SENTENZA N. 98
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 31, comma 1, e 34, commi 3 e 4, della legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 28 febbraio-2 marzo 2017, depositato in cancelleria il 7 marzo 2017, iscritto al n. 28 del registro ricorsi 2017 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;
udito nella udienza pubblica del 20 febbraio 2018 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Ezio Zanon e Andrea Manzi per la Regione Veneto.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 28 febbraio-2 marzo 2017 e depositato in cancelleria il successivo 7 marzo (reg. ric. n. 28 del 2017), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato, tra gli altri, gli artt. 31, comma 1, e 34, commi 3 e 4, della legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017).
1.1.– L’art. 31, comma 1, della legge regionale impugnata, che sostituisce l’art. 40 della legge della Regione Veneto 14 settembre 1994, n. 55 (Norme sull’assetto programmatorio, contabile, gestionale e di controllo delle unità locali socio sanitarie e delle aziende ospedaliere in attuazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della disciplina in materia sanitaria”, così come modificato dal decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517), è denunciato in relazione alla disciplina dei rimborsi delle spese sostenute dai componenti del collegio sindacale delle aziende sanitarie locali (ASL), nella legislazione della Regione Veneto denominate aziende ULSS, nella parte in cui dispone che: «Non sono previsti rimborsi per spese di vitto, alloggio e di viaggio per il trasferimento tra la residenza o domicilio del componente e la sede legale dell’Azienda sanitaria». Il ricorrente, pur ammettendo che tale previsione è volta alla riduzione dei costi degli apparati amministrativi e al contenimento delle spese per missioni, ritiene che essa contrasti con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, «segnatamente nella parte relativa alla materia del coordinamento della finanza pubblica, ravvisandosi, nella sostanza, elementi di disarmonia con la normativa statale in materia di vigilanza e controllo sulla spesa pubblica».
Premette il ricorrente che generalmente il Ministero dell’economia e delle finanze designa quale proprio rappresentante in seno ai collegi sindacali delle aziende sanitarie locali un proprio dirigente e che il compito di vigilanza e controllo sui conti pubblici, esercitato dal Ministero dell’economia e delle finanze anche mediante l’operato dei propri rappresentanti in seno ai collegi di revisione e sindacali delle amministrazioni pubbliche, è regolato dall’art. 16 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica). Inoltre, ai sensi dell’art. 2 del decreto legislativo 30 giugno 2011, n. 123 (Riforma dei controlli di regolarità amministrativa e contabile e potenziamento dell’attività di analisi e valutazione della spesa, a norma dell’articolo 49 della legge 31 dicembre 2009, n. 196), sono attribuiti al Ministero dell’economia e delle finanze compiti di controllo di regolarità amministrativa e contabile, anche mediante l’attività dei collegi di revisione e sindacali, al fine di assicurare la legittimità e proficuità della spesa. Ancora, ai sensi dell’art. 20 dello stesso d.lgs. n. 123 del 2011, i medesimi collegi provvedono agli altri compiti a essi demandati dalla normativa vigente, compreso il monitoraggio della spesa pubblica.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la compresenza di componenti statali e regionali nei collegi sindacali delle ASL «costituisce un essenziale meccanismo di coordinamento finanziario nel campo della spesa sanitaria e ne rappresenta quindi un principio fondamentale», principio che sarebbe violato dalla disposizione regionale impugnata, la quale comprometterebbe irrazionalmente il funzionamento dei collegi sindacali delle aziende ULSS venete. L’assenza di rimborsi per le spese di trasferta tra la residenza o domicilio del componente e la sede legale dell’azienda ULSS, infatti, non consentirebbe ai componenti dei loro collegi sindacali l’assolvimento della primaria funzione di controllo della spesa pubblica, metterebbe in pericolo l’autonomia delle attività di vigilanza con particolare riguardo ai componenti fuori sede e ostacolerebbe l’adempimento dell’obbligo di partecipazione a tutte le attività di verifica pianificate dallo stesso organo di controllo, potendo pregiudicare il principio di collegialità. Pertanto, il contingentamento delle spese, così come regolato nella legge regionale, non solo comprometterebbe le funzioni di controllo in capo al Ministero dell’economia e delle finanze – anche alla luce del fatto che, laddove il rappresentante sia un dirigente del Ministero, egli sarebbe soggetto al regime retributivo della onnicomprensività, per cui non sarebbe destinatario neppure della indennità prevista dalla stessa legge regionale per i componenti del collegio –, ma limiterebbe anche l’attività connessa ai doveri e alle conseguenti responsabilità in capo ai collegi sindacali in tutti quei casi in cui le amministrazioni, titolari del potere di designazione, optino, in base a valutazioni discrezionali, per un componente sindaco non residente nel luogo in cui ha sede l’ente.
