In caso di pena sostitutiva introdotta dalla riforma Cartabia, le prescrizioni del ritiro del passaporto e della sospensione della validità dei documenti per l’espatrio vanno applicate automaticamente oppure dipendono dalla valutazione discrezionale del giudice?
La questione è affrontata dalla Cassazione, sez. III penale, con la sentenza n. 44347 depositata il 4 dicembre 2024.
Un imputato era stato condannato dal Tribunale di Milano per reati previsti dagli artt. 81 c.p. e 2 D.Lgs. 74/2000 alla pena di lavoro di pubblica utilità e, tra le prescrizioni, era stato disposto il ritiro del passaporto. Il condannato ha presentato ricorso per Cassazione, sostenendo che il divieto di espatrio fosse stato applicato in maniera automatica, senza una specifica valutazione della sua necessità e proporzionalità, in violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 4 CEDU.
La Corte ha richiamato l’art. 56-ter della legge 689/1981, introdotto con la riforma Cartabia, il quale disciplina le prescrizioni delle pene sostitutive. In particolare, queste prescrizioni non sono considerate pene accessorie, ma costituiscono contenuto obbligatorio delle pene sostitutive come la semilibertà, la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità.
Secondo la giurisprudenza (Cass. Sez. VI, sentenza n. 30768/2023), l’accettazione di una pena sostitutiva implica automaticamente l’accettazione delle relative prescrizioni. Questo principio si basa sull’idea che il condannato abbia la possibilità di valutare la convenienza della pena sostitutiva rispetto a quella detentiva.
La Cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile, affermando che:
Il divieto di espatrio e il ritiro del passaporto sono funzionali alla finalità preventiva della pena sostitutiva, volta a ridurre il rischio di commissione di ulteriori reati.
La normativa interna, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, è conforme ai principi di proporzionalità e adeguatezza sanciti dalla Corte costituzionale (sentenza n. 109/1994) e dalla Corte EDU.
Il caso di specie si differenzia dalle pronunce della Corte EDU, come quella nella causa Vlasov e Benyash c. Russia (2016), in cui il divieto di espatrio era stato considerato sproporzionato rispetto a una pena sospesa.
La Corte di Cassazione ha confermato che il divieto di espatrio previsto dall’art. 56-ter L. 689/1981 non è una misura discrezionale, ma un elemento necessario e obbligatorio della pena sostitutiva. Tale previsione risponde a esigenze di rieducazione e prevenzione, in linea con la finalità afflittiva e risocializzante del lavoro di pubblica utilità.
In definitiva, la sentenza ribadisce che l’imposizione del divieto di espatrio, in quanto parte integrante della pena, è legittima e proporzionata, purché il condannato accetti liberamente la pena sostitutiva. Questo approccio garantisce un equilibrio tra la libertà di movimento e la necessità di prevenire nuovi comportamenti illeciti.
Cassazione penale, sez. III, sentenza 14/11/2024 (dep. 04/12/2024) n. 44347
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 25/3/2024, il Tribunale di Milano ha condannato No.Sa. alla pena di anni 1 e giorni 15 di reclusione, oltre pene accessorie, ritenendolo responsabile dei reati di cui agli artt. 81 cod. pen. e 2 D.Lgs. 74/2000. Sono stati, inoltre, disposti, ai sensi degli artt. 545-bis cod. proc. pen., 53, 56-bis e 56-ter L. 689/81, la sanzione sostitutiva dei lavori di pubblica utilità sostitutivi, il ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell'espatrio di ogni altro documento equipollente.
2. Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per Cassazione l'imputato, a mezzo del difensore di fiducia, che con il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 545-bis cod. proc. pen., 20-bis cod. pen., 53, 56-bis e 56-ter L. 689/81 nonché l'erronea applicazione dell'art. 2 del Protocollo n. 4 CEDU in relazione alla statuizione relativa al ritiro del passaporto sostenendo che nelle "disposizioni di legge in ordine al divieto di espatrio che permeano l'ordinamento giuridico nella propria interezza e nella giurisprudenza sovranazionale" non si rinviene alcun automatismo nell'applicazione del divieto di espatrio, che deve essere quindi disposto caso per caso dall'autorità giudiziaria.
Tale conclusione, ad avviso del ricorrente, trova riscontro: nell'art. 3 lett. d) L. n. 1185 del 1967 che limita i casi di diniego del passaporto; nell'art. 281 cod. proc. pen. che prevede il divieto di espatrio quale autonoma misura cautelare;
nella sentenza della Corte costituzionale n. 109 del 31/3/1994, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 281 comma 2-bis cod. proc. pen. nella parte in cui prevedeva l'applicazione automatica del divieto di espatrio nel caso di applicazioni di altre misure cautelari non rispondendo, tale automatismo, ai principi di proporzionalità e adeguatezza;
nella sentenza adottata il 20/9/2016 dalla Corte E.D.U. nella causa Vlasov e Benyash c. Russia, in cui è stata sancita l'illegittimità del diniego al rilascio del passaporto in caso di pena condizionalmente sospesa sull'assunto che il divieto di espatrio debba costituire oggetto di una specifica valutazione da parte dell'autorità giudiziaria volta a verificare se la misura sia necessaria alla prevenzione di reati e al mantenimento dell'ordine pubblico. In ordine al contenuto della pronuncia si legge nel ricorso: "La Corte ha motivato ritenendo che... la libertà di movimento, regolata dall'art. 2 Protocollo n. 4 CEDU può essere soggetta a restrizioni solo se giustificate e proporzionate e che rispettino l'equo bilanciamento degli interessi pubblici con quelli privati dell'interessato: il divieto d'espatrio imposto in modo rigido ed automatico, senza valutare le singole situazioni e le circostanze individuali, costituisce un'illecita interferenza non necessaria in una società democratica. Pertanto, le autorità hanno l'obbligo di assicurare che la restrizione del diritto di ciascuno di lasciare il proprio paese, dal principio e per tutta la sua durata, sia giustificato e proporzionato. Tale valutazione deve essere svolta dall'autorità giudiziaria, potere che offre le più elevate garanzie di indipendenza, imparzialità e legalità delle procedure. L'oggetto della valutazione deve permettere all'Autorità di considerare tutti i fattori coinvolti, inclusi quelli della proporzionalità della misura restrittiva".
