Corte Costituzionale, Sentenza n.92 del 27/04/2018

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Prospettazione della questione incidentale - Adeguata motivazione del rimettente - Ammissibilità della questione - Rigetto di eccezione preliminare

Non è accolta l'eccezione di inammissibilità, per ipoteticità della questione e per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza, della questione di legittimità costituzionale degli artt. 398, comma 5, e 133 cod. proc. pen. Seppure, nel caso di specie, l'assenza del minore chiamato a rendere testimonianza in sede di incidente probatorio non sia giustificata da un impedimento a comparire o da gravi difficoltà, e sarebbe risolvibile tramite l'accompagnamento coattivo, con un sacrificio "non grave" delle sue ragioni, tale sacrificio è proprio ciò che il rimettente mira ad evitare con la questione sollevata.

Minori - Assunzione della testimonianza di un minore - Riconoscimento e tutela della sua personalità, quale valore di sicuro rilievo costituzionale - Necessario bilanciamento con valori contrapposti, anch'essi di rilievo costituzionale, come quelli del contraddittorio e del diritto di difesa nel processo penale, nonché dalle regole sulla competenza territoriale

Con riguardo alla tutela del minore la cui testimonianza sia necessaria nel processo penale occorre necessariamente procedere al bilanciamento di valori contrapposti: da un lato, la tutela della personalità del minore, obiettivo di sicuro rilievo costituzionale; dall'altro, i valori coinvolti dal processo penale, quali quelli espressi dai principi, anch'essi di rilievo costituzionale, del contraddittorio e del diritto di difesa - in forza dei quali l'accusato deve essere posto in grado di confrontarsi in modo diretto con il materiale probatorio e, in specie, con le prove dichiarative - nonché dalle regole sulla competenza territoriale. (Precedente citato: sentenza n. 262 del 1998).

Processo penale - Incidente probatorio - Assunzione della testimonianza di minorenne - Mancata comparizione dovuta a situazione di disagio del minore che ne compromette il benessere - Possibilità di delegare l'incidente probatorio al giudice delle indagini preliminari nel cui circondario il minore risiede - Omessa previsione - Denunciata violazione degli obblighi convenzionali a tutela del "benessere" del minore - Insussistenza del vizio denunciato - Non fondatezza della questione

È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata dal GIP del Tribunale di Lecce, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 4 della Convenzione sui diritti del fanciullo - degli artt. 398, comma 5, e 133 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono che, quando la mancata comparizione del minore chiamato a rendere testimonianza in sede di incidente probatorio sia dovuta a «situazioni di disagio che ne compromettono il benessere», alle quali sia possibile «ovviare» esaminandolo presso il tribunale del luogo della sua dimora, il giudice competente, anziché disporre l'accompagnamento coattivo, possa ritenere giustificata la mancata comparizione e delegare l'incidente probatorio al GIP nel cui circondario il minore risiede. Il sistema processuale vigente offre al giudice un ampio e duttile complesso di strumenti di salvaguardia della personalità del minore chiamato a rendere testimonianza, a fronte del quale deve escludersi l'asserita necessità costituzionale di introdurre quello ulteriore congegnato dal rimettente. Peraltro, la pretesa di delegare l'incombenza al GIP del luogo di residenza del minore si rivela affatto eccentrica rispetto alle norme convenzionali evocate, cui risulta del tutto indifferente presso quale giudice la testimonianza venga assunta. Nella materia penale sussiste un particolare collegamento tra le regole sulla competenza territoriale e il principio del giudice naturale, in ragione della "fisiologica" allocazione del processo penale nel locus commissi delicti, cosicché qualsiasi istituto processuale che producesse l'effetto di "distrarre" il processo dalla sua sede inciderebbe su un valore di elevato e specifico risalto, giacché la celebrazione di quel processo in "quel" luogo risponde ad esigenze di indubbio rilievo, fra le quali, non ultima, va annoverata anche quella per la quale il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati, la cui sede, di massima, è anche quella più idonea all'accertamento del fatto, in particolare nella prospettiva di una più agevole e rapida raccolta del materiale probatorio. (Precedente citato: sentenza n. 168 del 2006).

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SENTENZA N. 92

ANNO 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 398, comma 5, e 133 del codice di procedura penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce nel procedimento penale a carico di G. R., con ordinanza del 1° dicembre 2015, iscritta al n. 109 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2018 il Giudice relatore Franco Modugno.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 1° dicembre 2015, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 3 e 4 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, degli artt. 398, comma 5, e 133 del codice di procedura penale, nella parte in cui «non prevedono che, laddove la mancata comparizione del testimone minorenne sia dovuta a situazioni di disagio che ne compromettono il benessere, e sia possibile ovviare ad esse procedendo all’esame del minore presso il tribunale competente in relazione al luogo della sua dimora, […] possa ritenersi giustificata la sua mancata comparizione e rogarsi il compimento dell’incidente al [giudice per le indagini preliminari] del tribunale nel cui circondario risiede il minore».

