ORDINANZA N. 57
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 6, recante «Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», promosso dal Tribunale ordinario di Matera, nel procedimento penale a carico di N. D., con ordinanza del 21 aprile 2017, iscritta al n. 105 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto che, con ordinanza del 21 aprile 2017 (r.o. n. 105 del 2017), il Tribunale ordinario di Matera, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede «la non punibilità anche dei fatti criminosi previsti dal titolo XIII del libro II del Codice Penale commessi in danno di un convivente more uxorio»;
che le questioni di legittimità costituzionale vengono sollevate nell’ambito di un procedimento penale a carico di soggetto «imputato del reato previsto e punito dall’art. 646 c.p. “perché al fine di procurarsi un profitto, avendo il possesso di indumenti, effetti personali e documenti dell’ex convivente […] e del loro figlio […], se ne appropriava rifiutandone la restituzione”»;
che il giudice rimettente riferisce che l’applicazione dell’art. 649 cod. pen. era stata espressamente invocata dalla difesa dell’imputato, che ne aveva eccepito l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede la non punibilità anche per i fatti commessi in danno del convivente more uxorio, considerando che nel caso di specie tale qualifica soggettiva si sarebbe configurata in capo alla «persona offesa dal reato costituitasi parte civile, avuto riguardo all’accertata sua intercorsa relazione personale di convivenza di fatto con l’imputato […] e dalla cui unione è nato il loro figlio minore»;
che il Tribunale ordinario di Matera – dopo aver ricordato che l’art. 649 cod. pen. riconosce la non punibilità in riferimento ai delitti contro il patrimonio di cui al Titolo XIII del Libro II del codice penale (con alcune deroghe relative agli artt. 628, 629 e 630 cod. pen. e di ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alla persona) posti in essere nei confronti del coniuge non legalmente separato, dell’ascendente, del discendente, dell’affine in linea retta, dell’adottante, dell’adottato e del fratello o della sorella conviventi – sottolinea che il decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 6, recante «Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», ha aggiunto in quell’articolo anche il riferimento alla parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.);
che, secondo il giudice rimettente, la ratio originaria della previsione della causa di non punibilità risiederebbe «nell’esigenza di evitare turbamenti nelle relazioni familiari sull’assunto che l’applicazione di una sanzione penale renderebbe irreparabilmente compromessi i rapporti intrafamiliari, così vanificando la riconciliazione del nucleo familiare, inteso e concepito nel rispetto di quanto statuito dall’art. 29 della nostra Carta fondamentale in guisa di “società naturale fondata sul matrimonio”»;
che, pur definendo la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) quale «complesso portato ed agognato punto di approdo della presa d’atto di un mutato costume sociale e dell’esistenza di nuclei familiari ontologicamente differenti dalla classica famiglia fondata sul vincolo matrimoniale con effetti civili», il giudice a quo ritiene che il legislatore con tale legge abbia inteso «irrazionalmente e/o comunque riduttivamente regolamentare le sole unioni civili tra persone dello stesso sesso», provvedendo a coordinarne la disciplina attraverso le modificazioni e le integrazioni introdotte con il citato d.lgs. n. 6 del 2017, che ha aggiunto, all’art. 649, primo comma, cod. pen., il riferimento alla parte dell’unione civile, ma non al convivente more uxorio;
che il giudice rimettente ritiene che alla luce della «sua esegesi letterale e nel perimetro rigoroso del precipuo rispetto del principio di legalità, inteso anche quale tassatività della fattispecie penale», non sia perciò possibile applicare la disposizione censurata ai fatti commessi in danno del convivente more uxorio, escludendo quindi di poter pervenire a un’estensione analogica della disposizione, pure invocata dalla difesa dell’imputato;
che il Tribunale ordinario di Matera riferisce di non ignorare che la Corte costituzionale, in diverse occasioni, ha dichiarato la non fondatezza di analoga questione, ritenendo la convivenza more uxorio non assimilabile al rapporto di coniugio (vengono citate le sentenze n. 352 del 2000, n. 8 del 1996 e n. 423 del 1988 e l’ordinanza n. 1122 del 1988);
che, ciononostante, il giudice rimettente ritiene che la «valutazione della disposizione codicistica […] deve, ad ogni buon conto, essere attuata alla stregua dell’attuale realtà sociale, senza alcun dubbio profondamente mutata rispetto a quella esistente ed esaminata dal Legislatore storico, nell’ottica di un’esegesi in sintonia ed al passo con i tempi dello stesso concetto costituzionale di famiglia concepita in guisa di un luogo di sviluppo armonico della persona, fondato ed ispirato da uno stretto e stabile rapporto di solidarietà reciproca»;
che, in particolare, il giudice rimettente concede che, in ragione del «tempo ormai remoto in cui è stata concepita ed emanata» la disposizione censurata, non potevano essere considerati istituti o situazioni di fatto emersi solo successivamente, ma ritiene che sia irragionevole e discriminatorio non ricomprendere fra i soggetti che beneficiano della causa di non punibilità in esame «anche i partecipi di una convivenza more uxorio, ovvero persone di sesso diverso»;
che, a sostegno delle proprie argomentazioni, il giudice a quo richiama l’art. 199, comma 3, lettera a), del codice di procedura penale, che equipara il coniuge a chi conviva o abbia convissuto con l’imputato in relazione alla facoltà di astenersi dal deporre, affinché «vada, re melius perpensa, nuovamente considerato anche il segnalato parallelismo della ratio legis posta a base» di tale disposizione e di quella censurata, che mirerebbero entrambe a salvaguardare la prevalenza dell’unità della famiglia rispetto alle esigenze di giustizia della collettività;
che il giudice rimettente ritiene che, anche alla luce del rilievo assegnato alla convivenza di fatto dalla legge n. 76 del 2016, il mancato riconoscimento della causa di non punibilità per il convivente more uxorio violi il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), nonché il diritto di difesa (art. 24 Cost.), poiché si precluderebbe «la fruizione, nelle ipotesi di cui alla medesima norma di diritto penale sostanziale, della speciale causa di non punibilità», risultando «irrazionale il disallineamento della sfera soggettiva e di operatività della norma […], non derivando, di converso, dall’accoglimento del sollevato incidente di costituzionalità alcun vulnus alla protezione della “istituzione familiare” tutelata in via primaria dall’art. 29 della Carta costituzionale»;
che, in questa prospettiva, non si terrebbe conto del fatto che la fisionomia dell’originaria istituzione famigliare fondata sul matrimonio tutelata dall’art. 29 Cost. è «mutata sul piano sociale e culturale e dei costumi al punto da essersi dovuta disciplinare, persino, l’unione civile di persone del medesimo sesso e tanto da sembrare a fortiori meritevole di pari dignità e tutela la posizione di un convivente di fatto more uxorio, anche di sesso diverso dal proprio partner»;
che, da ultimo, nel caso oggetto del giudizio emergerebbe «il dato fattuale di una convivenza more uxorio tra l’imputato e la persona offesa, dalla cui unione è nato, persino, un figlio, a comprova di una pregressa stabilità di rapporti e di una comunanza di vita ed interessi, non suscettibile di affievolimento od inesistenza di tutela, neppure parziale, anche a preservazione di una possibile riconciliazione delle parti»;
che, di conseguenza, sussisterebbe la rilevanza delle questioni, poiché l’art. 649 cod. pen. costituirebbe disposizione di applicazione necessaria, almeno con riguardo alla posizione del figlio dell’imputato, influendo altresì sulla definizione del giudizio, poiché l’eventuale sentenza di accoglimento inciderebbe sulle formule di proscioglimento o quanto meno sulla formula del dispositivo della decisione;
che, con atto depositato il 12 settembre 2017, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale vengano dichiarate inammissibili e comunque infondate;
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’inammissibilità delle questioni deriverebbe dalla circostanza che il rimettente invoca un intervento della Corte costituzionale in una materia (quella delle cause di non punibilità) riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata (al riguardo vengono citate le sentenze n. 214 del 2014, n. 134 e n. 36 del 2012, n. 352 del 2000);
che, in questa prospettiva, il legislatore in modo non irragionevole o arbitrario avrebbe espresso una «precisa scelta di politica criminale che ha attribuito prevalenza all’interesse a favorire la riconciliazione rispetto a quello alla punizione del colpevole», con riferimento a soggetti che siano o siano stati legati da determinati vincoli familiari caratterizzati da una convivenza tendenzialmente duratura e fondata sulla reciproca assistenza, oltre che su comuni ideali e stili di vita (sono richiamate le sentenze n. 352 del 2000 e n. 423 del 1988, oltre che l’ordinanza n. 1122 del 1988);
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, le questioni sarebbero inammissibili anche alla luce delle censure in punto di irragionevolezza e di violazione del principio di uguaglianza riferite alla previsione di un trattamento sfavorevole per coloro che commettono reati contro il patrimonio in danno dei conviventi di fatto, rispetto a quanti pongono in essere le medesime condotte nei confronti delle parti dell’unione civile ai sensi della legge n. 76 del 2016;
che, a questo proposito, viene citata la sentenza n. 223 del 2015 della Corte costituzionale, con cui - nel dichiarare inammissibile una diversa questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24, primo comma, Cost., sullo stesso art. 649, primo comma, cod. pen., nella parte in cui esclude la punibilità dei congiunti della persona offesa dal reato - pur riconoscendosi «l’obsolescenza che la disposizione in esame ormai sconta», si sarebbe affermato che spetta al legislatore l’indispensabile aggiornamento della disciplina dei reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare, con ciò ribadendosi il dovere di rigorosa osservanza dei limiti del sindacato costituzionale;
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, il recente intervento del legislatore operato con il decreto legislativo n. 6 del 2017, che «il remittente giudica apoditticamente irrazionale e comunque riduttivo», manifesterebbe la volontà di estendere la causa di non punibilità di cui all’art. 649 cod. pen. alla sola parte dell’unione civile e non anche al convivente more uxorio, rivelandosi scelta frutto di valutazioni non censurabili;
che la questione sollevata rispetto all’art. 24 Cost. sarebbe inammissibile, perché priva di motivazione e costituente «un mero riflesso della denuncia della norma sospettata sul piano del mancato rispetto del principio di eguaglianza»;
che le questioni di legittimità costituzionale sarebbero comunque non fondate, non potendosi ravvisare alcuna violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., poiché il diverso trattamento riservato a coloro che non siano legati dai rapporti di parentela previsti dalla disposizione censurata non sarebbe irragionevole né ingiustificato;
che l’Avvocatura generale dello Stato ricorda che analoga questione di legittimità costituzionale è già stata dichiarata in diverse occasioni non fondata dalla Corte costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 8 del 1996 e n. 423 del 1988 e l’ordinanza n. 1122 del 1988);
che, da ultimo, con la sentenza n. 352 del 2000 la Corte costituzionale avrebbe ribadito che la convivenza di fatto è diversa dal vincolo coniugale e, pertanto, non vi sarebbe alcuna esigenza costituzionale di parificarne il trattamento;
che, ancora, secondo l’Avvocatura generale dello Stato sarebbe arbitrario sostenere «la piena equiparazione del convivente che abbia comunque interrotto il rapporto, instaurato in via di mero fatto, come nel caso sottoposto all’esame del rimettente, al coniuge non legalmente separato», alla luce della procedibilità a querela prevista in caso di separazione fra i coniugi dall’art. 649 cod. pen.;
che, rispetto all’accostamento operato dal giudice rimettente fra la disposizione censurata e l’art. 199, comma 3, lettera a), cod. proc. pen., l’Avvocatura generale dello Stato richiama la citata sentenza n. 352 del 2000, che non avrebbe ritenuto sufficiente tale riferimento per accogliere analoga questione;
che, infine, manifestamente infondata risulterebbe anche la censura sollevata rispetto all’art. 24 Cost., poiché non sarebbe individuabile alcuna violazione del diritto di difesa del convivente di fatto, derivante dalla mancata estensione della causa di non punibilità.
Considerato che il Tribunale ordinario di Matera ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che la causa di non punibilità ivi prevista operi anche a beneficio del convivente more uxorio;
che, in particolare, il rimettente sottolinea che il decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 6, recante «Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», ha aggiunto, tra i soggetti che beneficiano della causa di non punibilità in esame, la parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.), ma non ha invece ricompreso tra tali soggetti il convivente more uxorio;
che tale omissione, alla luce dell’attuale realtà sociale, risulterebbe anacronistica ed irragionevole, determinando la lesione degli artt. 3 e 24 Cost.;
che le questioni sollevate risultano manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza;
che, infatti, nella stessa ordinanza di rimessione – peraltro assai succinta in punto di descrizione della fattispecie concreta – il soggetto nei cui confronti si procede nel processo a quo è definito esplicitamente «ex convivente», e si ragiona della convivenza in questione come «pregressa» o «intercorsa» relazione;
che, a mera conferma delle affermazioni contenute nell’ordinanza di rimessione, la circostanza risulta anche dagli atti del giudizio principale (sentenza n. 58 del 2009), dai quali emerge che, in ogni caso, la condotta per la quale si procede sarebbe stata posta in essere in epoca successiva alla cessazione della convivenza;
che da tale circostanza – laddove venisse accertata nel processo a quo la responsabilità dell’imputato in riferimento alle condotte poste in essere nei confronti della ex convivente – consegue inequivocabilmente l’inapplicabilità della disposizione censurata e, perciò, la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate (ex multis, ordinanze n. 93 e n. 92 del 2016 e n. 264 del 2015).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Matera, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2018.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA