronti di una società interamente riconducibile al ricorrente.

Sulla base di tali emergenze probatorie, la sentenza impugnata ha illustrato, con argomentazioni linearmente esposte ed immuni da vizi logici, le ragioni giustificative della riferibilità al ricorrente del contenuto delle interlocuzioni prese in esame e del suo diretto interesse economico alla realizzazione di attività obiettivamente finalizzate a scongiurare la vendita all'asta e la perdita della proprietà di beni immobili di rilevante valore commerciale, dei quali era stata disposta la vendita all'incanto dopo essere stati ipotecati ed acquisiti alla massa attiva della procedura fallimentare avviata dinanzi al predetto Tribunale nei confronti di una società di cui proprio De.Gi. era amministratore e socio.

Richiamate le considerazioni dianzi esposte in relazione al ricorso del Ci.Pa., deve rilevarsi come le conformi decisioni di merito abbiano puntualmente spiegato le ragioni per le quali il ricorrente chiese al Sa.Gi., con la intermediazione del Ci.Pa. e la pattuizione di un compenso fissato nella misura di ventimila euro, un intervento sulla procedura esecutiva che gli consentisse di dissuadere gli aggiudicatari provvisori dalla partecipazione all'asta e di rientrare nel possesso dei beni oggetto della procedura di vendita poi conclusasi con la definitiva aggiudicazione dei beni in favore della figlia.

Alla luce delle risultanze probatorie univocamente offerte dal contenuto delle richiamate attività di intercettazione, puntualmente vagliate in relazione al complesso delle su indicate prove documentali, la Corte distrettuale ha coerentemente motivato il giudizio di responsabilità nei confronti del ricorrente, ponendo in rilievo le dirimenti circostanze relative: a) alle difficoltà incontrate dal ricorrente nel versare la somma di denaro concordata quale compenso per l'intervento finalizzato ad allontanare i due aggiudicatari provvisori dalla partecipazione all'udienza fissata nella relativa procedura di vendita, tanto che il Ci.Pa. invitò il Sa.Gi. a ridimensionarne l'entità; b) al fatto che la richiesta di intervento fu avanzata dal ricorrente già prima dell'udienza in cui il Ca.Gi. e il Da.Fr. effettuarono la loro prima offerta aggiudicandosi in via provvisoria i beni, poiché nei loro confronti il Sa.Gi. non esercitò le illecite pressioni previste per quella fase della procedura con l'offerta di una somma di cinquantamila euro, cosi costringendo De.Gi. a sostenere un sacrificio economico ben più rilevante al fine di rientrare nel possesso dei suoi beni, per aver dovuto operare in seguito l'offerta in aumento del sesto attraverso la figlia; c) al fatto che per tale ragione il Sa.Gi. fu invitato ad abbassare l'entità del compenso concordato per il suo intervento sulla procedura esecutiva; d) al fatto che il ricorrente, per raggiungere le medesime finalità, interessò anche un'altra persona proveniente dal medesimo ambiente (Ce.Fe.), che nei suoi confronti vantava per tale ragione un autonomo titolo di ricompensa (pari all'importo di cinquemila euro).

Ne consegue che, diversamente da quanto prospettato nel ricorso, la sentenza impugnata non è pervenuta all'affermazione di responsabilità sulla base del mero dato induttivo tratto dall'interesse verso il cui soddisfacimento convergevano le contestate condotte estorsive e di turbativa d'asta, ma ha globalmente e specificamente vagliato le emergenze probatorie, da un lato escludendo qualsiasi ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti - peraltro neanche specificamente prospettata dal ricorrente - dall'altro lato, valorizzando il principio del cui prodest attraverso un ragionamento logicamente sorretto da un insieme di elementi di fatto di sicuro valore indiziante e, come tale, immune da vizi deducibili nel giudizio di legittimità (Sez. 3, n. 15755 del 22/01/2020, Ventura, Rv. 279271).

13.2. Manifestamente infondato deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, là dove si ipotizza un travisamento della prova dichiarativa in relazione al valore confessorio erroneamente attributo ad un interrogatorio dal ricorrente reso al P.M., senza precisare, tuttavia, il carattere della necessaria decisività del dato probatorio al fine di determinare una soluzione diversa da quella adottata nell'ambito dell'apparato motivazionale investito dalla censura, preclusa dovendosi ritenere in questa sede la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione si tramuti in una nuova e diversa valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito.

13.3. Manifestamente infondata deve altresì ritenersi la censura oggetto del terzo motivo, là dove si deduce l'erronea valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni rese dalle persone offese, dovendo richiamarsi, al riguardo, le medesime considerazioni dianzi espresse (v. il par. 12.2.) con riferimento all'analoga doglianza dedotta nel ricorso del Ci.Pa.

13.4. Il quarto motivo di ricorso è infondato, avendo la Corte distrettuale puntualmente illustrato le ragioni giustificative della ritenuta configurabilità dell'aggravante prevista dall'art. 416-bis. 1 cod. pen.

Sotto tale profilo la sentenza impugnata ha posto in rilievo, con motivazione adeguata e immune da vizi, la circostanza di fatto, coerentemente ritenuta rilevante sotto il profilo del ed. metodo mafioso, che il concorso del ricorrente nelle condotte di estorsione e turbata libertà degli incanti è avvenuto facendo ricorso all'utilizzo di esponenti dell'associazione di stampo camorristico egemone sul territorio, il cui intervento sulla procedura esecutiva in corso si è manifestato con sequenze temporali talmente ravvicinate alla celebrazione dell'udienza di aggiudicazione e attraverso comportamenti caratterizzati da note modali di tale gravità per la limitazione della libertà di movimento delle persone offese e del loro difensore, da rendere evidente l'impiego della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, ingenerando nelle vittime il timore di conseguenze pregiudizievoli tipiche degli ambienti criminali in cui l'intera vicenda si è consumata.

Nella medesima prospettiva, la Corte distrettuale ha arricchito il percorso motivazionale desumendo dalle conversazioni intercettate ulteriori elementi di prova rappresentati dal fatto che: a) il Sa.Gi. ricevette a titolo di compenso per il suo intervento sulla procedura esecutiva due assegni dalle mani del Ci.Pa., il quale glieli consegnò per conto di un terzo logicamente identificato nella persona di De.Gi.; c) costui chiese al Ci.Pa. di ottenere in garanzia almeno la fotocopia dei titoli, in seguito all'incontro concordato tra lo stesso Ci.Pa. ed il Sa.Gi. per la loro consegna; c) il ricorrente si avvantaggiò dei risultati determinati dall'allontanamento degli aggiudicatari provvisori dalla vendita all'incanto, remunerando in maniera cospicua gli esponenti del sodalizio camorristico a tal fine incaricati, nonostante le richiamate difficoltà nel racimolare l'intera somma di denaro pattuita; d) egli dimostrò di tenere al recupero dei suoi beni sino al punto di interessare anche un'altra persona gravitante nel medesimo ambiente criminale, pur di raggiungere il proprio obiettivo.

13.5. Parimenti infondato deve ritenersi il quinto motivo, avendo la Corte distrettuale motivato i profili attinenti alla congruità della pena e al diniego delle circostanze attenuanti generiche attraverso il condiviso richiamo alle puntuali valutazioni al riguardo già espresse dal primo Giudice in considerazione della particolare gravità dei fatti e del contenimento della pena irrogata in una misura non eccessivamente distante dal minimo edittale dalla legge previsto ratione temporis.