1.1.– Il rimettente riferisce che, nel giudizio a quo, si procede nei confronti di una persona imputata del delitto di maltrattamenti in danno del figlio minorenne della propria convivente. Riferisce, altresì, che su istanza dell’imputato, formulata nel corso dell’udienza preliminare – come consentito a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 1994 – era stata disposta l’assunzione della testimonianza del minore nelle forme dell’incidente probatorio, ai sensi dell’art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen.

Il difensore della persona offesa aveva ripetutamente chiesto che l’incidente probatorio fosse rinviato o sospeso, ovvero delegato al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Avellino – città nella quale il minore risiedeva con il padre –, ovvero ancora che vi procedesse lo stesso GIP di Lecce, ma sempre nel luogo di residenza del minore. Le istanze erano state motivate con lo stress accumulato da quest’ultimo, già esaminato più volte in sede di giudizio civile, con i problemi che la trasferta gli avrebbe recato sul piano della frequentazione e del rendimento scolastico, nonché con il disagio, manifestato dal minore, «a venire a Lecce, ove non si sent[iva] tranquillo per il timore di incontrare l’imputato».

Il giudice a quo aveva disatteso, tuttavia, tali istanze con ordinanza del 30 settembre 2015, fissando al 27 novembre 2015 l’udienza per l’espletamento dell’incidente probatorio avanti a sé. Nell’occasione, il rimettente aveva rilevato come il «pur comprensibile» disagio lamentato dal minore non potesse condurre ad un apprezzamento di pericolosità dell’atto processuale per la sua salute, tale da giustificare la revoca dell’incidente probatorio. Con un precedente incidente probatorio era stata, infatti, espletata una perizia proprio per verificare la capacità a testimoniare del minore e l’esistenza di «problematicità» connesse alla sua sottoposizione ad esame: «problematicità» che il perito aveva escluso, stante «l’elevata maturità del minore» – ormai sedicenne – «e l’assenza di segni di fragilità». Nella medesima ordinanza si era rilevato, altresì, come non ricorressero nemmeno i presupposti per un esame del minore «a domicilio». Il comma 5-bis dell’art. 398 cod. proc. pen. consente, infatti, che l’udienza per l’espletamento dell’incidente probatorio si tenga in luogo diverso dal tribunale, allorché occorra assumere la testimonianza di un minore, prevedendo, tuttavia, l’esame presso l’abitazione della persona interessata solo qualora non esistano «strutture specializzate di assistenza»: strutture, di contro, reperibili nel circondario di Lecce presso il Tribunale per i minorenni, che disponeva di locali appositamente attrezzati. La finalità della citata disposizione non sarebbe, d’altra parte, quella di limitare i disagi di una eventuale trasferta, ma l’altra – da essa espressamente richiamata – di salvaguardare le «esigenze di tutela delle persone»: e ciò segnatamente a fronte dei pregiudizi di ordine emotivo e psicologico che possono derivare al minore da un esame in udienza a diretto contatto con le parti, compresi i soggetti che avrebbero eventualmente abusato di lui. Nella specie, peraltro, il minore era già stato sentito in diverse occasioni presso il Tribunale per i minorenni di Lecce, senza mai manifestare alcun disagio per il trasferimento. Il perito aveva, inoltre, chiarito che il minore, in ragione del suo «sviluppo evolutivo e psicologico», poteva essere senz’altro esaminato direttamente dalle parti. Lo svolgimento dell’incidente probatorio ad Avellino, anziché a Lecce, non avrebbe offerto, d’altronde, alcuna garanzia in più sotto il profilo della tutela del minore, posto che, ai sensi dell’art. 401, comma 3, cod. proc. pen., l’imputato – autore dei presunti maltrattamenti – avrebbe avuto, comunque sia, il diritto di assistere all’assunzione della testimonianza. Non sussistevano, pertanto, «controindicazioni» all’esame del minore in Lecce, laddove, invece, l’espletamento dell’incombente nel suo luogo di residenza avrebbe comportato «anche ostacoli al piano esercizio del diritto di difesa, al cui servizio si pone […] il principio che assegna la competenza […] territoriale al giudice del locus commissi delicti». Proprio in questa prospettiva, l’art. 398, comma 5, cod. proc. pen., nell’individuare i casi nei quali l’incidente probatorio può essere delegato ad altro giudice, fa riferimento alle ipotesi nelle quali il mezzo di prova debba essere necessariamente assunto fuori del circondario del giudice che lo dispone, richiedendo, altresì, che ricorrano «ragioni di urgenza», nella specie non ravvisabili.

Il giudice rimettente aveva, quindi, conclusivamente ritenuto che le preoccupazioni e i disagi manifestati dal minore imponessero soltanto di fare in modo che il suo esame avvenisse «con modalità protette», tali da evitargli il contatto, anche solo visivo, con l’imputato prima, durante e dopo l’incidente probatorio, in maniera da tutelare la sua «tranquillità emotiva». In quest’ottica, il rimettente – oltre a richiedere l’assistenza di uno psicologo – aveva disposto una serie di cautele, stabilendo, in particolare, differenti orari di arrivo per i due interessati e il divieto, per l’imputato, di comparire prima di un certo orario, così da consentire al minore di raggiungere la sala destinata all’escussione senza incrociarlo. Aveva disposto, infine, che l’imputato fosse ammesso ad assistere all’esame dietro uno «schermo/specchio», in modo da non essere visto dal testimone.

1.2.– All’udienza fissata per l’espletamento dell’incidente probatorio, il minore non era, peraltro, comparso. Confermando quanto preventivamente comunicato dai servizi sociali del Comune di Avellino, il difensore della persona offesa e il padre di quest’ultima, comparsi in udienza, avevano rappresentato la volontà «particolarmente intensa e ferma» del minore di essere sentito ad Avellino, e non a Lecce, per il «forte timore» di un possibile incontro con l’imputato e l’«elevato disagio» generato in lui dall’idea di un ritorno nel territorio salentino.

Il rimettente esclude che una simile volontà – in assenza di una «seria controindicazione» per la salute del minore – possa integrare una situazione di «legittimo impedimento», atta a giustificare la mancata ottemperanza all’obbligo di comparire ai sensi degli artt. 133 e 198 cod. proc. pen. Ribadisce, altresì, come non ricorra una condizione di urgenza atta a giustificare la delega dell’incidente probatorio al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Avellino, «non essendo in pericolo la ripetibilità della prova», né sussistendo «il rischio che il decorso del tempo […] comprometta la possibilità di assumerla in condizioni di genuinità» (la prova sarebbe, infatti, senz’altro ripetibile, anche dopo l’ormai prossimo raggiungimento della maggiore età da parte del teste). Conferma, ancora, l’insussistenza dei presupposti per l’assunzione dell’atto a domicilio, tanto ai sensi dell’art. 398, comma 5-bis, cod. proc. pen., quanto ai sensi dell’art. 502 cod. proc. pen. Rileva, infine, come non ricorrano neppure le «gravi difficoltà ad assicurare la comparizione della persona da sottoporre ad esame», in presenza delle quali l’art. 147-bis, comma 5, del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) consente l’esame a distanza del testimone: modalità che, per la loro «povertà empatica», sarebbero d’altronde – secondo il rimettente – «ben poco adatte all’esame del minore».

A fronte di ciò, il giudice a quo si troverebbe, dunque, a dover disporre l’accompagnamento coattivo del minore a mezzo della forza pubblica, ai sensi dell’art. 133 cod. proc. pen.

1.3.– Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale del «complesso normativo» che imporrebbe di adottare un simile provvedimento, al quale andrebbe ascritta «una non minima capacità traumatizzante sul minore».

Nella specie, potrebbe in effetti «darsi per acquisito» che il minore avverta «effettivamente, e con estrema verosimiglianza», un forte disagio nel far ritorno in luoghi che associa alla persona dell’imputato e ai fatti di maltrattamento che gli attribuisce: e ciò anche a voler supporre l’infondatezza delle accuse, posto che – se pure non nella città di Lecce, ma in un paese della provincia – l’imputato ha svolto nei confronti del minore stesso il ruolo di padre per diversi anni.

In simile situazione, lo svolgimento dell’incidente probatorio in Lecce, e ancor più l’accompagnamento coattivo del minore, comporterebbero la prevalenza delle «esigenze di razionale distribuzione degli affari e delle competenze» e di agevolazione dell’esercizio del diritto di difesa (di cui sarebbero espressione anche le norme sulla competenza territoriale) rispetto a quelle di tutela della serenità e dell’equilibrio del minore, che, «non per capriccio», ma per ragioni di effettivo disagio psichico non voglia comparire davanti al giudice di un determinato luogo, con totale soccombenza delle seconde (e conseguente rischio di pregiudizio anche per la genuinità della prova).

In simili frangenti, l’impossibilità di delegare l’esecuzione dell’incidente probatorio al giudice per le indagini preliminari del luogo di residenza del teste minorenne, e la conseguente necessità di disporne l’accompagnamento coattivo, si porrebbero in contrasto con gli obblighi internazionali derivanti dagli artt. 3 e 4 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e, di riflesso, con l’art. 117 Cost. Il citato art. 3 impone, infatti, agli Stati parti, in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di attribuire un rilievo preminente all’«interesse superiore del fanciullo» (intendendosi, per tale, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione, il minore degli anni diciotto) e di assicurare al medesimo «la protezione e le cure necessarie al suo benessere»: concetto, quello di «benessere», da ritenere più ampio di quello di «salute» e comprensivo anche dell’esigenza di evitare «gli stati d’ansia o stress che possono essere prodotti dall’applicazione delle norme processuali». A sua volta, l’art. 4 della Convenzione impegna gli Stati parti ad adeguare i propri ordinamenti interni a tali principi, anche tramite provvedimenti legislativi.

Sulla base di tali considerazioni, il giudice a quo ritiene, quindi, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 398, comma 5, e 133 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono che – quando la mancata comparizione del testimone minorenne sia dovuta a situazioni di disagio che ne compromettono il benessere, alle quali si possa «ovviare» procedendo all’esame del minore presso il tribunale nel cui circondario egli dimora – il giudice competente possa ritenere giustificata la sua mancata comparizione e delegare per l’esecuzione dell’incidente probatorio il giudice per le indagini preliminari del luogo di residenza del minore.

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Ad avviso della difesa dell’interveniente, la questione sarebbe inammissibile sia per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza, sia in quanto ipotetica. Dall’ordinanza di rimessione emerge, infatti, chiaramente che, nel caso di specie, l’assenza del minore non risulta giustificata da un effettivo impedimento a comparire, né da difficoltà gravi, e che il problema sarebbe risolvibile tramite l’accompagnamento coattivo, con sacrificio non grave delle ragioni del minore.

La questione sarebbe, in ogni caso, infondata nel merito.

L’incidente probatorio è un istituto processuale finalizzato ad evitare, durante le indagini preliminari, il rischio di dispersione di prove non rinviabili al dibattimento. Con riguardo ad esso, il legislatore avrebbe operato un corretto bilanciamento tra la tutela dei diritti dell’imputato e quelli del testimone minore, stabilendo regole particolari a salvaguardia della serenità di quest’ultimo, in quanto soggetto vulnerabile.

L’intervento richiesto dal giudice rimettente attenuerebbe invece ingiustificatamente lo stretto legame tra giudice e luogo di commissione del fatto, postulato dal principio del giudice naturale, di cui all’art. 25, primo comma, Cost., quale limite alla discrezionalità legislativa nella determinazione della competenza territoriale. Come posto in evidenza dalla giurisprudenza costituzionale, «il predicato della “naturalità” assume nel processo penale un carattere del tutto particolare, in ragione della “fisiologica” allocazione di quel processo nel locus commissi delicti» (è citata la sentenza n. 168 del 2006). L’attribuzione della competenza al giudice di tale luogo risponde, in effetti, non solo all’esigenza «simbolica» di riaffermare il diritto e la giustizia proprio nel luogo in cui sono stati violati, ma anche a considerazioni di ordine pratico, essendo, di norma, tale sede giudiziaria quella più idonea all’accertamento del fatto, in particolare nella prospettiva di una più agevole e rapida raccolta del materiale probatorio.

La deroga agli ordinari criteri di competenza territoriale che il giudice a quo vorrebbe introdurre in nome della tutela dei diritti del fanciullo, prevista nella Convenzione di New York, comporterebbe un sacrificio del tutto sproporzionato del principio del giudice naturale rispetto all’obiettivo di non incidere sul benessere del minore, che, nel caso di specie, non sembrerebbe in pericolo e che risulterebbe, comunque sia, salvaguardato dalle speciali garanzie previste dall’ordinamento a tutela del minore stesso.

Considerato in diritto

1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce dubita della legittimità costituzionale degli artt. 398, comma 5, e 133 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che – quando la mancata comparizione del minore chiamato a rendere testimonianza in sede di incidente probatorio sia dovuta a «situazioni di disagio che ne compromettono il benessere», alle quali sia possibile «ovviare» esaminandolo presso il tribunale del luogo della sua dimora – il giudice competente possa ritenere giustificata la mancata comparizione e delegare l’incidente probatorio al giudice per le indagini preliminari nel cui circondario il minore risiede.

Ad avviso del giudice a quo, le norme censurate violerebbero l’art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con le previsioni degli artt. 3 e 4 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, in forza delle quali gli Stati parti debbono considerare «preminente» l’«interesse superiore» del fanciullo (intendendosi, per tale, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione, il minore degli anni diciotto) in tutte le decisioni che lo riguardano – e, dunque, anche nella disciplina degli atti processuali – al fine di garantire il «benessere» del fanciullo stesso. Non consentendo di delegare, nei casi considerati, l’incidente probatorio al giudice del luogo di residenza del minore e imponendo, di conseguenza, l’accompagnamento coattivo di quest’ultimo, le disposizioni sottoposte a scrutinio farebbero, per converso, prevalere le esigenze di razionale distribuzione degli affari e di agevolazione del diritto di difesa – delle quali sarebbero espressione le norme sulla competenza territoriale – su quelle di tutela della serenità e dell’equilibrio del minore, «con totale soccombenza» delle seconde.

2.– L’eccezione di inammissibilità della questione formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri non è fondata.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato la questione sarebbe inammissibile sia per difetto di adeguata motivazione sulla rilevanza, sia per il suo carattere ipotetico: ciò, in quanto dall’ordinanza di rimessione emergerebbe chiaramente che, nel caso di specie, l’assenza del minore non è giustificata da un impedimento a comparire o da gravi difficoltà e che il problema sarebbe risolvibile tramite l’accompagnamento coattivo, con un sacrificio «non grave» delle ragioni del minore.

Evitare, tuttavia, il sacrificio anche «non grave» delle ragioni del minore è proprio ciò a cui mira il giudice rimettente con la questione sollevata.

3.– Nel merito, la questione non è, tuttavia, fondata.

La tematica su cui verte l’odierno quesito di legittimità costituzionale è quella dell’assunzione, mediante incidente probatorio, della testimonianza di una persona minorenne. A tal riguardo, il giudice a quo sottopone congiuntamente a scrutinio due norme, cui addebita la creazione di una situazione di mancata tutela del minore, contrastante con le evocate previsioni degli artt. 3 e 4 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e, di riflesso, con l’art. 117 Cost., nella parte in cui, al primo comma, impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

Le censure investono, in primo luogo, il disposto dell’art. 398, comma 5, cod. proc. pen., che disciplina le condizioni di esperibilità dell’incidente probatorio per rogatoria, stabilendo che «[q]uando ricorrono ragioni di urgenza e l’incidente probatorio non può essere svolto nella circoscrizione del giudice competente, quest’ultimo può delegare il giudice per le indagini preliminari del luogo dove la prova deve essere assunta».

Viene censurata, altresì, la disposizione dell’art. 133 cod. proc. pen., che abilita il giudice a ordinare l’accompagnamento coattivo delle persone diverse dall’imputato – tra cui, anzitutto, il testimone – che, dopo essere state regolarmente citate, omettono di comparire senza legittimo impedimento nel luogo, giorno e ora stabiliti.

In rapporto a tali previsioni, il giudice a quo formula un petitum a carattere additivo, fortemente “ritagliato” sulle peculiarità della vicenda concreta sottoposta al suo esame, concernente l’assunzione, mediante incidente probatorio, della testimonianza di un minore ultrasedicenne, asserita vittima di maltrattamenti da parte del convivente della madre: vicenda che ha visto il rimettente respingere, con un primo provvedimento – sorretto da ampia e analitica motivazione – le istanze di espletamento della prova nel luogo di residenza del minore, esterno al circondario del Tribunale ordinario di Lecce. Nell’occasione, il giudice a quo aveva ritenuto non soltanto che non ricorressero gli stringenti presupposti ai quali il citato art. 398, comma 5, cod. proc. pen. subordina la delega dell’incidente probatorio (impossibilità di compimento dell’atto nel circondario del giudice competente e ragioni di urgenza), ma che non sussistessero neppure, e comunque sia, apprezzabili «controindicazioni» all’esame del minorenne in Lecce, tali da giustificare l’«abbandon[o]», da parte di esso giudice rimettente, «[del]la sua sede – e [de]i continuativi impegni giurisdizionali che ivi svolge – per recarsi in altro circondario».

Non essendo peraltro il teste comparso senza addurre un legittimo impedimento, il giudice a quo – all’esito di una nuova e diversa valutazione della vicenda – chiede ora a questa Corte di dichiarare illegittime le disposizioni censurate nella parte in cui non prevedono che – quante volte la mancata comparizione del testimone minorenne si ricolleghi a «situazioni di disagio che ne compromettono il benessere», rimovibili esaminandolo presso il tribunale nel cui circondario egli dimora – il giudice competente possa ritenere giustificata la mancata comparizione e delegare per l’esecuzione dell’incidente probatorio il giudice per le indagini preliminari del luogo di residenza del minore.

4.– Va osservato che le censure del giudice a quo poggiano su una visione eccessiva dell’obbligo dello Stato italiano – scaturente dalle evocate, generalissime previsioni degli artt. 3 e 4 della Convenzione di New York – di accordare «una considerazione preminente» all’«interesse superiore del fanciullo» in tutte le decisioni che lo riguardano e di assicurare il suo «benessere». Nell’idea del rimettente, tali disposizioni impegnerebbero il legislatore nazionale a congegnare le norme processuali penali in modo da evitare al minore qualsiasi tipo di «disagio» di ordine psicologico: anche quello – riscontrabile, secondo il giudice a quo, nel caso di specie – derivante dal fatto che la città in cui il minore dovrebbe deporre risvegli in lui ricordi sgradevoli, in quanto associata alla persona dell’imputato e ai fatti di reato a questo attribuiti (fatti che, per quanto si evince dall’ordinanza di rimessione, non sono stati commessi neppure in Lecce, ma in un paese della sua provincia). Per affermazione dello stesso rimettente, si tratta di «disagio», non solo certamente inidoneo a incidere sulla salute del minore interessato, ma neppure tale da comportare un «sacrificio […] grave» per il medesimo (nell’ordinanza di rimessione, il minore viene d’altronde descritto, sulla scorta delle risultanze di una perizia, come soggetto di «elevata maturità» ed esente da «segni di fragilità», e si riferisce, altresì, di come egli fosse stato già sentito, in fatto, più volte in precedenza presso il Tribunale per i minorenni del capoluogo salentino).

Ragionando in questi termini, tuttavia, nessun minore, vittima di determinati reati, dovrebbe essere mai assunto come testimone. Per il minore vittima, ad esempio, di abusi sessuali – ma anche di maltrattamenti, come si ipotizza dalla pubblica accusa nel giudizio a quo – dover rievocare in ambito giudiziario le vicende che lo hanno coinvolto è sempre, e comunque sia, fonte di marcato «disagio».

Risulta evidente, in realtà, come in materia occorra necessariamente procedere al bilanciamento di valori contrapposti: da un lato, la tutela della personalità del minore, obiettivo di sicuro rilievo costituzionale (sentenza n. 262 del 1998); dall’altro, i valori coinvolti dal processo penale, quali quelli espressi dai principi, anch’essi di rilievo costituzionale, del contraddittorio e del diritto di difesa – in forza dei quali l’accusato deve essere posto in grado di confrontarsi in modo diretto con il materiale probatorio e, in specie, con le prove dichiarative – nonché, per quanto qui particolarmente interessa, dalle regole sulla competenza territoriale.

Come ricorda il Presidente del Consiglio dei ministri, questa Corte ha avuto modo di porre in evidenza il particolare collegamento che, nella materia penale, sussiste tra dette regole e il principio del giudice naturale (art. 25 Cost.). Nel processo penale, infatti, «il predicato della “naturalità” assume [...] un carattere del tutto particolare, in ragione della “fisiologica” allocazione di quel processo nel locus commissi delicti. Qualsiasi istituto processuale, quindi, che producesse […] l’effetto di “distrarre” il processo dalla sua sede, inciderebbe su un valore di elevato e specifico risalto per il processo penale; giacché la celebrazione di quel processo in “quel” luogo, risponde ad esigenze di indubbio rilievo, fra le quali, non ultima, va annoverata anche quella […] per la quale il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati» (sentenza n. 168 del 2006). Tale sede giudiziaria è, peraltro, in linea di massima, anche quella più idonea all’accertamento del fatto, in particolare nella prospettiva di una più agevole e rapida raccolta del materiale probatorio: e ciò – come riconosce lo stesso rimettente – anche in ottica servente al diritto di difesa dell’imputato.

5.– Ciò posto, il bilanciamento tra i contrapposti valori operato dalla normativa processuale vigente non può essere reputato inadeguato, sul versante della protezione del minore: e ciò particolarmente in rapporto a procedimenti per reati quale quello oggetto del giudizio a quo.

L’esigenza che si pone in materia non è, evidentemente, quella di evitare al minore i «disagi» inevitabilmente connessi al fatto di dover rendere testimonianza, apprezzabili in rapporto alla generalità dei testi, ma l’altra di preservarlo dagli effetti negativi che la prestazione dell’ufficio di testimone può produrre in rapporto alla peculiare condizione del soggetto.

È un dato acquisito, in effetti, che i minori, in quanto soggetti in età evolutiva, possono subire un trauma psicologico a seguito della loro esperienza in un contesto giudiziario penale. I fattori atti a provocare una maggiore tensione emozionale sono il dover deporre in pubblica udienza nell’aula del tribunale, l’essere sottoposti all’esame e al controesame condotto dal pubblico ministero e dai difensori e il trovarsi a testimoniare di fronte all’imputato, la cui sola presenza può suggestionare e intimorire il dichiarante. Se il minore è vittima del reato, d’altra parte, il dover testimoniare contro l’imputato si presta a innescare un meccanismo di cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, per il quale egli è portato a rivivere i sentimenti di paura, di ansia e di dolore provati al momento della commissione del fatto. Il trauma cui il minore è esposto durante l’esame testimoniale si ripercuote, d’altronde, negativamente sulla sua capacità di comunicare e di rievocare correttamente e con precisione i fatti che lo hanno coinvolto, o ai quali ha assistito, rischiando così di compromettere la genuinità della prova. Far sì che la testimonianza del minorenne venga acquisita in condizioni tali da tutelare la serenità del teste è, dunque, necessario anche al fine di una più completa e attendibile ricostruzione dell’accaduto.

Di tale esigenza il nuovo codice di procedura penale del 1988 si era fatto originariamente carico solo in ristretti limiti. In risposta ad essa, si erano previste, da un lato, la possibilità di svolgere l’esame testimoniale del minore a porte chiuse (art. 472, comma 4, cod. proc. pen.), facoltà trasformata poi in obbligo, ove il minore sia vittima di determinati reati (art. 472, comma 3-bis, cod. proc. pen.); dall’altro, una deroga alle ordinarie forme dell’esame incrociato, con l’affidamento in via prioritaria al giudice del compito di condurre l’esame del minore «su domande e contestazioni proposte dalle parti», avvalendosi, se del caso, dell’ausilio di un familiare del minore stesso o di un esperto in psicologia infantile: salva la possibilità di disporre, sentite le parti, che la deposizione prosegua nelle forme consuete «se ritiene che l’esame diretto del minore non possa nuocere alla serenità del teste» (art. 498, comma 4, cod. proc. pen.).

In prosieguo di tempo, tuttavia, il ventaglio degli strumenti di salvaguardia del minore si è progressivamente e sensibilmente arricchito per effetto di una serie di interventi innovativi. Nel procedere in tale direzione, il legislatore ha tenuto conto, tra l’altro, anche della necessità di uniformare l’ordinamento interno alle previsioni di norme sovranazionali attinenti, in modo specifico, alle modalità di assunzione della testimonianza del minore vittima di reati o, amplius, alla tutela del testimone “vulnerabile”: norme molto più pertinenti alla tematica in esame rispetto ai generalissimi enunciati della Convenzione di New York su cui il rimettente fonda invece le proprie censure. Previsioni di tal fatta si rinvengono, in specie, oltre che in talune raccomandazioni, nella Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, ratificata e resa esecutiva con legge 1° ottobre 2012, n. 172 (artt. 30, 31 e 35), nonché, quanto al diritto dell’Unione europea, nella decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (artt. 2, paragrafo 2; 3, paragrafo 3; 8, paragrafi 3 e 4), e indi nella direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI (artt. 19, paragrafo 1; 22, paragrafo 4; 23).

6.– Il processo di implementazione dei presidi a tutela del minorenne chiamato a rendere testimonianza ha preso concretamente avvio con la legge 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale), il cui art. 13 ha aggiunto all’art. 392 cod. proc. pen. un comma 1-bis, ove si stabiliva che, nei procedimenti per fatti riconducibili alle più gravi tra le nuove figure di reato introdotte dalla stessa legge, le parti potessero «chiedere che si proceda con incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minore degli anni sedici, anche al di fuori delle ipotesi previste dal comma 1», ossia a prescindere dalle condizioni di indifferibilità della prova cui è ordinariamente subordinata la possibilità di una sua assunzione anticipata rispetto alla naturale sede dibattimentale. La disposizione è stata oggetto di ripetute modifiche ad opera di successive novelle legislative, che ne hanno via via dilatato il perimetro applicativo, tanto con riguardo ai reati – nel cui catalogo figura, a partire dal 2009, anche il delitto di maltrattamenti (art. 572 del codice penale), per cui si procede nel giudizio a quo – quanto in relazione al novero dei soggetti tutelati, che, sempre a partire dal 2009, abbraccia tutti i minori, anche ultrasedicenni (siano o meno persone offese dal reato), nonché le persone offese maggiorenni. Proprio sulla base della previsione del citato art. 392, comma 1-bis, cod. proc. pen. è stata, del resto, disposta l’assunzione mediante incidente probatorio della testimonianza del minore nel giudizio a quo.

Secondo quanto emerge dai lavori parlamentari relativi alla citata legge n. 66 del 1996, l’introduzione della ricordata nuova ipotesi di incidente probatorio cosiddetto speciale o atipico – proprio perché svincolato dall’ordinario presupposto della non rinviabilità della prova al dibattimento – era sorretta anche e soprattutto da una finalità di tutela della personalità del minore, consentendogli di uscire al più presto dal circuito processuale per aiutarlo a liberarsi più rapidamente dalle conseguenze psicologiche dell’esperienza vissuta. Tale ratio extraprocessuale è stata resa maggiormente evidente dalla legge 3 agosto 1998, n. 269 (Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù), che, aggiungendo all’art. 190-bis cod. proc. pen. un comma 1-bis, ha stabilito che il minore infrasedicenne, già escusso in sede di incidente probatorio, non potesse essere chiamato a deporre novamente in dibattimento, se non quando ciò apparisse «assolutamente necessario» (condizione poi solo in parte attenuata, in nome dell’esigenza di assicurare l’attuazione del principio del contraddittorio, dalla legge 1° marzo 2001, n. 63, recante «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’articolo 111 della Costituzione»).

7.– In parallelo all’ampliamento dei casi di incidente probatorio, la legge n. 66 del 1996 ha dettato, con il nuovo comma 5-bis dell’art. 398 cod. proc. pen., anche speciali regole per l’acquisizione della testimonianza del minore. Anziché integrare la disposizione dell’art. 498 cod. proc. pen., relativa alla deposizione dibattimentale – applicabile anche in sede di incidente probatorio in virtù del richiamo alle «forme stabilite per il dibattimento», contenuto nell’art. 401, comma 5, cod. proc. pen. – il legislatore preferì collocare le regole in questione nell’ambito della disciplina dell’incidente probatorio, limitandone così (in origine) la portata applicativa all’esame del minore condotto in tale sede.

Inizialmente circoscritta ai casi in cui si procedesse per i più gravi tra i delitti contro la libertà sessuale e si discutesse di minori infrasedicenni, la disposizione è stata interessata, negli anni a seguire, da un progressivo ampliamento del suo campo applicativo, in larga misura omologo a quello che ha investito l’ipotesi di incidente probatorio atipico di cui al comma 1-bis dell’art. 392 cod. proc. pen. In base al testo attuale della norma, nel caso di indagini che riguardino la quasi totalità dei reati menzionati dal citato art. 392, comma 1-bis (tra cui anche il delitto di maltrattamenti), «il giudice, ove fra le persone interessate all’assunzione della prova vi siano minorenni» (anche ultrasedicenni), con l’ordinanza che lo ammette, «stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all’incidente probatorio, quando le esigenze di tutela delle persone lo rendono necessario od opportuno». A tal fine, l’udienza di assunzione della prova può svolgersi «anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza o, in mancanza, presso l’abitazione della persona interessata all’assunzione della prova».

La disposizione abilita, quindi, il giudice a conformare discrezionalmente le modalità di escussione del minore alla luce delle concrete esigenze di tutela –apprezzabili non solo in termini di “necessità”, ma anche di semplice “opportunità” – ferma restando, s’intende, la contrapposta esigenza di rispetto del principio del contraddittorio. Tale discrezionalità investe anzitutto il «luogo» dell’assunzione della prova, potendo il giudice disporre che l’esame del minore avvenga extra moenia, cioè in luoghi alternativi e di minore impatto emotivo rispetto alle aule di tribunale, ed eventualmente – quando ciò sia richiesto dalle contingenze – anche in località diversa da quella in cui ha sede l’ufficio giudiziario. Il giudice può calibrare, altresì, discrezionalmente il «tempo» dell’esame, fissando l’udienza di là dal limite temporale di dieci giorni previsto dall’art. 398, comma 2, lettera c), cod. proc. pen., in accordo con le specifiche esigenze di tutela del minore. Da ultimo, il giudice può stabilire «modalità particolari» di escussione, adeguate alle circostanze: formula ampia e generica, che abbraccia la generalità delle forme di acquisizione della prova.

Quanto, poi, all’originaria, incongrua limitazione delle regole speciali alla sola testimonianza del minore assunta con incidente probatorio, essa è stata rimossa già con la legge n. 269 del 1998, che, aggiungendo il nuovo comma 4-bis all’art. 498 cod. proc. pen., ha esteso le “modalità protette” anche all’escussione dibattimentale.

La medesima legge ha inserito, inoltre, nell’art. 498 cod. proc. pen. un comma 4-ter (anch’esso più volte novellato in prosieguo), in forza del quale, nei procedimenti per determinati reati (tra cui, attualmente, anche quello di maltrattamenti), l’esame del minore vittima del reato ha luogo, su richiesta del minore stesso o del suo difensore, «mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico». In questo modo, si evita all’interessato di dover deporre dinanzi a numerose persone, e in particolare al presunto autore del reato commesso ai suoi danni.

Tale disposizione – relativa al dibattimento – risulta applicabile anche alla testimonianza assunta con incidente probatorio, in virtù del ricordato richiamo di cui all’art. 401, comma 5, cod. proc. pen. Lo stesso rimettente, con il precedente provvedimento di cui si è parlato, aveva del resto disposto, nel caso di specie, il ricorso al cosiddetto esame schermato.

8.– In conclusione, dunque, il sistema processuale vigente offre al giudice un ampio e duttile complesso di strumenti di salvaguardia della personalità del minore chiamato a rendere testimonianza, a fronte del quale deve escludersi l’asserita necessità costituzionale di introdurre quello ulteriore congegnato dall’odierno rimettente.

Per completezza, va aggiunto che il giudice a quo non esclude di potersi recare, quando ciò occorra, fuori dal proprio circondario per assumere la testimonianza del minore. A fronte di ciò, la pretesa di delegare l’incombenza al giudice per le indagini preliminari del luogo, anche in assenza dei rigorosi presupposti indicati nell’art. 398, comma 5, cod. proc. pen., si rivela affatto eccentrica rispetto alle norme convenzionali evocate. Sul piano della salvaguardia del «benessere» del fanciullo, alla quale fa riferimento l’art. 3 della Convenzione di New York, risulta del tutto indifferente che la sua testimonianza venga assunta dal giudice che ha disposto l’incidente probatorio o dal giudice del luogo in cui la prova deve essere espletata.

9.– Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va dichiarata, dunque, non fondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 398, comma 5, e 133 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 3 e 4 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 aprile 2018.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE

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