1.2.– In relazione all’art. 34, commi 3 e 4, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, che modifica la legge della Regione Veneto 16 agosto 2002, n. 22 (Autorizzazione e accreditamento delle strutture sanitarie, socio-sanitarie e sociali) nel senso di escludere la competenza del Comune sulle autorizzazioni alla realizzazione degli ospedali di comunità, delle unità riabilitative territoriali e degli hospice, e di demandare alla Giunta regionale tale competenza, il ricorrente denuncia innanzitutto la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. per il contrasto con il principio fondamentale in materia di «tutela della salute» posto dall’art. 8-ter, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421). Tale disposizione statale, coordinando le competenze istituzionali dei Comuni con la programmazione sanitaria regionale, porrebbe il principio secondo cui la finalità sanitaria di una costruzione non può privare il Comune del potere di verificarne la compatibilità urbanistica e di rilasciare il permesso di costruire (si richiama la sentenza n. 132 del 2013). Inoltre, la norma regionale che affida a un organo della Regione il potere di autorizzare la realizzazione dei tre tipi di strutture sociosanitarie in questione comporterebbe una violazione delle prerogative comunali sia ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., perché la competenza al rilascio dei permessi di costruire, quando le strutture sociosanitarie sono realizzate da soggetti privati, è attribuita al Comune direttamente dalla legge statale; sia ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost., perché comunque la norma regionale contrasterebbe con il principio di sussidiarietà e di adeguatezza. Il carattere specifico delle tre descritte strutture sanitarie, che debbono essere necessariamente di dimensioni ridotte proprio per assicurare ai particolari malati che ne abbisognano un’assistenza di tipo protetto, ma non ospedaliero, comporterebbe infatti che le valutazioni edilizie e urbanistiche a esse relative siano espresse dall’ente ordinariamente competente, cioè dal Comune; e che l’intervento regionale si limiti, quindi, al coordinamento delle decisioni del Comune con la programmazione sanitaria regionale, attraverso la verifica di compatibilità sanitaria prevista dalla norma statale interposta di cui all’art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992.
2.– Con atto depositato in data 6 aprile 2017 si è costituita in giudizio la Regione Veneto, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 31, comma 1, della legge regionale impugnata sia dichiarata inammissibile e, comunque, non fondata, e che la questione relativa all’art. 34, commi 3 e 4, della medesima legge regionale sia dichiarata non fondata.
