Qual è il valore probatorio del DNA nel processo?
E come viene valutato il rifiuto di sottoporsi a un prelievo per il confronto genetico?
Se ne occupa la Cassazione, sez. I penale, ccon la sentenza n. 645 depositata l’8 gennaio 2025, affrontando un caso di omicidio in cui il DNA ha giocato un ruolo centrale.
L'imputato è stato condannato a 15 anni di reclusione per l’omicidio di un uomo, ucciso con 22 colpi inferti con uno scalpello e un martello. La condanna è stata confermata in secondo grado, basandosi su diversi elementi, tra cui:
Analisi del DNA: tracce genetiche dell’imputato sono state trovate sui pantaloni della vittima, in particolare nella zona delle caviglie, compatibili con l’azione di trascinamento del corpo.
Tabulati telefonici: l’imputato è risultato nelle vicinanze del luogo del delitto nel periodo in cui è stato commesso l’omicidio.
Falso alibi: l’imputato aveva fornito un alibi risultato poi falso, coinvolgendo familiari.
L'imputato ha presentato ricorso per cassazione, contestando il valore probatorio del DNA e il fatto che il rifiuto di sottoporsi al prelievo sia stato utilizzato come elemento a suo carico.
La Cassazione ha ribadito che l’esito di un’indagine genetica sul DNA ha natura di prova piena, non di mero elemento indiziario, quando è supportato da un elevatissimo numero di ricorrenze statistiche che rendono infinitesimale la possibilità di errore. Questo principio è sancito dall’art. 192, comma 2, del codice di procedura penale, che consente di affermare la responsabilità penale senza necessità di ulteriori elementi convergenti.
Inoltre, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi a un prelievo non invasivo per il confronto del DNA è considerato un elemento di prova a carico. La giurisprudenza ha chiarito che tale rifiuto, se non motivato da ragioni esplicite e fondate, può essere valutato negativamente dal giudice (sentenze n. 44624/2004 e n. 41770/2018).
Nella vicenda esaminata, la Cassazione ha confermato che:
Il DNA come prova: le tracce genetiche rinvenute sui pantaloni della vittima, in particolare nella zona delle caviglie, sono state considerate prova dell’azione omicida, non solo di un contatto casuale. La posizione bilaterale delle tracce e la loro localizzazione hanno escluso l’ipotesi di un trasferimento secondario o occasionale.
Il rifiuto del prelievo: Pa.Gi. si era rifiutato di sottoporsi a un prelievo non invasivo del DNA, un comportamento perentorio, reiterato e immotivato. Questo rifiuto è stato interpretato come un elemento di prova a carico, poiché dimostrava una consapevolezza del contesto omicida.
Il falso alibi: l’imputato aveva fornito un alibi risultato falso, coinvolgendo familiari. Questo comportamento è stato considerato un ulteriore elemento indiziario a suo carico.
La Cassazione ha respinto il ricorso, confermando la condanna e ribadendo che:
Il DNA, se analizzato secondo protocolli scientifici rigorosi, ha un valore probatorio assoluto.
Il rifiuto di sottoporsi al prelievo, se ingiustificato, può essere valutato come elemento di prova a carico.
Il falso alibi costituisce un ulteriore elemento indiziario che rafforza il quadro probatorio.
Questa sentenza chiarisce due aspetti fondamentali:
Il DNA come prova definitiva: quando le analisi genetiche sono condotte correttamente e presentano un elevato grado di affidabilità, il DNA può essere considerato una prova decisiva, senza necessità di ulteriori elementi.
Il rifiuto del prelievo: il rifiuto ingiustificato di fornire un campione biologico per il confronto del DNA può essere interpretato come un indizio di colpevolezza, soprattutto se inserito in un contesto probatorio già solido.
Cassazione penale, sez. I, sentenza 21/11/2024 (dep. 08/01/2025) n. 645
RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento impugnato, la Corte di Assise di appello di L'Aquila ha confermato la sentenza pronunciata in data 2 novembre 2022 dalla Corte di Assise di L'Aquila con la quale Pa.Gi. è stato condannato, con la riduzione prevista dall'articolo 438, comma 4-ter, cod. proc. pen. a causa dell'esclusione delle circostanze aggravanti a effetto speciale originariamente contestate - che avevano impedito l'accesso al rito abbreviato -, alla pena di quindici anni di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge e al risarcimento del danno in favore delle parti civili, per l'omicidio di Da.Pa. commesso il 22 novembre 2019 colpendolo con ventidue colpi in varie parti del corpo mediante uno scalpello o cesello e un martello.
1.1. Con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito, è stata affermata la responsabilità dell'imputato per il sopraindicato delitto sulla base degli accertamenti tecnico-scientifici relativi alla consulenza anatomopatologica sulle cause della morte e sulla comparazione e analisi del tracciato del DNA dell'imputato con le tracce rinvenute sul corpo della vittima, nonché sui tracciati dei tabulati telefonici, e sulla base delle investigazioni di polizia giudiziaria, delle dichiarazioni dei testimoni e dei consulenti.
In particolare, secondo i giudici di merito l'omicidio di Da.Pa. è stato commesso da una sola persona che lo ha aggredito, all'interno del suo laboratorio, con numerosi colpi inferti con uno strumento tagliente e un martello, rinvenuti sulla scena del crimine, e poi spostato, trascinandolo al suolo per le gambe, all'interno del suddetto laboratorio così da ostacolarne il rinvenimento, che difatti avveniva nei giorni successivi.
All'individuazione dell'imputato si è giunti attraverso la comparazione, cui si era opposto il ricorrente, del suo profilo genetico con le tracce lasciate sui pantaloni della vittima, nonché sulla base della presenza dell'imputato in prossimità del luogo dell'omicidio a fronte della allegazione di un alibi risultato falso.
2. Ricorre Pa.Gi., a mezzo del difensore avv. Licia Carla Sardo, che chiede l'annullamento della sentenza impugnata, denunciando la violazione di legge e il vizio della motivazione, per la insussistenza di sufficienti elementi a carico dell'imputato nonché il mancato esame di ipotesi alternative pur dotate di alta credibilità.
2.1. Il difensore osserva che non è stato accertato il momento nel quale il DNA dell'imputato si è trasferito sui pantaloni della vittima, sicché l'elemento probatorio non è univoco, mentre i giudici di merito fanno unicamente leva, per fondare la responsabilità, sul rifiuto opposto dall'imputato al prelievo di un campione del proprio materiale genetico.
Tale rifiuto, del resto, è stato superficialmente opposto dall'imputato in considerazione del consiglio legale offertogli da un difensore, sicché non può essere valorizzato a suo carico.
D'altra parte, i giudici di merito hanno illegittimamente utilizzato le dichiarazioni rese da PA.GI. alla polizia giudiziaria, che lo esaminava quale persona informata sui fatti, circa il rinvenimento del suo DNA sui pantaloni della vittima: le dichiarazioni non potevano essere utilizzate, come anche i giudici di merito riconoscono, perché indizianti.
I giudici di merito hanno erroneamente e immotivatamente giudicato non plausibili e non dimostrate le giustificazioni offerte dall'imputato che aveva riferito di essersi in precedenza recato nell'abitazione della vittima, notando alcuni indumenti sul tavolo.
2.2. La sentenza è, poi, immotivata per quello che riguarda la ricostruzione del movente, individuato in un traffico di stupefacenti, senza che emerga alcun concreto elemento per addebitare a PA.GI. tale condotta.
La Corte di Assise di appello affastella alcuni insignificanti elementi, tratti da stralci di conversazioni, porzioni di dichiarazioni testimoniali, fantasiose ricostruzioni di movimenti bancari e altre illazioni, per dedurre ingiustificatamente che PA.GI. trafficasse in sostanze stupefacenti, al pari di Da.Pa., e che proprio nell'ambito di questi traffici si sarebbe sviluppato il movente dell'omicidio.
È, in particolare, del tutto fantasiosa la motivazione che ascrive all'imputato la partecipazione a un traffico di stupefacenti sulla base di qualche messaggio e alcune chiamate con due cittadini extracomunitari che sarebbero dediti al traffico di droga.
In ogni caso, il presunto collegamento tra PA.GI. e Da.Pa., per il traffico di droga, è argomentato sulla base di elementi del tutto congetturali.
2.3. Quanto alla datazione dell'omicidio, la Corte, in modo incomprensibile e processualmente inaccettabile, utilizza l'orario nel quale il telefono dell'imputato è stato tracciato in una località non lontana dall'abitazione della vittima, mentre avrebbe dovuto procedere alla datazione della morte sulla base di elementi oggettivi che riguardano la scena del crimine e non gli spostamenti dell'imputato: in sostanza, secondo i giudici di merito, la datazione effettuata dall'accertamento autoptico è esatta solo perché il telefono dell'imputato si trovava nella zona dell'omicidio.
2.4. Anche la questione del mancinismo è utilizzata a carico dell'imputato mentre, invece, essa costituisce un elemento a suo favore tenuto conto che secondo i consulenti tecnici l'aggressore era destrimane mentre l'imputato è mancino.
I giudici di merito, sovvertendo completamente la logica, arrivano ad affermare che l'imputato, trovandosi in una situazione di pericolo, avrebbe utilizzato la mano destra perché abituato a utilizzare indifferentemente entrambi gli arti superiori.
La Corte di secondo grado, inoltre, addossa alla difesa, così violando l'onere probatorio, la dimostrazione che PA.GI., trovandosi in quella situazione, avrebbe dovuto necessariamente utilizzare la mano sinistra.
Del resto, le argomentazioni utilizzate dai giudici di merito, per affermare che l'imputato avrebbe potuto utilizzare anche la mano destra, si fondano sull'esame parziale di alcune deposizioni testimoniali che non sono affatto indicative della capacità di PA.GI. di utilizzare con la mano destra gli strumenti atti a offendere (coltello, mannaia, ecc.).
2.5. È, del pari, congetturale l'argomentazione dei giudici di merito secondo la quale PA.GI. sarebbe affetto da ludopatia e che per tale ragione sarebbe stato continuamente alla ricerca di denaro, posto per le conclusioni si basano su una opinabile ricostruzione dei movimenti bancari e sulla sporadica frequentazione di sale da gioco.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso, che presenta numerose doglianze inammissibili, è nel complesso infondato.
2. Le censure che riguardano la ricostruzione in fatto compiuta dai giudici di merito sono inammissibili.
2.1. È doveroso premettere che i giudici di merito hanno valorizzato i seguenti elementi:
- la morte di Da.Pa. risale, secondo la non contestata ricostruzione scientifica effettuata dai consulenti medico-legali, tra la notte del 21 e la tarda sera del 23 novembre 2019;
- ulteriori elementi di fatto, che il ricorso non contesta, hanno portato a restringere l'ambito temporale della morte al pomeriggio del 22 novembre 2019; in particolare, Da.Pa. è stato visto in vita alle ore 9:45 del 22 novembre 2019 e ha navigato su internet con il proprio computer portatile dalla propria abitazione fino alle ore 11:04 del 22 novembre 2019; più precisamente, l'ambito temporale dell'omicidio è stato ulteriormente ristretto al pomeriggio del 22 novembre perché, secondo quanto risulta dai tabulati telefonici della vittima, egli ha effettuato una chiamata in uscita alle ore 15:06, mentre alle successive ore 19:21 è stata registrata una chiamata in entrata con messaggio di scollegamento dell'utenza;
- l'omicidio è stato compiuto, secondo la non contestata ricostruzione dei consulenti e dei tecnici del RIS, da una sola persona che ha colto Da.Pa. quasi sulla soglia della porta di accesso al magazzino pertinenziale della sua abitazione;
- immediatamente dopo la morte, l'aggressore ha trascinato per i piedi il corpo di Da.Pa. più all'interno del magazzino;
- il rinvenimento di tracce del DNA dell'imputato in corrispondenza della parte terminale di entrambe le gambe dei pantaloni indossati dalla vittima;
- le tracce del DNA, come il ricorso non contesta, derivano da un prolungato e serrato contatto che ha determinato il trasferimento di essudato di materiale biologico (sudore umano misto a tessuti da sfaldamento superficiale della pelle), ritenuto dai tecnici il frutto del contatto fisico derivante dall'azione di trascinamento del cadavere attuata immediatamente dopo l'omicidio;
- il rifiuto ingiustificato opposto dall'imputato di sottoporsi al prelievo del DNA senza metodi invasivi;
- l'esistenza di rapporti con la vittima relativi alla cessione di stupefacenti;
- la presenza, derivante dall'esame dei tabulati telefonici, del telefono dell'imputato nelle vicinanze dell'abitazione della vittima in orario compatibile con l'omicidio;
- il falso alibi relativo ai movimenti dell'imputato il pomeriggio nel quale è stato commesso l'omicidio.
2.2. Quanto si è sopra ricordato consente anzitutto di rilevare la manifesta infondatezza della doglianza difensiva che addebita alla Corte territoriale di avere effettuato la datazione dell'omicidio, non tanto sulla base degli accertamenti tecnici, quanto piuttosto - ed erroneamente - in riferimento all'orario nel quale il telefono dell'imputato si trovava in una zona compatibile con il luogo dell'omicidio.
L'asserzione difensiva è manifestamente infondata poiché l'orario del rilevamento del telefono dell'imputato nei pressi dell'abitazione della vittima è stato impiegato, una volta individuato l'ambito temporale dell'omicidio sulla base delle prove scientifiche, documentali e circostanziali, per rafforzare dal punto di vista indiziario il quadro probatorio che ascrive a PA.GI. l'azione omicida.
Egli, infatti, oltre ad avere lasciato le proprie tracce biologiche sul corpo della vittima, è risultato presente nelle vicinanze dell'abitazione di Da.Pa. proprio nell'arco temporale nel quale l'omicidio è stato commesso.
È bene, infatti, ricordare che il ricorso non contesta le risultanze dell'analisi tecnica dei tabulati telefonici dell'imputato e della vittima dai quali emerge che i due erano in contatto e che verosimilmente avevano fissato il precedente 21 novembre 2019 ore 13:35 un appuntamento proprio per il giorno dell'omicidio, tanto che il cellulare di PA.GI. è stato rilevato in prossimità dell'abitazione di Da.Pa. alle ore 16:06 del 22 novembre 2019, mentre l'omicidio è stato commesso tra le ore 15:06 e le ore 19:12 del 22 novembre 2019.
