SENTENZA N. 83
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 79, comma 1, e 83 della legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 28 febbraio - 2 marzo 2017, depositato in cancelleria il 7 marzo 2017 ed iscritto al n. 28 del registro ricorsi 2017.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;
udito nella udienza pubblica del 20 febbraio 2018 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Ezio Zanon e Andrea Manzi per la Regione Veneto.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 28 febbraio - 2 marzo 2017, depositato il 7 marzo 2017 e iscritto al n. 28 del registro ricorsi 2017, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato, tra gli altri, gli artt. 79, comma 1, e 83 della legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017), in riferimento agli artt. 3, 41, 117, primo comma, quest’ultimo in relazione agli artt. 49, 56, 106 e 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, e 117, secondo comma, lettera e), e 120 della Costituzione.
1.1.– L’art. 79, comma 1, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016 così recita: «In considerazione della gravità della crisi economica che ha colpito il sistema produttivo regionale veneto, al fine di non creare disparità di trattamento con le imprese di cui all’articolo 55, comma 3, della legge regionale 27 aprile 2015, n. 6 “Legge di stabilità regionale per l’esercizio 2015”, non si procede alla revoca dell’agevolazione nei casi di violazione delle lettere b), c) e d), del comma 1 dell’articolo 20 del decreto del Presidente della Repubblica 28 luglio 2000, n. 314 “Regolamento per la semplificazione del procedimento recante la disciplina del procedimento relativo agli interventi a favore dell’imprenditoria femminile” di cui alla abrogata legge 25 febbraio 1992, n. 215 “Azioni positive per l’imprenditoria femminile”. Sono fatti salvi i provvedimenti amministrativi già adottati, con esclusione degli accertamenti e delle procedure di riscossione coattiva non ancora concluse alla data di entrata in vigore della presente legge».
Secondo il Governo, la norma regionale - stabilendo, in deroga alla disciplina statale, che non si procede alla revoca e al recupero degli aiuti previsti in favore dell’imprenditoria femminile, anche quando siano venuti meno i presupposti per la loro erogazione – si esporrebbe a due censure di legittimità costituzionale, e segnatamente: violerebbe la normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato e, in ogni caso, eccederebbe la competenza legislativa regionale.
Con riguardo al primo motivo, si tratterebbe di un finanziamento alle imprese - in particolare di una misura di sostegno economico genericamente finalizzata alla riduzione dei maggiori costi derivanti dalla crisi economica - che si porrebbe in contrasto con il divieto di aiuti di Stato prescritto dall’art. 107 TFUE in quanto: la Regione avrebbe omesso di notificare la misura alla Commissione europea; a prescindere da tale omissione, la differenziazione normativa introdotta a favore delle imprese venete sarebbe priva di un fondamento giustificativo idoneo a renderla compatibile con il mercato interno.
Né una valida giustificazione della norma impugnata potrebbe essere ravvisata nel riferimento che essa stessa opera alle ipotesi contemplate dall’art. 55, comma 3, della legge della Regione Veneto 27 aprile 2015, n. 6 (Legge di stabilità regionale per l’esercizio 2015). Tale norma dispone che «[n]ei casi di violazione dell’articolo 20, comma l, lettere b) e c) del decreto del Presidente della Repubblica 28 luglio 2000, n. 314 “Regolamento per la semplificazione del procedimento recante la disciplina del procedimento relativo agli interventi a favore dell’imprenditoria femminile”, si procede alla revoca parziale delle agevolazioni in relazione al periodo di mancato utilizzo dei beni nella destinazione originaria o di mancato mantenimento delle condizioni che hanno determinato la concessione del beneficio. Dalla data di entrata in vigore della presente legge non producono effetti gli eventuali provvedimenti di revoca totale già adottati». Non si vedrebbe, infatti, come una disposizione che prevede la revoca parziale degli aiuti non utilizzati in conformità, possa giustificare «per parità di trattamento» la rinuncia totale alla revoca e al recupero nei casi indicati nella disposizione censurata.
La norma sarebbe quindi illegittima per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 107 TFUE.