2.1.– Quanto alla questione di costituzionalità dell’art. 31, comma 1, la difesa della Regione osserva che dalla lettura del motivo di impugnazione non è possibile evincere quale sia il principio di coordinamento della finanza pubblica che sarebbe violato dalla disposizione di legge regionale, il che farebbe ritenere l’impugnazione inammissibile, prima ancora che infondata, per la sua intima contraddittorietà e per l’inconferenza del parametro di costituzionalità richiamato. Neanche il riferimento alla compresenza di componenti statali e regionali nei collegi sindacali potrebbe servire a motivare la violazione dei principi in materia di «coordinamento della finanza pubblica», perché tale compresenza rappresenterebbe piuttosto una misura di natura organizzativa. Peraltro la disposizione della legge regionale avrebbe una finalità di riduzione della spesa pubblica che si porrebbe in perfetta assonanza con le molteplici e costanti richieste legislative che in tal senso lo Stato impone alle Regioni. Né tale misura apparirebbe irragionevole, prevedendo essa una mera riduzione dei rimborsi spesa, senza che ciò incida in alcun modo sulla concreta esercitabilità dell’attività da parte dei componenti del collegio. D’altronde, occorrerebbe tenere presente a tale riguardo che l’art. 3, comma 13, del d.lgs. n. 502 del 1992, che costituirebbe principio fondamentale della legislazione statale, prevede che l’indennità annua spettante ai componenti del collegio sindacale sia commisurata agli emolumenti spettanti al direttore generale dell’unità sanitaria locale e che il d.P.C.m. 19 luglio 1992 (recte: 1995), n. 502 (Regolamento recante norme sul contratto del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere), relativo al contratto del direttore generale delle suddette unità sanitarie locali, dispone, all’art. l, comma 5, che il trattamento economico è comprensivo delle spese sostenute per gli spostamenti dal luogo di residenza al luogo di svolgimento delle funzioni. Quindi, considerato che con l’art. 31 della legge impugnata la Regione Veneto ha provveduto semplicemente ad adeguare la propria normativa a quella statale in materia di collegi sindacali delle ASL e che tale normativa, per quanto concerne la determinazione degli emolumenti, opera espresso rinvio alla disciplina dettata per i direttori generali, tale adeguamento non potrebbe non conformarsi a tale disciplina anche sotto tale aspetto. La doglianza sarebbe dunque non fondata, sembrando diretta più a salvaguardare gli interessi remunerativi del personale del Ministero dell’economia e delle finanze che l’interesse pubblico a che l’esercizio delle funzioni pubbliche sia improntato a parametri di efficienza ed economicità.
2.2.– Quanto all’art. 34, la Regione Veneto ritiene che il principio fondamentale ricavabile dall’art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, norma statale interposta, sia l’obbligatorietà di una duplice valutazione, di natura urbanistica e di programmazione sanitaria, per la realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie, a salvaguardia degli interessi superiori afferenti alla tutela della salute (si richiama la sentenza n. 59 del 2015), ma non una riserva assoluta di competenza al rilascio dell’autorizzazione in capo ai Comuni territorialmente interessati. D’altronde, l’art. 7, comma 1, della legge regionale n. 22 del 2002 già prevede una avocazione in capo alla Regione del potere autorizzatorio, sia sotto il profilo sanitario sia con riguardo agli aspetti di conformità urbanistico-edilizia, laddove si tratti di «strutture della Regione, di enti o aziende da essa dipendenti, oppure dalla stessa finanziate, anche parzialmente», e questa avocazione non ha mai sollevato dubbi di legittimità costituzionale. Inoltre, la scelta del legislatore regionale risulterebbe non solo ragionevole, ma in perfetta sintonia con la necessità di allocare la competenza autorizzatoria in capo al soggetto pubblico competente a tutelare gli interessi pubblici secondo il loro dimensionamento. La disposizione regionale impugnata, infatti, non attribuirebbe in capo alla Giunta regionale una potestà autorizzatoria generalizzata e onnicomprensiva, ma prevedrebbe invece che, con riferimento a strutture sanitarie e sociosanitarie aventi una rilevanza extracomunale e una notevole incidenza su ambiti territoriali anche di rilevante ampiezza, la competenza a provvedere in ordine al rilascio della autorizzazione alla costruzione, ampliamento, trasformazione, trasferimento della struttura sia concentrata in capo alla Regione.
D’altronde, l’attribuzione della potestà autorizzatoria alla Regione non comporterebbe una compressione delle competenze regolatorie urbanistiche ed edilizie comunali, in quanto l’autorizzazione a realizzare le suddette strutture sanitarie e sociosanitarie non potrebbe derogare alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie del territorio interessato, ma costituirebbe unicamente esercizio di un potere vincolato di accertamento di conformità urbanistica ed edilizia. Il che deporrebbe anche in ordine all’utilità di tale regime di concentrazione amministrativa, che si porrebbe in una posizione servente rispetto al fondamentale canone di buon andamento dell’agire pubblico e di snellezza nell’esercizio dei pubblici poteri che interferiscono con l’esercizio di attività e servizi da parte dei privati. Queste considerazioni, secondo la difesa della Regione Veneto, eliminerebbero anche l’ulteriore dubbio di legittimità costituzionale sollevato in relazione all’art. 118 Cost., in quanto sarebbero proprio i canoni di sussidiarietà ed adeguatezza, insieme al principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., a giustificare la previsione della legge regionale impugnata.
3.– In prossimità dell’udienza, in data 30 gennaio 2018, ha depositato memoria la sola difesa regionale, svolgendo alcune ulteriori argomentazioni in relazione ad entrambe le questioni in esame.
3.1.– Quanto all’art. 31, comma 1, della legge regionale impugnata, la difesa regionale ribadisce che tale disposizione non si pone in contrasto con la normativa statale in materia, ma al contrario asseconda i molteplici e costanti interventi legislativi statali diretti a realizzare risparmi di spesa. Inoltre, non si potrebbe ritenere pregiudicata la funzione di controllo, dato che per la determinazione degli emolumenti lo stesso articolo opera espresso rinvio alla disciplina dettata per i direttori generali, fissando una indennità che supera i 16.000 euro annui e che dunque appare sufficiente a rimborsare le eventuali spese sostenute per le poche occasioni nelle quali è necessaria la presenza dei componenti del collegio. La difesa regionale insiste poi nel dire che «il rimborso spese viene reclamato in ragione di non pertinenti funzioni di vigilanza ministeriali e non di quelle esercitate nell’interesse delle singole Aziende sanitarie, come lo sono i compiti del collegio sindacale, che è organo dell’Azienda».
3.2.– In relazione all’art. 34 la Regione da un lato insiste per una declaratoria di non fondatezza della questione, dato che la norma statale interposta porrebbe il principio dell’obbligatorietà dell’autorizzazione all’esercizio delle attività sanitarie, ma non prevedrebbe affatto una riserva assoluta di competenza in capo ai Comuni territorialmente interessati alla realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie; e dall’altro lato pone per la prima volta una eccezione di inammissibilità della questione «per indeterminatezza dell’impugnazione». Il ricorso statale, infatti, non avrebbe correttamente individuato il parametro costituzionale di riferimento, perché la disposizione impugnata riguarderebbe non la «tutela della salute» ma la diversa materia del «governo del territorio», nel cui ambito non sarebbe nemmeno rinvenibile una riserva assoluta e inderogabile di competenza a favore dei Comuni quanto al rilascio di un’autorizzazione edificatoria o urbanistica in generale; né potrebbe sanare tale vizio il generico riferimento all’art. 118 Cost., privo dell’indicazione dei parametri legislativi che dimostrino l’attribuzione ai Comuni di una competenza esclusiva al rilascio dei permessi di costruire. Inoltre, rimarrebbe «intonsa nella norma la competenza del sindaco al rilascio del permesso a costruire anche alla luce della circostanza che pur avendo la Regione una competenza concorrente in materia urbanistica essa dovrebbe comunque far uso di norme o procedure in variante urbanistica o di verifica della conformità urbanistica delle edificande strutture sanitarie, cosa che la disposizione in esame né il contesto normativo prevedono».
Considerato in diritto
1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 31, comma 1, e 34, commi 3 e 4, della legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017), ritenendo violati gli artt. 117, terzo comma, e 118, primo e secondo comma, della Costituzione. Resta riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse dal ricorrente.
2.– L’art. 31, comma 1, della citata legge regionale n. 30 del 2016, nel sostituire l’art. 40 della legge della Regione Veneto 14 settembre 1994, n. 55 (Norme sull’assetto programmatorio, contabile, gestionale e di controllo delle unità locali socio sanitarie e delle aziende ospedaliere in attuazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della disciplina in materia sanitaria”, così come modificato dal decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517), disciplina la composizione e le funzioni del collegio sindacale delle aziende sanitarie locali (ASL), nella legislazione della Regione Veneto denominate aziende ULSS, e detta le regole relative alla indennità dei suoi componenti e al rimborso delle spese da loro sostenute in ragione dell’incarico. La disposizione è impugnata nella parte relativa alla disciplina dei rimborsi delle spese di trasferta, là dove essa dispone che per i componenti dei collegi sindacali delle aziende ULSS «[n]on sono previsti rimborsi per spese di vitto, alloggio e di viaggio per il trasferimento tra la residenza o domicilio del componente e la sede legale dell’Azienda sanitaria».
La difesa dello Stato denuncia la violazione da parte della norma impugnata dei principi fondamentali della legislazione statale nella materia del «coordinamento della finanza pubblica» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Secondo il ricorrente, costituirebbero principi fondamentali della materia le previsioni della legge statale che attribuiscono al Ministero dell’economia e delle finanze i compiti di vigilanza e monitoraggio sui conti pubblici anche attraverso la presenza di un proprio rappresentante nei collegi di revisione e sindacali delle amministrazioni pubbliche, come previsto dall’art. 16 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica) e dagli artt. 2 e 20 del decreto legislativo 30 giugno 2011, n. 123 (Riforma dei controlli di regolarità amministrativa e contabile e potenziamento dell’attività di analisi e valutazione della spesa, a norma dell’articolo 49 della legge 31 dicembre 2009, n. 196), con la conseguenza che la compresenza di componenti statali e regionali nei collegi sindacali delle ASL rappresenterebbe un «essenziale meccanismo di coordinamento finanziario nel campo della spesa sanitaria».
Tali principi fondamentali sarebbero violati dalla norma regionale impugnata che, vietando il rimborso delle spese di trasferta sostenute dai componenti dei collegi sindacali delle aziende ULSS per raggiungere la sede delle aziende stesse, ostacolerebbe la partecipazione dei componenti designati dal Ministero dell’economia e delle finanze, che di solito sono dirigenti dello Stato con sede a Roma, e di conseguenza comprometterebbe irrazionalmente il funzionamento dei collegi sindacali e l’assolvimento della loro funzione di controllo sulla spesa pubblica. Inoltre, la disposizione regionale impedirebbe ai componenti del collegio sindacale di assolvere all’obbligo di partecipare a tutte le attività di verifica pianificate dallo stesso organo di controllo, potendo far venire meno il principio di collegialità. E ciò in tutti quei casi in cui l’amministrazione statale, titolare del potere di designazione, opti, in base a valutazioni discrezionali, per un componente sindaco non residente nel luogo in cui ha sede l’ente.
3.– Deve innanzitutto essere respinta l’eccezione di inammissibilità formulata dalla difesa regionale per l’«intima contraddittorietà» e l’«inconferenza» del parametro di costituzionalità invocato.
Il ricorso statale, infatti, come sopra si è riferito, richiama esplicitamente i principi fondamentali della materia «coordinamento della finanza pubblica» che reputa violati e in particolare cita l’art. 16 della legge n. 196 del 2009 e gli artt. 2 e 20 del d.lgs. 123 del 2011. Tanto basta ad assolvere all’onere di motivazione dell’atto introduttivo del giudizio di costituzionalità. Attiene poi al merito della questione stabilire se tali previsioni statali siano tali da impedire alle Regioni di modulare la disciplina dei rimborsi delle spese di trasferta dei componenti dei collegi sindacali delle ASL nel modo previsto dalla disposizione regionale impugnata.
4.– Nel merito, la questione non è fondata.
4.1.– Questa Corte si è già occupata, ad altri fini, della struttura organizzativa delle ASL e in particolare di quello che oggi è denominato «collegio sindacale», ricostruendone la storia e le funzioni. In quella occasione, la Corte ha osservato che nelle aziende sanitarie locali al collegio sindacale «sono assegnate le funzioni di controllo, che, in particolare, attengono alla verifica dell’amministrazione dell’azienda sotto il profilo economico, alla vigilanza sull’osservanza della legge e all’accertamento della regolare tenuta della contabilità» (sentenza n. 390 del 2008).
L’organo di controllo, originariamente denominato «collegio dei revisori» (art. 3, comma 13, del d.lgs. n. 502 del 1992) è stato riformato con il decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), il quale ne ha anche mutato il nome, trasformandolo in «collegio sindacale».
Quanto alla sua composizione, l’attuale art. 3-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, nel testo risultante dalle modifiche da ultimo introdotte dall’art. 1, comma 574, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2015)», stabilisce che: «Il collegio sindacale dura in carica tre anni ed è composto da tre membri, di cui uno designato dal presidente della giunta regionale, uno dal Ministro dell’economia e delle finanze e uno dal Ministro della salute. I componenti del collegio sindacale sono scelti tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili istituito presso il Ministero della giustizia, ovvero tra i funzionari del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica che abbiano esercitato per almeno tre anni le funzioni di revisori dei conti o di componenti dei collegi sindacali».
Quanto al trattamento economico, ai sensi del comma 4 del medesimo art. 3-ter, «i riferimenti contenuti nella normativa vigente al collegio dei revisori delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere si intendono applicabili al collegio sindacale di cui al presente articolo». In forza di tale rinvio si applica, dunque, l’art. 3, comma 13, del medesimo d.lgs. n. 502 del 1992, che stabilisce che i componenti del collegio percepiscono una indennità, fissata «in misura pari al 10 per cento degli emolumenti del direttore generale dell’unità sanitaria locale», mentre «al presidente del collegio compete una maggiorazione pari al 20 per cento dell’indennità fissata per gli altri componenti».
4.2.– L’art. 40 della legge reg. Veneto n. 55 del 1994, così come modificato dall’impugnato art. 31 della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, nei commi da 1 a 4, non contestati nel presente giudizio, ripete la disciplina statale sulla composizione e sulle funzioni dei collegi sindacali, nonché sulla indennità spettante ai loro componenti.
Il comma 5 del medesimo art. 40, modificato dalla disposizione oggetto di censura, aggiunge poi che: «I componenti del Collegio hanno diritto al rimborso delle sole spese vive e documentate, per effetto del loro trasferimento in diverse sedi aziendali nell’esercizio delle loro funzioni. Non sono previsti rimborsi per spese di vitto, alloggio e di viaggio per il trasferimento tra la residenza o domicilio del componente e la sede legale dell’Azienda Sanitaria».
Sul punto dei rimborsi per le spese di trasferta, la normativa statale di riferimento è silente, non prevedendo alcuna specifica disciplina per le spese di missione sostenute dai componenti dei collegi dei revisori dei conti e dei collegi sindacali istituiti presso le ASL o presso altri enti e organismi pubblici. Parimenti silente era la legge regionale prima della entrata in vigore della disposizione impugnata. Dei rimborsi per le spese dei componenti del collegio sindacale non si occupa neppure la legge regionale 25 ottobre 2016, n. 19 (Istituzione dell’ente di governance della sanità regionale veneta denominato “Azienda per il governo della sanità della Regione del Veneto – Azienda Zero”. Disposizioni per la individuazione dei nuovi ambiti territoriali delle Aziende ULSS), di poco precedente alla disposizione impugnata, che ha dato vita alla nuova Azienda Zero, a cui sono attribuite numerose funzioni «per la razionalizzazione, l’integrazione e l’efficientamento dei servizi sanitari, socio-sanitari e tecnico-amministrativi del servizio sanitario regionale» (art. 1 della legge reg. Veneto n. 16 del 2017), anch’essa dotata di un proprio collegio sindacale, che presenta una composizione identica a quella dei collegi sindacali delle altre aziende ULSS (art. 6, comma 1, della medesima legge regionale).
L’impugnato art. 31, comma 1, dunque, disciplina le spese di missione dei componenti del collegio sindacale nel silenzio della normativa statale e non già in contrasto diretto con alcuno dei suoi principi fondamentali.
4.3.– Quanto ai parametri interposti richiamati nel ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri – art. 16 della legge n. 196 del 2009 e artt. 2 e 20 del d.lgs. 123 del 2011 – essi non si occupano delle spese di missione, ma riguardano la composizione e le funzioni dei collegi sindacali, richiedendo la presenza di un rappresentante del Ministero dell’economia e delle finanze in tali organi, per lo svolgimento di tutte le attività di controllo loro attribuite dalla legge.
Indubbiamente le richiamate disposizioni sono idonee, in astratto, ad essere qualificate come principi fondamentali della materia «coordinamento della finanza pubblica», essendo chiaramente volte a garantire una complessiva maggiore efficienza della spesa pubblica attraverso il monitoraggio costante da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze su tutte le amministrazioni pubbliche non territoriali, comprese quelle che, occupandosi di sanità, rappresentano una delle maggiori voci di spesa regionale e dell’intero sistema. Infatti, secondo un costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, la materia «coordinamento della finanza pubblica» «non può essere limitata alle norme aventi lo scopo di limitare la spesa, ma comprende anche quelle aventi la funzione di “riorientare” la spesa pubblica […] per una complessiva maggiore efficienza del sistema» (sentenza n. 272 del 2015; per l’accoglimento di una simile concezione “virtuosa” del coordinamento della finanza pubblica: sentenze n. 273 del 2016, n. 160 del 2016, n. 69 del 2016, n. 38 del 2016, n. 205 del 2013, n. 8 del 2013).
Tuttavia, in concreto, non si ravvisa la violazione lamentata nel ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ritiene che le disposizioni impugnate, ponendo severi limiti ai rimborsi per le spese, ostacolino la partecipazione dei componenti designati dal Ministero dell’economia e delle finanze, compromettendo il corretto funzionamento dei collegi sindacali.
Vero è che la normativa regionale impugnata penalizza in qualche misura i componenti residenti o domiciliati fuori sede. Tuttavia, ciò non implica che essa impedisca la partecipazione di un rappresentante ministeriale alle attività di controllo del collegio sindacale: sotto questo profilo, quindi, essa non determina una violazione dei principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica invocati nel presente giudizio. Le prevedibili difficoltà di fatto che, in mancanza del rimborso delle spese di trasferta da parte della Regione, il Ministero dell’economia e delle finanze potrebbe incontrare nell’acquisire la disponibilità da parte dei funzionari o dirigenti ministeriali che hanno la loro sede di servizio nella capitale non compromettono di per sé lo svolgimento delle indefettibili funzioni di vigilanza da parte del Governo.
Il «rappresentante del Ministero dell’economia e delle finanze nei collegi di revisione o sindacali delle amministrazioni pubbliche» (art. 16 della legge n. 196 del 2009) non deve necessariamente essere un funzionario o un dirigente del ministero, residente a Roma. Anche a non voler considerare la possibilità che il Ministro qualifichi la partecipazione dei propri funzionari o dirigenti ai collegi sindacali delle ASL come adempimento di un loro dovere d’ufficio, in modo da accollarsi il rimborso delle spese di trasferta, egli potrebbe sempre designare come suoi «rappresentanti» sia funzionari o dirigenti che prestano servizio in una delle sedi territoriali del MEF, per i quali il problema del rimborso delle spese di trasferta non sussiste, sia revisori liberi professionisti residenti nelle vicinanze della sede della ASL, nella stessa Regione o in altra adiacente.
Come si è sopra ricordato, infatti, i requisiti previsti dalla legge per svolgere le funzioni di componenti dei collegi sindacali delle ASL sono, alternativamente e senza alcuna indicazione di preferenza per l’una o per l’altra categoria, o quello di risultare «iscritti nel registro dei revisori contabili istituito presso il Ministero della giustizia», ovvero quello di essere «funzionari del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica che abbiano esercitato per almeno tre anni le funzioni di revisori dei conti o di componenti dei collegi sindacali» (art. 3-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992).
