Mentire per amore può essere una scusante soggettiva anche per i conviventi, ai sensi dell'art. 384, comma primo, codice penale.
Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza n. 8114 del 23 febbraio 2024, richiamando la pronuncia delle Sezioni Unite n. 10381 del 2020.
Nel caso di specie una donna denuncia il compagno per maltrattamenti subiti dalla figlia. Tuttavia, durante il processo, mentendo, dichiara di essere ancora innamorata di lui. Viene quindi condannata per falsa testimonianza in primo grado e in appello.
Il difensore, nel ricorso in Cassazione, denuncia che la causa di non punibilità prevista dall'art. 384 codice penale non era stata riconosciuta, nonostante il rapporto di convivenza more uxorio tra la donna e il compagno, documentato dalla stessa imputazione e dalla relazione degli assistenti sociali.
La Cassazione chiarisce che l'art. 384, comma primo, codice penale offre una "scusante" soggettiva che influisce sulla colpevolezza. Tale scusante è applicabile analogicamente anche ai legami affettivi che uniscono l'agente al prossimo congiunto.
Pertanto, il ricorso della donna è stato accolto.
L'art. 384, comma primo, cod. pen. è applicabile analogicamente anche a chi abbia commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente "more uxorio" da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore.
Cassazione penale, sez. VI, sentenza 14/02/2024 (dep. 23/02/2024) n. 8114
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 3 maggio 2023 la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza emessa il 2 febbraio 2021 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Busto Arstizio, con cui Ve.Gi.è stata condannata alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all'art. 372 cod. pen.
2. Secondo entrambe le sentenze di merito, l'imputata aveva reso falsa testimonianza nel procedimento per maltrattamenti in famiglia a carico di Mi.Co., in cui ella era persona offesa.
3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputata, che ha dedotto l'inosservanza della legge e vizi della motivazione per non essere stata riconosciuta la causa di non punibilità di cui all'art. 384 cod. pen., stante il rapporto di convivenza more uxorio instaurato tra la ricorrente e Mi.Co., desumibile dalla stessa imputazione del procedimento nel cui ambito sarebbe stata resa la falsa testimonianza nonché dalla relazione del 14 maggio 2018, redatta dagli assistenti sociali che avevano in cura l'imputata, che avevano dato atto del rapporto di convivenza tra le parti. Peraltro, allorquando il 15 giugno 2018 fu notificato il provvedimento di allontanamento, emesso nei confronti di Mi.Co., la ricorrente aveva espresso tutta la sua disapprovazione per la decisione intervenuta, che avrebbe, seppur momentaneamente, interrotto il suo rapporto di convivenza con il compagno.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, essendo fondate le censure della ricorrente sulla mancata applicazione dell'art. 394 cod. pen.
2. Deve premettersi che questa Corte (Sez. U, n. 10381 del 26/11/2020, Fialova, Rv. 280574 - 01) ha già affermato che l'art. 384, comma primo, cod. pen. è applicabile analogicamente anche a chi abbia commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente "more uxorio" da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore.
Si è ravvisata, infatti, nella previsione in esame una "scusante" soggettiva, che investe la colpevolezza: definizione, questa, in cui sono ricomprese le ipotesi in cui l'agente pone in essere un fatto antigiuridico, agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge, e in cui l'ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero, prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla sua volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo. Con riferimento all'art. 384, primo comma, cod. pen., i legami di natura affettiva, che legano l'agente con il prossimo congiunto (sia esso il genitore o il figlio o il fratello o il coniuge o lo zio o il nipote...), fanno sì che l'ordinamento sceglie di non punire i reati considerati nella disposizione citata quando siano stati realizzati per salvare la libertà o l'onore di un prossimo congiunto.
Riconosciuta all'art. 384, primo comma, cod. pen. la natura di scusante soggettiva ed esclusa, di conseguenza, ogni valenza eccezionale della disposizione stessa, si è ritenuto che la sua applicazione anche alle coppie di fatto trova piena giustificazione.
3. Nel caso in esame, a fronte dell'invocata applicazione dell'art. 384 cod. pen., la Corte di appello ha rilevato che l'imputata non aveva "offerto alcun elemento atto a dimostrare la sussistenza di una situazione di pericolo di danno concreto e attuale per la sua persona o per quella di un prossimo congiunto, di guisa che difettavano i presupposti per l'applicazione dell'esimente in parola".
Inoltre, la medesima imputata si era limitata ad invocare l'applicabilità dell'art. 384 cod. pen., "senza offrire elementi idonei ad apprezzare la sussistenza di una stabile convivenza, intesa come rapporto fondato su uno stabile progetto di vita, connotato dalla volontà di vivere insieme, se del caso di avere figli, beni in comuni e di dare vita a un nucleo stabile duraturo, con assunzione di un impegno di reciproca assistenza".
Anche il Giudice di primo grado aveva rimarcato che l'imputata, non sottoponendosi ad interrogatorio né rendendo dichiarazioni in questo procedimento, nel quale non era comparsa, non aveva fornito alcuna giustificazione che potesse in qualche modo attenuare o addirittura scusare la condotta antigiuridica posta in essere.
4. Siffatta motivazione risulta viziata.
La Corte territoriale ha apoditticamente affermato che la ricorrente non aveva offerto elementi atti a far ritenere integrata l'esimente in parola, avendo trascurato di considerare che tali elementi emergevano già dagli atti.
Difatti, come si trae dalla sentenza di primo grado del presente procedimento, l'odierna imputata nel giudizio per i maltrattamenti subiti aveva dichiarato che ella, unitamente a suo figlio minorenne, conviveva con Mi.Co. da subito dopo la loro conoscenza, avvenuta nel luglio del 2016. Gli altri testi di quel procedimento avevano fatto riferimento alla casa ove conviveva la ricorrente e Mi.Co.
D'altra parte, come evidenziato nel ricorso, la stessa imputazione formulata nel procedimento per maltrattamenti a carico di Mi.Co. nonché la relazione del 14 maggio 2018, redatta dagli assistenti sociali che avevano in cura l'imputata, avevano dato atto del rapporto di convivenza tra la ricorrente e Mi.Co.
4.1. Quanto all'altro requisito richiesto per l'integrazione dell'esimente di cui all'art. 384 cod. pen., deve evidenziarsi che - come emerge da entrambe le sentenze di merito di questo procedimento - la denuncia per maltrattamenti nei confronti di Mi.Co. era stata presentata dalla madre della ricorrente e non da quest'ultima, la quale, in occasione della notifica del provvedimento di allontanamento del compagno, aveva reagito censurando tale provvedimento. La donna, inoltre, sentita come teste nel procedimento per maltrattamenti, aveva dichiarato di essere ancora innamorata del compagno.
Tali circostanze, adeguatamente e logicamente considerate, avrebbero dovuto condurre la Corte del merito ad affermare che la ricorrente, allorquando rese la testimonianza nel procedimento a carico di Mi.Co., temeva per la libertà del compagno, che avrebbe subito un inevitabile pregiudizio, se ella avesse raccontato i maltrattamenti subiti.
5. Alla luce di quanto precede la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato, in applicazione dell'esimente di cui all'art. 384 cod. pen.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.
Così deciso il 14 Febbraio 2024.
Depositato in Cancelleria il 23 Febbraio 2024.