Quanto al secondo profilo di censura, il d.P.R. 28 luglio 2000, n. 314 (Regolamento per la semplificazione del procedimento recante la disciplina del procedimento relativo agli interventi a favore dell’imprenditoria femminile) - derogato dalla disposizione regionale - sarebbe manifestazione della competenza legislativa statale in materia di tutela della concorrenza, attenendo a una finalità di politica economica di rilevanza nazionale e non locale. Con la disposizione censurata, la Regione Veneto avrebbe invaso la competenza legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Né la facoltà per le regioni di inserirsi nell’intervento statale di sostegno, integrandone le risorse, potrebbe fondare una loro competenza legislativa in materia, essendo evidente che l’intervento rimarrebbe di iniziativa e di competenza statale.
1.2.– L’art. 83 della legge reg. Veneto n. 30 del 2016 reca la rubrica «Limitazione degli interventi sul fondo di garanzia costituito presso il Mediocredito Centrale Spa» e prevede quanto segue: «1. Al fine di facilitare l’accesso al credito delle piccole e medie imprese (PMI), tenuto conto dell’operatività del fondo regionale di garanzia di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge regionale 13 agosto 2004, n. 19 “Interventi di ingegneria finanziaria per il sostegno e lo sviluppo delle piccole e medie imprese”, la Giunta regionale è autorizzata ad avviare le procedure per limitare nel territorio della Regione del Veneto l’intervento del fondo di garanzia costituito presso il Mediocredito Centrale Spa di cui all’articolo 2, comma 100, lettera a), della legge 23 dicembre 1996, n. 662 “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”, alla controgaranzia delle garanzie emesse dal predetto fondo regionale e di quelle emesse dai consorzi di garanzia fidi, aventi sede operativa in Veneto ai sensi dell’articolo 18, comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”. 2. La limitazione dell’intervento del fondo di garanzia di cui al comma 1 è richiesta in via sperimentale per un periodo massimo di anni due e per operazioni di importo fino a 100.000,00 euro e potrà conformarsi alle evoluzioni della normativa che regola il funzionamento del fondo di garanzia di cui all’articolo 2, comma 100, lettera a), della legge n. 662 del 1996».
La norma è impugnata «nella parte in cui circoscrive l’intervento in controgaranzia del Fondo di Garanzia del Mediocredito Centrale alle sole garanzie rilasciate dai Confidi aventi sede operativa in Veneto», in riferimento agli artt. 3, 41 (parametro citato solo nel corpo della motivazione), 117, primo e secondo comma, lettera e), e 120 Cost.
Il ricorrente richiama alcune decisioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) che avrebbero messo in evidenza le conseguenze anticoncorrenziali derivanti da vincoli a carattere territoriale imposti ai consorzi di garanzia collettiva dei fidi (cosiddetti “confidi”) per legge regionale (o per atto amministrativo attuativo di una legge regionale) ai fini dell’accesso a contributi pubblici, con particolare riferimento alla previsione del requisito della sede legale od operativa in una determinata Regione. Una previsione di questo tipo limiterebbe di fatto l’accesso al mercato geografico di riferimento dei confidi nuovi o attivi in altri territori, producendo un effetto di compartimentazione del mercato limitata agli ambiti regionali, e contrasterebbe con gli obiettivi di liberalizzazione perseguiti dagli artt. 49, 56 e 106 del TFUE in tema di libertà di stabilimento, di libera prestazione dei servizi e di rimozione delle posizioni di esclusiva o, comunque, di diritti speciali non necessari allo svolgimento dei compiti delle imprese incaricate di un servizio di interesse economico generale, quali devono essere considerati i confidi. In relazione a tale contrasto la norma violerebbe dunque l’art. 117, primo comma, Cost.
Introducendo una discriminazione tra imprese sulla base della mera localizzazione territoriale, la norma violerebbe inoltre il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. per disparità di trattamento di situazioni identiche, nonché il divieto di limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale ex art. 120, primo comma, Cost., divieto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, si applicherebbe anche all’esercizio di attività professionali ed economiche alle quali le Regioni non potrebbero frapporre barriere protezionistiche in difetto di una ragionevole giustificazione.
Il trattamento normativo discriminatorio contrasterebbe altresì con il principio di libera concorrenza previsto dall’art. 41 Cost.
Infine la norma impugnata invaderebbe la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., traducendosi in una forma di compartimentazione dei mercati a immediato impatto anticoncorrenziale, la cui introduzione dovrebbe essere riservata al legislatore statale. L’impatto anticoncorrenziale sarebbe rafforzato, nel caso concreto, dalla duplice circostanza che il fondo regionale previsto dalla legge della Regione Veneto 13 agosto 2004, n. 19 (Interventi di ingegneria finanziaria per il sostegno e lo sviluppo delle piccole e medie imprese), individua tra i propri beneficiari le sole piccole e medie imprese (PMI) ubicate nel territorio di quella Regione, e che a loro volta i confidi veneti prestano, per statuto, garanzie normalmente solo a favore delle medesime imprese, sicché il rafforzamento del sistema delle garanzie nel Veneto perseguito dalla norma impugnata creerebbe un’ulteriore distorsione concorrenziale, favorendo l’accesso al credito delle sole PMI venete e incoraggiando la localizzazione imprenditoriale in quel territorio a discapito di altri, «[…] così deformando mediante l’intervento pubblico le dinamiche allocative del mercato».
Anche sotto questo profilo, pertanto, sarebbero «nette», sia la violazione del «principio sostanziale di concorrenza», sia comunque l’invasione della competenza legislativa dello Stato in materia di concorrenza.
2.– La Regione Veneto si è costituita in giudizio contestando gli argomenti di controparte.
2.1.– Con riguardo alla questione promossa in riferimento all’art. 79, comma 1, la Regione Veneto ha chiesto che sia dichiarata non fondata.
Per quanto la normativa statale di sostegno all’imprenditoria femminile abbia la valenza di un intervento di politica economica, ciò non ne implicherebbe di per sé l’inclusione nella materia di «tutela della concorrenza». Così ragionando, infatti, qualunque norma che prevedesse l’erogazione di contributi a favore di cittadini e imprese dovrebbe ritenersi attribuita, per la sua astratta capacità di incidere sul mercato, alla competenza esclusiva dello Stato, e le regioni sarebbero espropriate della possibilità di gestire autonomamente le loro risorse per la cura degli interessi pubblici ad esse affidati. Contrariamente a quanto sostenuto dal Governo, la disciplina degli aiuti alle imprese andrebbe dunque ricondotta nell’ambito delle materie cui di volta in volta si riferisce la specifica provvidenza (nella specie di pertinenza regionale).
La disposizione impugnata non si porrebbe neppure in contrasto con il diritto europeo della concorrenza. La «rinuncia» alla revoca dell’aiuto avrebbe potuto, in ipotesi, integrare un aiuto di Stato incompatibile con il TFUE soltanto se eccedente la soglia «de minimis». Ma tale esito sarebbe impossibile nel caso di specie, dal momento che gli aiuti alle imprese femminili previsti dalla legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l’imprenditoria femminile) sarebbero stati già originariamente concessi in regime «de minimis».
2.2.– La Regione Veneto ha chiesto, altresì, che la questione promossa in riferimento all’art. 83 sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
Sotto il profilo dell’inammissibilità, mancherebbe la concreta lesività della norma impugnata, che non avrebbe un contenuto precettivo idoneo a ledere la concorrenza né qualsivoglia altro ambito materiale di competenza dello Stato o parametro costituzionale. La norma si limiterebbe ad autorizzare la Giunta regionale ad avviare la procedura dell’art. 18, comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), a tenore del quale «[c]on delibera della Conferenza unificata sono individuate, tenuto conto dell’esistenza di fondi regionali di garanzia, le regioni sul cui territorio il fondo limita il proprio intervento alla controgaranzia dei predetti fondi regionali e dei consorzi di garanzia collettiva fidi di cui all’art. 155, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385».
Si tratterebbe, dunque, di un atto di indirizzo politico avente solo la veste formale della legge. Con esso il Consiglio regionale avrebbe esercitato la propria potestà di impulso, autorizzando la Giunta ad avviare un procedimento amministrativo già previsto e disciplinato dalla legge statale. La competenza dello Stato non subirebbe alcuna invasione e potrebbe essere liberamente esercitata attraverso l’organo individuato dal d.lgs. n. 112 del 1998 (la Conferenza unificata), senza condizionamenti derivanti da quanto previsto dalla legge regionale, che circoscrive i propri effetti all’attività della Giunta regionale.
Tali considerazioni renderebbero anche irrilevanti le doglianze relative all’invasione della competenza statale in materia di tutela della concorrenza, ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto con i principi comunitari in materia di concorrenza, il ricorrente non avrebbe prospettato in modo adeguato e specifico i motivi di illegittimità costituzionale della norma impugnata, essendosi limitato a rinviare per relationem al contenuto di alcune decisioni dell’AGCM su fattispecie diverse da quella in esame, concernenti ipotesi di limitazione all’accesso dei confidi a fondi pubblici in base a criteri geografici. Neppure sarebbero specificate le ragioni per le quali la disposizione regionale violerebbe i principi del diritto comunitario indirettamente evocati quali parametri di costituzionalità.
Nel merito, il sospetto di discriminazione ratione loci sarebbe il frutto di un’erronea lettura della norma impugnata. Essa attuerebbe una deroga “territoriale” consentita dallo stesso legislatore statale, operando una scelta discrezionale di politica regionale che può riferirsi solo al territorio veneto. Il legislatore regionale avrebbe adottato non un criterio meramente formale, come quello della sede legale dei confidi, bensì il criterio sostanziale della sede operativa, correlando in tal modo la previsione sulle controgaranzie allo svolgimento da parte dei confidi di una stabile attività nel territorio regionale, in perfetta e ragionevole simmetria con la analoga previsione, contenuta nello stesso art. 83 sulle controgaranzie a favore del fondo regionale di riferimento.
Inoltre la Regione osserva, a indiretta conferma della legittimità della norma, che Marche e Abruzzo avrebbero già ottenuto, per effetto di apposite deliberazioni della Conferenza unificata, la limitazione dell’intervento del fondo di garanzia costituito presso il Mediocredito Centrale spa nei riguardi dei confidi aventi sede operativa o legale nel solo territorio regionale.
2.3.– Nella memoria illustrativa depositata il 30 gennaio 2018 la Regione Veneto ha ribadito le proprie difese in ordine all’impugnazione dell’art. 83.
Considerato in diritto
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato, tra gli altri, gli artt. 79, comma 1, e 83 della legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017).
Resta riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse dal ricorrente.
1.1.- L’art. 79, comma 1, - stabilendo, in deroga all’art. 20 del d.P.R. 28 luglio 2000, n. 314 (Regolamento per la semplificazione del procedimento recante la disciplina del procedimento relativo agli interventi a favore dell’imprenditoria femminile), che non si procede alla revoca e al recupero degli aiuti previsti in favore dell’imprenditoria femminile, anche quando siano venuti meno i presupposti per la loro erogazione – si esporrebbe a due censure di legittimità costituzionale.
La norma impugnata violerebbe, in primo luogo, l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, in quanto: prevedendo misure che presentano le caratteristiche degli aiuti di Stato, le stesse avrebbero dovute essere notificate alla Commissione europea, cui sola competerebbe l’esame della compatibilità con il mercato interno dei regimi di aiuti esistenti negli Stati nazionali; per di più, il mancato recupero delle risorse pubbliche erogate, il cui pagamento è reso irrevocabile anche quando se ne sia constatata la mancata utilizzazione specifica, non sarebbe giustificato da alcuna concreta utilità di sviluppo economico, con il risultato che ne sarebbe falsata, o minaccerebbe di esserne falsata, la concorrenza.
Sotto altro profilo, le disposizioni censurate, vertendo sulla revoca di agevolazioni e incentivi, riguarderebbero la materia di competenza legislativa statale esclusiva di «tutela della concorrenza», ponendosi in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
1.2.- In via pregiudiziale, si deve osservare che nella delibera del Consiglio dei ministri, che richiama la relazione ministeriale allegata, non si fa menzione dell’art. 117, primo comma, Cost., e dei parametri comunitari interposti, né essi sono identificabili alla luce delle ragioni espresse (sentenze n. 228 del 2017 e n. 270 del 2017). I principi in materia di concorrenza vengono infatti evocati solo in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Cosicché, difettando la necessaria piena corrispondenza tra il ricorso e la delibera del Consiglio dei ministri che l’ha autorizzato, la prima questione di legittimità costituzionale in riferimento agli indicati parametri è inammissibile (ex plurimis: sentenze n. 265 e n. 1 del 2016, n. 250 e n. 153 del 2015).
1.3.- Nel merito, sussiste la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la nozione di «concorrenza» di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost., non può non riflettere quella operante in ambito europeo (sentenze n. 291 e n. 200 del 2012, n. 45 del 2010) e ciò vale anche quando essa abbia riguardo al mercato di ambito nazionale o locale. Essa comprende, pertanto in ogni caso, sia le misure legislative di tutela in senso proprio, intese a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati, sia le misure legislative di promozione, dirette a eliminare limiti e vincoli alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese (concorrenza “nel mercato”), ovvero a prefigurare procedure concorsuali di garanzia che assicurino la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici (concorrenza “per il mercato”). In questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza», vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenze n. 299 del 2012 e n. 401 del 2007).
Su queste basi, la disciplina degli aiuti pubblici - o meglio delle deroghe al divieto di aiuti pubblici, compatibili con il mercato interno - rientra nell’accezione dinamica di concorrenza, la quale contempla, come detto, le misure pubbliche dirette a ridurre squilibri e a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo degli assetti concorrenziali. Non è priva di valore interpretativo la sistematica del TFUE, che inserisce la disciplina degli aiuti concessi dagli Stati all’interno del Titolo VII, al Capo I, rubricato «Regole di concorrenza» (sentenza n. 14 del 2004).
Il riconoscimento che la tutela della concorrenza non esclude interventi promozionali dello Stato deve raccordarsi con lo schema di riparto delle competenze legislative fissato dall’art. 117 Cost. Le materie interessate dai finanziamenti possono infatti corrispondere a molteplici settori (ad esempio, il commercio, l’agricoltura, il turismo, l’industria) nei quali operano le imprese in difficoltà che siano beneficiarie dei medesimi, riconducibili a materie di competenza regionale.
In tale quadro, l’intervento dello Stato si giustifica quando, per l’accessibilità a tutti gli operatori e per l’impatto complessivo, è idoneo ad incidere sull’equilibrio economico generale (sentenze n. 63 del 2008 e n. 14 del 2004).
Appartengono, invece, alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni «gli interventi sintonizzati sulla realtà produttiva regionale», tali comunque da non creare ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose fra le regioni e da non limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale (sentenza n. 14 del 2004). Entro questi limiti, anche le regioni, nell’esercizio delle loro attribuzioni, possono intervenire con misure di aiuto calibrate sul proprio ambito territoriale per incentivarne lo sviluppo economico, purché coerenti con la disciplina del diritto dell’Unione europea sugli aiuti di Stato (sentenza n. 217 del 2012; da ultimo, anche sentenza n. 98 del 2017).
1.4.- Nel caso di specie, la legge 25 febbraio 1992, n. 215 (Azioni positive per l’imprenditoria femminile) - le cui previsioni sono nel frattempo confluite negli artt. 52-55 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246) - prevede misure di agevolazione economica, consistenti in contributi in conto capitale per l’acquisizione di impianti e servizi che vogliono favorire lo sviluppo dell’imprenditoria femminile, promuovendone la presenza anche nei comparti più innovativi dei diversi settori produttivi.
L’intervento statale è dunque diretto a sostenere il livello degli investimenti (che si assume non ottimale) di una particolare categoria di operatori professionali, accrescendo in tal modo la competitività complessiva del sistema. La finalità di stimolare l’espansione in tutti i segmenti di mercato delle imprese a conduzione o a prevalente partecipazione femminile, e l’ammontare delle risorse impiegate rappresentano sicuri elementi sintomatici del livello nazionale dello strumento normativo in esame, che deve essere pertanto ricondotto alla materia «tutela della concorrenza», intesa nell’anzidetto profilo dinamico e promozionale.
Tenendo conto che la tutela della concorrenza, attesa la sua natura trasversale, funge da limite alla disciplina che le regioni possono dettare nelle materie di competenza concorrente o residuale (sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012; da ultimo, sentenza n. 165 del 2014), si deve concludere nel senso che era precluso alla Regione Veneto di introdurre una disciplina derogatoria della regola statale - dettata dall’art. 20 del d.P.R. n. 314 del 2000 - secondo cui le agevolazioni concesse devono essere revocate in seguito al venir meno di uno o più dei requisiti prescritti.
2.– Si passa ora ad esaminare l’impugnazione dell’art. 83 della legge reg. Veneto n. 30 del 2016.
La norma impugnata si inquadra nel sistema degli interventi di sostegno pubblico per lo sviluppo delle piccole e medie imprese (PMI), con specifico riguardo alle garanzie prestate per favorire l’accesso delle PMI alle fonti finanziarie.
Al comma 1, la disposizione prevede che, tenuto conto dell’operatività del fondo regionale di garanzia istituito dalla legge della Regione Veneto 13 agosto 2004, n. 19 (Interventi di ingegneria finanziaria per il sostegno e lo sviluppo delle piccole e medie imprese), la Giunta regionale «è autorizzata ad avviare le procedure per limitare nel territorio della Regione del Veneto» l’intervento del fondo di garanzia – istituito dall’art. 2, comma 100, lettera a), della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) «[…] presso il Mediocredito Centrale Spa allo scopo di assicurare una parziale assicurazione ai crediti concessi dagli istituti di credito a favore delle piccole e medie imprese» – alla sola controgaranzia delle garanzie emesse a favore delle PMI dal predetto fondo regionale e dai consorzi di garanzia collettiva dei fidi (cosiddetti “confidi”) «aventi sede operativa in Veneto».
A tale previsione si correla quella del comma 2, secondo il quale «[l]a limitazione dell’intervento del fondo di garanzia di cui al comma 1 è richiesta in via sperimentale per un periodo massimo di anni due e per operazioni di importo fino a 100.000,00 euro e potrà conformarsi alle evoluzioni della normativa che regola il funzionamento del fondo di garanzia di cui all’articolo 2, comma 100, lettera a), della legge n. 662 del 1996».
La norma autorizza la Giunta regionale «ad avviare le procedure […] ai sensi dell’art. 18, comma 1, lettera r), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112», recante «Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59». Questa disposizione, oltre a prevedere che «[s]ono conservate allo Stato le funzioni amministrative concernenti […] la gestione del fondo di garanzia» istituito dalla legge n. 662 del 1996, affida alla Conferenza unificata il potere di individuare, «tenuto conto dell’esistenza di fondi regionali di garanzia, le regioni sul cui territorio il fondo limita il proprio intervento alla controgaranzia dei predetti fondi regionali e dei consorzi di garanzia collettiva fidi […]». Il legislatore presuppone che i sistemi regionali costituiti dai fondi regionali di garanzia a favore delle PMI, ove esistenti, e dai confidi possano avere caratteristiche tali da giustificare la limitazione dell’intervento del fondo statale alla sola controgaranzia, che opera come una garanzia di secondo livello prestata a favore dei garanti. Pertanto, nei territori regionali individuati dalla Conferenza unificata sono esclusi gli interventi del fondo statale di immediato sostegno alle PMI, quali la garanzia diretta e la cogaranzia.
Il ricorrente concentra l’impugnazione sulla parte del comma 1 che «[…] circoscrive l’intervento in controgaranzia del Fondo di Garanzia del Mediocredito Centrale alle sole garanzie rilasciate dai Confidi aventi sede operativa in Veneto», ritenendo che ciò determini una discriminazione tra imprese (i confidi) sulla base di un elemento di localizzazione territoriale, in violazione di plurimi parametri: l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 49, 56 e 106 TFUE, in tema di libertà di stabilimento, di libera prestazione dei servizi e di rimozione delle posizioni di esclusiva o, comunque, di diritti speciali non necessari allo svolgimento dei compiti delle imprese; l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., per invasione della competenza statale esclusiva in materia di tutela della concorrenza; gli artt. 3 e 120 Cost., per lesione del principio di uguaglianza e di libertà di circolazione; l’art. 41 Cost., per lesione della libertà di iniziativa economica.
2.1.– La Regione Veneto eccepisce preliminarmente l’inammissibilità delle questioni sotto due profili, dei quali va esaminato per primo, per priorità logico-giuridica, quello relativo alla concreta mancanza di lesività della norma impugnata.