Da tali premesse, ad avviso del ricorrente, discende che:
la pena irrogata, in quanto differente dalla sanzione detentiva pura e semplice, non può determinare automaticamente il ritiro del passaporto e il divieto di espatrio;
una lettura conforme alla Costituzione dell'art. 56-ter L. 689/1981 avrebbe dovuto determinare la non obbligatorietà dell'applicazione automatica a No.Sa. del divieto di espatrio per effetto della condanna impugnata;
la decisione del Giudice di primo grado è da censurarsi avendo applicato il divieto di espatrio oltre i limiti previsti dalla norma.
Il ricorrente chiede, anche, "qualora si ritenesse non percorribile la via dell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 56-ter L. 689/1981" che si sollevi la questione di legittimità costituzionale "dell'anzidetta disposizione normativa perché contrastante con gli artt. 3,27,35 e 117 Cost., in relazione all'art. 2 Protocollo n. 4 CEDU".
3. Con il secondo motivo si denuncia il vizio di motivazione. La "lettura costituzionalmente orientata" dell'art. 56-ter della legge 689/81 illustrata nel primo motivo, ad avviso del difensore, imponeva al Tribunale di motivare in ordine alle ragioni che avevano determinato l'imposizione del divieto di espatrio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Questa Corte ha precisato che, "in tema di sanzioni sostitutive di pene detentive brevi, le prescrizioni previste dall'art. 56-ter della legge 24 novembre 1981, n. 689 - introdotto dall'art. 71 D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 - per la semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva e il lavoro di pubblica utilità sostitutivo non sono "pene accessorie" la cui applicazione dipende dalla discrezionale valutazione del giudice, ma costituiscono contenuto necessario e predeterminato della pena sostitutiva, da applicare obbligatoriamente anche in caso di patteggiamento". (Sez. 6, n. 30768 del 16/05/2023 Ce. (dep. 14/07/2023) Rv. 284967-01).
In motivazione, la Corte ha precisato che la richiesta formulata dall'imputato per l'applicazione di dette pene sostitutive, ovvero il consenso prestato alla richiesta del pubblico ministero, implica necessariamente l'accettazione delle prescrizioni che le connotano.
2. Manifestamente infondata, ancora, risulta la questione di legittimità costituzionale sollevata. Il ricorrente, infatti, non tiene conto che il lavoro di pubblica l'attività sostitutivo svolge una duplice funzione, rieducativa e risocializzante, mirante al reinserimento del reo nella collettività, ma anche afflittiva, costituendo pur sempre una pena derivante dalla commissione di un reato, come d'altronde sottolineato dalla modifica del nome iuris disposto dalla riforma Cartabia con l'introduzione dell'art. 20-bis cod. pen., e che l'applicazione della misura ha, quale necessario presupposto, l'assenso del condannato che, quindi, ha la possibilità di valutare la congruità e la convenienza della pena sostitutiva rispetto alla pena comminata.
Le prescrizioni comuni previste dall'art. 56-ter citato, ancora, rispondono a esigenze special preventive evidenti, come dimostrano la previsione del comma 2 della norma, e l'art. 58 che consente la sostituzione della pena detentiva solo quando le pene sostitutive assicurino "la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati" eventualmente anche mediante l'imposizione di obblighi ulteriori rispetto a quelli preveduti dall'art. 56-ter.
3. Non è, poi, neanche necessario richiamare il risultato interpretativo cui sono pervenute le Sezioni Unite in ordine all'estendibilità di principi enunciati dalla Corte Edu a coloro che non abbiano attinto la giurisprudenza sovranazionale (Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054) per escludere che la decisione richiamata nel ricorso possa spiegare effetti nel presente procedimento. È di tutta evidenza, infatti, che la vicenda in valutazione è del tutto differente dal caso esaminato dalla Corte EDU, risultando il divieto di espatrio potenzialmente in conflitto con il giudizio di non pericolosità che aveva permesso a Vlasov e Benyash di usufruire della sospensione condizionale della pena mentre, nel caso di No.Sa., è strumentale alla funzione specialpreventiva che la pena sostitutiva è destinata a soddisfare.
4. Non sono, pertanto, sussistenti la violazione di legge e il deficit motivazionale denunciati.
5. Alla inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, la condanna al pagamento in favore della Cassa per le ammende di una somma che, considerato il profilo di inammissibilità rilevato, si stima equo determinare in Euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 14 novembre 2024.
Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2024.