3. Quanto al valore di prova dell'esame del DNA è utile ricordare che "in tema di prove, gli esiti dell'indagine genetica condotta sul DNA hanno natura di prova piena e non di mero elemento indiziario, atteso l'elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, sicché sulla loro base può essere affermata la penale responsabilità dell'imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti" (si veda, da ultimo, Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022, Cospito, Rv. 283904 - 03).
Non è, in effetti, contestato che il DNA rinvenuto sui pantaloni della vittima proviene dall'imputato alla luce dell'elevatissimo indice di identificazione riscontrato, nel caso di specie pari a 1023, mentre la scienza ritiene sufficiente per la certa identificazione un indice che supera 106.
3.1. Il ricorso imputa alla sentenza di non avere però accertato quando il trasferimento si sarebbe verificato, così opinando per la non decisività della traccia da contatto (contatto cd. secondario o occasionale).
La difesa si duole, in sostanza, che la sentenza abbia affermato che la semplice attribuzione del DNA all'imputato costituisce elemento di prova e non di semplice indizio della realizzazione dell'omicidio, evidenziando che tale elemento, semmai, costituisce un indizio poiché rappresenta un fatto statico (presenza di una traccia), rispetto al fatto da provare (omicidio) che è caratterizzato da una azione dinamica.
In realtà, la sentenza impugnata attribuisce valore di prova (e non di semplice indizio) all'identificazione genetica compiuta per mezzo dell'analisi del DNA, sicché afferma che la traccia appartiene senza ombra di dubbio all'imputato, con ciò facendo corretta applicazione del principio di diritto costantemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale "gli esiti dell'indagine genetica condotta sul DNA, atteso l'elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell'art. 192, comma secondo, cod. proc. pen." (Sez. 1, n. 48349 del 30/06/2004, Rizzetto, Rv. 231182, seguita da Sez. 2, n. 43406 del 01/06/2016, Syziu, Rv. 268161, secondo la quale "gli esiti dell'indagine genetica condotta sul DNA hanno natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell'art. 192, comma secondo, cod. proc. pen, sicché sulla loro base può essere affermata la responsabilità penale dell'imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti", e da Sez. 2, n. 8434 del 05/02/2013, Mariller, Rv. 255257).
3.2. Il ricorso non contesta che le tracce biologiche dell'imputato individuate su entrambi i pantaloni della vittima sono state rilevate e reperiate in prossimità delle parti prossimali del capo di abbigliamento, cioè in coincidenza con quella parte dell'indumento che copre le caviglie della vittima.
Tale elemento, che i giudici di merito hanno specificamente valorizzato per collegare le tracce biologiche con l'azione di trascinamento del corpo compiuta dall'aggressore, non è in alcun modo criticato dal ricorso, mentre logicamente conduce a escludere la casualità del contatto.
Del resto, è logico affermare, per attribuire al ritrovamento del DNA la valenza di prova dell'omicidio, che la posizione bilaterale delle tracce, rinvenute su entrambe le gambe dei pantaloni, e la loro localizzazione, in coincidenza delle caviglie della vittima, costituiscono due specifici elementi di prova che riportano dette tracce all'azione di trascinamento del corpo compiuta dall'omicida, così assegnando al DNA una valenza di prova dell'azione violenta e non solo del contatto tra aggressore e vittima.
3.3. La sentenza, quindi, afferma, facendo corretta applicazione delle regole probatorie, che detta prova abbraccia anche la responsabilità per l'omicidio poiché la traccia genetica è stata rinvenuta in una specifica e significativa posizione (entrambe le porzioni prossimali dei pantaloni indossati dalla vittima), in presenza di un complessivo quadro interpersonale che porta a escludere la contaminazione casuale.
È stato escluso che la traccia possa essersi depositata sull'indumento in un diverso contesto di relazione, sicché appare inapplicabile il principio di diritto secondo il quale "in tema di indagini genetiche, l'analisi comparativa del DNA svolta in violazione delle regole procedurali prescritte dai Protocolli scientifici internazionali in materia di repertazione e conservazione dei supporti da esaminare, nonché di ripetizione delle analisi, comporta che gli esiti di "compatibilità" del profilo genetico comparato non abbiano il carattere di certezza necessario per conferire loro una valenza indiziante, costituendo essi un mero dato processuale, privo di autonoma capacità dimostrativa e suscettibile di apprezzamento solo in chiave di eventuale conferma di altri elementi probatori" (Sez. 5, n. 36080 del 27/03/2015, Knox, Rv. 264863; in detto caso, infatti, sì sospettava che, a causa di una violazione delle modalità di repertazione, fosse stato possibile un trasferimento del DNA dell'imputato, che frequentava la casa della vittima, sul reperto campionato e analizzato).
In particolare, i giudici di merito hanno sottolineato, senza ricevere una critica specifica, che la difesa non aveva dedotto alcun elemento concreto a sostegno dell'ipotesi del cd. trasferimento secondario od occasionale che è stata introdotta e sviluppata con l'atto di appello, non potendosi valorizzare la generica affermazione fatta dall'imputato che, allorché venne sentito come persona informata sui fatti, aveva riferito agli operanti di essersi recato in epoca imprecisata nell'abitazione della vittima notando la presenza sul tavolo dei "panni del Da.Pa. piegati".
L'affermazione dei giudici di merito, secondo i quali l'ipotesi difensiva oltre ad essere indimostrata e pure implausibile, è avversata dalla difesa che si limita però a ribadirla.
La critica difensiva è vana perché sono proprio le dichiarazioni dell'imputato, sulle quali è stata sviluppata la tesi difensiva, che sono generiche e francamente incredibili in quanto egli non colloca temporalmente l'episodio e neppure afferma che vi è stato un prolungato contatto con entrambe le parti prossimali dei pantaloni indossati dalla vittima, limitandosi a dichiarare che un certo giorno c'erano dei capi di abbigliamento sul tavolo nell'abitazione della vittima.
3.4. Orbene, se neppure l'imputato ha fornito elementi per ipotizzare il cd. trasferimento occasionale o secondario, la difesa si è, poi, prodigata per contestare l'utilizzabilità delle dichiarazioni rese.
Su tale ultima questione è, tuttavia, doveroso precisare che le dichiarazioni dell'imputato sono state valorizzate dalla difesa a favore del proprio assistito e cioè per sostenere la tesi del cd. trasferimento occasionale o secondario, sicché essa non ne può poi chiedere l'espunzione dal panorama probatorio solo perché la tesi è stata giudicata manifestamente infondata.
Deve, in proposito, farsi convinto richiamo all'autorevole precedente giurisprudenziale secondo il quale "le dichiarazioni della persona che fin dall'inizio avrebbe dovuto essere sentita come indagata o imputata sono inutilizzabili anche nei confronti dei terzi, sempre che provengano da soggetto a carico del quale già sussistevano indizi in ordine al medesimo reato ovvero a reato connesso o collegato con quello attribuito al terzo, per cui dette dichiarazioni egli avrebbe avuto il diritto di non rendere se fosse stato sentito come indagato o imputato; restano invece al di fuori della sanzione di inutilizzabilità comminata dal secondo comma dell'art. 63 cod. proc. pen. le dichiarazioni riguardanti persone coinvolte dal dichiarante in reati diversi, non connessi o collegati con quello o quelli in ordine ai quali esistevano fin dall'inizio indizi a suo carico, poiché rispetto a questi egli si trova in una posizione di estraneità ed assume la veste di testimone; restano escluse altresì dalla sanzione di inutilizzabilità, alla stregua della "ratio" della disposizione, ispirata alla tutela del diritto di difesa, le dichiarazioni favorevoli al soggetto che le ha rese ed a terzi, quali che essi siano, non essendovi ragione alcuna di escludere dal materiale probatorio elementi che con quel diritto non collidono" (Sez. U, n. 1282 del 09/10/1996 - dep. 1997, Carpanelli, Rv. 206846 - 01, in motivazione la Corte ha inoltre chiarito che i casi di irregolarità di assunzione delle dichiarazioni di colui che viene sentito come indagato o imputato - omesso avviso al difensore o simili - esulano dalla disciplina dell'art. 63, secondo comma, cod. proc. pen. in quanto rientranti nella sfera delle nullità, riguardanti solo la persona nell'interesse della quale le formalità sono previste; in seguito, Sez. 1, n. 7258 del 24/03/1999, Oliva, Rv. 213708 - 01; recentemente, Sez. 4, n. 30794 del 15/02/2022, Pescara, Rv. 283455 - 01).
3.5. Deve, perciò, affermarsi che l'esito dell'indagine genetica condotta sul DNA, atteso l'elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, lungi dall'avere valore meramente indiziario, ai sensi dell'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., ha natura di prova dell'identità del contributore, sicché costituisce a carico del medesimo la prova del fatto-reato, secondo un percorso logico deduttivo che poggia sulla particolare localizzazione della traccia e dei rapporti tra le parti, in forza dei quali debba escludersi un contatto da trasferimento secondario od occasionale.
4. Costituisce elemento di prova a carico, come correttamente affermato dai giudici di appello, il rifiuto opposto dall'imputato a consentire al prelievo non invasivo di un campione biologico ai fini di estrarre il suo DNA da raffrontare con quello rinvenuto sulla scena del crimine.
Non vi è dubbio, anzitutto, che PA.GI., quando non soltanto non era indagato, ma anzi quando neppure era tra i sospettati, ha rifiutato di consentire al prelievo di un campione biologico allorché ciò gli fu richiesto al pari di altre decine di persone che erano in contatto con Da.Pa. per le più disparate ragioni; nella circostanza, peraltro, il rifiuto fu perentorio, reiterato e immotivato.
Il rifiuto, in particolare, dimostra che l'imputato era ben consapevole del contesto omicida nel quale aveva lasciato le tracce biologiche rinvenute sui pantaloni della vittima, perché diversamente si sarebbe messo a disposizione degli inquirenti senza attendere oltre un anno dall'omicidio ed essere appositamente convocato dalla polizia giudiziaria, alla quale non ha però riferito di avere avuto rapporti amicali con la vittima e di averla anche incontrata nella sua abitazione al cospetto dei suoi indumenti, riservando tale incredibile dichiarazione alla fase successiva all'esame del suo DNA, risultato identico a quello rinvenuto sugli indumenti della vittima.
4.1. Premesso che è priva di qualunque valenza, ai fini di sminuire la portata probatoria del rifiuto, l'asserzione difensiva secondo la quale esso fu opposto a cagione di un consiglio legale poiché, quale che sia il contributo offerto da terzi alla decisione dell'imputato, nessuno dubita che la scelta di PA.GI. non sia stata libera e ponderata, sicché essa gli è indiscutibilmente addebitabile.
Del resto, come hanno evidenziato i giudici di merito, il rifiuto si inserisce in un più ampio contegno finalizzato a non essere attinto dalle indagini o, comunque, a sviarle: in disparte la questione dell'alibi falso (sulla quale si tornerà in seguito), l'imputato, oltre a rifiutare di consegnare un campione biologico, aveva anche trovato un lavoro in un'altra regione nella quale voleva trasferirsi senza neppure averne parlato con la propria fidanzata, a ulteriore dimostrazione della preoccupazione, intimamente radicata, di potere essere identificato quale autore dell'omicidio.
4.2. Tanto premesso, deve essere ricordato che la giurisprudenza di legittimità è orientata ad attribuire valore di prova all'immotivato e ingiustificato rifiuto di fornire una campione biologico con procedure non invasive.
Si è da tempo chiarito che "il rifiuto dell'imputato di consegnare o lasciar prelevare materiale biologico utile alla comparazione del DIMA, quando non siano state prospettate allo scopo modalità invasive o comunque lesive dell'integrità e della libertà personale, costituisce, se non motivato con giustificazioni esplicite e fondate, elemento di prova valutabile dal giudice a fini di ricostruzione del fatto" (Sez. 2, n. 44624 del 08/07/2004, Alcamo, Rv. 230245 - 01, in tema di riscontro individualizzante della chiamata in correità; Sez. 1, n. 37108 del 20/09/2002, Peddio, Rv. 222527 - 01).
L'orientamento giurisprudenziale non risente delle modifiche introdotte nella materia a seguito dell'entrata in vigore della legge 30 giugno 2009, n. 85, che ha introdotto l'art. 224-bis cod. proc. pen. con la rubrica "Provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale", il quale prevede, appunto, il prelievo coattivo, evenienza diversa da quella verificatasi nel caso di specie.
Va, in proposito, rammentato che la Corte costituzionale, con sentenza n. 238 del 1996, aveva dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 224, comma 2, del codice di procedura penale nella parte in cui consente che il giudice, nell'ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell'indagato o dell'imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei "casi" e nei "modi" dalla legge", invitando il legislatore a regolare, come poi è avvenuto nel 2009, i prelievi coattivi.
Tale pronuncia non ha però influito sulla con la regola di giudizio che attribuisce rilievo probatorio al rifiuto opposto dall'indagato di consentire il prelievo di campioni biologici in modo non invasivo, similmente a quanto accade per analoghi comportamenti oppositivi (Sez. 2, n. 41770 del 11/07/2018, Virgutto, Rv. 274238 - 01, ha ribadito che "il rifiuto ingiustificato opposto dall'imputato all'espletamento dei rilievi fotografici necessari per lo svolgimento della perizia antropometrica costituisce, quando non siano state prospettate al riguardo modalità invasive o comunque lesive dell'integrità e della libertà personale, un elemento di prova valutabile dal giudice ai fini della ricostruzione del fatto"; in precedenza, Sez. 2, n. 36295 del 22/09/2010, Gomiero, Rv. 248690 - 01).
Infatti, come aveva già chiarito Sez. 2, Alcamo, cit., la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 224 cod. proc. pen. rende inutilizzabile il risultato di una prova biologica eventualmente conseguita in contrasto con il rispetto della libertà personale dell'imputato, ma, quando il rifiuto verte su mere attività esterne e non può dirsi motivato da ragioni inerenti all'invasione della propria sfera corporale e alla violazione della libertà, di modo che si rivela ingiustificato, allo stesso può essere attribuito un preciso significato probatorio; essendo, infatti, tale rifiuto sorretto solo da argomenti pretestuosi, esso può essere valutato dal giudice come elemento di convincimento.
Quel che viene in esame, infatti, non è il legittimo rifiuto opposto al compimento di atti invasivi, che nondimeno possono essere effettuati coattivamente a norma dell'art. 224-bis cod. proc. pen., quanto piuttosto l'ingiustificato rifiuto di fornire, senza alcuna invasione della libertà personale, un campione biologico da utilizzare in una indagine giudiziaria.
4.3. Nel caso di specie, quel che risulta incontrovertibile è che fu disposto un accertamento rimesso alla libera volontà di PA.GI.; che tale accertamento era volto ad affermare o escludere il collegamento di questi con le tracce biologiche lasciate dall'omicida; che l'accertamento comportava un prelievo di saliva, ossia un'operazione per nulla invasiva, del tutto indolore e possibile senza intervento di estranei sul corpo di PA.GI., ma che questi reiteratamente si rifiutò senza addurre alcuna contestazione sul tipo e sul modo dell'accertamento.
4.4. Si può in definitiva affermare che, ferma la possibilità di disporre il prelievo coatto, il rifiuto opposto a una richiesta di accertamento non invasivo e non comportante atti di disposizione della propria sfera corporale, quando non sia motivato da ragioni esplicitate e giustificate, può essere liberamente apprezzato dal giudice nella formazione del suo convincimento; in particolare, il rifiuto può essere utilizzato come elemento di prova della natura non accidentale del contatto, dei tempi e dei modi di rilascio delle tracce biologiche rilevate sulla vittima.
Infatti, l'ingiustificato rifiuto di sottoporsi al prelievo non invasivo, unito all'assenza di attendibili e tempestive indicazioni di possibili trasferimenti secondari od occasionali idonei a giustificare la presenza della traccia biologica dell'imputato, consente al giudice di affermare che detta traccia biologica rilevata sul corpo della vittima è dimostrativa dell'azione omicida dell'imputato.
5. Il ricorso, poi, non esamina la questione dell'alibi falso che costituisce un ulteriore decisivo elemento a carico, preferendo avventurarsi nella critica generica del movente che, tuttavia, i giudici di merito non hanno specificamente individuato, pur adombrando che l'omicidio sia maturato in rapporti concernenti il traffico di stupefacenti.
5.1. Tenuto conto che le critiche sviluppate sul movente non sono decisive, posto che i giudici non lo hanno accertato, è sufficiente rimarcare che il ricorso non contiene una critica specifica all'affermata falsità dell'alibi introdotto dall'imputato.
I giudici di secondo grado espongono analiticamente (pag. 46 - 48) i numerosi elementi probatori e logici che li hanno condotti a tacciare di falsità l'alibi introdotto dall'imputato, coinvolgendo il proprio fratello, la madre e il padre.
Ebbene, si tratta di elementi che il ricorso neppure esamina, sicché può dirsi accertato che PA.GI. ha falsamente riferito (da ultimo nelle spontanee dichiarazioni rese all'udienza del 2 novembre 2022) di essersi recato altrove (prima dal fratello e poi dal padre) nel pomeriggio dell'omicidio, risultando piuttosto che l'imputato non si trovava a Bagno Piccolo nel primo pomeriggio (come attesta il fratello), posto che risulta esser stato tracciato nei pressi dell'abitazione della vittima alle ore 15:46 e alle ore 16:06, e, per di più, in occasione del primo contatto rilevato egli ha ricevuto la chiamata della madre che, a tutta evidenza, doveva trovarsi nell'abitazione famigliare dove, secondo le sue dichiarazioni e quelle del fratello, avrebbe dovuto essere l'imputato.
Analogamente falso è l'alibi fornito dal padre dell'imputato che, in una conversazione captata, annuncia proprio l'intenzione, d'intesa con la madre, di aiutare il figlio a sfuggire alle maglie della giustizia, rendendo poi una falsa dichiarazione circa i movimenti del figlio che è stata smentita dalle prove tecniche e documentali.
La Corte di secondo grado ha, quindi, affermato la falsità dell'alibi, con conseguente valore indiziario di tale elemento.
5.2. Con riguardo alla legittima deduzione di elementi indiziari dal falso alibi, è utile richiamare la costante giurisprudenza di legittimità (ex multis, Sez. 1, n. 6935 del 18/05/1992, Modica, Rv. 190598), sicché, trovandosi in presenza di un alibi falso caratterizzato dalla specifica finalità di depistaggio, è ragionevole attribuire a tale elemento un elevatissimo grado di gravità indiziaria, posto che PA.GI. colloca volutamente sé stesso in un luogo diverso dal delitto, facendo leva su false dichiarazioni di persone allo stesso legate da relazioni parentali.
6. Parimenti inammissibili, anche perché non decisive, sono le doglianze che riguardano il mancinismo, la ludopatia e le piste alternative.
6.1. La prima questione è risolta nei termini di non incompatibilità del mancinismo rilevato sull'imputato con l'omicidio che verosimilmente sarebbe stato commesso con la mano destra poiché, sulla base delle prove acquisite, i giudici di merito hanno ritenuto che PA.GI. è in grado di impugnare attrezzi (coltello; mannaia) anche con la mano destra, facendo riferimento all'attività professionale di macellaio per la quale utilizza entrambi gli arti superiori, alle dichiarazioni dei colleghi e al referto medico di una lesione procuratasi alla mano sinistra mentre tagliava delle carne con la destra.
