In tema di delitti contro la pubblica amministrazione, ha affermato che il delitto di indebita destinazione di denaro o cose mobili, di cui all’art. 314-bis cod. pen., sanziona le condotte distrattive dei beni indicati che, nella disciplina previgente, la giurisprudenza di legittimità inquadrava nella fattispecie abrogata dell’abuso di ufficio, sicché non risulta modificato l’ambito applicativo del delitto di peculato dall’introduzione della nuova fattispecie di reato.
Cassazione penale, sez. VI, sentenza 23/10/2024 (dep. 04/02/2025) n. 4520
RITENUTO IN FATTO
1. L'ipotesi di accusa.
Fe.Lu., presidente della Federazione Italiana Pentathlon Moderno (F.I.P.M.) sino al 14 maggio 2013, e Co.Al., dominus della società Area Srl, sono stati rinviati a giudizio innanzi al Tribunale di Roma per rispondere, in concorso, dei reati di abuso di ufficio (capi A), B) e H) e di corruzione propria (capo C); a Fe.Lu. sono, inoltre, stati contestati i delitti di peculato di cui ai capi D), F), I) e L) e alla società Area Srl l'illecito amministrativo di cui all'art. 25, comma 2, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, dipendente dal reato di corruzione.
Al capo C) dell'imputazione è contestato a Fe.Lu., in concorso con Co.Al., il delitto di corruzione per aver compiuto atti contrari al dovere di ufficio, in quanto si sarebbe fatto corrispondere da Co.Al. la somma di Euro 72.000, sotto forma di compensi dovuti per l'esecuzione di un contratto di consulenza, avente ad oggetto l'elaborazione dati e la ricerca di mercato nel settore del marketing; fatti commessi in Roma sino al febbraio 2013.
Gli atti contrari ai doveri di ufficio, contestati anche ai capi A) e B) quali condotte di abuso di ufficio, sarebbero stati costituiti:
- nell'aver affidato alle società di Co.Al., tra cui Area Srl, Alcor Srl e altre, al fine di procurare un vantaggio all'imprenditore, senza ricorrere ad alcuna procedura di evidenza pubblica, i servizi di manutenzione ordinaria e straordinaria dei locali, di pulizia dei locali, di organizzazioni eventi sportivi, di noleggio di strutture tecniche, di attrezzature tecniche, di autoveicoli, di consulenze e di corsi di formazione per il personale (capo A);
- e nell'avere affidato alla società Alcor Srl, senza ricorrere ad alcuna procedura di evidenza pubblica, la fornitura di truciolo, di paglia, di fieno e di mangime, nonché lo smaltimento del letame equino per il centro sportivo di M, servizi in precedenza svolti dalla Risea Srl, cui improvvisamente il contratto non era stato rinnovato (capo B).
Secondo l'imputazione, il contratto tra Alcor Srl e la Federazione Italiana Pentathlon Moderno menzionato al capo B) aveva ad oggetto prestazioni che la prima non poteva garantire, in quanto non era iscritta all'albo nazionale dei gestori ambientali e non era autorizzata al trasporto e allo smaltimento dei rifiuti speciali; il contratto sarebbe stato, dunque, fittizio, e tali prestazioni sarebbero state svolte di fatto dalla Risea Srl in regime di subappalto.
Il Pubblico Ministero ha, inoltre, contestato a Fe.Lu. ai capi F), I) e L) plurimi delitti di peculato; la prima imputazione ha ad oggetto l'appropriazione della somma di 28.402, che, secondo l'accusa, l'imputato si sarebbe fatto rimborsare dalla Federazione a titolo di spese per viaggi di trasferta, nonché di ulteriori somme ricevute dal 2009 dal 2013 a titolo di rimborso spese non giustificate (capo F).
Al capo I) dell'imputazione si contesta a Fe.Lu. il peculato avente ad oggetto l'appropriazione del canone di locazione di un appartamento sito in P di proprietà dello stesso, che l'imputato avrebbe fatto prendere in locazione alla Federazione al canone annuale di 7.800 euro, per poi concederlo in godimento alla figlia.
Al capo L) è, da ultimo, contestato a Fe.Lu. l'appropriazione della somma di Euro 2.377,18 euro, corrispondenti al totale delle fatture pagate dalla Federazione quale costo del traffico telefonico del cellulare assegnato all'imputato per ragioni di servizio e utilizzato dalla moglie.
2. La sentenza di primo grado.
Il Tribunale di Roma, con sentenza emessa in data 13 gennaio 2022, all'esito del giudizio dibattimentale:
- ha dichiarato Fe.Lu. colpevole dei reati ascritti ai capi A) e B), assorbiti nel capo C), D), F), I) e L), unificati dalla continuazione, e lo ha condannato alla pena di otto anni di reclusione;
- Co.Al. colpevole dei reati ascrittigli ai capi A) e B), assorbiti nel capo C), e lo ha condannato alla pena di quattro anni di reclusione;
- la società Area Srl colpevole dell'illecito amministrativo contestato e l'ha condannata alla pena pecuniaria di centomila Euro e all'applicazione le sanzioni interdittive di cui all'art. 9, comma 2, D.Lgs. 231 del 2011 per la durata di quattro anni;
- ha condannato gli imputati al pagamento delle spese processuali;
- ha dichiarato Fe.Lu. e Co.Al. interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e li ha dichiarati in stato di interdizione legale e incapaci di contrattare con la pubblica amministrazione;
- ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti di Fe.Lu. in ordine al reato di abuso d'ufficio contestato al capo H) perché estinto per intervenuta prescrizione;
- ha condannato gli imputati al pagamento, in solido, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili F.I.P.M. e Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI), da liquidarsi in separato giudizio civile, alla rifusione delle spese del giudizio e al pagamento di una provvisionale, a carico degli imputati, in solido tra loro, di Euro 250.130,75 in favore della Federazione Italiana Pentathlon Moderno;
- ha disposto la confisca, ai sensi dell'art. 322-ter cod. pen., diretta o per equivalente, sino alla concorrenza della somma di Euro 319.277,47 nei confronti di Fe.Lu.;
- ha convertito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca della somma di Euro 250.130,75, disposto nei confronti di Fe.Lu., in sequestro conservativo.
3. La sentenza di appello.
La Corte di appello di Roma, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, appellata dagli imputati:
- ha assolto Fe.Lu. dal reato a lui ascritto al capo D) perché il fatto non sussiste;
ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti di Fe.Lu. perché il reato di cui al capo F), limitatamente ai fatti commessi negli anni 2009 e 2010, è estinto per prescrizione, eliminando la pena relativa;
- ha rideterminato la pena inflitta a Fe.Lu. in cinque anni e dieci mesi di reclusione;
- ha ridotto, ai sensi dell'art. 12 del D.Lgs. n. 231 del 2001 la pena pecuniaria inflitta alla società Area al complessivo importo di Euro 103.291 (importo di seguito corretto in 50.000 euro) e ha revocato le sanzioni interdittive applicate all'ente;
- ha determinato l'importo della provvisionale disposta in favore di F.I.P.M. nella misura di Euro 75.000 a carico di Fe.Lu. ed Euro 30.000 a carico di Co.Al.;
ha confermato nel resto la sentenza impugnata;
- ha condannato Fe.Lu. e Co.Al. alla rifusione delle spese di assistenza e rappresentanza sostenute dalle parti civili nel grado.
4. I ricorsi proposti.
L'avvocato Carlo Longoni, nell'interesse di Fe.Lu., gli avvocati Pasquale Paolitto e Alessandro Parrini, nell'interesse di Co.Al., e l'avvocato Daniele Ingarrica, nell'interesse di Area Srl, hanno proposto ricorso avverso tale sentenza e ne hanno chiesto l'annullamento.
5. Il ricorso proposto da Fe.Lu.
L'avvocato Carlo Longoni, nell'interesse di Fe.Lu., ha proposto sei motivi e, segnatamente:
- 5.1) l'inosservanza dell'art. 360, comma 5, cod. proc. pen. e del principio generale per cui la formazione della prova deve avvenire nel contraddittorio tra le parti, in relazione alla documentazione acquisita con riferimento al delitto contestato al capo F).
Il difensore deduce di aver visionato tutte le 588 pagine del file contenente copia dei rimborsi richiesti dall'imputato dal 2009 al 2019 e gli scontrini illeggibili sarebbero in numero più alto di quello indicato dal Tribunale.
Il Tribunale, inoltre, avrebbe ritenuto utilizzabile l'accertamento operato dalla Guardia di Finanza quale atto irripetibile e la Corte di appello non avrebbe risposto alle censure mosse dalla difesa nell'atto di appello, relativamente al compimento di tale accertamento in assenza del difensore, in violazione dell'art. 360 cod. proc. pen.
La possibilità di modifica degli scontrini POS nel tempo e l'impossibilità di ricostruire con certezza, sia gli importi, che le causali degli scontrini acquisiti, avrebbero, infatti, imposto l'applicazione delle forme di cui all'art. 360 cod. proc. pen.
La Corte di appello, che ha acriticamente accolto la ricostruzione della Guardia di Finanza acquisita agli atti, avrebbe, dunque, dovuto dichiarare inutilizzabili gli scontrini, in quanto non sarebbero stati acquisiti nelle forme dell'accertamento tecnico non ripetibile.
- 5.2) la violazione di legge in ordine alla mancata declaratoria di inutilizzabilità della documentazione acquisita in allegato all'annotazione di polizia giudiziaria del 30 aprile 2015, in quanto la stessa è stata redatta e depositata successivamente alla scadenza del termine per la conclusione delle indagini preliminari.
La copiosa documentazione, che costituiva parte integrante e inscindibile dell'annotazione, non poteva essere considerata in via autonoma rispetto all'atto di polizia giudiziaria, cui era allegata, e, dunque, non poteva essere utilizzata ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen.
- 5.3) l'inosservanza degli artt. 319,321 e 158 cod. pen. in relazione al delitto di corruzione contestato al capo C) e alla determinazione del dies a quo della prescrizione.
Il difensore rileva che il reato di corruzione si sarebbe prescritto prima della pronuncia di primo grado e che erroneamente la Corte di appello avrebbe evocato la natura del delitto di corruzione quale reato "a duplice schema".
Nella sentenza impugnata si rileva che l'ultima dazione di danaro è intervenuta in data 7 febbraio 2013 e, dunque, considerate le interruzioni e le sospensioni del corso della prescrizione, la stessa sarebbe maturata in data 5 dicembre 2023 (e, dunque, dopo la pronuncia della sentenza stessa).
Il difensore rileva che, tuttavia, nel caso di specie, non verrebbe in rilievo una corresponsione a titolo corruttivo progressiva, ma l'esecuzione di un contratto che prevedeva già delle corresponsioni mensili del corrispettivo (e cita in proposito Sez. 6, n. 35219 del 28 aprile 2017).
Il termine di prescrizione, per effetto della più favorevole disciplina previgente, sarebbe, dunque, integralmente decorso prima della pronuncia della sentenza di appello.
L'interpretazione della Corte di appello sarebbe, inoltre, illegittima, in quanto la corruzione potrebbe essere considerata un reato a consumazione progressiva solo ove vi fosse una espressa previsione in tal senso, analoga a quella di cui all'art. 644-ter cod. pen., che sancisce che la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell'ultima riscossione sia degli interessi che del capitale.
- 5.4) la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine ai delitti di peculato contestati ai capi F), I) e L).
Le condotte di peculato contestate non sarebbero sussistenti, in quanto mancherebbe il presupposto necessario della condotta, costituito dal possesso della cosa da parte dell'agente per ragioni del suo ufficio o di servizio.
Fe.Lu., infatti, non aveva la disponibilità autonoma dei fondi della Federazione, essendo la stessa di competenza del Consiglio Federale.
Nessun altro dei membri del Consiglio Federale, peraltro, sarebbe stato sottoposto a indagini o imputato per tali condotte; se i membri del Consiglio Federale fossero stati tratti in inganno da Fe.Lu., per converso, ricorrerebbe il delitto di truffa o il delitto di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all'art. 316-tercod. pen.
- 5.5) la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla mancata riqualificazione del delitto di peculato contestato al capo L) in peculato d'uso.
La giurisprudenza di legittimità ritiene costantemente che integri il peculato d'uso, ove idoneo a produrre un danno apprezzabile per la pubblica amministrazione, l'utilizzo del telefono di ufficio per fini personali e fuori dai casi di urgenza, come sarebbe avvenuto nel caso di specie (per un esborso di poco più di 2.000 euro).
- 5.6) la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche all'imputato.
La Corte di appello avrebbe, infatti, illegittimamente e illogicamente negato le attenuanti generiche al ricorrente in ragione della "pervicacia della condotta protratta per lungo tempo" e della "spudoratezza" con la quale ha utilizzato fondi pubblici a fini personali.
La Corte di appello, in questo modo, avrebbe indebitamente obliterato l'incensuratezza dell'imputato, che, pur non rilevando ex se, non può essere ignorata, e il prolungato lasso di tempo decorso dai fatti per cui si procede.
Non si potrebbe, peraltro, ignorare nel sindacato sull'applicazione delle attenuanti generiche la regolarità amministrativa del contratto indicato al capo C), l'irrisorietà delle somme oggetto di appropriazione di cui al capo L) e l'avvenuta restituzione delle somme di cui al capo I).
L'imputato, peraltro, non avrebbe potuto porre in essere le condotte contestate senza la partecipazione dell'organo collegiale, di indirizzo e di amministrazione della Federazione.
6. Il ricorso proposto da Co.Al.
Gli avvocati Pasquale Paolitto e Alessandra Parrini, nell'interesse di Co.Al. hanno proposto sette motivi di ricorso e, segnatamente:
6.1) la violazione dell'art. 178 cod. proc. pen. in relazione al vizio di notifica all'imputato del decreto di citazione per il giudizio di appello.
I difensori rilevano che la Corte di appello all'udienza dell'8 maggio 2023 ha preliminarmente rilevato la mancanza della prova dell'avvenuta notifica del decreto di citazione a Co.Al. e ha rinviato all'udienza del 5 giugno 2023 per consentire la rinnovazione della notifica.
A questa udienza, tuttavia, entrambi i difensori hanno depositato istanza di rinvio per legittimo impedimento per concorrenti impegni defensionali e la Corte di appello ha rinviato, previa sospensione dei termini di prescrizione, all'udienza del 13 settembre 2023. A questa udienza i difensori hanno eccepito che la notifica del decreto di citazione per l'udienza del 5 giugno 2023 eseguita in favore di Co.Al. era tardiva, non essendo stato rispettato il termine a comparire.
La Corte, tuttavia, avrebbe illegittimamente rigettato l'eccezione, rilevando la sua tardività; i difensori, infatti, erano a conoscenza della tardività della notifica sino dal 16 maggio 2023 e, dunque, il vizio era stato sanato all'udienza del 5 giugno 2023 per effetto della mancata proposizione dell'eccezione da parte del sostituto dei difensori, presente in udienza.
I difensori, tuttavia, deducono di aver proposto l'eccezione alla prima udienza utile, in quanto, avendo proposto istanza di rinvio per legittimo impedimento in data 10 maggio 2023, non potevano avere contezza della tardività della notifica, verificatasi solo in data successiva.
La Corte di appello, peraltro, avrebbe potuto rilevare anche d'ufficio il mancato rispetto del termine a comparire e il sostituto nominato per l'udienza del 5 giugno 2023 non poteva fare altro che insistere nella richiesta di rinvio dell'udienza per legittimo impedimento.
6.2) la violazione dell'art. 603 cod. proc. pen. e l'illogicità della motivazione in ordine alla mancata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale mediante l'escussione dei testi Pa.Ov. e Ta.Mi., ritenuti superflui dal Tribunale in primo grado.
Ad avviso dei difensori, l'escussione di questi testi sarebbe stata decisiva per dimostrare la qualità del fieno fornito dalla società Alcor rispetto a quello fornito dalla Risea e per dimostrare "la legittimità della plusvalenza ritenuta".
La Corte di appello aveva confermato il diniego dell'escussione di questi testimoni, rilevando l'assenza di "competenza tecniche o specialistiche" dei testi; i soggetti indicati, tuttavia, erano coloro che si occupavano di dare il fieno ai cavalli e di smaltire il letame.
I testi avrebbero potuto, inoltre, precisare che il numero dei cavalli presenti nel centro di preparazione olimpica variava nel corso degli anni e che le fatture della Alcor tenevo conto di questo dato, a differenza di quelle della Risea che erano di importo sempre uguale.
6.3) la mancanza della motivazione e la violazione dell'art. 319 cod. pen., in quanto la Corte di appello, pur ritenendo il contratto simulato, non avrebbe motivato sui presupposti civilistici di questa figura e, segnatamente, sulla presenza dell'accordo simulatorio o di un'eventuale controdichiarazione.
La Corte di appello, dunque, avrebbe affermato illogicamente la natura simulata di questo contratto, in assenza di alcun fondamento probatorio; in difetto della dimostrazione di elementi di simulazione, tuttavia, il contratto sarebbe "reale" e il reato sarebbe insussistente.
6.4) la mancanza della motivazione in ordine alla mancata riqualificazione del delitto di corruzione contestata ai sensi dell'art. 318 cod. pen.
La Corte di appello ha, infatti, rigettato la richiesta di riqualificazione, rilevando che l'atto contrario ai doveri di ufficio era la stipula dei contratti in totale spregio alle procedure previste dal D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (codice degli appalti).
Questa motivazione, tuttavia, non risponderebbe ai requisiti necessari per distinguere tra corruzione propria e impropria, risolvendosi in generico richiamo ai principi di trasparenza e parità di trattamento.
Dopo la modifica della fattispecie della corruzione propria, ad opera della legge 11 settembre 2020, n. 120, infatti, è necessario indicare la specifica regola di condotta violata dall'agente pubblico, espressamente posta dalla legge e a fronte della quale non residua alcun margine di discrezionalità.
Nella specie, peraltro, Fe.Lu. avrebbe rispettato il codice degli appalti ricorrendo al cottimo fiduciario, in quanto lo stesso rientrava nel suo margine di discrezionalità; sul punto la Corte di appello non avrebbe motivato, ad onta della specifica censura proposta nell'atto di appello.
6.5) la violazione di legge in ordine alla determinazione del momento consumativo del reato e alla mancata declaratoria di prescrizione del reato.
La Corte di appello ha illegittimamente ritenuto il reato di corruzione consumato al momento del versamento dell'ultima rata del corrispettivo contrattualmente pattuito tra Fe.Lu. e Co.Al.
Il momento consumativo, tuttavia, sarebbe determinato dalla stipula dell'accordo asseritamente corruttivo, in quanto la rateizzazione mensile del pagamento deve essere ritenuta soltanto una modalità dell'adempimento, che non indice sul tempus commissi delicti.
Già all'atto dell'impugnazione, dunque, sarebbero stati prescritti i pagamenti posti in essere sino ad ottobre 2012, in aderenza alla disciplina previgente del reato di corruzione, che prevedeva sino a novembre del 2012 una pena nel massimo sino a cinque anni di reclusione.
7. Il ricorso proposto da Area Srl
L'avvocato Daniele Ingarrica, nell'interesse di Area Srl, ha proposto due motivi di ricorso.
7.1. Il difensore, con il primo motivo di ricorso, ha censurato l'errata applicazione degli artt. 5 e 6 D.Lgs. n. 231 del 2001 e la manifesta illogicità della motivazione in ordine all'affermazione della responsabilità amministrativa da reato dell'ente.
Il difensore rileva, infatti, che difetterebbe la prova che la persona fisica che ha commesso il reato presupposto di corruzione abbia esercitato, anche di fatto, il controllo e la gestione dell'ente.
Difetterebbe, dunque, il collegamento organico tra l'ente e Co.Al., che non aveva ruoli apicali o decisori, né era un dipendente di tale ente.
Le sentenze di merito hanno affermato che Co.Al. era l'amministratore di fatto di Area Srl, ma questa qualifica richiede l'esercizio, in modo continuativo e non episodico di concreti e significativi atti gestori, che nella specie sarebbero mancati.
Il D.Lgs. n. 231 del 2001 consente di riferire all'ente la condotta di soggetti che non abbiano vincoli o rapporti formali con l'ente solo se gli stessi esercitino la gestione o il controllo della società e nel caso di specie Co.Al. era il socio unico della società.
Il reato, inoltre, non sarebbe stato commesso nell'interesse o a vantaggio di Area Srl, ma nell'interesse esclusivo di Co.Al. e, dunque, non sarebbe configurabile, ai sensi dell'art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 231 del 2001, la responsabilità dell'ente.
Le sentenze di merito, infatti, avrebbero affermato che il vantaggio delle condotte illecite sarebbe stato lucrato esclusivamente da Co.Al.
La sentenza impugnata, inoltre, non avrebbe motivato sulla ravvisabilità della colpa di organizzazione dell'ente.
7.2. Con il secondo motivo il difensore censura la violazione degli artt. 10,11 e 12 del D.Lgs. n. 231 del 2001 e il vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena pecuniaria.
Il difensore rileva che la Corte di appello ha determinato la sanzione pecuniaria nella misura di 100 quote di Euro 500 ciascuna, ma non ha esplicitato il percorso logico giuridico seguito.
La Corte di appello, infatti, nel diminuire la pena pecuniaria ai sensi dell'art. 12 D.Lgs. n. 231 del 2001, in quanto la condotta illecita era stata posta in essere nel prevalente interesse di terzi, non avrebbe diminuito l'ammontare delle singole quote.
L'importo delle quote, peraltro, deve essere determinato ai sensi dell'art. 11 D.Lgs. n. 231 del 2001, sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali della società e nel caso di specie, le stesse sarebbero "inesistenti", in quanto le sentenze di merito hanno descritto Area Srl come una "scatola vuota".
La Corte di appello, dunque, avrebbe dovuto determinare l'importo della quota nel minimo edittale di 103 euro, in applicazione dell'art. 12 D.Lgs. n. 231 del 2001.
8. Le richieste di trattazione orale dei ricorsi.
Con istanze tempestivamente depositate in data 14 e 16 giugno 2024 gli avvocati Longari, nell'interesse di Fe.Lu., e Paolitto, nell'interesse di Co.Al., hanno richiesto la trattazione orale dei ricorsi.
9. Il motivo aggiunto proposto da Fe.Lu.
In data 29 agosto 2024 l'avvocato Longari ha depositato una memoria, con la quale ha chiesto di annullare i capi della sentenza impugnata relativi ai delitti di peculato contestate a Fe.Lu. ai capi di imputazione F) e I).
Tali condotte, per come contestate, non sarebbero più punibili per effetto della recente introduzione del codice penale del reato di indebita destinazione di denaro o cose mobili di cui all'art. 314-bis cod. pen., ad opera dell'art. 9, comma 1 del decreto legge 4 luglio 2024, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 2024, n. 112.
Il difensore rileva che la collocazione sistematica dell'art. 314-bis cod. pen., subito dopo l'art. 314 cod. pen., e la clausola di riserva con la quale si apre la fattispecie, inducono a ritenere che questa fattispecie disciplini attualmente tutte le condotte di peculato per distrazione.
Le distrazioni che si concretizzano in una scelta discrezionale della pubblica amministrazione o che non consentono l'individuazione della specifica norma di legge violata sarebbero, tuttavia, state oggetto di abolitio criminis da parte del legislatore.
Sarebbe, infatti, intollerabilmente discriminatorio che l'ordinamento punisca per il futuro solo le condotte distrattive che contrastano con quanto "previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità" e, al tempo stesso, mantenga il rilievo penale di condanne - ancora sub iudice - inerenti a ipotesi distrattive meno gravi (che si concretizzano in una scelta discrezionale della pubblica amministrazione o che non consentono l'individuazione della specifica norma di legge violata).
Le distrazioni violative di una specifica disposizione di legge integrerebbero il delitto di cui all'art. 314-bis cod. pen. e, nel caso di specie, imponendo l'applicazione della lex mitior, dovrebbero condurre alla rideterminazione della pena inflitta al ricorrente.
Il difensore ha, dunque, chiesto, alla Corte di cassazione, ove non sia accolta la richiesta di annullamento della sentenza impugnata:
- tenuto conto della piena integrazione di tutti i requisiti richiesti dalla fattispecie di cui all'art. 314 bis cod. pen. e all'applicabilità della stessa rispetto ai capi di imputazione F) e I), di rideterminare la pena inflitta a Fe.Lu. all'esito del giudizio di secondo grado, sulla base del diverso trattamento sanzionatorio oggi previsto dal delitto di indebita destinazione di denaro e cose mobili e, dunque, valutando altresì il decorso dei termini prescrizionali;
- di rideterminare la pena inflitta al ricorrente esclusivamente sulla base dei capi di imputazione C) e L), riconoscendo la cessazione degli effetti penali delle ipotesi di reato di cui ai capi F) e I) per l'avvenuta abolitio criminis delle condotte distrattive espressione di una discrezionalità amministrativa.
10. Le udienze.
Il Collegio, all'udienza del 17 settembre 2024, all'esito della discussione delle parti, ha differito la deliberazione, ai sensi dell'art. 615 cod. proc. pen., all'udienza del 23 ottobre 2024.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Premessa.
I ricorsi di Fe.Lu. e Co.Al. devono essere accolti nei limiti che di seguito si precisano; il ricorso di Area Srl deve essere rigettato, in quanto i motivi proposti sono infondati.
2. Il delitto di corruzione contestato a Fe.Lu. e Co.Al. al capo C).
2.1. Gli avvocati Pasquale Paolitto e Alessandra Parrini, con il quarto motivo proposto nell'interesse di Co.Al., che ha valenza preliminare, hanno dedotto l'inosservanza della legge penale e la mancanza della motivazione in ordine alla richiesta di riqualificazione del delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio contestato al capo C) nel delitto di corruzione per l'esercizio della funzione.
2.2. Il motivo è fondato.
I giudici di merito hanno concordemente accertato che Fe.Lu., nella qualità di presidente della F.I.P.M., ha ricevuto la dazione di 72.000 Euro quale corrispettivo per aver affidato alla società controllate da Co.Al.:
- i contratti di servizi di manutenzione ordinaria e straordinaria dei locali, della loro pulizia, di organizzazione degli eventi sportivi, di noleggio delle attrezzature tecniche e degli autoveicoli, di trasporto e facchinaggio, di preparazione dei corsi di formazione per il personale amministrativo ed elaborazione dei dati riguardanti i risultati di gara (condotte originariamente contestate al capo A) e successivamente ritenute assorbite nel delitto di cui al capo
- i contratti per la fornitura di truciolo, di paglia, di fieno e di mangime, nonché per lo smaltimento del letame equino per il centro sportivo di M (condotte originariamente contestate al capo A) e successivamente ritenute assorbite nel delitto di cui al capo C).
L'illecita remunerazione è stata percepita da Fe.Lu. nella forma di compensi per l'esecuzione di un contratto avente ad oggetto "elaborazioni dati e ricerche di mercato per il settore marketing"; le sentenze di merito hanno, tuttavia, non incongruamente rilevato come il contratto fosse un mero espediente per restituire a Fe.Lu. parte delle somme del corrispettivo dei contratti affidati alle società di Co.Al., in quanto l'oggetto del contratto di consulenza era del tutto generico e il contratto stesso era privo di data. La consulenza era, peraltro, priva di utilità economica, in quanto la società cui era destinata era sostanzialmente priva di operatività, se non fosse stato per gli appalti concessi dalla F.I.P.M., e priva di dipendenti, che non fossero famigliari di Co.Al.
Nessuna prova sarebbe stata data, inoltre, dell'esecuzione di questo contratto, se non mediante la produzione di uno scritto di cinquanta pagine, generico e superficiale, del quale l'imputato si era assunto la paternità.
Il Tribunale di Roma ha, dunque, ritenuto sussistente la fattispecie di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio di cui all'art. 319 cod. pen., in quanto Fe.Lu. non ha fatto ricorso alla disciplina dell'evidenza pubblica nella scelta del contraente e per l'affidamento dei contratti di appalto e di fornitura in favore delle società controllate da Co.Al.
I difensori di Co.Al., nell'atto di appello hanno, tuttavia, rilevato che i contratti conclusi dalla F.I.P.M. con le società di Co.Al. erano, secondo la disciplina all'epoca vigente, assoggettati alla regola del cottimo fiduciario, in quanto non raggiungevano la soglia prevista per essere definiti di "rilevanza comunitaria".
La Corte di appello ha confermato la qualificazione cui all'art. 319 cod. pen. in quanto Fe.Lu., pur avendo fatto legittimamente ricorso al cottimo fiduciario, non ha rispettato l'art. 28 del Codice degli appalti e, dunque, non ha indicato i nominativi di imprese diverse da consultare, né le caratteristiche delle società di Co.Al.
Questa forma di illegittimità, tuttavia, non rende l'affidamento dei lavori, dei servizi e delle forniture in economia alle società controllate da Co.Al. contrario ai doveri di ufficio di Fe.Lu.
