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Diffamazione via WhatsApp: quando l'aggravante del mezzo di pubblicità non si applica

Corte di Cassazione, sez. I Penale, Sentenza n.42783 del 11/09/2024 (dep. 21/11/2024)

La diffamazione attraverso applicazioni di messaggistica istantanea come WhatsApp pone importanti quesiti giuridici riguardo all'applicabilità dell'aggravante del "mezzo di pubblicità" prevista dall'art. 595, comma 3, del codice penale.

Sul tema torna la Corte di Cassazione, Sezione I Penale, con la sentenza n. 42783 depositata il 21 novembre 2024.

Il quadro normativo

L'art. 595 c.p. punisce chiunque offenda l'altrui reputazione comunicando con più persone, prevedendo un'aggravante quando il fatto è commesso col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.

La giurisprudenza ha chiarito che l'aggravante del mezzo di pubblicità si applica quando il messaggio diffamatorio è potenzialmente accessibile a un numero indeterminato e significativo di persone, come avviene nei social media aperti al pubblico.

La vicenda

Nel caso in esame, un militare era stato accusato di diffamazione per aver inviato un messaggio ironico in una chat di WhatsApp composta da 156 membri. L'accusa sosteneva che la presenza di un numero elevato di partecipanti configurasse l'utilizzo di un mezzo di pubblicità, rendendo il reato procedibile d'ufficio.

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha respinto questa interpretazione, affermando che, nonostante il messaggio potesse essere diffamatorio, il contesto di una chat WhatsApp non è assimilabile a una diffusione pubblica come quella su un social network aperto. La chat di messaggistica istantanea mantiene una connotazione di riservatezza, poiché i messaggi sono destinati esclusivamente agli iscritti al gruppo, i quali hanno accettato di farne parte.

La Corte ha sottolineato che la semplice presenza di un numero elevato di partecipanti non trasforma automaticamente una chat privata in un mezzo di pubblicità. A differenza delle piattaforme social pubbliche, i contenuti delle chat private non possono essere facilmente condivisi con una platea più ampia e non definita.

Conclusioni

La Cassazione ha escluso l'aggravante del mezzo di pubblicità, annullando senza rinvio la decisione precedente. Ha stabilito che la diffusione di un messaggio all'interno di una chat WhatsApp, seppur composta da molti membri, non equivale alla pubblicità su un social network aperto al pubblico. Pertanto, la natura privata del mezzo di comunicazione utilizzato è determinante nel definire la procedibilità del reato di diffamazione.

In definitiva le caratteristiche tecniche e la natura del mezzo sono gli elementi fondamentali per stabilire la presenza o meno di un'aggravante. È essenziale valutare caso per caso, tenendo conto del contesto e delle modalità con cui il presunto atto diffamatorio è stato compiuto.


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In tema di diffamazione, l'uso di una chat di messaggistica ristretta non integra la circostanza aggravante del "mezzo di pubblicità" ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, quando la comunicazione rimane limitata ad un numero determinato e identificabile di persone, mantenendo una connotazione di riservatezza (nel caso di specie la Corte ha escluso l'applicazione dell'aggravante con riguardo alla diffusione di un messaggio all'interno di una chat WhatsApp, seppur composta da molti membri).

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Cassazione penale, sez. I, 11/09/2024 (dep. 21/11/2024) n. 42783

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 23 marzo 2023 il GUP del Tribunale Militare di Roma ha assolto Sa.Ri. dalla contestazione di diffamazione aggravata compiutamente descritta nella intestazione della medesima sentenza, ritenendo applicabile la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis cod. pen. In estrema sintesi, al Sa.Ri. viene contestato - in fatto - di aver inoltrato un commento nella chat dell'applicativo WhatsApp denominata "181 ESEMPIO" cui erano iscritti 156 utenti (il che secondo l'accusa concretizza la circostanza aggravante di aver commesso il fatto con mezzo di pubblicità, con correlata procedibilità di ufficio).

1.1 Il commento viene ritenuto - dal giudice del merito - lesivo della reputazione di altro militare (Ri.Ro.), atteso che si ironizza circa il possibile accostamento della persona del militare (che aveva ricevuto un encomio solenne) con altra persona (omonima) di cui erano state pubblicatela altro utente; immagini in abiti succinti. Sta di fatto che secondo il GUP il fatto è, pur se conforme al tipo e sostenuto dal dolo, di particolare tenuità sia in ragione della non elevata qualità dell'elemento psicologico che in ragione dei comportamenti immediatamente posteriori tenuti dall'imputato.

2. La Corte Militare di Appello con sentenza del 13 marzo 2024 ha confermato la prima decisione.

In motivazione si ribadisce che il messaggio ha un contenuto oggettivamente diffamatorio e si ritiene che l'invio sulla chat cui era iscritto l'imputato rappresenta una condotta punibile e procedibile di ufficio (essendo sussistente la circostanza aggravante del mezzo di pubblicità, in ragione del numero degli iscritti alla chat).

3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione - nelle forme di legge - Sa.Ri.. Il ricorso è affidato a tre motivi.

3.1 Al primo motivo si deduce vizio di motivazione in riferimento alla identificazione della persona offesa nella Ri.Ro. destinataria dell'encomio.

Secondo la difesa le decisioni di merito errano su tale aspetto, posto che la "battuta" fatta in chat dal Sa.Ri. era - manifestamente - diretta alla (diversa) Ri.Ro. che un altro iscritto aveva "postato" in immagini eroticamente allusive.

3.2 Al secondo motivo si deduce contraddittorietà della motivazione sul medesimo aspetto.

Se davvero l'offesa fosse stata diretta alla "militare" Ri.Ro., non avrebbe avuto una connotazione di lievità, il che contrasta con l'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis cod. pen..

3.3 Al terzo motivo si deduce erronea applicazione di legge.

Si pone l'accento sulla natura "privata" dei messaggi scambiati in una chat chiusa, in chiave di assenza di rilevanza penale dei medesimi per assenza dei requisiti tipici della condotta diffamatoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è parzialmente fondato al terzo motivo, non in ragione del lamentato deficit di tipicità - posto che all'interno di una chat si realizza la comunicazione tra più persone richiesta dalla norma incriminatrice -, quanto sul profilo della circostanza aggravante del "mezzo di pubblicità", aggravante che determina (come si è ricordato in sede di merito) la procedibilità di ufficio. Ne deriva la constatazione, per le ragioni che seguono, della assenza di detta circostanza aggravante e della conseguente improcedibilità per mancanza della richiesta di procedimento.

2. Ed invero, il Collegio intende dare continuità - sotto tale profilo - ai contenuti del recente arresto Sez. I n. 37618 del 19.5.2023, rv. 285248, di cui condivide i contenuti. Nella citata decisione si è affermato, in particolare, che: ( …) la ratio della aggravante va individuata nella "particolare diffusività" del mezzo utilizzato (caratteristica obiettiva della stampa), sicché l'offesa tende, in virtù delle particolari modalità realizzative, a raggiungere un numero cospicuo e indeterminato di persone. Indubbiamente l'evoluzione tecnologica ha consentito di ampliare le forme di comunicazione tramite la rete internet, da ritenersi tendenzialmente uno strumento che rientra nella previsione di legge ove si evocano altri mezzi di pubblicità. Ciò avviene, in particolare, quando un contenuto lesivo viene reso "pubblico" su un qualsiasi sito internet ad accesso libero. La libertà dell'accesso al sito che contiene la comunicazione diffamatoria è esattamente parificabile alla scelta di consultazione di una stampa cartacea, sicché nessuna questione può porsi in tema di rispetto del principio di tassatività. Tuttavia, gli strumenti di comunicazione digitale non sono tutti uguali e non funzionano tutti nel medesimo modo. In particolare una chat dell'applicativo Whatsapp è, per le sue caratteristiche ontologiche, uno strumento di comunicazione di certo "agevolante" ma al contempo "ristretto", nel senso che il messaggio (di testo o immagine che sia) raggiunge esclusivamente i soggetti iscritti (e reciprocamente accettatisi) alla medesima chat.

La giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha ritenuto che la pubblicazione di post lesivi sulla piattaforma social Facebook integri l'aggravante del mezzo di pubblicità. Vanno in tal senso indicate le decisioni Sez. I n. 55142 del 2014 e Sez. V n. 13979 del 25.1.2021, rv 281023, ove si pone l'accento sulla oggettiva potenzialità che, in tal caso, ha il testo lesivo di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone. Tuttavia a parere del Collegio vi è una rilevante diversità - esclusivamente ai fini della integrazione della particolare aggravante - tra l'utilizzo di un social (strumento che si rivolge - per definizione - ad una ampia platea di persone previamente abilitate dal titolare della pagina a consultarne i contenuti, con possibilità di riproporre i testi o le immagini sulla propria bacheca, sì da dare luogo di fatto ad una forma di diffusione incontrollata) e l'utilizzo di una chat di messaggistica ristretta. Ad essere rilevante, invero, non è il numero di iscritti alla chat quanto la "conformazione tecnica" del mezzo, tesa a realizzare uno scambio di comunicazioni che resta - in tutta evidenza - riservato. La diffusione del messaggio a più soggetti - gli iscritti alla chat - avviene, in altre parole, in un contesto informatico che se da un lato consente la rapida divulgazione del testo dall'altro non determina la perdita di una essenziale connotazione di riservatezza della comunicazione, destinata ad un numero identificato e previamente accettato di persone. La tensione con il principio di tassatività in ambito penale, ove si voglia realizzare una equiparazione tra i diversi strumenti comunicativi, in rapporto ad una previsione di legge ove si evoca un "mezzo di pubblicità", appare del tutto evidente ( ...).

3. Va pertanto annullata senza rinvio la decisione impugnata, previa esclusione della circostanza aggravante di cui all'art. 227, comma 2, cod. pen. mil. pace, essendo il reato improcedibile ab origine per assenza della richiesta di procedimento.

P.Q.M.

Esclusa l'aggravante di cui all'art.227, comma 2, c.p.m.p., annulla senza rinvio la sentenza impugnata, essendo il reato improcedibile per la mancanza della richiesta di procedimento.

Così è deciso, 11 settembre 2024.

Depositata in Cancelleria il 21 novembre 2024.

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