Le critiche contenute nel ricorso sono generiche e in fatto, sicché non ammissibili, poiché volte a sminuire le risultanze dibattimentali o a proporne una diversa lettura.
6.1.1. Il ricorso è, poi, manifestamente infondato quando contesta ai giudici di merito di avere invertito l'onere della prova, addossando a PA.GI. il compito di dimostrare di non essere in grado di usare la mano destra per impiegare un coltello.
In realtà, i giudici di merito si sono limitati, dopo avere fornito una ampia e logica motivazione che riguarda l'effettiva capacità di PA.GI. di impugnare e usare armi da taglio con la mano destra, a sottolineare che è rimasta a livello di mera asserzione l'argomentazione difensiva secondo la quale, nella concitazione delle fasi dell'omicidio, l'imputato non sarebbe stato in grado di usare la mano destra.
Il ricorso, invertendo il senso logico della motivazione, afferma erroneamente che la Corte avrebbe addebitato alla difesa l'onere di fornire la prova che, invece, spetterebbe al pubblico ministero.
Si tratta, tuttavia, di una doglianza manifestamente infondata poiché a fronte della prova positiva, avallata dai giudici di merito, circa la capacità di PA.GI. di utilizzare la mano destra, non vi è dubbio che, proprio per le regole probatorie, spetta alla difesa di scardinare tale conclusione fornendo elementi di prova di segno opposto; la mancata produzione di tali elementi favorevoli costituisce, secondo un ragionamento logico pienamente aderente alle regole processuali, la conferma della validità del ragionamento probatorio fatto proprio dai giudici di merito.
Si è da tempo chiarito che "nell'ordinamento processuale penale, a fronte dell'onere probatorio assolto dalla pubblica accusa, anche sulla base di presunzioni o massime di esperienza, spetta all'imputato allegare il contrario sulla base di concreti e oggettivi elementi fattuali, poiché è l'imputato che, in considerazione del principio della c.d. "vicinanza della prova", può acquisire o quanto meno fornire, tramite l'allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva" (Sez. 2, n. 6734 del 30/01/2020, Bruzzese, Rv. 278373 - 01; in precedenza Sez. 2, n. 20171 del 07/02/2013, Weng, Rv. 255916 - 01; sull'onere di allegazione che grava sull'imputato, si veda Sez. U, n. 12093 del 14/06/1980, Felloni, Rv. 146695 - 01, non massimata sul punto, pag. 19 e 20).
6.2. Sono inammissibili anche le doglianze sulla questione della ludopatia dalla quale sarebbe affetto PA.GI..
Esse sono anzitutto non decisive poiché i giudici di merito affrontano la questione unicamente per descrivere il contesto personale nel quale ha agito l'imputato per fare fronte alle proprie esigenze economiche, anche derivanti dalla stabile frequentazione con sale gioco, che risultano superiori a quelle consentite dalle sue documentate fonti di reddito.
In disparte la genericità delle censure difensive che non si confrontano con i numerosi convergenti elementi valorizzati dai giudici di merito, il ricorso non è decisivo perché non risultano specificamente contestate le conclusioni cui sono giunti i giudici di merito circa le necessità economiche nelle quali versava l'imputato e che, in un'ottica di logica deduzione, potrebbero costituire il movente, mai accertato, per la commissione dell'omicidio.
L'irrilevanza della mancanza del movente ai fini della responsabilità per l'omicidio (ex multis, Sez. 1, n. 31449 del 14/02/2012, Spaccarotella, Rv. 254143 - 01) esonera dall'analizzare specificamente le doglianze difensive sul punto della ludopatia.
6.3. È inammissibile, non foss'altro perché il ricorso si limita alla mera enunciazione della doglianza senza articolarla in una critica specifica, la questione delle piste alternative che gli inquirenti non avrebbero esplorato.
È sufficiente ribadire, posto che il ricorso non si confronta con tale decisiva considerazione, che le indagini furono attivate ad ampio raggio e, anzi, da subito mirate su soggetti diversi dall'imputato che fu coinvolto occasionalmente nelle investigazioni, a distanza di oltre un anno dall'omicidio e dall'estrazione del DNA reperito sui pantaloni, allorquando gli investigatori, riesaminando i contatti intrattenuti dalla vittima, individuarono un possibile collegamento con l'imputato che, soltanto a questo punto, fu invitato, come già era accaduto a numerose altre persone che erano venute in contatto con la vittima, a fornire un campione del proprio DNA.
7. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
7.1. Al rigetto segue pure la condanna dell'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, Ge.Is. e Da.Al., che, tenuto conto dell'attività svolta, si liquidano in complessivi Euro 4.000,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, Ge.Is. e Da.Al., che liquida in complessivi Euro 4.000,00, oltre accessori di legge.
Così è deciso, 21 novembre 2024.
Depositata in Cancelleria l'8 gennaio 2025.