La Regione sostiene che l’art. 83 non avrebbe un contenuto precettivo idoneo a ledere la concorrenza, né qualsivoglia altro ambito materiale di competenza dello Stato o parametro costituzionale, in quanto si limiterebbe ad autorizzare la Giunta regionale ad avviare presso la Conferenza unificata la procedura di individuazione del Veneto quale Regione sul cui territorio il fondo di garanzia limita il proprio intervento alla controgaranzia dei fondi regionali e dei confidi.
Si tratterebbe, dunque, di un atto di indirizzo politico avente la veste formale di legge, con il quale il Consiglio regionale avrebbe esercitato la propria potestà di impulso, autorizzando la Giunta ad avviare un procedimento amministrativo già previsto e disciplinato dalla legge statale. La competenza dello Stato non subirebbe alcuna invasione e potrebbe essere liberamente esercitata attraverso l’organo individuato dal d.lgs. n. 112 del 1998 (la Conferenza unificata), senza condizionamenti derivanti dalla legge regionale, che produce i propri effetti solo nei riguardi della Giunta.
L’eccezione non è fondata.
La norma impugnata non ha una funzione meramente ricognitiva, né è comunque priva di portata precettiva (sentenze n. 63 del 2016, n. 254 e n. 77 del 2015, n. 230 del 2013, n. 346 e n. 52 del 2010, n. 401 del 2007), se non altro perché vincola la Giunta a formulare la propria richiesta alla Conferenza unificata nei termini in essa previsti e quindi circoscrivendo ai confidi aventi sede operativa nel Veneto l’auspicata limitazione dell’intervento del fondo di garanzia. Ne consegue che la dedotta mancanza di lesività della previsione non incide sulla ammissibilità delle questioni.
In secondo luogo, viene eccepita l’insufficienza della motivazione quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i principi comunitari in materia di concorrenza. Secondo la Regione, il ricorrente non avrebbe prospettato in modo adeguato e specifico i motivi di illegittimità costituzionale della norma impugnata, essendosi limitato a rinviare per relationem al contenuto di alcune decisioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) su fattispecie diverse da quella in esame, né avrebbe precisato le ragioni per le quali la disposizione regionale violerebbe i principi del diritto comunitario indirettamente evocati quali parametri di costituzionalità.
Nemmeno tale eccezione è fondata.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la motivazione per relationem è lesiva del principio di autosufficienza dell’atto introduttivo del giudizio (sentenza n. 40 del 2007), quando «[…] una censura sia sviluppata in atti diversi dal ricorso o dall’ordinanza in cui essa è contenuta (come nel caso di motivazione con rinvio ad altro ricorso – sentenza n. 40 del 2007 – o ad altra ordinanza di rimessione: ex plurimis, sentenze n. 197 e n. 143 del 2010)» (sentenza n. 68 del 2011). Nel presente giudizio, invece, il ricorrente ha richiamato specificamente, nel corpo della motivazione, le ragioni esposte in alcune decisioni dell’AGCM relative a provvedimenti amministrativi ritenuti in contrasto con i principi comunitari a tutela della concorrenza, perché discriminanti i confidi su base territoriale, e ne ha affermato la pertinenza al caso in esame, sottolineando le analogie di detti atti con la previsione regionale nella parte in cui questa richiederebbe il requisito della sede operativa dei confidi nel Veneto. Le motivazioni addotte a sostegno della censura di violazione dei principi comunitari superano pertanto la soglia minima di chiarezza e di completezza alla quale è subordinata l’ammissibilità delle impugnazioni in via principale.
2.2.– Nel merito le questioni sono fondate.
Come già accennato, l’autorizzazione disposta ex lege vincola la Giunta regionale ad avviare il procedimento amministrativo previsto dall’art. 18, comma 1, lettera r), del d.lgs. n. 112 del 1998 con esclusivo riferimento alle garanzie emesse a favore delle PMI dai confidi «aventi sede operativa in Veneto», oltre che a quelle emesse dal fondo regionale di garanzia. La norma, dunque, pur non causando direttamente l’effetto anticompetitivo lamentato dal ricorrente, è comunque finalizzata, attraverso la richiesta della Giunta regionale alla Conferenza unificata, a delimitare nel territorio veneto la platea dei confidi destinatari dell’intervento in controgaranzia del fondo.
Si deve dunque esaminare se tale delimitazione sia in contrasto con i predetti parametri.