Il Consiglio federale della F.I.P.M., con le delibere acquisite agli atti, ha, infatti, espressamente autorizzato il conferimento di incarichi di collaborazione esterna, stanziando i fondi necessari, e ha espressamente delegato il Presidente Fe.Lu. alla "ricerca dei soggetti idonei all'espletamento delle attività" e alla "sottoscrizione dei vari contratti e lettere di incarico"; il ricorso alle forme del cottimo fiduciario, dunque, espressamente autorizzato dall'organo federale competente.
Il rilievo che Fe.Lu. abbia orientato la propria scelta in favore delle società controllate da Co.Al., del resto, non fonda di per sé l'applicazione della fattispecie di cui all'art. 319 cod. pen., in quanto gli atti contestati come contrari al dovere di ufficio erano stati espressamente autorizzati dal Consiglio federeale e delegati espressamente all'imputato.
Il delitto di corruzione per l'esercizio della funzione pubblica, di cui all'art. 318 cod. pen. come novellato dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, si differenzia, infatti, da quello di corruzione propria, di cui all'art. 319 cod. pen., in quanto ha natura di reato di pericolo, sanzionando la presa in carico, da parte del pubblico funzionario, di un interesse privato dietro una dazione o promessa indebita, senza che sia necessaria l'individuazione del compimento di uno specifico atto d'ufficio (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555 - 04).
Questa Corte ha precisato che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, realizzato attraverso l'impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, è sussumibile nella previsione dell'art. 318 cod. pen., e non in quella, più severamente punita, dell'art. 319 cod. pen., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia in concreto prodotto il compimento di atti contrari ai doveri di ufficio.
La giurisprudenza di legittimità, in seguito all'introduzione nella trama sistematica del codice penale del reato di cui all'art. 318 cod. pen., ha, del resto, rilevato che l'accettazione da parte del pubblico agente di una indebita remunerazione per l'esercizio di un potere discrezionale non implica necessariamente l'integrazione del delitto di corruzione propria, dovendosi accertare che egli, violando le regole che disciplinano l'esercizio del potere, abbia pregiudizialmente inteso realizzare l'interesse del privato corruttore, sicché, qualora l'atto compiuto abbia comunque perseguito l'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, e non sia stato violato alcun dovere specifico, è configurabile il delitto di corruzione per l'esercizio della funzione (Sez. 6, n. 44142 del 24/05/2023, Di Guardo, Rv. 285366 - 02; Sez. 6, n. 1594 del 10/11/2020, dep. 2021, Siclari, Rv. 280342 - 01; vedi anche: Sez. 6, n. 15641 del 19/10/2023, dep. 2024, Virga, Rv. 286376 - 07; Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555-05).
Il reato di corruzione contestato al capo C) a Fe.Lu. e Co.Al. deve, dunque, essere riqualificato ai sensi dell'art. 318 cod. pen., quale delitto di corruzione per l'esercizio della funzione.
2.3. Tale riqualificazione impone, tuttavia, la declaratoria della prescrizione del reato, contestato come commesso "fino al febbraio 2013".
Il Tribunale di Roma ha, infatti, accertato che l'ultima tranche del compenso per la consulenza fittizia è stata percepita da Fe.Lu. nel mese di febbraio del 2013 (pag. 59 della sentenza di primo grado).
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, del resto, il delitto di corruzione si perfeziona alternativamente con l'accettazione della promessa ovvero con la dazione - ricezione dell'utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione - ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l'offesa tipica, il reato viene a consumazione. (Sez. U., n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246582 -01, nella specie, relativa a promessa e successiva dazione di somma di denaro mediante il versamento della stessa in un conto societario non intestato all'imputato, il momento consumativo è stato individuato in quello di utilizzazione di fatto della somma quale comportamento da lui tenuto "uti dominus").
Il delitto di cui all'art. 318 cod. pen., anteriormente all'entrata in vigore della legge 27 maggio 2015, n. 69 del 2015 era, tuttavia, punito con la pena massima di cinque anni di reclusione e questa previsione edittale deve trovare applicazione nel caso di specie, in ragione dell'irretroattività delle modifiche legislative sopravvenute dell'art. 318 cod. pen., che hanno introdotto un massimo edittale più elevato per il delitto di corruzione per la funzione.
Il termine massimo di prescrizione per il delitto contestato al capo C), così come riqualificato, è, dunque, di sette anni e sei mesi e, nel caso di specie, è integralmente decorso prima della pronuncia della sentenza di primo grado (emessa in data 13 gennaio 2022).
La prescrizione del delitto di cui all'art. 318 cod. pen. è, infatti, intervenuta in data 24 marzo 2021, in quanto al termine di prescrizione massimo, destinato a perfezionarsi in data 28 agosto 2020, devono aggiungersi sei mesi e ventotto giorni per la sospensione del corso della prescrizione a seguito dell'adesione dei difensori dell'imputato all'astensione collettiva dalle udienze penali indetta per l'udienza del 2 dicembre 2019.
Dalle sentenze di merito, peraltro, non risulta evidente che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, secondo quanto previsto dall'art. 129, comma 2, cod. proc. pen.
2.4. L'accoglimento di questo motivo di ricorso, in ragione della sua valenza pregiudiziale, determina l'assorbimento dei motivi proposti da Fe.Lu. e da Co.Al. in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio e alle statuizioni risarcitorie e da Co.Al. in ordine alla violazione del contraddittorio nel corso del giudizio di appello, al vizio di violazione di legge in ordine alla mancata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale e al vizio di motivazione in ordine al carattere "simulato" del contratto stipulato tra la Federazione e la Alcor.
La declaratoria di prescrizione del reato di corruzione contestato al capo C), preclude anche la disamina della censura relativa alla nullità della notifica del decreto di citazione in appello; le Sezioni unite di questa Corte hanno, infatti, statuito che, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata e nullità di ordine generale, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275-01).
La sentenza impugnata deve, dunque, essere annulla senza rinvio nei confronti di Alessio Co.Al. e Fe.Lu. in relazione al reato di cui all'art. 318 cod. pen., così riqualificato il reato contestato al capo C), perché estinto in seguito ad intervenuta prescrizione; tale statuizione comporta la revoca delle confische disposte in relazione a tale delitto.
La disposizione di cui all'art. 578-bis cod. proc. pen., introdotta dall'art. 6, comma 4, D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, ha, con riguardo alla confisca per equivalente e alle forme di confisca che presentino comunque una componente sanzionatoria, natura anche sostanziale e, pertanto, è inapplicabile in relazione ai fatti posti in essere prima della sua entrata in vigore (Sez. U, n. 4145 del 29/09/2022, dep. 2023, Esposito, Rv. 284209-01).
Posto che la prescrizione del reato è maturata prima della pronuncia della sentenza di primo grado, devono, inoltre, essere revocate le statuizioni della sentenza impugnata in favore delle parti civili (conf. Sez. U, n. 39614 del 28/04/2022, Di Paola, Rv. 283670 - 01).
3. I delitti di peculato contestati a Fe.Lu. ai capi F) e I).
3.1. Un rilievo preliminare si impone relativamente ai delitti di peculato contesati a Fe.Lu., in ordine alla sua qualifica pubblicistica.
La Federazione Italiana Pentathlon Moderno, per quanto accertato dai giudici di merito, è una associazione senza fini di lucro, con personalità giuridica di diritto privato, che svolge attività pubblicistica in relazione alla propria natura di ente di promozione dell'attività sportiva.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini dell'attribuzione della qualifica soggettiva di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio a coloro che agiscano per conto delle Federazioni sportive, deve prendersi in considerazione il tipo di attività concretamente svolta dall'agente, perché le Federazioni sportive sono soggetti di diritto privato, legati al C.O.N.I. da un rapporto intersoggettivo esterno, i quali assumono connotazione pubblicistica solo quando agiscono come organo del C.O.N.I. in ordine a specifiche materie previste dallo Statuto di quest'ultimo (Sez. 6, n. 38562 del 17/06/2015, Macalli, Rv. 264937 - 01, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la sentenza di non luogo a procedere, emessa in relazione al reato di abuso d'ufficio, con la quale si è esclusa qualunque qualifica pubblicistica in capo al presidente della Lega professionisti che aveva bloccato nei riguardi di una società di calcio un bonifico avente ad oggetto una quota di contributi proveniente dalla divisione dei diritti televisivi conseguiti a seguito della contrattazione tra lega Calcio e piattaforme televisive; conf. Sez. 6, n. 27637 del 30/04/2024, Cerbone, relativa a condotte di peculato contestate al responsabile amministrativo dell'ufficio contabilità del Comitato Regionale della FIGC per la Campania).
La Corte di appello, pur citando questo orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha attribuito, in via generalizzata, a Fe.Lu. la qualifica di incaricato di pubblico servizio, senza alcuna considerazione della natura dell'attività concretamente svolta in relazione alle diverse condotte contestate e alla loro correlazione all'operatività della Federazione, come soggetto privato o nella sua veste pubblicistica.
La Corte di appello ha, infatti, ritenuto sussistente la qualifica soggettiva di Fe.Lu., esclusivamente sulla base della natura pubblica dei fondi distratti e della loro destinazione alle attività di rilievo pubblicistico di cui all'art. 23 del CONI, in quanto le risorse economiche per lo svolgimento delle attività della FIPM erano costituite quasi integralmente dagli stanziamenti del CONI e dunque da fondi statali.
La Corte di appello, dunque, si è attestata sulla disamina di elementi sintomatici della pubblicità dell'ente e sull'affermazione dell'interesse pubblico perseguito dalla Federazione, che, tuttavia, sono neutri rispetto alla necessaria verifica delle mansioni concretamente svolte dall'agente e del loro regime giuridico.
3.2. Queste argomentazioni non sono, dunque, conformi alla disciplina vigente.
A seguito della legge 26 aprile 1990, n. 86, il legislatore ha, infatti, delineato la nozione di pubblico ufficiale (art. 357 cod. pen.) e di incaricato di un pubblico servizio (art. 358 cod. pen.) secondo una concezione oggettivo-funzionale, che ha inteso superare il riferimento, presente nella disciplina previgente, al "rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione", e che si incentra sul regime giuridico dell'attività concretamente esercitata.
L'attuale formulazione dell'art. 357 cod. pen. prevede, infatti, che "agli effetti della legge penale", è pubblico ufficiale colui il quale esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa, dovendosi ritenere amministrativa la funzione "disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi".
La qualifica di pubblico ufficiale postula, pertanto, che il soggetto agente svolga in concreto mansioni tipiche dell'attività pubblica, che può manifestarsi nelle forme della pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa, prescindendo dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con l'ente.
Ne discende che, ai fini del riconoscimento della qualifica di pubblico ufficiale "agli effetti della legge penale", non deve aversi riguardo alla natura dell'ente da cui lo stesso dipende, né alla tipologia del relativo rapporto di impiego, né ancora all'esistenza di un formale rapporto di dipendenza con lo Stato o con l'ente pubblico, ma deve valutarsi esclusivamente la natura dell'attività effettivamente espletata dall'agente, ancorché lo stesso sia un soggetto "privato".
Il criterio oggettivo-funzionale della nozione di "pubblico ufficiale" impone, dunque, un'attenta valutazione dell'attività concretamente esercitata dal soggetto, la ricerca e l'individuazione della disciplina normativa alla quale essa è sottoposta, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore, e la verifica della presenza dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dal secondo comma dell'art. 357 cod. pen., id est la constatazione che, nel suo svolgimento, l'agente abbia concorso alla formazione o alla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione ovvero esercitato poteri autoritativi o certificativi (Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211190; Sez. 6, n. 1943 del 13/01/1999, Mascia ed altro, Rv. 213910).
Parimenti l'art. 358 cod. pen. definisce "incaricato di un pubblico servizio" colui il quale, a qualunque titolo, presta un servizio pubblico, a prescindere da qualsiasi rapporto d'impiego con un determinato ente pubblico.
La giurisprudenza di legittimità ha rilevato che il legislatore del 1990, nel delineare la nozione di incaricato di pubblico servizio, ha privilegiato il criterio oggettivo - funzionale, utilizzando la locuzione "a qualunque titolo" ed eliminando ogni riferimento, contenuto invece nel testo previgente dell'art. 358 cod. pen., al rapporto d'impiego con lo Stato o altro ente pubblico (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835).
Il comma secondo del medesimo art. 358 cod. pen. esplicita il concetto di servizio pubblico, ritenendolo formalmente omologo alla funzione pubblica di cui al precedente art. 357 cod. pen., ma caratterizzato dalla mancanza dei poteri tipici di quest'ultima (poteri deliberativi, autoritativi o certificativi).
Il parametro di delimitazione esterna del pubblico servizio è, dunque, identico a quello della pubblica funzione ed è costituito da una regolamentazione di natura pubblicistica, che vincola l'operatività dell'agente o ne disciplina la discrezionalità in coerenza con il principio di legalità, senza lasciare spazio alla libertà di agire quale contrassegno tipico dell'autonomia privata (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835; Sez. 6 n. 39359 del 07/03/2012, Ferrazzoli, Rv. 254337).
Agli effetti della legge penale, dunque, l'esercizio della pubblica funzione o del pubblico servizio da parte dell'agente deve essere escluso quando l'attività svolta dal soggetto sia regolata in forma privatistica, anche se ne è parte una persona giuridica pubblica o una società partecipata quasi totalitariamente da un ente pubblico.
3.3. Muovendo da tali principi, deve rilevarsi come gli argomenti della Corte di appello collidono con il criterio oggettivo-funzionale sancito dal legislatore per attribuire la qualifica pubblicistica, in quanto è la connotazione oggettiva e funzionale dell'attività e non già il carattere pubblico della pecunia a fondare la qualifica di agente pubblico.
Fe.Lu., dunque, esercitava un servizio pubblico (ed era, dunque, incaricato di pubblico servizio) nella stipulazione dei contratti nell'interesse della F.I.P.M. e anche del contratto di locazione dell'immobile di P (presupposto del peculato contestato al capo I), in quanto la stipulazione di questo contratto, secondo la delibera n. 12 del 27 marzo 2012, era funzionale alle esigenze abitative di tutti i soggetti-atleti, dipendenti, dirigenti, in vista dei lavori di ammodernamento del complesso sportivo di P (pag. 6 della sentenza impugnata).
Non sussiste, invece, la qualifica pubblicistica di Fe.Lu. con riferimento alla percezione dei rimborsi contestata quale condotta di peculato al capo F).
I rimborsi, infatti, per quanto accertato dalle sentenze di merito, avevano ad oggetto "viaggi non istituzionali", a carattere famigliare, e le "spese più disparate (supermercato, ristoranti, bar") e traevano origine dal proprio rapporto contrattuale con la Federazione, retto dal diritto privato e non da norme di diritto pubblico.
In nessun punto delle sentenze di merito emerge, inoltre, che questi esborsi siano stati posti in essere nell'esercizio concreto ed effettivo di atti e di mansioni dell'imputato costituenti espressione di un servizio pubblico.
3.4. Alla stregua dei rilievi che precedono, pertanto, le condotte di peculato contestate all'imputato al capo F) devono essere qualificate come ipotesi di appropriazione indebita di cui agli artt. 81,646 cod. pen., aggravata dall'abuso di prestazione di opera ai sensi dell'art. 61 n. 11 cod. pen.
Integra, infatti, il delitto di appropriazione indebita aggravato dall'abuso delle relazioni di ufficio la condotta dell'amministratore che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato (ex plurimis: Sez. 2, n. 50087 del 14/11/2013, Biondo, Rv. 257646 -01).
La diversa qualificazione giuridica del fatto operata in sentenza dalla Corte di cassazione senza preventivamente renderne edotte le parti, del resto, non determina, alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio, in conformità dell'art. 111, comma 2, Cost. e dell'art. 6CEDU, secondo l'interpretazione della giurisprudenza della Corte EDU nella sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, quando non avvenga "a sorpresa", in quanto la stessa sia stata prospettata, se non sollecitata, proprio dall'imputato e dal suo difensore.
Nel caso di specie l'insussistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio di Fe.Lu. è stata dedotta nel corso del giudizio e, dunque, non lede il diritto di difesa del ricorrente.
Nessun rilievo assume la sopravvenuta procedibilità a querela del delitto di appropriazione indebita; la costituzione di parte civile non revocata nei successivi gradi di giudizio equivale, infatti, a querela ai fini della procedibilità di reati originariamente perseguibili d'ufficio, divenuti perseguibili a querela a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (ed. riforma Cartabia), posto che la volontà punitiva della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere legittimamente desunta anche da atti che non contengono la sua esplicita manifestazione (Sez. 3, n. 3, n. 27147 del 09/05/2023, S., Rv. 284844 - 01; conf. Sez. U, n. 40150 del 21/6/2018, Saltino, Rv. 273551-01, par. 3.2, con riferimento ai reati divenuti perseguibili a querela per effetto del D.Lgs. 10 aprile 2018, n. 36, ed ai giudizi pendenti in sede di legittimità).
In relazione a tale reato di appropriazione indebita aggravata di cui agli artt. 646, n. 11 cod. pen., commesso sino al 21 aprile 2013 sono, tuttavia, ormai decorsi i termini di prescrizione (tenuto anche conto dei periodi di sospensione sopra indicati) e, pertanto, agli effetti penali, non emergendo dagli atti circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274), deve essere disposto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
La declaratoria di prescrizione di questo reato preclude l'esame delle ulteriori censure proposte dal ricorrente in ordine a tale capo della sentenza.
Deve, inoltre, essere revocata la confisca disposta in relazione a tali condotte appropriative e, posto che la prescrizione è intervenuta prima della pronuncia della sentenza di primo grado, anche le relative statuizioni civili.
3.5. Con il quarto motivo di ricorso l'avvocato Longoni ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine ai delitti di peculato contestati ai capi F), I) e L).
Le condotte di peculato contestate non sarebbero sussistenti, in quanto mancherebbe il presupposto necessario della condotta, costituito dal possesso della cosa da parte dell'agente per ragioni del suo ufficio o di servizio.
Fe.Lu., infatti, non aveva la disponibilità autonoma dei fondi della Federazione, essendo la stessa di competenza del Consiglio Federale, che le aveva espressamente autorizzate. Nessun altro dei membri del Consiglio Federale, peraltro, sarebbe stato sottoposto a indagini o imputato per tali condotte.
Se i membri del Consiglio Federale fossero stati tratti in inganno da Fe.Lu., per converso, ricorrerebbe il delitto di truffa o il delitto di cui all'art. 316-fercod. pen.
3.6. Il motivo è inammissibile per aspecificità in quanto, pur deducendo un vizio di legittimità, si risolve nella sollecitazione ad un rinnovato esame di merito degli elementi probatori, non consentito in sede di legittimità, e non si confronta con la sentenza impugnata.
La Corte di appello ha, infatti, rilevato, con motivazione logica e congrua, che i consiglieri della Federazione hanno dichiarato in dibattimento di aver approvato i bilanci sulla base di quanto esposto da Fe.Lu. e senza svolgere alcun controllo e che nessun documento veniva prodotto dall'imputato a corredo del bilancio da approvare.
Sulla base di questi rilievi, i giudici di merito hanno non incongruamente ritenuto che Fe.Lu. avesse sistematicamente piegato le regole organizzative della Federazione e vanificato i controlli previsti, acquisendo la piena disponibilità delle risorse dell'ente.
4. Il motivo aggiunto relativo all'applicazione dell'art. 314-bis cod. pen. alle condotte di peculato contestate ai capi F) e I).
4.1. Con memoria depositata in data 29 agosto 2024, l'avvocato Longoni ha dedotto che l'art. 314-bis cod. pen. deve trovare applicazione con specifico riguardo alle condotte contestate ai capi di imputazione F) e I) ascritti a Fe.Lu., determinandone la non punibilità per sopravvenuta abolitici criminis.
Il difensore rileva che la collocazione sistematica dell'art. 314-bis cod. pen., "a ridosso dell'art. 314 cod. pen.", e la clausola di riserva con la quale si apre la fattispecie, inducono a ritenere che questa disposizione disciplini attualmente tutte le condotte di peculato per distrazione.
L'art. 314-bis cod. pen., dunque, non costituirebbe una forma speciale di abuso di ufficio ("l'ultimo residuo dell'art. 323"), che mantiene ferma la punibilità, seppure con una pena assai più mite, di quelle condotte distrattive che rientravano nella fattispecie dell'abuso di ufficio, ma costituirebbe la nuova disciplina generale del peculato per distrazione, idonea a erodere l'ambito applicativo dell'art. 314 cod. pen., per come interpretato sino ad ora dalla giurisprudenza.
La nuova fattispecie di cui all'art. 314-bis cod. pen., dunque, si riferisce alla distrazione tout court e seleziona le condotte da punire esclusivamente in ragione del fatto che esse contrastino con quanto "previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità.
Le distrazioni che si concretizzano in una scelta discrezionale della pubblica amministrazione o che non consentono l'individuazione della specifica norma di legge violata, tuttavia, sarebbero state oggetto di abolitici criminis da parte del legislatore.
Sarebbe, infatti, intollerabilmente discriminatorio che l'ordinamento punisca per il futuro solo le condotte distrattive che contrastano con quanto "previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità" e, al tempo stesso, mantenga l'efficacia di condanne - ancora sub iudice - inerenti a ipotesi distrattive meno gravi (che si concretizzano in una scelta discrezionale della pubblica amministrazione o che non consentono l'individuazione della specifica norma di legge violata).
Il peculato è, infatti, punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi di reclusione ed il delitto di cui all'art. 314-bis cod. pen. con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Le condotte di peculato distrattivo che, invece, abbiano comportato la violazione di disposizioni di legge, dovrebbero, ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen., comportare l'applicazione della cornice edittale più favorevole al reo, ovvero quella di nuova introduzione.
4.2. Il motivo è infondato.
4.2.1. L'art. 9, comma 1, D.L. 4 luglio 2024, n. 92, "Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile, penale e di personale del Ministero della giustizia", ha introdotto nel codice penale il reato di indebita destinazione di denaro o cose mobili all'art. 314-bis, a decorrere dal 5 luglio 2024.
Questa disposizione espressamente sancisce che "Fuori dei casi previsti dall'articolo 314, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, li destina ad un uso diverso da quello previsto da specifiche disposizioni di legge o da atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità e intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni".
Nel preambolo al decreto legge il Governo ha precisato di aver fatto ricorso al decreto legge, "ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di definire, anche in relazione agli obblighi euro-unitari, il reato di indebita destinazione di beni ad opera del pubblico agente".
4.2.2. Il riferimento agli obblighi di incriminazione derivanti, ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost., dal diritto dall'Unione europea è relativo al disposto dell'art. 4, paragrafo 3, della Direttiva UE 2017/1371 del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale (c.d. Direttiva PIF).
Secondo il nono considerando di questa direttiva, possono ledere gli interessi finanziari dell'Unione alcune condotte del funzionario pubblico che mirano all'"appropriazione indebita di fondi o beni, per uno scopo contrario a quello previsto".
L'art. 4, paragrafo 3, della direttiva stabilisce, inoltre, che "gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché, se intenzionale, l'appropriazione indebita costituisca reato" e precisa che "ai fini della presente direttiva, s'intende per "appropriazione indebita" l'azione del funzionario pubblico, incaricato direttamente o indirettamente della gestione di fondi o beni, tesa a impegnare o erogare fondi o ad appropriarsi di beni o utilizzarli per uno scopo in ogni modo diverso da quello per essi previsto, che leda gli interessi finanziari dell'Unione".
Il successivo paragrafo 4 dell'art. 4 precisa, inoltre, che ai fini della direttiva s'intende per ""funzionario pubblico" un funzionario dell'Unione o un funzionario nazionale, compresi i funzionari nazionali di un altro Stato membro e i funzionari nazionali di un paese terzo".
In attuazione dell'obbligo di criminalizzazione sancito dall'art. 4, paragrafo 3, della direttiva, il legislatore, con l'art. 314-bis cod. pen., ha introdotto una fattispecie di reato, che presenta una struttura ibrida, in quanto mutua gli elementi costitutivi in parte dal peculato (art. 314 cod. pen.) e in parte dall'ormai abrogato abuso d'ufficio (art. 323 cod. pen.).
Il nuovo reato di indebita destinazione presenta, sul piano del fatto tipico oggettivo, il medesimo presupposto e l'oggetto materiale della condotta del peculato: il soggetto attivo del reato, pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, deve, infatti, avere, "per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui.
Parimenti il reato di cui all'art. 314-bis cod. pen. presenta più elementi dell'abuso d'ufficio: sul piano oggettivo, la condotta di destinazione del bene ad uso diverso deve contrastare, così come avveniva sotto l'art. 323 cod. pen., come modificato nel 2020, con specifiche disposizioni di legge o con atti aventi forza di legge dai quali non residuano margini di discrezionalità; corrispondente è, inoltre, l'evento del reato (l'ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri, in alternativa all'altrui danno ingiusto) e l'elemento soggettivo, costituito dal dolo intenzionale.
4.2.3. L'introduzione della nuova fattispecie di reato ha anticipato di pochi giorni l'approvazione della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare), che, con l'art. 1, comma 1, lett. b), ha abrogato il reato di abuso di ufficio, a decorrere dal 25 agosto 2024.
Il decreto legge n. 92 del 2024 è, di seguito, stato convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2024, n. 112, a decorrere dal 10 agosto 2024.
La legge di conversione ha introdotto un secondo comma nel corpo dell'art. 314-bis cod. pen.; questa disposizione prevede che "(L)a pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell'Unione europea e l'ingiusto vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto sono superiori ad Euro 100.000".
Nella Relazione di accompagnamento al decreto legge, comunicato alla Presidenza del Senato il 5 luglio 2024 per la conversione in legge, il Ministro della Giustizia ha descritto le finalità dell'introduzione della nuova fattispecie di reato, rilevando che "(I)n seguito alla riforma attuata con la legge n. 86 del 1990 sono state soppresse dal peculato (art. 314 c.p.) le condotte di "distrazione a profitto proprio o di altri" e, contemporaneamente, si è riformato l'abuso di ufficio. In conseguenza di ciò, la giurisprudenza ha qualificato come abuso di ufficio le condotte non comportanti appropriazione, consistenti nel mero mutamento della destinazione di legge del denaro o delle cose mobili pubbliche (Sez. 6, n. 12658 del 2/3/2016, Rv. 266871-01; Sez. 6, n. 19484 del 23/1/2018, Rv. 273783: Sez. 6, n. 41768 del 22/6/2017, Rv. 271283-01; Sez. 6, n. 27910 del 23/9/2020, Rv. 279677-01). L'intervento di cui all'articolo in esame risponde allo scopo di chiarire definitivamente i termini di punibilità di tali condotte non appropriative, anche in ragione della necessità di preciso adeguamento alla normativa euro-unitaria".
4.2.4. Nella versione originaria del codice del 1930, l'art. 314 cod. pen. (come pure il precedente art. 168 del codice Zanardelli) prevedeva che il delitto di peculato potesse essere commesso in due forme alternative: l'appropriazione e la distrazione.
Con l'art. 1 della legge 26 aprile 1990, n. 86, il legislatore ha, tuttavia, espunto, nella fattispecie di cui all'art. 314 cod. pen., il riferimento alla distrazione a profitto proprio o di altri, al fine di sussumere queste condotte nella fattispecie di abuso di ufficio ed evitare violazioni del principio di proporzionalità tra fatto e sanzione.
L'intento del legislatore era, infatti, quello al fine di arginare alcune interpretazioni della giurisprudenza, che ritenevano integrato il reato di peculato per l'impiego di denaro o delle cose mobili nel possesso o nella disponibilità del pubblico agente per scopi diversi da quelli cui i beni erano destinati, anche a fronte di mere violazioni della disciplina amministrativa sulla destinazione dei fondi pubblici e di utilizzo degli stessi per fini di pubblica utilità.
La giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, ritenuto che, pur in seguito all'intervento del legislatore del 1990, il peculato per distrazione integrasse alternativamente il reato di abuso di ufficio o di peculato, in ragione delle finalità perseguite dall'agente, e che permanessero nell'ambito applicativo dell'art. 314 cod. pen. le condotte di c.d. distrazione appropriativa, ossia di destinazione da parte del pubblico agente di beni all'esclusivo soddisfacimento di interessi privati.
Le Sezioni unite Vattani hanno rilevato che "l'eliminazione della parola "distrazione" dal testo dell'art. 314 cod. pan., operata dalla legge n. 86 del 1990, non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall'agente pubblico nell'Area di rilevanza penale dell'abuso d'ufficio.
Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato.
La condotta distrattiva, invece, può rilevare come abuso d'ufficio nei casi in cui la destinazione del bene, pur viziata per opera dell'agente, mantenga la propria natura pubblica e non vada a favorire interessi estranei alla p.a. (Sez. 6, n. 17619 dei 19/03/2007, Porpora; Sez. 6, n. 40148 del 24/10/2002, Gennari)" Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012, dep. 2013, Vattani, Rv. 255296 - 01, non massimata sul punto).
Il confine tra peculato e abuso d'ufficio, con riferimento alle condotte distrattive, era, dunque, costituito dalla natura delle finalità cui è destinato il denaro o la cosa mobile altrui.
L'utilizzo per finalità esclusivamente personali ed estranee a quelle istituzionali di denaro pubblico determina la "distrazione" dello stesso, mentre il reato di peculato non è ravvisabile nei casi in cui l'interesse privato dell'agente e quello istituzionale dell'ente siano sincroni e sovrapponibili, non risultando in alcun modo contrastanti (Sez. 6, n. 25173 del 13/04/2023, Costa, Rv. 284790-01, fattispecie in cui la Corte ha escluso il reato di peculato con riguardo all'utilizzo di fondi di un consorzio industriale impiegati dal consiglio di amministrazione per il pagamento delle prestazioni di un avvocato incarico di impugnare il provvedimento regionale che disponeva lo scioglimento dell'ente, a nulla rilevando il convergente interesse degli imputati di evitare l'azzeramento degli organi consortili dai medesimi ricoperti).
L'utilizzo di denaro pubblico per finalità diverse da quelle previste integra, dunque, il reato di abuso d'ufficio qualora l'atto di destinazione avvenga in violazione delle regole contabili, sebbene sia funzionale alla realizzazione, oltre che di indebiti interessi privati, anche di interessi pubblici obiettivamente esistenti e per i quali sia ammissibile un ordinativo di pagamento o l'adozione di un impegno di spesa da parte dell'ente, mentre integra il più grave reato di peculato nel caso in cui l'atto di destinazione sia compiuto in difetto di qualunque motivazione o documentazione, ovvero in presenza di una motivazione di mera copertura formale, per finalità esclusivamente private ed estranee a quelle istituzionali (Sez. 6, n. 27910 del 23/09/2020, Perricone, Rv. 279677, fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la condanna per peculato del presidente di un'azienda pubblica, rilevando che l'accertata violazione della normativa per la scelta della ditta appaltatrice e la mancata osservanza delle norme di contabilità, in assenza della prova della non corrispondenza dell'importo erogato al valore delle opere realizzate, avrebbero potuto integrare al più il reato di abuso di ufficio; conf.).
4.2.5. Ritiene il Collegio che l'interpretazione dell'art. 314-bis cod. pen. proposta dal ricorrente non possa essere condivisa.
Sul piano testuale, infatti, non è certo casuale la scelta del legislatore di non riproporre il lemma "distrae", ma di utilizzare il diverso predicato verbale "destina", proprio al fine di evitare equivoci in ordine alla volontà di reintrodurre una distinzione tra peculato per appropriazione e per distrazione non più contemplata nel codice penale dal 1990.
La disposizione di cui all'art. 314-bis cod. pen., del resto, esordisce con una clausola di riserva ("(F)uori dai casi previsti dall'art. 314") proprio per regolare il concorso apparente tra le fattispecie di reato di peculato e di indebita destinazione di denaro o cose mobili.
Con questa clausola di riserva "determinata", in quanto riferita ad una specifica disposizione, il legislatore ha inteso escludere un'incidenza della nuova fattispecie sull'ambito applicativo dell'art. 314 cod. pen., per come interpretato dal diritto vivente.
Se la nozione di "appropriazione" che connota la condotta del reato di peculato, infatti, non ricomprendesse anche quello di "distrazione", non vi sarebbe alcuna interferenza tra le disposizioni di cui agli articoli 314 e 314-bis cod. pen., in quanto le due fattispecie contemplerebbero due condotte del tutto distinte e irrelate; in nessun caso, infatti, una "destinazione" di beni per finalità diverse da quelle pubbliche, ma pur sempre compatibile con la realizzazione di interessi pubblici, potrebbe essere ascritta alla nozione di "appropriazione".
La tipicità della fattispecie di cui all'art. 314-bis cod. pen., dunque, si staglia una volta esclusa la ricorrenza della fattispecie di peculato di cui all'art. 314 cod. pen.
Il legislatore, dunque, consapevole del diritto vivente, ne ha preso atto e, con la previsione della clausola di riserva contenuta nell'art. 314-bis cod. pen., ha inteso mantenerne inalterato l'ambito applicativo del delitto di peculato, percome delineato dal costante orientamento della giurisprudenza di legittimità.
Le condotte di distrazione qualificabili come peculato, dunque, non sono suscettibili di diversa qualificazione per effetto dell'introduzione del delitto di cui all'art. 314-bis cod. pen., e, pertanto, rimangono punibili ai sensi dell'art. 314 cod. pen.
Sono questi i casi in cui la condotta distrattiva integra un'effettiva appropriazione perché la res è sottratta in modo definitivo dalla finalità pubblica per conseguire finalità private proprie o altrui.
Con riferimento a queste ipotesi di "distrazione appropriativa" vi è, dunque, continuità nella qualificazione giuridica e, di conseguenza, nella risposta sanzionatoria, sempre affidata all'art. 314 cod. pen.
L'art. 314-bis cod. pen., dunque, non interferisce e non costituisce Lex mitior rispetto alle condotte di peculato per distrazione, che esulano del tutto dall'ambito applicativo della fattispecie di indebita destinazione.
La nuova fattispecie di reato, coerentemente con la ragione della sua introduzione, sottrae, invece, le condotte di indebita destinazione di denaro o cose mobili, ritenute nell'assetto previgente quale condotte di abuso di ufficio, all'irrilevanza penale conseguente all'abolitio criminis di tale reato, per evitare il contrasto con gli obblighi di criminalizzazione derivanti dal diritto dell'Unione europea;
Al contempo, l'art. 314-bis cod. pen. esclude la riespansione dell'ambito applicativo del reato di peculato con riferimento a tali classi di condotte, in quanto chiarisce, in negativo, che la deviazione dal fine pubblico non integra sempre e comunque peculato.
La nuova fattispecie di indebita destinazione, dunque, interviene solo sulle condotte di "abuso distrattivo" di fondi pubblici, finora sussunte nell'art. 323 cod. pen., cioè quelle consistenti nel "mero mutamento della destinazione di legge del denaro o delle cose mobili pubbliche", pur sempre compatibili con i fini istituzionali dell'ente di appartenenza dell'agente pubblico.
La locuzione "destina ad un uso diverso", infatti, in forza della clausola di riserva determinata utilizzata dal legislatore (che esclude in radice interferenze tra le condotte di "distrazione appropriativa" e di "abuso distrattivo"), implica pur sempre l'immanenza di una finalità pubblica, che, per quanto differente da quella prevista dal legislatore, deve pur sempre essere presente.
Le condotte di indebita destinazione, originariamente ascrivibili alla fattispecie di abuso di ufficio, stante la continuità nella rilevanza penale del fatto (a fronte dell'omogeneità di elementi strutturali di fattispecie), continueranno, dunque, ad essere punibili ai sensi dell'art. 314-bis cod. pen. e si applicherà, ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen. la lex mitior costituita dalla nuova cornice edittale.
Il legislatore, rispetto alle condotte di indebita destinazione punibili dalla disciplina previgente come abuso (distrattivo) d'ufficio, ha, tuttavia, inteso realizzare un'abrogatio sine abolitione parziale, rendendo non più punibili le condotte che non abbiano comportato violazione di specifiche disposizioni di legge o di disposizioni che lasciano residuare margini di discrezionalità del pubblico agente.
Un'ulteriore riduzione dello spazio di rilevanza penale delle condotte di indebita destinazione in precedenza ascrivibili al reato di abuso di ufficio, si realizza in relazione al presupposto della condotta: il possesso o la disponibilità della res, richiesto dall'art. 314-bis cod. pen., sul modello del peculato, è, infatti, presupposto più stringente, e quindi maggiormente selettivo, rispetto a quello allora previsto dall'art. 323 cod. pen., che utilizzava la formula "nello svolgimento delle funzioni o del servizio".
Vi sarà, inoltre, abolitici criminis per le condotte distrattive aventi ad oggetto beni immobili, nell'assetto previgente punibili ai sensi dell'art. 323 cod. pen., ma attualmente non più contemplate dall'art. 314-bis cod. pen.
4.2.6. Muovendo da tali rilievi, deve rilevarsi come i delitti di peculato contestati ai capi F) e I) a Fe.Lu. non siano travolti dall'introduzione nel codice penale del delitto di indebita destinazione di danaro o cose mobili.
La sentenza impugnata deve, dunque, essere confermata, relativamente ai delitti di peculato contestati ai capi F) e I), e tali statuizioni devono essere dichiarate irrevocabili ai sensi dell'art. 624, comma 2, cod. proc. pen.
Posto, tuttavia, che la pena inflitta all'imputato è stata determinata, in attuazione della disciplina del reato continuato, considerando come reato base il delitto contestato al capo F), deve essere disposta la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Roma per la rideterminazione della pena principale e delle pene accessorie nei confronti di Fe.Lu. in ordine ai residui reati, nonché per la quantificazione delle somme relative alla confisca e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.
5. Il delitto di peculato contestato a Fe.Lu. al capo L).
5.1. Con il quinto motivo di ricorso l'avvocato Longoni ha cesurato l'inosservanza della legge penale e il vizio di motivazione in ordine alla mancata riqualificazione del delitto di peculato contestato al capo L) in peculato d'uso, secondo i principi di diritto enunciati dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in tema di utilizzo del telefono di ufficio per fini personali.
5.2. Il motivo è infondato.
Le Sezioni unite di questa Corte hanno statuito che la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d'ufficio per fini personali al di fuori dei casi d'urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d'uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell'ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative (Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012, dep. 2013, Vattani, Rv. 255296 - 01; conf. Sez. 6, n. 50944 del 04/11/2014, Barassi, Rv. 261416 - 01, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto integrato il reato di peculato d'uso della condotta di un amministratore comunale, che, ricevuto in uso un telefono cellulare per ragioni di servizio, aveva attivato la connessione internet e servizi aggiuntivi estranei alle funzioni del suo ufficio, per un costo pari a circa 11.000 Euro nell'arco di un biennio).
La Corte di appello di Roma, nel ritenere sussistente il delitto di peculato e non già di peculato d'uso, ha fatto corretta applicazione di questi principi di diritto, in quanto ha rilevato che l'imputato ha ottenuto la disponibilità, per ragioni di servizio, di una seconda scheda cellulare intestata alla Federazione, che ha, tuttavia, destinato stabilmente alle esigenze della moglie.
I giudici di appello hanno, inoltre, non illogicamente rilevato che questa circostanza era dimostrata dalle risultanze dei tabulati telefonici e dalla "migrazione" del numero telefonico associato a questa scheda, dopo la cessazione dell'incarico da parte di Fe.Lu., a sua moglie.
L'imputato, dunque, ricorrendo a questo espediente, si è appropriato della somma di complessivi Euro 2.377,18, corrispondenti al costo del traffico telefonico generato dalla scheda telefonica utilizzata dalla moglie, che è stato posto a carico della Federazione.
La condotta appropriativa si è, dunque, risolta non già nell'uso momentaneo della cosa e nella sua immediata restituzione, come previsto dall'art. 314, secondo comma, cod. pen., ma nell'indebita appropriazione di una somma di danaro, posta illegittimamente a carico della Federazione.
La Corte di appello ha, peraltro, rilevato correttamente che la condotta accertata non può essere qualificata quale peculato d'uso, in quanto questo delitto è configurabile soltanto se ha ad oggetto cose di specie e non cose di quantità, come il danaro (ex plurimis: Sez. 6, n. 12368 del 17/10/2012, Medugno; Sez. 6, n. 27528 del 6/7/2009, Severi; Sez. 6, n. 3411 del 23/1/2003, F.; Sez. 6, n. 37771 del 8/11/2002, Cacciapaglia; Sez. 6, n. 7972 del 26/8/1997, Dezzuti; Sez. 6, n. 8286 del 3/5/1996, Galdi; Sez. 6, n. 1862 del 20/10/1992, dep. 1993, Marceschi, Rv. 193530 - 01).
Il denaro è, infatti, menzionato, in modo alternativo, solo nel primo comma e non anche nel secondo comma dell'art. 314 c.p., in cui il riferimento è all'uso momentaneo della "cosa", senza alcun riferimento al denaro; la natura fungibile del danaro, inoltre, non consente, - dopo l'uso - la restituzione della stessa cosa, ma solo del tantundem, irrilevante ai fini dell'integrazione dell'ipotesi attenuata (Sez. 6, n. 49474 del 4/12/2015, Stanca, Rv. 266242 - 01).
L'art. 314, secondo comma, cod. pen. esige, dunque, la restituzione della "stessa cosa" di cui l'agente si è appropriato e non già di una cosa di valore equivalente.
6. L'illecito amministrativo dipendente dal reato di corruzione contestato ad Area Srl
6.1. L'avvocato Daniele Ingarrica, con il primo motivo di ricorso, proposto nell'interesse di Area Srl, ha censurato l'errata applicazione degli artt. 5 e 6 D.Lgs. n. 231 del 2001 e la manifesta illogicità della motivazione in ordine all'affermazione della responsabilità amministrativa da reato dell'ente, con riferimento al difetto del rapporto organico di Co.Al. con l'ente, alla commissione del reato nell'esclusivo interesse dell'imputato e della mancanza di motivazione in ordine alla colpevolezza di organizzazione dell'ente.
6.2. Il motivo, che si articola in plurime censure, è infondato.
Occorre rilevare, in via preliminare, che la declaratoria di intervenuta prescrizione del reato presupposto di corruzione contestato al capo C) non preclude l'affermazione della responsabilità amministrativa dell'ente, in quanto l'art. 8, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 231 del 2001 espressamente sancisce che la stessa sussiste anche quando "il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia".
6.2.1. Infondata è la censura relativa alla carenza di rapporto qualificato tra Co.Al. e Area Srl
L'art. 5, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 231 del 2001 sancisce che "L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso".
La Corte di appello ha ritenuto, con motivazione congrua e logica, che Co.Al. ha svolto le funzioni di amministratore di fatto della società, secondo quanto previsto dall'art. 2639 cod. civ., in quanto ha sottoscritto personalmente il contratto che legava Fe.Lu. e Area Srl in data 23 gennaio 2012, la sede della società era presso il domicilio fiscale dell'imputato ed è stato il ricorrente, e non l'amministratore di diritto, a consegnare tutta la documentazione della società agli inquirenti.
6.2.2. Infondata è anche la seconda censura, formulata dalla difesa, relativa all'inosservanza dell'art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 231 del 2001.
Tale disposizione prevede, infatti, che " l'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi ".
Come evidenzia la Relazione ministeriale al paragrafo 3.2 "(L)a norma stigmatizza il caso di "rottura" dello schema di immedesimazione organica; si riferisce cioè alle ipotesi in cui il reato della persona fisica non sia in alcun modo riconducibile all'ente perché non realizzato neppure in parte nell'interesse di questo"
La giurisprudenza di legittimità, nell'interpretare questa disposizione, ha rilevato che nessun addebito di responsabilità, già sul piano "oggettivo" della fattispecie, può essere rivolto all'ente, qualora l'agente abbia strumentalizzato la propria posizione all'interno dello stesso, per perseguire un interesse esclusivo proprio o di terzi (Sez. 2, n. 3615 del 20 dicembre 2005, D'Azzo, Rv. 23295).
La giurisprudenza di legittimità, con riferimento alla possibilità di applicare l'art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 231 del 2001 alle società unipersonali a responsabilità limitata, ha, inoltre, precisato che, nell'accertamento della responsabilità dell'ente, pur a fronte di un soggetto giuridico autonomo, dotato di un proprio patrimonio e formalmente distinto dalla persona fisica dell'unico socio, occorre verificare se sia individuabile un interesse sociale distinto da quello dell'unico socio, tenendo conto dell'organizzazione della società, dell'attività svolta e delle dimensioni dell'impresa, nonché dei rapporti tra socio unico e società (Sez. 6, n. 45100 del 16/02/2021, New Events, Rv. 282291 - 01, in motivazione).
La Corte di appello, facendo corretta applicazione di questi principi di diritto, ha escluso che il reato di corruzione sia stato commesso nell'esclusivo interesse di Co.Al., in quanto i contratti stipulati con la Federazione erano diretti a incrementare il fatturato dell'ente.
Nella valutazione non illogica dei giudici di appello, inoltre, Area Srl ha, percepito un vantaggio proprio, per effetto dei corrispettivi introitati dall'esecuzione dei contratti stipulati con la F.I.P.M.
I giudici di appello hanno, peraltro, rilevato che la società Area Srl aveva "una propria consistenza e struttura" e che ha operato anche negli anni precedenti ai contratti stipulati con la Federazione; non poteva, dunque, ritenersi sussistente lo stabile asservimento della stessa alle condotte illecite di Co.Al.
6.2.3. Infondata, da ultimo, è anche la terza censura, relativa alla carenza di motivazione in ordine alla colpevolezza di organizzazione dell'ente;
La Corte di appello, infatti, ha rilevato come nel caso di specie la colpa di organizzazione dell'ente si fondi sulla mancata adozione del modello organizzativo.
La deliberata scelta dell'ente di non ottemperare alle prescrizioni degli artt. 6 e 7 del D.Lgs. n. 231 del 2001 (e, dunque, la sua "scelta di disorganizzazione"), nella valutazione non certo incongrua della Corte di appello, ha, dunque, agevolato la commissione dell'illecito amministrativo dipendente da reato contestato alla società.
6.3. Con il secondo motivo il difensore ha censurato la violazione degli artt. 10,11 e 12 del D.Lgs. n. 231 del 2001 e il vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena pecuniaria.
6.4. Il motivo è inammissibile, in quanto si risolve nella sollecitazione, non consentita in sede di legittimità, a pervenire ad una diversa valutazione degli elementi di fatto posti a fondamento della determinazione discrezionale della pena pecuniaria.
La Corte di appello, del resto, ha esercitato legittimamente e con motivazione congrua, la propria discrezionalità sanzionatoria.
I giudici di appello, rilevando che la condotta illecita è stata posta in essere nel prevalente interesse del gruppo di società controllate da Co.Al., ha diminuito la pena pecuniaria nei limiti edittali contemplati dall'art. 12 D.Lgs. n. 231 del 2001.
L'importo delle quote, peraltro, è stato non incongruamente determinato dai giudici di appello, in conformità dell'art. 11 D.Lgs. n. 231 del 2001, sulla base della "gravità del fatto", e, dunque, dell'ammontare dei corrispettivi percepiti dall'ente per effetto dei contratti conclusi in ragione dell'accordo corruttivo tra Fe.Lu. e Co.Al.
6.5. Alla stregua di tali rilievi, il ricorso proposto dalla società Area Srl deve essere rigettato e la società deve essere condannata, ai sensi dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Co.Al. e Fe.Lu. in relazione al reato di cui all'art. 318 cod. pen., così riqualificato il reato contestato al capo C), e nei confronti del solo Fe.Lu. anche per il reato di cui agli artt. 646, 61 n. 11 cod. pen., così riqualificato il reato contestato al capo F), perché estinti in seguito ad intervenuta prescrizione, revocando le relative statuizioni civili nonché le confische disposte in relazione ai suddetti capi.
Rigetta nel resto i ricorsi e dispone la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Roma per la rideterminazione della pena principale e delle pene accessorie nei confronti di Fe.Lu. in ordine ai residui reati, nonché per la quantificazione delle somme relative alla confisca e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili. Condanna la società Area Srl al pagamento delle spese processuali. Visto l'art. 624 cod. proc. pen., dichiara irrevocabile la sentenza riguardo alla responsabilità di Fe.Lu. per i reati di peculato di cui ai capi I) e L).
Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2024.
Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2025.