La motivazione della sentenza impugnata, peraltro, deve essere corretta là dove ha erroneamente affermato che le attenuanti generiche erano state già riconosciute dal primo Giudice sulla base di un giudizio di equivalenza con le ritenute aggravanti, ferma restando la correttezza della confermata valutazione in punto di dosimetria della pena, per la radicale inammissibilità del motivo di ricorso avente ad oggetto le evocate attenuanti e il correlato giudizio di bilanciamento in ragione della originaria inammissibilità del motivo formulato in sede di appello, che nessuna specifica ragione contraria ha criticamente opposto al motivato apprezzamento negativo al riguardo espresso nella prima decisione.

13.6. Manifestamente infondato deve ritenersi l'ultimo motivo, sia in ragione della originaria inammissibilità del motivo di appello, correttamente ritenuto dalla Corte distrettuale privo di qualsiasi riferimento critico alla precisa motivazione al riguardo resa dal primo Giudice, sia in considerazione del pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui la confisca prevista dall'art. 12-sexies, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in legge 7 agosto 1992, n. 356 (ora art. 240-bis cod. pen.) non deve essere necessariamente preceduta dal sequestro preventivo, essendo solo necessario che i beni siano altrimenti individuabili nel momento in cui il provvedimento deve essere eseguito (Sez. 1, n. 43812 del 16/04/2018, Taverniti, Rv. 274485).

13.7. I profili di doglianza inerenti alle questioni di diritto oggetto dell'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite verranno esaminati nel prosieguo della trattazione.

14. I ricorsi proposti nell'interesse di Sa.Vi. deducono motivi sostanzialmente comuni, che vengono pertanto raggruppati e partitamente esaminati in relazione ai temi oggetto dell'ordine espositivo di seguito delineato.

14.1. Deve preliminarmente rilevarsi la inammissibilità delle censure formulate in ordine alla inutilizzabilità delle intercettazioni effettuate sull'utenza mobile in uso a Sa.Gi.

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui, "qualora in sede di legittimità venga eccepita l'inutilizzabilità dei relativi risultati, è onere della parte, a pena di inammissibilità del motivo per genericità, indicare specificamente l'atto che si ritiene affetto dal vizio denunciato cui si accompagna l'ulteriore onere di curare la produzione dell'atto e delle risultanze documentali addotte a fondamento del vizio processuale curando che l'atto sia effettivamente acquisito al fascicolo o provvedendo a produrlo in copia." (Sez. U, n. 39061 del 16/07/2009, De Iorio, Rv. 244329; Sez. 4, n. 18335 del 2018, Conti, Rv. 273261).

Nel caso in esame, di contro, gli oneri di produzione testé indicati non sono stati soddisfatti.

Né, peraltro, è stato assolto il concorrente onere dimostrativo della concreta incidenza che le conversazioni - ritenute, in tesi, inutilizzabili - avrebbero avuto sull'insieme delle risultanze probatorie dai Giudici di merito vagliate e poste a fondamento del correlato epilogo decisorio.

Al riguardo, infatti, questa Corte ha affermato che "nell'ipotesi in cui, con il ricorso per cassazione, si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta prova di resistenza, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento" (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218).

Deve infine rilevarsi come la sentenza impugnata abbia congruamente esaminato e disatteso i rilievi difensivi dal ricorrente genericamente reiterati in questa sede, dando conto della osservanza dei presupposti di regolare e tempestiva sequenza dei decreti autorizzativi e di proroga delle intercettazioni, senza che alcuna argomentazione di segno contrario sia stata specificamente opposta sotto tale profilo.

14.2. Inammissibili, perché manifestamente infondate ed orientate a sollecitare una non consentita rivisitazione delle emergenze probatorie, devono ritenersi le censure formulate in ordine alla diversa qualificazione dei fatti contestati nel capo C), relativamente al delitto di estorsione commesso dal ricorrente, in concorso con Co.Pa., Fr.Ma., Sa.Gi. e Ca.Gi., ai danni di Gu.Gi., titolare di un'impresa di vendita all'ingrosso di detersivi.

Le ragioni di doglianza sono incentrate sull'assunto che il Co.Pa., agente rappresentante di alcune società creditrici del Gu.Gi. - indebitato con i fornitori e in particolare con le società rappresentate dal Co.Pa. per una somma pari a circa centottantamila Euro - avrebbe agito nei suoi confronti, sia pure arbitrariamente, con il ragionevole convincimento di tutelare un proprio diritto e di esservi legittimato sulla base dei contratti stipulati con le anzidette società o in forza dell'art. 2900 cod. civ.

Sotto tale profilo si assume che la condotta posta in essere dal ricorrente, adoperatosi assieme agli altri imputati per il recupero coattivo di una somma di denaro che sapeva essere di spettanza del Co.Pa., avrebbe dovuto essere qualificata ai sensi dell'art. 393 cod. pen., in quanto riferibile ad un credito per provvigioni che costui legittimamente vantava nei confronti del Gu.Gi.

Al riguardo, invero, questa Corte (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027) ha affermato il principio secondo cui, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale; qualora il terzo agente - seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 cod. pen. nella previsione dell'art. 393 stesso codice - inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 cod. pen.

Di tale quadro di principi ha fatto buon governo la sentenza impugnata, che ha disatteso con argomentazioni linearmente esposte ed immuni da vizi logico-giuridici le qui reiterate obiezioni difensive, ponendo in rilievo l'infondatezza dell'assunto secondo cui dal rapporto di agenzia tra il Co.Pa. e le aziende fornitrici del Gu.Gi. sarebbe derivata una legittimazione dell'agente a riscuotere i crediti di queste ultime, pur senza averne ricevuto alcun mandato e per il solo fatto che alla riscossione di detti crediti sarebbe stata collegata la sua provvigione.

Al riguardo, infatti, la Corte di appello ha valorizzato, sulla base delle univoche risultanze probatorie offerte dalle dichiarazioni testimoniali, dalle prove documentali e dal contenuto delle intercettazioni, la decisiva circostanza che nel corso dell'intera vicenda il Co.Pa. non si comportò affatto come un negotiorum gestor delle aziende fornitrici del Gu.Gi., poiché i numerosi assegni in bianco tratti sul conto del figlio della persona offesa, estraneo a qualsiasi rapporto con il Co.Pa., erano tutti postdatati e privi dell'indicazione del beneficiario, per un importo complessivo di circa duecentomila euro. Tali assegni, oggetto di una consegna coartata in favore del Co.Pa., vennero in seguito portati all'incasso da persone fisiche o società diverse dalle aziende creditrici da lui rappresentate e addirittura sconosciute allo stesso debitore, che con esse non aveva avuto alcun rapporto né prima né dopo la consegna dei titoli, tanto da non ricevere alcuna quietanza dimostrativa dell'effetto solutorio dei pagamenti effettuati.

Nessun rilievo, inoltre, può attribuirsi all'evocata possibilità di esercizio dell'azione surrogatoria ex art. 2900 cod. civ., quale evenienza eccezionale subordinata alla mancata attivazione del debitore, che nel caso in esame, come già osservato nella sentenza n. 37980 del 11 luglio 2023, pronunciata da questa Corte nei confronti di altri imputati per i medesimi fatti oggetto di contestazione nel capo C), è stata smentita dalle procedure monitorie attivate dalle società creditrici, che non avevano ricevuto i pagamenti riscossi con metodo intimidatorio da o per iniziativa del Co.Pa.

Corretta deve ritenersi, pertanto, la conclusione secondo cui quest'ultimo non poteva agire nei confronti del Gu.Gi., né poteva ragionevolmente ritenere di essere titolare di un diritto azionabile in giudizio.

14.3. Analoghe considerazioni devono svolgersi riguardo al ruolo assunto nella vicenda dal Sa.Vi., risultato a sua volta estraneo a qualunque tipo di rapporto obbligatorio, contrattuale o extracontrattuale, con il preteso debitore.

Al riguardo la sentenza impugnata ha posto in rilievo la decisiva circostanza di fatto che il ricorrente ed altri coimputati (Fr.Ma., Sa.Gi. e Ca.Gi.) hanno ottenuto un rilevante guadagno personale a seguito dell'intervento intimidatorio programmato e posto in essere nei confronti del Gu.Gi., per aver concordato la successiva ripartizione delle somme derivanti dalla negoziazione degli assegni da lui consegnati sotto minaccia. Una circostanza, questa, emersa in particolare dalle richiamate intercettazioni ambientali, ove Sa.Gi. e Ca.Gi., emissari del Co.Pa. presso il Gu.Gi., affermavano di essere certi di conseguire un utile pro capite, correlato al valore della metà del credito complessivamente recuperato (pari alla somma di ottantamila euro), da dividere poi fra tutti coloro, ivi compreso il Sa.Vi., ai quali andava riconosciuto il merito dell'operazione.

Ne discende che il ricorrente non ha agito nell'interesse esclusivo del preteso creditore, ma ha perseguito anche la realizzazione di un interesse proprio, dovendosi escludere, in linea con i principi stabiliti dalla richiamata pronuncia di queste Sezioni Unite, il concorso nel reato di ragion fattasi, configurabile nelle sole ipotesi in cui il terzo concorrente ad adiuvandum del preteso creditore si limiti ad offrire un contributo all'attuazione della sua pretesa, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità.

Nel caso in esame, di contro, è emerso dalla sentenza impugnata che il ricorrente e gli altri imputati hanno agito anche al fine di soddisfare un loro personale ed illecito interesse, con la conseguente corretta sussunzione del fatto nel paradigma normativo dell'art. 629 cod. pen.

14.4. Dalla motivazione della sentenza impugnata, letta congiuntamente alla conforme pronuncia di primo grado, con la quale si salda per formare un unico corpo argomentativo, emerge chiaramente la partecipazione del ricorrente alla condotta estorsiva commessa ai danni di Gu.Gi.

Sotto tale profilo, in particolare, la Corte territoriale ha congruamente valorizzato le dirimenti circostanze di fatto qui di seguito indicate: a) il Co.Pa. dichiarò nel corso del suo esame dibattimentale di essersi rivolto proprio a Sa.Vi. per intervenire nei confronti del Gu.Gi., che a causa della sua esposizione debitoria lo stava mettendo in cattiva luce con le aziende fornitrici; b) per tale ragione il Sa.Vi. lo mise in contatto con Sa.Gi., affiliato al "clan dei Vo." di Portici; c) il ricorrente, trovandosi in autovettura con il Co.Pa. all'uscita da uno svincolo autostradale, interloquì con il Sa.Gi. avvalendosi dell'utenza mobile del Co.Pa. proprio nell'imminenza dell'incontro che costui avrebbe avuto con il Gu.Gi., per ottenerne l'avvio dei pagamenti rateali grazie all'intervento intimidatorio posto in essere dai coimputati Sa.Gi., Ca.Gi. e Fr.Ma.; d) l'inserimento del Sa.Vi. tra i diversi beneficiari della quota di profitto che Sa.Gi. e Ca.Gi. contavano di spartirsi all'esito dell'operazione; e) il fatto che, appena concluso l'incontro con la persona offesa, Sa.Gi. e Ca.Gi. ne commentarono con soddisfazione l'esito e il conseguente effetto intimidatorio, indicando nel Sa.Vi. la persona che si sarebbe occupata della negoziazione degli assegni; f) gli apprezzamenti espressi dai predetti correi per la capacità dell'imputato di gestire simili operazioni; g) il colloquio intervenuto tra Sa.Gi. e Ciro Sa.Vi., fratello dell'imputato, all'indomani dell'accordo sul ed. "regolamento", ove essi, dopo aver fatto riferimento al buon esito dell'incontro svoltosi il giorno precedente, e prima ancora che Gu.Gi. cominciasse ad onorarlo consegnando gli assegni al Co.Pa., commentavano il fatto che della vicenda si sarebbe occupato il ricorrente.

La sentenza impugnata, pertanto, ha chiarito il ruolo assunto dal ricorrente e il suo apporto operativo alla realizzazione in forma concorsuale del reato di estorsione pluriaggravata in esame, rimarcando il fatto che egli, tra l'altro, si adoperò per facilitare la girata e l'incasso degli assegni - firmati in bianco e consegnati sotto minaccia dalla persona offesa al Co.Pa. - in favore di parenti o di persone compiacenti.

La Corte distrettuale ha ricostruito i contorni di un quadro probatorio univoco, dando ampiamente conto non solo della consapevolezza, da parte del ricorrente, dell'ingiustizia della pretesa del Co.Pa. e della conoscenza delle qualità soggettive e del contesto di provenienza dei correi, ma anche della rilevante incidenza del suo contributo concorsuale, tanto da esserne retribuito con la concordata ripartizione di una quota pro capite dell'illecito compenso ottenuto per effetto della comune azione estorsiva.

Le censure al riguardo mosse nei ricorsi omettono di confrontarsi criticamente con la specifica valenza delle su esposte risultanze probatorie e si fondano su una lettura parcellizzata di singoli elementi, che sono stati, di contro, logicamente vagliati dai Giudici di merito, pervenuti ad una condivisa affermazione della responsabilità all'esito di un complessivo e coerente apprezzamento del materiale probatorio, in ossequio ai principi stabiliti da questa Corte, secondo cui le diverse emergenze vanno valutate in una prospettiva globale ed unitaria, al fine di porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (ex plurimis Sez. 2, n. 42482 del 19/09/2013, Kuzmanovic, Rv. 256967).

14.5. Coerentemente esclusi, dunque, devono ritenersi i presupposti giustificativi della ipotesi di concorso anomalo ex art. 116 cod. pen., peraltro solo genericamente evocata dal ricorrente, la cui espressa adesione all'impresa criminosa e alle sue modalità realizzative da parte degli esecutori materiali, che egli stesso contribuì a individuare mettendo in contatto Sa.Gi. e il Co.Pa. in vista dell'intervento intimidatorio posto in essere ai danni della persona offesa, è stata correttamente qualificata dalla Corte distrettuale come un'ipotesi di concorso ordinario nella condotta estorsiva a norma dell'art. 110 cod. pen.

14.6. Analoghe considerazioni devono svolgersi riguardo alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416 bis. 1 cod. pen., avendone la Corte distrettuale congruamente illustrato i presupposti e gli indicatori specifici là dove ha posto in evidenza, sulla base delle risultanze probatorie univocamente emergenti dalle richiamate intercettazioni, gli elementi di fatto qui di seguito indicati: a) la condotta intimidatoria è stata materialmente realizzata da una pluralità di persone (Sa.Gi., Ca.Gi. e Fr.Ma.), che risultavano affiliate - alcune in posizione di vertice, come il Sa.Gi., altre con rilevanza mandamentale territoriale, come il Fr.Ma. - ad un sodalizio di stampo camorristico egemone in quella realtà territoriale (il ed. "clan (Omissis)"); b) il Sa.Gi. è stato direttamente contattato proprio dal Sa.Vi. e l'azione estorsiva si è estrinsecata con tempi e modalità tali da richiamare alla persona offesa, attraverso il ricorso ad espressioni dall'inequivocabile valenza intimidatoria, il potere di influenza e la capacità di condizionamento di cui dispongono, in un contesto territoriale ad elevato tasso di criminalità organizzata, i sodalizi di stampo mafioso; c) la scelta di mettere all'incasso i titoli di credito emessi in bianco dalla persona offesa attraverso l'opera del ricorrente e l'interessamento di persone compiacenti a lui riconducibili, con la contropartita di una cospicua remunerazione, è stata ideata dal Sa.Gi. e dallo stesso Co.Pa., cui il ricorrente si accompagnava al momento dell'appuntamento con il Gu.Gi.; d) l'interesse dell'associazione all'operazione estorsiva è stato direttamente evocato dal Ca.Gi. in una delle richiamate intercettazioni, ove egli faceva riferimento, fra l'altro, al rapporto di parentela che legava Sa.Gi. al Co.Pa., spiegando che essi si "scomodavano" proprio in ragione di tale stretto legame familiare; e) la somma estorta alla persona offesa è stata concordemente suddivisa dall'imputato e da persone affiliate al predetto sodalizio, con alcune delle quali (Sa.Gi. e Ca.Gi.) egli aveva stretti rapporti di collaborazione, come dimostrato dalla ricostruzione che la Corte distrettuale ha operato degli altri fatti di reato a lui addebitati nei capi P) e Q).

Nessun elemento può ricavarsi dal contenuto della motivazione della sentenza impugnata, né da quella di primo grado, a sostegno della ipotizzata delimitazione del raggio applicativo della predetta aggravante alla sola dimensione della condotta agevolativa, con l'asserita implicita esclusione di quella incentrata sul metodo mafioso: contraddicono l'assunto difensivo il pieno coinvolgimento del ricorrente nell'intero arco dell'operazione e il contenuto delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, là dove ha fatto chiaramente riferimento alla coartata accettazione di una soluzione negoziale che risultava, per la sua rilevante esposizione debitoria, non solo priva di certezze negli esiti, ma particolarmente negativa sul piano economico, proprio perché costituiva il risultato di un'azione intimidatoria degli emissari del Co.Pa.

Nessuno dei vizi dedotti, pertanto, è rinvenibile nella sentenza impugnata, ove si consideri che le note modali e la specifica valenza intimidatoria della condotta, posta in essere da esponenti di un sodalizio camorristico dominante nella realtà territoriale, erano tali da esercitare una particolare coartazione psicologica, richiamando alla mente e alla sensibilità della persona offesa il comportamento comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio mafioso.

14.7. Inammissibile deve ritenersi il motivo di ricorso inerente al difetto di costituzione di parte civile del Gu.Gi. nei confronti del ricorrente, avendo la Corte distrettuale correttamente applicato una pacifica linea interpretativa di questa Corte (Sez. 2, n. 3990 del 17/02/1993, Brugoni, Rv. 193920), secondo cui non è possibile sollevare per la prima volta con il ricorso per cassazione la questione della mancanza di una rituale costituzione della parte civile qualora sia mancata originariamente ogni opposizione alla costituzione stessa, verificatasi tempestivamente e mantenuta nel corso del giudizio di primo e di secondo grado, essendosi ormai consolidato il rapporto civilistico tra le parti.

Di tale principio la sentenza impugnata ha fatto buon governo, là dove ha posto in rilievo che né dai motivi di appello, né da alcun verbale dei processi di primo o di secondo grado risultava che la difesa avesse espressamente e specificamente sollevato eccezioni in ordine alla ritualità della costituzione di parte civile nei confronti del ricorrente.

Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi la aspecificità del motivo, formulato attraverso il generico riferimento ad un atto di costituzione di parte civile che il ricorrente, in forza del principio di autosufficienza, avrebbe dovuto puntualmente allegare e contestare in parte qua, nella prospettiva della specifica individuazione del petitum oggetto del sindacato di legittimità affidato a questa Suprema Corte.

14.8. Infondate devono ritenersi le censure mosse in relazione alle ragioni addotte a sostegno della responsabilità penale del Sa.Vi. per il reato di usura commesso in concorso con altri imputati ai danni dell'imprenditore Ma.Pi. (capo P).

Sotto tale profilo si assume in particolare: a) che la partecipazione del Sa.Vi. ai fatti oggetto dell'imputazione si sarebbe limitata a soddisfare, quale terzo estraneo all'illecito rapporto negoziale, un esclusivo interesse della persona offesa, suo amico di lungo corso, al fine di alleggerirne l'esposizione debitoria in relazione alle pretese dell'effettivo titolare del credito usurario, Di.Pi.; b) che solo a seguito delle insistenze del Ma.Pi. il Sa.Vi. sarebbe intervenuto ad una riunione con Sa.Gi. e Di.Pi., al cui esito le parti interessate individuarono concordemente nuove modalità di pagamento del dovuto.

La versione dei fatti prospettata dal ricorrente non si confronta con l'ampia e dettagliata ricostruzione che la sentenza impugnata ne ha offerto sulla base del materiale probatorio costituito dalle convergenti risultanze delle intercettazioni ambientali e delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nel suo esame dibattimentale.

Muovendo da tali emergenze probatorie la sentenza impugnata, diversamente da quanto affermato nei ricorsi, ha ampiamente illustrato il pieno coinvolgimento dell'imputato nella realizzazione in forma concorsuale della contestata condotta delittuosa, ponendo in rilievo le circostanze di fatto qui di seguito sinteticamente indicate: a) il Ma.Pi., trovatosi in difficoltà nel rientro dalla esposizione debitoria maturata nel rapporto usurano con il Di.Pi., che gli aveva erogato in prestito una rilevante somma di denaro consegnatagli alla presenza dei coimputati Av. e To., incaricati della riscossione dei ratei mensili, si rivolse al Sa.Vi., che a sua volta gli presentò Sa.Gi.; b) costui si preoccupò di curare l'organizzazione di un incontro nell'abitazione del Di.Pi., cui presero parte anche Ma.Pi., Sa.Vi. e la moglie del Di.Pi.; c) nel corso di tale incontro emerse la circostanza che l'Av. ed il To. avevano, di loro iniziativa, incrementato la rata mensile del debito in modo da ricavarne un guadagno personale ed avevano formulato, senza concordarla con il Di.Pi., una richiesta di rientro immediato dal capitale prestato, minacciando il Ma.Pi. da cui avevano ricevuto in garanzia la proprietà di un immobile ad uso commerciale e diversi assegni in bianco, poi intestati alla moglie del Di.Pi.; d) all'esito della riunione l'accordo con il debitore fu rinegoziato e il duo Av. -To. venne estromesso dalla gestione dei rapporti con il Ma.Pi.

La Corte distrettuale, inoltre, ha preso in esame e puntualmente disatteso le obiezioni difensive legate all'asserito intervento amicale del ricorrente, evidenziando come la rinnovazione dell'accordo tra Ma.Pi. e Di.Pi. - obiettivamente collegata ad un rapporto usurario ancora in corso di esecuzione - sia stata propiziata proprio dal Sa.Vi., con la decisiva collaborazione del Sa.Gi., intervenuto nella vicenda su sollecitazione del primo.

In forza di tale accordo, infatti, l'obbligo del Ma.Pi. di restituire il capitale ricevuto in prestito dal Di.Pi. venne pienamente confermato, dopo che il primo gli aveva già corrisposto, a titolo di soli interessi, una rilevante somma di denaro pari all'importo di centoventimila Euro (in ratei corrispondenti ad un tasso del 7% mensile), unitamente ad una quota parte del capitale.

Dalla sentenza impugnata risulta, in particolare, che il nuovo accordo, pur migliorativo rispetto alle precedenti condizioni, consentì al Di.Pi. di ottenere, a fronte di un iniziale prestito di denaro pari alla somma di centoquarantasettemila euro, la restituzione di un credito di natura oggettivamente usuraria per l'importo di duecentoventicinquemila euro.

Coerente con le risultanze offerte dal su indicato compendio probatorio deve pertanto ritenersi la conclusione cui la Corte d'Appello è pervenuta nel rimarcare, con argomentazioni congruamente illustrate, la dirimente circostanza di fatto che la nuova pattuizione atteneva comunque al prestito usurario in precedenza stipulato e che l'obbligo di restituzione con la riscossione dei ratei del capitale, curata direttamente dal Sa.Vi., sia pure su richiesta proveniente dallo stesso Ma.Pi. (che voleva evitare ogni rapporto con Av. e To.), si inseriva pienamente nella cornice dell'originario accordo illecito, consolidandone gli effetti in danno della persona offesa.

Analoghe considerazioni devono svolgersi in relazione alla prospettata rilevanza del suggerimento alla persona offesa di rivolgersi alle forze dell'ordine, solo inizialmente offerto dal Sa.Vi., avendone la Corte d'Appello motivatamente escluso qualsiasi incidenza causale nel contesto delle decisive condotte concorsuali di intermediazione rispetto al Sa.Gi. e al Di.Pi. e di materiale riscossione delle rate mensili di pagamento del debito usurario.

In definitiva, l'intervento del Sa.Gi., che proprio il ricorrente ebbe a sollecitare, si rivelò decisivo ai fini del raggiungimento e della esecuzione del nuovo accordo usurario, con la conseguente irrilevanza, ai fini della integrazione della contestata fattispecie di reato, dell'argomento relativo al prospettato rapporto di amicizia tra la persona offesa ed il ricorrente, posto che l'elemento soggettivo richiesto dall'art. 644 cod. pen. non consiste in un dolo specifico di profitto, ma nel dolo generico, ovvero nella coscienza e volontà di raggiungere l'accordo con cui si rinegoziava un debito di natura usuraria, alla cui rinnovata esecuzione il ricorrente, pienamente consapevole dello stato di bisogno della persona offesa, offrì un consapevole contributo.

14.9. Fondata, di contro, deve ritenersi la censura mossa in ordine alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis. 1 cod. pen.

La Corte di appello, in linea con la decisione di primo grado, ha fondato il riconoscimento dell'aggravante contestata nel capo P) sulla base della oggettiva rilevanza dell'intervento del Sa.Gi. nella rinegoziazione dell'accordo usurario, avuto riguardo alla posizione di vertice da lui ricoperta nel predetto sodalizio di stampo camorristico.

Nessun riferimento, di contro, è stato operato dalla sentenza impugnata all'eventuale intraneità associativa del Di.Pi., quale dominus del rapporto usurario cui venne garantita la restituzione del capitale grazie all'intervento del Sa.Gi., appositamente sollecitato a tal fine dal Sa.Vi.

Il coinvolgimento del Sa.Gi., per quanto evidenziato nella stessa motivazione della sentenza impugnata, si rivelò determinante per ottenere dal Di.Pi., che ne era a sua volta amico, la rinuncia al pagamento di ulteriori interessi e la restituzione delle garanzie in favore del debitore usurato, con la conseguente impossibilità di ravvisare nella fattispecie i tratti identificativi di una condotta incentrata sull'utilizzo del metodo mafioso nei riguardi della vittima.

Sul piano finalistico, inoltre, la Corte di appello ha affermato che l'intervento del Sa.Gi. aveva l'obiettivo di "fidelizzare" il Ma.Pi., imprenditore edile nel settore delle commesse pubbliche, al fine di utilizzarne la posizione e le conoscenze per la realizzazione di successive azioni estorsive nei confronti delle imprese impegnate nei lavori di ampliamento di una strada statale.

A riprova di tale proposito la decisione impugnata ha fatto riferimento ad un colloquio successivamente intervenuto tra Sa.Gi. e Ciro Sa.Vi., fratello del ricorrente, ove il primo, senza far cenno all'intervento posto in essere in favore del Ma.Pi., indicava nella persona di tale "Omissis" l'imprenditore che avrebbe scelto le ditte dalle quali il Sa.Gi. intendeva ottenere una tangente pari al 3,5% del valore dei lavori, quale somma destinata a soddisfare un suo personale profitto.

Al riguardo, tuttavia, deve rilevarsi che nessun elemento di prova è emerso in merito all'avvenuta esplicitazione di tale proposito nei confronti del ricorrente, né a sostegno del fatto che costui abbia effettivamente condiviso l'intento perseguito dal Sa.Gi.

Deve pertanto escludersi nella vicenda in esame la sussistenza dei presupposti giustificativi della configurabilità della predetta aggravante nei confronti del Sa.Vi., avuto riguardo al principio stabilito da questa Corte (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, Chioccini, Rv. 278734), secondo cui "La circostanza aggravante dell'aver agito al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva, inerendo ai motivi a delinquere, e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe".

Esclusa l'aggravante speciale di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen., il reato di usura contestato nel capo P) deve ritenersi estinto per l'intervenuto decorso del termine prescrizionale ordinario di anni sette e mesi sei, spirato in data 13 giugno 2017 (avuto riguardo al momento consumativo indicato nel mese di luglio 2009 ed ai periodi di sospensione maturati nel corso dei giudizi di merito per complessivi 133 giorni), con il conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato sopra indicato.

14.10. Infondate devono ritenersi le censure dedotte in relazione alle ragioni argomentative esposte dalla Corte distrettuale a sostegno della responsabilità concorsuale del ricorrente nella realizzazione dei reati contestati nel capo Q) e della configurabilità della correlata circostanza aggravante speciale di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen.

Devono integralmente richiamarsi, al riguardo, le considerazioni già espresse in relazione all'esame dei ricorsi dei coimputati Ci.Pa. e De.Gi. (v., supra, i parr. 12 e 13), avendo la sentenza impugnata congruamente esaminato e disatteso le medesime doglianze qui reiterate dal ricorrente, sulla base di una complessiva ricostruzione della sequenza temporale dei fatti emersi dai risultati delle intercettazioni, e in particolare di quelle effettuate il 18 maggio 2009, ossia il giorno antecedente quello dell'udienza fissata per l'aggiudicazione dei beni a seguito della presentazione dell'offerta in aumento del sesto da parte della figlia di De.Gi.

La decisiva rilevanza del contributo morale e materiale offerto dal ricorrente nella realizzazione a titolo concorsuale dei fatti di reato contestati sub Q) è stata logicamente argomentata dalla Corte d'Appello ponendo in evidenza: a) la circostanza relativa all'appuntamento che il ricorrente concordò per telefono con il Ca.Gi. il giorno precedente quello fissato per l'udienza sopra indicata; b) il contenuto del colloquio e l'informazione di "missione compiuta" che il Ca.Gi., in presenza del Sa.Vi., comunicò al Sa.Gi. riguardo alla messa a disposizione dei beni oggetto della procedura di aggiudicazione e alla possibilità di impossessarsene; c) la diretta interlocuzione del Sa.Vi. che, nel corso della richiamata conversazione telefonica, esplicitamente rassicurò il Sa.Gi., spiegandogli che il suo "amico" poteva stare "senza pensieri"; d) l'esplicita assicurazione dell'esito positivo del programmato intervento dissuasivo dalla partecipazione alla gara, che il Sa.Gi. rivolse al Ci.Pa. nel corso di una conversazione svoltasi nella stessa giornata, dopo aver parlato proprio con Ca.Gi. e Sa.Vi. riguardo al fatto che i due aggiudicatari provvisori il giorno dopo non sarebbero comparsi in udienza neanche attraverso il loro rappresentante.

Un quadro probatorio, quello ora indicato, che la sentenza impugnata ha correttamente inserito nel contesto delle ulteriori emergenze dibattimentali e globalmente vagliato alla luce della accertata risalenza temporale della richiesta di intervento avanzata da De.Gi. al Ci.Pa., che si rivolse al Sa.Gi. già prima della presentazione dell'offerta in aumento del sesto, sulla base di un accordo per il pagamento della somma di ventimila Euro individuata quale prezzo per la finalizzazione del suo intervento.

Ininfluente, rispetto all'univocità delle emergenze probatorie in merito al pieno e consapevole contributo agevolativo offerto dal ricorrente alla deliberazione e programmazione concorsuale dell'azione intimidatoria, né sorretta dalla dimostrazione della necessaria decisività al fine di incrinare la complessiva coerenza logica dell'assetto argomentativo della decisione impugnata, deve ritenersi, inoltre, l'obiezione mossa riguardo al fatto che egli non avrebbe preso parte al successivo segmento dell'attività di coartazione in danno degli aggiudicatari provvisori, materialmente posta in essere dal solo Ca.Gi. al fine di trattenerli fisicamente in altro luogo ed impedirne in tal modo la partecipazione alla gara.

Sotto tale profilo deve rilevarsi, da un lato, che la sentenza impugnata ha dato ampiamente conto del consapevole contributo agevolativo offerto dal ricorrente alla realizzazione del fatto criminoso, dall'altro lato che il su indicato rilievo difensivo omette di soffermarsi criticamente sulla decisiva circostanza relativa all'esplicita assicurazione che il Sa.Gi. diede al Ci.Pa. in merito all'esito positivo del programmato intervento intimidatorio nel corso di una interlocuzione svoltasi dopo aver parlato della questione proprio con Ca.Gi. e Sa.Vi.

14.11. Analoghe considerazioni devono svolgersi in merito alla configurabilità dell'aggravante prevista dall'art. 416-bis 1 cit., avendo la Corte distrettuale correttamente valorizzato sotto tale profilo non solo la circostanza relativa alla posizione di rilievo riconosciuta ad alcuni dei coimputati (Sa.Gi. e Ca.Gi.) nell'ambito di un sodalizio di stampo camorristico egemone sul territorio, ma anche le note modali della grave condotta intimidatoria posta in essere ai danni degli aggiudicatari provvisori, cui fece seguito un reticente atteggiamento da costoro assunto nel corso dell'istruzione dibattimentale: circostanze, queste, puntualmente vagliate alla luce della complessiva ricostruzione dei fatti contestati nel capo Q) e logicamente ritenute evocative di un metodo mafioso, basato sull'impiego della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e idoneo ad ingenerare nelle vittime il timore di conseguenze pregiudizievoli tipiche degli ambienti criminali in cui l'intera vicenda si è consumata.

Correttamente applicata deve ritenersi la su indicata aggravante ove si consideri, inoltre, che una volta accertato l'utilizzo del metodo mafioso, essa, avendo natura oggettiva, si applica a tutti i concorrenti nel reato, ancorché le azioni di intimidazione e minaccia siano state materialmente commesse solo da alcuni di essi (Sez. 2, n. 32564 del 12/04/2023, Bisogni, Rv. 285018).

14.12. Le attenuanti generiche sono state negate in ragione della particolare gravità dei fatti, del concreto allarme sociale suscitato e dell'assenza di elementi positivamente valutabili, sulla base di un apprezzamento discrezionale coerentemente motivato dai Giudici di merito e come tale immune da censure in questa sede rilevabili.

Giova ricordare che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, al fine di ritenere o escludere la configurabilità di circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio: anche un solo elemento, attinente alla personalità del colpevole, all'entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso, può, risultare sufficiente al fine qui considerato (v., ex multis, Sez. 2, n. 23903, del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549).

La dosimetria della pena è stata motivatamente ritenuta congrua e commisurata alla gravità dei fatti, sulla base di argomentazioni immuni da vizi deducibili in questa sede, avendo la Corte d'Appello esercitato il suo potere discrezionale secondo i criteri direttivi stabiliti dall'art. 133 cod. pen.

14.13. A fronte di un motivo di appello di identico tenore, la Corte distrettuale ha richiamato le dettagliate argomentazioni poste dal primo Giudice a sostegno delle statuizioni decisorie in tema di confisca e ha fornito al riguardo una motivazione pienamente in linea con i principi stabiliti da questa Corte, dapprima richiamando la corretta distribuzione degli oneri probatori gravanti in materia, nei loro rapporti con la presunzione di illegittima provenienza delle risorse patrimoniali accumulate da un soggetto condannato per i reati di cui all'art. 12-sexies legge cit., quindi escludendo la rilevanza della richiesta di rinnovazione istruttoria, peraltro solo genericamente formulata.

Al riguardo sono stati inoltre esaminati, con argomentazioni puntuali e linearmente illustrate, i profili di evidente sproporzione patrimoniale tra gli ingenti acquisti di beni operati dal Sa.Vi. e dai suoi familiari dal 2006 in poi e le fonti ufficiali e lecite di produzione della ricchezza del nucleo familiare, correttamente escludendo l'ammissibilità delle censure anche con riferimento alla confisca disposta nei confronti dei beni della moglie del ricorrente.

Le su richiamate ragioni di doglianza (v., in narrativa, i parr. 6.7 e 7.10) hanno omesso di sviluppare un adeguato confronto critico rispetto all'ampia ed articolata motivazione fornita per ciascuno dei beni oggetto della misura ablativa, limitandosi ad una aspecifica allegazione delle rispettive fonti di provvista finanziaria, sulla base di una prospettazione orientata a sollecitare una non consentita rivalutazione in punto di fatto delle argomentazioni esposte dalla sentenza impugnata in ordine alla rilevata inconsistenza della base reddituale del ricorrente e del proprio nucleo familiare.

15. Venendo ora all'esame delle questioni di diritto rimesse alle Sezioni Unite in relazione ai reati di estorsione e turbativa d'asta contestati ai ricorrenti De.Gi., Ci.Pa. e Sa.Vi. nel capo Q), deve in primo luogo rilevarsi che la posizione degli aggiudicatari provvisori non è assimilabile a quella di un mero interessato alla gara, ma integra una situazione soggettiva giuridicamente tutelata dall'ordinamento, i cui effetti si propagano fino all'apertura della gara, con la possibilità di un loro consolidamento nel provvedimento di aggiudicazione definitiva ex art. 584, ultimo comma, cod. proc. civ.

Tale disposizione, infatti, ha disciplinato ex novo l'ipotesi della diserzione dalla gara a seguito della riforma operata dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263, stabilendo che se nessuno degli offerenti in aumento partecipa alla gara, indetta dal giudice dopo aver verificato la regolarità delle offerte, l'aggiudicazione diventa definitiva.

Legittimati a partecipare alla gara sono, in particolare, l'aggiudicatario provvisorio, l'offerente che ha depositato l'offerta in aumento di un quinto (nella previgente normativa di un sesto) nel termine di dieci giorni successivi all'aggiudicazione provvisoria e gli offerenti al precedente incanto che abbiano integrato la cauzione entro il termine fissato dal giudice.

Solo l'apertura della gara, non il provvedimento che la dispone, è in grado di dare significato all'offerta di acquisto mediante aumento del prezzo raggiunto nella precedente aggiudicazione, così determinando la caducazione dell'aggiudicazione provvisoria (Sez. 3 civ., n. 19335 del 12/09/2014, non mass.).

Nella giurisprudenza civile di legittimità è ormai consolidato l'orientamento secondo cui l'offerta di acquisto con aumento effettuata dopo l'incanto non determina da sola la caducazione dell'aggiudicazione provvisoria di cui all'art. 581, terzo comma, cod. proc. civ., poiché è solo con l'apertura della gara disposta dal giudice dell'esecuzione che assume giuridico significato l'offerta stessa, in modo che eventuali interessati possano rilanciare su di essa, nella prospettiva del miglioramento del prezzo precedente ed in sintonia con la finalità dell'espropriazione forzata, preordinata a ricavare dalla vendita il massimo risultato possibile, sia per il debitore, che si libera della maggiore consistenza del debito, sia nell'interesse dei creditori, che sono più largamente soddisfatti (Sez. 3 civ., n. 19335 del 12/09/2014; Sez. 3 civ., n. 790 del 15/01/2013, Rv. 624705; Sez. 3 civ., n. 10693 del 07/07/2003, Rv. 564872).

È necessario, dunque, l'effettivo svolgimento della gara in aumento perché l'aggiudicazione provvisoria venga meno definitivamente.

La formulazione di offerte in aumento successivamente all'incanto rappresenta non già il proseguimento di questo, ma una nuova fase del procedimento di vendita, con la necessaria effettuazione di una nuova verifica della legittimazione a partecipare alla gara.

Ne consegue, secondo quanto affermato da questa Corte, che della legittimazione a partecipare alla gara in aumento non può ritenersi privato l'aggiudicatario provvisorio che, dopo aver provveduto a corrispondere tempestivamente il prezzo di aggiudicazione, abbia successivamente ritirato le somme versate, ossia la cauzione, le spese e il prezzo di aggiudicazione (Sez. 1 civ., n. 8181 del 28/07/1999, Rv. 529052).

Nulla, infatti, impone di ritenere che il prezzo versato dall'aggiudicatario provvisorio debba restare depositato, assieme alla cauzione, sino all'esito della nuova fase aperta dell'offerta in aumento, così come nessuna norma o principio giuridico autorizza a ritenere che il ritiro del prezzo e della cauzione privi l'aggiudicatario provvisorio della legittimazione a partecipare al nuovo incanto disposto ex art. 584 cit. (Sez. 1 civ., n. 8181 del 28/07/1999, cit.).

Alla luce di tali considerazioni, le ragioni di doglianza incentrate sul fatto che il 23 febbraio 2009 il difensore degli aggiudicatari provvisori chiese al Giudice delegato la restituzione degli assegni depositati all'udienza del 27 gennaio 2009 devono ritenersi irrilevanti, non potendo da tale circostanza ricavarsi alcuna preclusione o decadenza dall'aggiudicazione provvisoria, che, peraltro, non potrebbe essere desunta o dichiarata se non in forza di una norma di legge che espressamente la prevedesse (Sez. 1 civ., n. 8181 del 28/07/1999, cit.).

Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi che nel richiamato atto difensivo si formulava espressamente la riserva di partecipare al successivo incanto, con la precisazione che l'istanza di restituzione dei titoli non poteva essere interpretata nemmeno per facta concludenza come rinuncia a partecipare all'asta successiva.

Ne discende che la violenta estromissione degli aggiudicatari provvisori dalla partecipazione ad una gara in corso di svolgimento, cui erano pienamente legittimati e direttamente interessati non avendovi affatto rinunciato, ha determinato un danno patrimoniale causando la perdita di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile qualora la procedura esecutiva si fosse regolarmente conclusa con la presenza delle persone offese, consentendo loro di prendervi parte e di esercitare il diritto a rilanciare sull'offerta in aumento già presentata dall'altra concorrente.

Il coattivo allontanamento dalla partecipazione alla gara ha determinato non solo una palese violazione della regolarità delle forme e delle modalità di espletamento della procedura di aggiudicazione, ma ha consentito ai ricorrenti di beneficiare al contempo dell'ingiusto profitto legato all'aggiudicazione definitiva dei beni in favore dell'unica offerente in aumento, direttamente avvantaggiata dall'esito della gara per effetto della illecita negazione della possibilità riconosciuta alle persone offese di ottenere il consolidamento in via definitiva del provvedimento di aggiudicazione provvisoria.

Nel caso in esame, dunque, gli effetti della lesione patrimoniale si accompagnano alla dimensione offensiva della libertà di concorrenza e competizione ad un pubblico incanto e ne oltrepassano i limiti, venendo a incidere direttamente sull'assetto economico dei rapporti giuridici facenti capo agli aggiudicatari provvisori, fisicamente trattenuti in altro luogo proprio nel giorno e nelle ore in cui si si svolgeva la gara fissata dal Giudice per l'aggiudicazione definitiva dei beni, con il conseguente concorso formale dei delitti puniti dagli artt. 353 e 629 cod. pen.

16. A diverse conclusioni deve giungersi in ordine ai reati di tentata estorsione (così come derubricato dalla Corte d'Appello) e turbativa d'asta aggravati ex art. 416-bis 1 cod. pen., contestati a An.Ge. nel capo R).

Nei confronti del predetto ricorrente, che non ha proposto uno specifico motivo riguardo alle questioni di diritto concernenti il danno patrimoniale da perdita di chance e la configurabilità del concorso tra i predetti reati, devono ritenersi estesi gli effetti delle impugnazioni al riguardo proposte dagli altri ricorrenti.

Nel caso in esame va tuttavia esclusa, alla luce delle su esposte considerazioni, la configurabilità degli elementi costitutivi del reato di tentata estorsione e riconosciuta, di contro, la sussistenza della sola fattispecie di turbativa d'asta aggravata verificatasi riguardo ai beni oggetto del lotto n. 4 della procedura di gara in cui il ricorrente figurava quale debitore esecutato.

Nell'ambito della medesima procedura d'incanto, infatti, le persone offese presentarono un'offerta di acquisto con riferimento ai beni del lotto n. 3 e non anche per quelli ricadenti nel lotto n. 4, dalla cui possibile partecipazione vennero dissuasi a seguito della condotta intimidatoria posta in essere dal ricorrente, con metodo mafioso, in concorso con il coimputato Sa.Gi.

La posizione delle persone offese, pertanto, è ascrivibile a quella di un soggetto potenzialmente interessato all'acquisto di alcuni dei beni oggetto della procedura di vendita all'incanto, avendovi in effetti partecipato con una domanda i cui effetti erano limitati ad uno solo dei lotti (n. 3), senza che alcuna offerta di acquisto sia stata mai formulata o in concreto predisposta per l'altro (n. 4), con la conseguente assenza di un danno patrimoniale da perdita di chance.

Non può dirsi maturata una specifica e qualificata aspettativa di partecipazione alla gara, né definitivamente perduta, di conseguenza, alcuna seria e concreta possibilità di acquisire al patrimonio un risultato suscettibile di valutazione economica positiva.

Ne discende che il coattivo allontanamento degli offerenti da uno dei lotti della procedura esecutiva immobiliare in corso ha determinato una turbativa nelle sue forme e modalità di svolgimento, con la lesione della libertà di concorrenza delle persone offese e dell'interesse pubblicistico alla corretta e regolare gestione della vendita all'incanto, senza che alcun danno sia stato obiettivamente recato alla integrità della loro sfera patrimoniale.

Deve essere dunque esclusa la configurabilità degli elementi costitutivi del delitto di tentata estorsione di cui al capo R), senza che alcun problema di concorso apparente possa concretamente porsi con la realizzazione della diversa fattispecie di turbata libertà degli incanti ivi contestata.

17. Conclusivamente, alla luce delle su esposte considerazioni, il ricorso di An.Ge. deve ritenersi parzialmente fondato, con l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al delitto di tentata estorsione aggravata di cui al capo R) perché il fatto non sussiste.

Il suddetto ricorso va invece rigettato nel resto, con la conseguente rideterminazione della pena finale nella misura di anni dodici di reclusione, cui può provvedere direttamente questa Corte ai sensi dell'art. 620, comma 1, lett. I), cod. proc. pen., nei termini di seguito precisati, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.

La pena finale, stabilita dal Tribunale nella misura di anni tredici di reclusione per i reati di cui ai capi A) e R), unificati dal vincolo della continuazione, è stata ridotta dalla Corte d'Appello nella complessiva misura di anni dodici e mesi otto di reclusione, confermando la individuazione della pena base in anni undici di reclusione per il più grave reato di cui al capo A), con l'aumento di mesi sei di reclusione per l'aggravante interna di cui all'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., nonché di ulteriori mesi otto e mesi sei di reclusione a titolo di continuazione, rispettivamente, per il reato, così come derubricato, di cui al capo R) - ove erano contestati, come si è visto, entrambi i reati di estorsione e turbativa d'asta - e per quello di cui al capo Q), sebbene da tale ultimo reato l'imputato fosse stato già assolto in primo grado per non avere commesso il fatto, con statuizione confermata dalla Corte distrettuale.

Ne consegue che la sentenza impugnata ha complessivamente stabilito in mesi otto di reclusione la pena a titolo di aumento per la continuazione riguardo ad entrambi i fatti di reato contestati nel capo R), senza individuare specificamente gli aumenti di pena per essi operati.

Nella prima sentenza, di contro, gli aumenti erano stati puntualmente individuati nella misura di un anno di reclusione per il reato di estorsione, poi derubricato dalla Corte d'Appello nella forma tentata, e di mesi sei di reclusione per la correlata turbativa d'asta in danno dei membri della famiglia Ug., senza nulla prevedere, correttamente, per il reato di cui al capo Q), attesa l'intervenuta assoluzione del predetto imputato.

Emerge dunque con evidenza, dalla mera comparazione letterale delle motivazioni rese dalle due sentenze di merito in punto di dosimetria della pena, l'errore materiale nel quale è incorsa la Corte d'Appello nello stabilire a titolo di continuazione un aumento di pena pari a mesi sei di reclusione per il reato di cui al capo Q), che doveva essere, di contro, correttamente imputato al residuo reato di turbativa d'asta sub R), poiché già il primo Giudice aveva previsto al riguardo un identico aumento di pena e nel giudizio di appello era stata poi confermata l'assoluzione per il capo Q), con la conseguente erroneità dell'ulteriore aumento di mesi otto di reclusione, che la Corte invece intendeva riferire, in ragione dell'intervenuta derubricazione, al reato di tentata estorsione unitariamente contestato, assieme alla turbativa d'asta, nel capo R).

Va pertanto eliminata la pena di mesi otto di reclusione per la tentata estorsione di cui al capo R), imputando la pena di mesi sei al residuo reato di turbativa d'asta ivi contestato, con la rideterminazione della pena nella complessiva misura di anni dodici di reclusione così computata: anni undici per il più grave reato associativo sub A), con l'aumento di mesi sei per la predetta aggravante e di ulteriori mesi sei a titolo di continuazione per il reato turbativa d'asta di cui al capo R).

17.1. Il ricorso di Sa.Vi. è parzialmente fondato, con il conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al delitto di usura contestato nel capo P), che va dichiarato estinto in ragione dell'intervenuto decorso del termine prescrizionale.

Il ricorso del Sa.Vi. va rigettato nel resto, con la rideterminazione della pena finale nella misura di anni sette, mesi sei di reclusione ed Euro cinquemila di multa, cui può provvedere direttamente questa Suprema Corte ai sensi dell'art. 620, lett. I), cod. proc. pen., eliminando l'aumento di pena (pari a un anno di reclusione e a mille Euro di multa) apportato dai Giudici di merito per il capo P) a titolo di continuazione rispetto ai residui reati di cui ai capi C) e Q).

17.2. I ricorsi di Ci.Pa. e De.Gi. vanno rigettati, con la conseguente condanna di entrambi al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 617 cod. proc. pen.

17.3. Tutti i ricorrenti vanno infine condannati alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, secondo le correlate statuizioni decisorie in dispositivo indicate.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di An.Ge. limitatamente al delitto di tentata estorsione di cui al capo R), perché il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il ricorso. Ai sensi dell'art. 620, lett. I), cod. proc. pen. ridetermina nei confronti di An.Ge. la pena in dodici anni di reclusione.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Sa.Vi. limitatamente al delitto di cui al capo P), perché, esclusa l'aggravante di cui all'art. 416-bis. 1 cod. pen. contestata in relazione al citato delitto, lo stesso è estinto per prescrizione. Rigetta nel resto il ricorso. Ai sensi dell'art. 620, lett. I), cod. proc. pen. ridetermina nei confronti di Sa.Vi. la pena in sette anni, sei mesi di reclusione e cinquemila Euro di multa.

Rigetta i ricorsi di Ci.Pa. e De.Gi. che condanna ciascuno al pagamento delle spese processuali.

Condanna An.Ge., Sa.Vi., Ci.Pa., De.Gi. alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili costituite, A.L.I.L.A.C.C.O. S.O.S. Impresa, Coordinamento Napoletano Ass. Antiracket, Comune di Ottaviano, che liquida per ciascuna di esse in Euro tremilaseicentottantasei, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma il 28 marzo 2024.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2024.

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