L’art. 13, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, definisce i confidi come «[…] i consorzi con attività esterna […], le società cooperative, le società consortili per azioni, a responsabilità limitata o cooperative, che svolgono l’attività di garanzia collettiva dei fidi», per tale intendendosi «l’utilizzazione di risorse provenienti in tutto o in parte dalle imprese consorziate o socie per la prestazione mutualistica e imprenditoriale di garanzie volte a favorirne il finanziamento da parte delle banche e degli altri soggetti operanti nel settore finanziario».
Se l’intervento del fondo di garanzia fosse limitato, nel territorio della Regione Veneto, alla controgaranzia delle garanzie prestate dai soli confidi «aventi sede operativa in Veneto» (oltre che dal fondo regionale), come previsto nella norma regionale censurata, i confidi privi di tale requisito ma intenzionati a fornire garanzie in favore delle PMI operanti in quel territorio non potrebbero beneficiare dell’intervento in controgaranzia del fondo statale.
La norma impugnata è idonea a determinare pertanto una discriminazione tra imprese sulla base di un mero elemento di localizzazione territoriale (la sede operativa in Veneto), atto a frapporre barriere di carattere protezionistico alla prestazione di servizi in un determinato ambito territoriale da parte di imprenditori privi del requisito legislativamente richiesto, creando il rischio di una compartimentazione regionale del mercato.
Non depone in senso contrario la considerazione che la Conferenza unificata individua le regioni sul cui territorio il fondo limita il proprio intervento alla sola controgaranzia, in ragione delle caratteristiche dei sistemi regionali di garanzia a favore delle PMI. Se è vero che tali caratteristiche orientano, in base alla legge, la scelta della Conferenza unificata, esse non giustificano tuttavia in alcun modo l’ulteriore restrizione dell’attività di controgaranzia del fondo ai soli confidi aventi sede operativa nella regione.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che discriminare le imprese sulla base di un elemento di localizzazione territoriale contrasta con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., nonché con il principio ex art. 120, primo comma, Cost., a tenore del quale la Regione «non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose fra le regioni» e «non può limitare il diritto dei cittadini di esercitare in qualunque parte del territorio nazionale la loro professione, impiego o lavoro» (ex plurimis, sentenze n. 391 del 2008 e n. 207 del 2001).
Da tali principi consegue «il divieto per i legislatori regionali di frapporre ostacoli di carattere protezionistico alla prestazione, nel proprio ambito territoriale, di servizi di carattere imprenditoriale da parte di soggetti ubicati in qualsiasi parte del territorio nazionale (nonché, in base ai principi comunitari sulla libertà di prestazione dei servizi, in qualsiasi Paese dell’Unione europea)» (sentenze n. 64 del 2007 e n. 440 del 2006).
Inoltre, norme che impongono barriere “protezionistiche” di natura territoriale si traducono altresì in una limitazione della libertà di iniziativa economica, violando anche il principio di cui all’art. 41 Cost. (sentenze n. 124 del 2010, n. 391 del 2008 e n. 64 del 2007).
Questa Corte ha poi avuto modo di affermare che norme introduttive di barriere all’ingresso, tali da alterare la concorrenza tra imprenditori, violano l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo in tema di diritto di stabilimento ex art. 49 TFUE e di tutela della concorrenza (sentenza n. 340 del 2010). Il principio è stato ribadito con specifico riguardo a disposizioni regionali che, prevedendo requisiti territoriali per l’iscrizione di imprenditori in ruoli tenuti da enti pubblici, favorivano «[i] richiedenti già da tempo localizzati nel territorio regionale, con ciò violando anche il principio di parità di trattamento (id est di non discriminazione: sentenze n. 339 e n. 213 del 2011), sotteso alla previsione dell’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in tema di libertà di stabilimento (sentenze n. 340 e n. 180 del 2010)» (sentenza n. 264 del 2013).
2.3.– Va dunque dichiarata l’illegittimità dell’art. 83, comma 1, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, limitatamente alle parole «aventi sede operativa in Veneto».
La questione promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., rimane assorbita.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso indicato in epigrafe;
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 79, comma 1, della legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, limitatamente alle parole «aventi sede operativa in Veneto».
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 79, comma 1, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 aprile 2018.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA