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Giudizio di revisione, il mutamento giurisprudenziale è irrilevante

Corte di Cassazione, sez. I Penale, Sentenza n.36949 del 28/06/2024 (dep. 04/10/2024)

Un mutamento nella giurisprudenza può giustificare la revisione di una sentenza definitiva?

La Prima Sezione Penale della Cassazione, con la sentenza n. 36949 depositata il 4 ottobre 2024, ha chiarito che il mutamento giurisprudenziale non è rilevante ai fini dell'istanza di revisione ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. a) e c), cod. proc. pen.

Nel caso in esame, i giudici di merito e la Corte di cassazione avevano ritenuto utilizzabili, nei confronti dell'imputato, delle intercettazioni che, secondo una nuova interpretazione delle Sezioni Unite, non sarebbero state tali. Il ricorrente sosteneva che l'evoluzione giurisprudenziale avrebbe dovuto avere efficacia retroattiva, invocando i principi di prevedibilità delle decisioni giudiziarie e dell'affidamento, anche alla luce della giurisprudenza sovranazionale.

La questione centrale riguardava se il cambiamento nell'interpretazione delle norme potesse essere considerato come un "fatto nuovo" o un "fatto inconciliabile" con quelli stabiliti nella sentenza di condanna, tali da giustificare la revisione ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. a) e c), cod. proc. pen.

La Corte ha ribadito che l'art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. si riferisce esclusivamente ai fatti storici, e non ai fatti processuali o alle diverse valutazioni giuridiche degli stessi. In particolare, non rientrano nella nozione di "fatto" le interpretazioni giurisprudenziali sopravvenute, poiché queste non costituiscono nuovi elementi fattuali ma semplici evoluzioni interpretative.

Richiamando precedenti pronunce (Sez. 5, n. 19586 del 31/03/2010, Bonina; Sez. 6, n. 15088 del 06/03/2024, Ligasacchi), la Corte ha affermato che la revisione per contrasto di giudicati è ammessa solo quando la sentenza di cui si chiede la revisione abbia accertato fatti storici inconciliabili con quelli ritenuti da un'altra sentenza, e non quando vi sia una diversa interpretazione giuridica degli stessi fatti.

Per quanto riguarda l'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., la Corte ha precisato che le "nuove prove" devono essere elementi probatori che si collocano al di fuori del quadro probatorio già valutato nel giudizio definitivo. Un mutamento giurisprudenziale non può essere considerato una nuova prova, poiché non apporta elementi fattuali nuovi ma una diversa lettura delle norme.

Inoltre, la Corte ha sottolineato che assimilare un cambiamento giurisprudenziale a una modifica normativa sarebbe in contrasto con il principio di intangibilità del giudicato, essenziale per la certezza dei rapporti giuridici.

In conclusione, la Cassazione ha rigettato il ricorso, affermando che il mutamento giurisprudenziale non è rilevante ai fini della revisione della sentenza ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. a) e c), cod. proc. pen.

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Cassazione penale, sez. I, sentenza 28/06/2024 (dep. 04/10/2024) n. 36949

RITENUTO IN FATTO


1. Con ordinanza del 27 marzo 2024, la Corte di appello di Brescia ha dichiarato inammissibile l'istanza di revisione presentata nell'interesse di Ca.Gi. relativamente alla sentenza della Corte di appello di Milano del 14 aprile 2016, irrevocabile l'11 ottobre 2017, con la quale il predetto è stato ritenuto responsabile del delitto di concorso in bancarotta fraudolenta.

La Corte bresciana ha ritenuto non configurabili, nel caso di specie, le ipotesi di cui all'art. 630, comma 1, lett. a) e c), cod. proc. pen.

Ha giudicato irrilevante, ai fini prospettati dal condannato, il mutamento giurisprudenziale determinatosi per effetto della sentenza delle Sezioni Unite n. 521 del 2019 in materia di intercettazioni e, segnatamente, di quelle eseguite in diverso procedimento.

Secondo quanto sostenuto nell'istanza di revisione, infatti, con il nuovo assetto della giurisprudenza espresso dal citato arresto, solo la relazione di connessione di cui all'art. 12 cod. proc. pen. consente di escludere la nozione di "diverso procedimento", rimanendo irrilevante, a tali fini, il mero collegamento probatorio o investigativo che, quindi, non fa venir meno la diversità dei procedimenti.

Nel caso di specie, è accaduto che, aderendo alla nozione più ristretta, i giudici di merito e la Corte di cassazione, hanno ritenuto utilizzabili, nei confronti di Ca.Gi., intercettazioni che non sarebbero state tali, secondo la nuova interpretazione delle Sezioni Unite.

La Corte di appello ha escluso la sussistenza di alcuna ipotesi legittimante la revisione fra quelle indicate dal ricorrente, non vertendosi in tema di inconciliabilità di giudicati di cui all'art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. in quanto tale fattispecie non si configura nel caso di sopravvenienza di sentenze del massimo organo nomofilattico.

La sentenza delle Sezioni Unite è stata ritenuta produttiva, inoltre, di una diversa interpretazione della norma in materia di utilizzabilità delle intercettazioni, non già di un fatto nuovo rilevante a norma dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.

In ordine alla sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la proposizione dell'istanza di revisione nel caso di sopravvenuta inutilizzabilità della prova decisiva a seguito di una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, la Corte di appello ha escluso il contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.

2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione Ca.Gi., per mezzo del proprio difensore Avv. Salvino Mondello, articolando due motivi.

2.1. Con il primo ha eccepito violazione di legge sostanziale e processuale in relazione all'art. 630, comma 1, lett. a) e c), cod. proc. pen. per essere stata dichiarata inammissibile l'istanza di revisione.

Ha lamentato la mancata disamina del tema principale sollevato con la richiesta introduttiva, ossia quello relativo alla idoneità dell'illegittimità della prova decisiva ai fini della condanna, per effetto di una sentenza delle Sezioni Unite successiva a quella della quale viene chiesta la revisione, a concretizzare un presupposto per la proposizione dell'istanza di revisione.

Secondo il ricorrente la questione dovrebbe essere risolta in senso positivo e, in subordine, andrebbe proposto incidente di costituzionalità.

Contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello di Brescia, la sopravvenuta illegittimità o illegalità della prova decisiva determina una frizione con il principio di legalità del reato e della pena che deve persistere anche nella fase successiva alla formazione del giudicato.

Nel caso di specie, la sentenza che giustificherebbe la valutazione di illegalità della prova decisiva è stata pronunciata dalle Sezioni Unite le cui decisioni sono dotate di spiccata vincolatività a norma dell'art. 618 cod. proc. pen.

Tale particolare efficacia della sentenza delle Sezioni Unite in materia di intercettazioni di altro procedimento deriverebbe dal fatto che la violazione del principio affermato integra una violazione del divieto di acquisizione probatoria, comportando una "inammissibile compressione del diritto alla libertà e segretezza della corrispondenza in assenza di provvedimento autorizzativo del giudice, in violazione dell'art. 15 della Costituzione".

Si sarebbe determinata, in sostanza, una sorta di illegittimità sopravvenuta della metodologia di accertamento del fatto reato, con conseguente assimilabilità all'ipotesi in cui la condanna sia stata pronunciata sulla base di una prova erroneamente interpretata in ragione di una prova nuova o una successiva sentenza penale.

La sentenza delle Sezioni Unite ha accertato un fatto (afferente alla nozione di diversità del procedimento) del tutto inconciliabile con la decisione di condanna di Ca.Gi. (art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen.).

E' stato individuato un fatto materiale contrastante con la condanna e ciò renderebbe legittimo il ricorso ai sensi della norma citata, dovendosi assimilare la fattispecie a quella in cui un soggetto viene condannato sulla base di intercettazioni rispetto alle quali si scopre, successivamente, che il decreto

autorizzativo è inficiato da falsità materiale o ideologica.

In tutti questi casi si determinerebbe l'illegalità della prova.

Con riguardo, invece, all'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., il ricorrente ha evidenziato come il novum giurisprudenziale determinerebbe una sostanziale illegittimità sopravvenuta della condanna, siccome riferita alle prove incontestatamente giudicate decisive nel corso del procedimento.

2.2. Con il secondo motivo è stata riproposta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 630 cod. proc. pen. ove interpretato nel senso di escludere, tra i casi di revisione, quello della sopravvenuta illegittimità della prova che ha comportato l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato nel caso in cui l'illegittimità consista nell'acquisizione di intercettazioni prive di autorizzazione.

A tale proposito, il ricorrente ha richiamato il contrasto con l'art. 15, commi primo e secondo, Cost. sulla libertà e segretezza della corrispondenza, con l'art. Ili, comma primo, Cost. in punto di giusto processo e con l'art. 3 Cost. relativamente alla parità di trattamento.

3. Nell'interesse del ricorrente è stata depositata una memoria contenente istanza di rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, oltre all'illustrazione dell'ulteriore profilo di illegittimità costituzionale dell'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. rispetto all'art. 27, comma terzo, Cost.

Il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

Il difensore ha depositato memoria di replica.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2. La questione posta dal ricorrente è quella dell'efficacia del mutamento giurisprudenziale e della sua rilevanza quale fattispecie suscettibile di essere posta a fondamento dell'istanza di revisione ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. a) e c), cod. proc. pen.

Solo subordinatamente e nel caso di risposta negativa a tale quesito, viene posta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 630 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede, fra i casi di revisione, quello della sopravvenuta illegittimità della prova che ha determinato l'affermazione della responsabilità dell'imputato, con riguardo all'ipotesi in cui la stessa consista nell'acquisizione di intercettazioni prive di provvedimento autorizzativo del giudice.

L'assunto sostanziale dal quale prende le mosse il ragionamento del ricorrente è quello della efficacia retroattiva del mutamento giurisprudenziale in chiave di affermazione dei principi di prevedibilità delle decisioni giudiziarie e dell'affidamento come interpretati, secondo quanto prospettato, anche dalla giurisprudenza sovranazionale.

La tesi proposta negli scritti difensivi si snoda attraverso la proposta di una interpretazione estensiva sia della lett. a) dell'art. 630 cod. proc. pen., sia della lett. c) della medesima disposizione in termini tali che possano comprendere, secondo la disciplina attuale, il mutamento della giurisprudenza tra i fatti legittimanti la proposizione dell'istanza di revisione.

2.1. L'art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. stabilisce che "la revisione può essere richiesta se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale".

Il nucleo della prospettazione del ricorrente si rinviene nell'affermazione secondo cui "affermare la illegittimità o illegalità della prova significa (...) statuire un fatto processuale da cui deriva che il fatto storico-materiale, ricostruito esclusivamente o essenzialmente sulla base di quella prova o di quella tipologia di prove, non poteva essere accertato in base ad esse".

Si propone una lettura estensiva nella nozione di "fatti stabiliti a fondamento della sentenza" che, tuttavia, contrasta con la condivisibile interpretazione della giurisprudenza di questa Corte.

Come già evidenziato dalla Corte di appello di Brescia, infatti, quella nozione va riferita ai fatti storici, al netto e con esclusione dei fatti processuali.

Sez. 5, n. 19586 del 31/03/2010, Bonina, Rv. 247513, in motivazione ha precisato che "il principio giurisprudenziale che regola la materia, senza contrasti, come del resto rilevabile anche dalla lettura del ricorso, è quello secondo cui l'art. 630 c.p.p., comma 1, lett. a, che autorizza la richiesta di revisione qualora i fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna non possano conciliarsi con quelli stabiliti in un'altra sentenza irrevocabile, si riferisce agli elementi storici adottati per la ricostruzione del fatto - reato, ritenuto a carico di chi formula la richiesta".

In termini coerenti si rinviene un ulteriore passaggio argomentativo nella più recente Sez. 6, n. 15088 del 06/03/2024, Ligasacchi, n.m., nella quale è stato precisato che "il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all'art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., non deve essere inteso in termini di mero contrasto di principio tra due sentenze, bensì con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui queste ultime si fondano (Sez. 6, n. 20029 del 27/02/2014, Corrado, Rv. 259449; Sez. 6, n. 34927 del 17/04/2018, Delbono, Rv. 273749), con la conseguenza che la revisione per contrasto di giudicati è ammessa quando la sentenza della quale si chiede la revisione abbia accertato "fatti" inconciliabili con quelli ritenuti da altra sentenza, mentre non sono compresi nella categoria degli eventi che giustificano la revisione le diverse valutazioni "in diritto" concernenti gli stessi fatti, posto che in tale caso si rimetterebbe in discussione una decisione coperta dal giudicato. Esulano, quindi, dalla nozione di fatto sia la valutazione in ordine al suo inquadramento giuridico, sia tutte le valutazioni in diritto relative agli elementi di fattispecie".

Oltre, nella medesima decisione, è stato anche evidenziato come un'interpretazione estensiva della nozione di "fatto", per gli effetti dell'art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., determinerebbe "una indebita estensione della stessa natura giuridica dell'istituto della revisione che da rimedio impugnatorio straordinario, si trasformerebbe in un improprio strumento di controllo (e di eventuale rescissione) della "correttezza", formale e sostanziale, di giudizi ormai irrevocabilmente conclusi là dove "il contrasto, che legittima - e giustifica razionalmente - l'istituto della revisione (per come esso è attualmente disciplinato) non attiene alla difforme valutazione di una determinata vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione penale". Esso, come rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 129 del 2008, ha la sua ragione d'essere esclusivamente nella inconciliabile alternativa ricostruttiva che un determinato "accadimento della vita" - essenziale ai fini della determinazione sulla responsabilità di una persona, in riferimento ad una certa regiudicanda - può aver ricevuto all'esito di due giudizi penali irrevocabili e non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni".

Si tratta di argomentazioni persuasive, qui condivise, che non possono ritenersi smentite neppure dal parallelismo proposto dal ricorrente circa l'assimilabilità dell'ipotesi in esame rispetto a quella che si verificherebbe nel caso di affermazione della penale responsabilità sulla base di intercettazioni il cui decreto autorizzativo fosse inficiato da falsità materiale o ideologica e ciò per il semplice fatto che la sentenza delle Sezioni Unite qui in rilievo propone una interpretazione della nozione di "diverso procedimento" e si colloca in termini totalmente estranei al concetto di "fatto storico".

Sostanzialmente in termini, sul punto, si pone il principio di diritto per cui "non sussiste l'inconciliabilità tra giudicati che legittima (art. 630, comma primo, lett. a), cod. proc. pen.) la richiesta di revisione qualora l'assoluzione dei coimputati sia pronunciata, oltre che in virtù di ragioni procedurali (nella specie limitata efficacia probatoria delle dichiarazioni accusatorie del coimputato in assenza di riscontri), in base a un mutamento giurisprudenziale, dovuto all'intervento delle Sezioni Unite. (La Corte ha osservato che la previsione di cui all'art. 630, comma primo, lett. a), cod. proc. pen., non prevede la possibilità di rivalutare lo stesso fatto, sotto il profilo giuridico della sua punibilità, per via della difforme interpretazione della norma penale operata in altra sentenza a carico dei correi)" (Sez. 5, n. 19586 del 2010, Bonina, cit. richiamato, fra le altre, da Sez. 4, n. 89 del 30/11/2020, dep. 2021, Pellini, n.m.).

Per completezza, si segnala, inoltre quanto deciso da questa Corte nella materia delle misure di prevenzione.

S'intende fare riferimento a Sez. 1, n. 35756 del 30/05/2019, Arona, Rv. 278481 che ha enunciato il principio secondo cui "in tema di confisca di prevenzione, il diverso indirizzo giurisprudenziale consolidatosi successivamente al provvedimento definitivo, anche se sancito dalle Sezioni Unite, non costituisce "fatto nuovo" rilevante ai fini della revoca "ex tunc" della misura, ai sensi dell'art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, non traducendosi nella modifica delle disposizioni di legge che regolano la specifica materia".

Con tale sentenza è stato ritenuto che non è consentita la revoca della confisca definitiva in ragione dell'evoluzione giurisprudenziale relativa alla correlazione temporale tra pericolosità e acquisizione dei beni (Sez. U. Spinelli).

Si tratta di decisione conforme a Sez. 1, n. 10579 del 29/01/2020, Failla, n.m. nella quale la questione dell'applicazione del sopravvenuto orientamento giurisprudenziale in funzione della revoca della confisca ai sensi dell'art. 7 legge 27 dicembre 1956, n. 1423 è stata decisa con l'argomentazione secondo cui "un orientamento giurisprudenziale, anche se sancito dalle Sezioni Unite, non equivale a una normativa sopravvenuta".

2.2. Passando alla seconda questione posta con il primo motivo di ricorso, giova ricordare che l'art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. stabilisce che la revisione può anche essere chiesta "se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto".

Anche in questo caso, proponendo una lettura estensiva della disposizione, il ricorrente ha sostenuto (sin dall'istanza originaria) la necessità di optare per un'interpretazione estensiva della nozione di "prova nuova", dovendosi in essa ricomprendere anche le prove preesistenti che non abbiano formato oggetto di valutazione e che tale interpretazione è coerente con la ratio dell'istituto della revisione da rinvenirsi nella "necessità di persistente legittimità della condanna, che non è tale quando sia pronunciata in forza di un materiale probatorio parziale, perché tale al momento della decisione o perché divenuto tale successivamente".

In ricorso si sostiene, sul punto, che la sentenza delle Sezioni Unite "non si risolve nella diretta e immediata declaratoria di illegittimità e di inutilizzabilità delle intercettazioni disposte nel processo che ha comportato la ingiusta condanna del Ca.Gi., ma consente di pervenire a tale conclusione in forza del principio dalle stesse enunciato (sono sempre da considerarsi intercettazioni raccolte in procedimento diverso, e dunque non assistite da preventivo provvedimento autorizzativo del giudice, le intercettazione relative a reati non connessi ex art. 12 c.p.p.) essa costituisce anche il criterio di prova in forza del quale accertare, nel giudizio di revisione, la riconducibilità delle intercettazioni utilizzate probatoriamente nel presente processo a carico del Ca.Gi. alla situazione di illegittimità (o di illegalità) già in via autonoma sanzionata dalla legge processuale vigente (violazione del disposto degli artt. 270, comma 1, e 191 c.p.p.) e vieppiù evidenziata dalle Sezioni Unite".

Ritiene la Corte che tale assunto sia infondato in quanto la sentenza delle Sezioni Unite non si colloca in nessuna prospettiva dimostrativa del fatto oggetto del procedimento (così dovendosi intendere la nozione di prova).

E' nel contrasto tra gli elementi dimostrativi acquisiti nel processo e quelli sopravvenuti o scoperti successivamente che risiede la possibilità di chiedere la revisione ai sensi della lett. c) dell'art. 630, comma 1, cod. proc. pen.

Difetta, peraltro, il requisito della natura nuova o inedita della prova.

Sotto tale profilo può, anche in questa sede, così come nel precedente in termini del quale si dirà a breve, essere segnalato come la difesa del condannato abbia, in sostanza, "sollecitato una rivalutazione del materiale intercettivo acquisito e già esaminato nei precedenti gradi di giudizio".

A tale proposito è stato richiamato il principio per cui "in tema di revisione, il disposto dell'art. 637, comma 3, cod. proc. pen. implica che le nuove prove, valutate di per sé o "unite a quelle già valutate", ben possono portare ad una totale rielaborazione della verità processuale acquisita, a patto però che esse si collochino al di fuori del quadro probatorio già valutato nel giudizio definitivo, giacché, altrimenti, esse, ponendosi all'interno di tale quadro, costituirebbero un mezzo per invalidare il giudizio di attendibilità già formulato sulle prove acquisite e, conseguentemente, si risolverebbero in un espediente diretto a trasgredire il suddetto divieto" (Sez. 1 , n. 945 del 24/02/1992, La Rocca, Rv. 191710).

Appaiono, sul punto, privi di pregio i rilievi contrari contenuti nella memoria illustrativa depositata nell'interesse del ricorrente in quanto inidonei a smentire che ciò che viene sollecitata non è la valutazione di una nuova prova ma la rinnovata valutazione, sulla scorta di una sentenza delle Sezioni Unite, di una prova già presente.

Il requisito della novità pare essere carente anche sotto un diverso profilo, ossia quella della preesistenza alla decisione delle Sezioni Unite Cavallo di un orientamento conforme a quanto in essa deciso.

Dalla motivazione della sentenza citata (par. 11 e seguenti) risulta che la stessa ha enunciato il principio di diritto in conformità (sia pure con qualche precisazione) al primo degli orientamenti oggetto di ampia disamina nella decisione.

Manca il requisito della natura inedita della "prova", sia pure nella, qui non condivisa, nozione prospettata dal ricorrente.

2.3. Quanto deciso da Sez. 1, n. 945 del 1992, La Rocca, cit. è stato evocato dall'arresto con il quale questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi sulla identica questione posta proprio con il ricorso in esame, ossia quella della possibilità di far valere come ipotesi autonoma di revisione la decisione delle Sezioni Unite Cavallo in tema di intercettazioni.

In termini coerenti con quanto esposto anche in questa sede Sez. 6, n. 19429 del 03/05/2022, Schiavone, Rv. 283265 ha affermato che "non può essere fatta valere come ipotesi di revisione la inutilizzabilità sopravvenuta delle intercettazioni poste a fondamento della decisione derivante dal mutamento giurisprudenziale di cui alle Sez. U. "Cavallo" del 2019, successivo all'irrevocabilità della sentenza, trattandosi del risultato di un'evoluzione esegetica, conducente ad una rivalutazione delle prove già assunte, inidoneo a travolgere il giudicato".

Con l'occasione la Corte ha ribadito, richiamandola espressamente, quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 230 del 2012 in punto di inidoneità dei mutamenti giurisprudenziali ad essere assimilati alle fonti del diritto, costituendo il risultato "di una evoluzione esegetica che non può travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti".

La sostanziale irrilevanza dell'overruling giurisprudenziale è stata affermata con riguardo ai provvedimenti passati in giudicato in ragione della ritenuta non assimilabilità dei mutamenti giurisprudenziali alle modifiche normative".

L'adesione a tale precedente esclude la necessità della rimessione della questione sollevata dal ricorrente alle Sezioni Unite, non ravvisandosi sui temi di interesse, allo stato, alcun contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.

3. La questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata.

3.1. La tesi affacciata dal ricorrente è che l'art. 630 cod. proc. pen. dovrebbe essere ritenuto costituzionalmente illegittimo qualora lo si interpretasse nel senso che la sopravvenuta illegittimità della prova fondante l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato non integri un presupposto per la revisione.

Non va trascurato che la fattispecie è quella di una asserita illegittimità della prova per effetto di una interpretazione della norma processuale adottata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

Il tema interseca (anche per come è stata posta la questione dallo stesso ricorrente) quello più ampio del principio di legalità nella materia penale e della coerenza di un sistema che consenta l'intangibilità delle statuizioni giurisdizionali pronunciate secondo un'interpretazione delle disposizioni processuali abbandonata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite.

Sul punto, sono trancianti ed assorbenti di tutti i rilievi sollevati dal ricorrente le considerazioni svolte dalla sentenza della Corte costituzionale n. 230 del 2012 che, a proposito della parallela fattispecie dell'art. 673 cod. proc. pen., ha ampiamente affrontato il tema dell'efficacia del mutamento giurisprudenziale, del rapporto con il principio di legalità in materia penale e della sostanziale inidoneità dello stesso a sovvertire il giudicato penale.

La Corte ha deciso la questione di legittimità relativa all'art. 673 cod. proc. pen., "nella parte in cui non prevede l'ipotesi di revoca della sentenza di condanna (o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti) in caso di mutamento giurisprudenziale - intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato".

La Corte costituzionale, a proposito dell'affermazione secondo cui l'art. 7 CEDU sancisce, implicitamente, il principio di retroattività della legge penale più mite, ha evidenziato come la Corte EDU si sia occupata del principio di irretroattività della legge sfavorevole, ritenendo contraria alla norma convenzionale l'applicazione, a fatti anteriormente commessi, di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa.

Da tale riconoscimento, tuttavia, non può automaticamente ricavarsi l'esigenza convenzionale di rimuovere, in nome del principio di retroattività della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in bonam partem (peraltro, nel caso di specie, in materia processuale), in quanto i due principi hanno diverso fondamento.

Sul punto, è stato precisato che "La Corte di Strasburgo non ha mai sinora riferito, in modo specifico, il principio di retroattività della lex mitior ai mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si sono occupati di questi ultimi - oltre che nella generale prospettiva della verifica dei requisiti di "accessibilità" e "prevedibilità" della legge penale, ritenuti insiti nella previsione dell'art. 7, paragrafo 1, della CEDU - solo con riferimento al diverso principio dell'irretroattività della norma sfavorevole: ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale l'applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova interpretazione non rappresenti un'evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore (su tale premessa, per soluzioni opposte nei casi esaminati, Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenze 10 ottobre 2006, Pessino contro Francia e 22 novembre 1995, S.W. contro Regno Unito; nonché, più di recente, sentenza 10 luglio 2012, Del Rio Prada contro Spagna, nei limiti in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento)".

La Corte costituzionale ha ritenuto, a proposito della nozione di diritto di cui all'art. 7 CEDU, che, proprio sulla base di questa interpretazione convenzionale, si debba rilevare "che il principio di legalità penale convenzionale sia meno comprensivo" di quello accolto dal nostro ordinamento, in quanto ad esso resta estraneo il principio di riserva di legge così come stabilito dall'art. 25, comma secondo, Cost., il quale attribuisce la funzione legislativa unicamente al Parlamento, eletto a suffragio universale dalla collettività nazionale, al fine di garantire un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche.

Sul punto la Corte costituzionale ha precisato che "l'irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell'esigenza di "calcolabilità" delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo "a sorpresa" del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma più favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, cui l'autore sì era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell'epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di eguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore".

Il percorso motivazionale attraverso il quale la Corte costituzionale ha sostanzialmente escluso l'assimilabilità dei mutamenti giurisprudenziali, nel settore penale, alle modifiche normative e, quindi, l'assoggettabilità di tali mutamenti ai principi di retroattività per quelli in melius e di irretroattività per quelli in malam partem (prospettive overruling) si è snodato attraverso altri fondamentali passaggi.

Nella prospettiva della Corte costituzionale, gli orientamenti giurisprudenziali espressi dalle Sezioni Unite sono istituzionalmente diretti ad acquisire il carattere della stabilità, ma si tratta di una connotazione solo tendenziale, trattandosi di una efficacia non cogente ma di "tipo essenzialmente "persuasivo"".

E così, il nuovo orientamento proposto dalla Suprema Corte, sarebbe potenzialmente suscettibile di essere disatteso in qualunque tempo e da qualunque giudice, sia pure con l'onere di adeguata motivazione.

In questa logica, ha concluso la Corte costituzionale, si giustifica "il mancato riconoscimento all'overruling giurisprudenziale favorevole della capacità di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo è ampiamente riconosciuto anche nell'ambito dell'Unione europea".

La Corte costituzionale, con riguardo al principio di retroattività della legge più favorevole al reo, lo ha circoscritto alla successione delle leggi, affermando che la sua estensione ai mutamenti giurisprudenziali dovrebbe passare, necessariamente, dalla dimostrazione che il rapporto tra due diverse interpretazioni giurisprudenziali equivale a quello tra diverse fonti di natura normativa.

Il contrasto della disposizione sottoposta all'esame della Corte con gli artt. 13 e 27, comma terzo, Cost. è stato escluso in ragione della infondatezza della pretesa che "la consecutio tra diversi orientamenti giurisprudenziali equivalga ad una operazione creativa di nuovo diritto (oggettivo), così da giustificare il richiesto intervento dilatativo del perimetro di applicazione dell'istituto delineato dall'art. 673 cod. proc. pen.".

Tale interpretazione, secondo la Corte costituzionale, "comporterebbe la consegna al giudice, organo designato all'esercizio della funzione giurisdizionale, di una funzione legislativa, in radicale contrasto con i profili fondamentali dell'ordinamento costituzionale".

Allo stesso modo deve escludersi, stante l'esigenza prioritaria della stabilità degli accertamenti giurisdizionali, la possibilità che un orientamento giurisprudenziale, sempre suscettibile di essere rivisitato nonostante provenga dalle Sezioni Unite (art. 618, comma 1 -bis, cod. proc. pen.), possa essere posto a fondamento di una istanza di revisione, ossia di una richiesta funzionale a sovvertire un accertamento coperto da giudicato.

Peraltro, la stabilità del giudicato pure a fronte dei mutamenti giurisprudenziali a Sezioni Unite è stata affermata anche da altri arresti di seguito indicati.

S'intende fare riferimento al costante insegnamento di legittimità con riferimento alla richiesta di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen.: la sentenza di condanna passata in giudicato non può essere revocata nell'ipotesi in cui, in assenza di innovazione legislativa ovvero di

declaratoria di incostituzionalità, si verifichi un mutamento dell'interpretazione giurisprudenziale di una disposizione rimasta invariata, in quanto tale mutamento - anche se sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - non determina alcun effetto abrogativo della disposizione interpretata (Sez. U, Sentenza n. 26259 del 29/10/2015, dep. 2016, Mradi, Rv. 266872, in motivazione; Sez. 7, n. 10458 del 25/01/2019, Petullà, Rv. 276294; Sez. 1, n. 11076 del 15/11/2016, dep. 2017, Bibo, Rv. 269759); analogamente, con riferimento alle norme processuali, è stato affermato che non può essere addotta, a fondamento di una richiesta di ineseguibilità del giudicato ai sensi dell'art. 670 cod. proc. pen., la violazione dei principi espressi dalle Sezioni Unite della Corte dì cassazione nella sentenza n. 27620 del 2016, Dasgupta, in tema di necessaria rinnovazione in appello della prova dichiarativa nel caso di riforma di sentenza assolutoria, rappresentando essi l'esito di un percorso interpretativo che, pur traendo spunto dalla giurisprudenza della Corte EDU, ha ad oggetto il sistema processuale interno ed è destinato ad uniformare solo per il futuro l'orientamento giurisprudenziale, in ragione del suo valore nomofilattico, senza possibilità di incidere retroattivamente ab extrinseco nei casi in cui già si sia formato il giudicato (Sez. 1, n. 53389 del 16/01/2018, Topo, Rv. 274554).

Si tratta di orientamento del tutto coerente a quanto, da tempo, deciso delle Sezioni Unite con l'arresto con il quale è stato affermato che "l'obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla sentenza della Corte di Cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa è assoluto ed inderogabile anche se sia intervenuto un mutamento di giurisprudenza dopo la detta sentenza. (Nella specie il mutamento di giurisprudenza atteneva al criterio cui deve aversi riguardo per individuare la violazione da ritenersi più grave ai fini della determinazione della pena per il reato continuato). (Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cenerini, Rv. 196893).

3.2. Infine, si segnala che la questione, per come posta, giustifica anche il richiamo a quanto, ancora una volta, già deciso da questa Corte e, precisamente, da Sez. 6, n. 19429 del 2022, Schiavone, cit., nella quale, in motivazione, proprio a proposito della pretesa di ampliare, sostanzialmente, i presupposti legittimanti la revisione, ha affermato che la tesi secondo cui dovrebbe ipotizzarsi una nuova fattispecie di revisione comporterebbe l'adozione di un "percorso giurisprudenziale analogo a quello che ha condotto alla modifica della disciplina della revisione attraverso l'introduzione, per effetto della sentenza manipolativa a contenuto additivo n. 113 del 2011 della Corte costituzionale, di una nuova ipotesi di revisione, c.d. europea. Si tratta, tuttavia, di una fattispecie processuale nettamente differente da quella oggi in esame, in quanto - come noto - la Consulta attivò quell'eccezionale "meccanismo" di adeguamento del sistema processuale penale italiano in ragione dell'esigenza di garantire, attraverso il 'filtro' dell'art. 117 Cost., una reale effettività all'obbligo dettato dall'art. 46 CEDU che impone agli organi dello Stato membro di conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo laddove la stessa comporti la necessità di una riapertura del processo penale: circostanza, quest'ultima, assente nel caso di specie".

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma il 28 giugno 2024.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2024.

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