La normativa regionale impugnata, pertanto, non pregiudica la presenza e la partecipazione dei rappresentanti ministeriali nei collegi sindacali delle aziende ULSS nella Regione Veneto e, perciò, non viola l’art. 117, terzo comma Cost., in riferimento all’art. 16 della legge n. 196 del 2009 e agli artt. 2 e 20 del d.lgs. 123 del 2011.
5.– L’art. 34, comma 3, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016 dispone quanto segue: «Alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 7 della legge regionale 16 agosto 2002, n. 22 dopo le parole: “nei rimanenti casi” sono inserite le seguenti: “con esclusione degli ospedali di comunità, delle unità riabilitative territoriali e degli hospice”».
A seguito di questa modifica, il testo dell’art. 7 della legge della Regione Veneto 16 agosto 2002, n. 22 (Autorizzazione e accreditamento delle strutture sanitarie, socio-sanitarie e sociali) risulta il seguente: «1. L’autorizzazione alla costruzione, ampliamento, trasformazione, trasferimento in altra sede delle strutture pubbliche, di istituzioni ed organismi a scopo non lucrativo, nonché delle strutture private, che erogano prestazioni di assistenza residenziale extraospedaliera, a ciclo continuativo e/o diurno di carattere estensivo o intensivo, ivi compresi i centri residenziali per tossicodipendenti e malati di AIDS, è rilasciata: a) dalla Regione, in conformità all’articolo 77 della legge regionale 27 giugno 1985, n. 61 e successive modificazioni, qualora si tratti di strutture della Regione, di enti o aziende da essa dipendenti, oppure dalla stessa finanziate, anche parzialmente; b) dal comune in cui avrà sede la struttura, nei rimanenti casi con esclusione degli ospedali di comunità, delle unità riabilitative territoriali e degli hospice. 2. Il rilascio delle autorizzazioni di cui al comma 1 avviene previa positiva valutazione della rispondenza alla programmazione socio-sanitaria regionale e attuativa locale, definita in base al fabbisogno complessivo ed alla localizzazione e distribuzione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, anche al fine di meglio garantire l’accessibilità ai servizi e valorizzare le aree di insediamento prioritario di nuove strutture. Nei casi di cui al comma 1, lettera b), la rispondenza alla programmazione socio-sanitaria è attestata nel parere obbligatorio e vincolante rilasciato dal dirigente della struttura regionale competente».
L’art. 34, comma 4, della medesima legge regionale impugnata dispone inoltre che: «Dopo il comma 2 dell’articolo 7 della legge regionale 16 agosto 2002, n. 22 è aggiunto il seguente: “2 bis. L’autorizzazione alla costruzione, ampliamento, trasformazione, trasferimento in altra sede degli ospedali di comunità, delle unità riabilitative territoriali e degli hospice richiesta da istituzioni ed organismi a scopo non lucrativo, nonché da strutture private è rilasciata dalla Giunta regionale, sentita la competente Commissione consiliare, fatto salvo quanto disposto dall’articolo 2, comma 1, lettera g), n. 7, della legge regionale 25 ottobre 2016, n. 19”».
Il Presidente del Consiglio dei ministri censura l’art. 34, commi 3 e 4, della legge reg. Veneto n. 30 del 2016, ritenendo che esso, modificando la legge reg. Veneto n. 22 del 2002 nel senso di escludere la competenza del Comune dai procedimenti di autorizzazione alla realizzazione degli ospedali di comunità, delle unità riabilitative territoriali e degli hospice, e di demandare alla Giunta regionale tale competenza, violi l’art. 117, terzo comma, Cost., non rispettando il principio fondamentale in materia di «tutela della salute» di cui all’art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992. Secondo il richiamato principio fondamentale, la finalità sanitaria di una costruzione non può privare il Comune del potere di verificarne la compatibilità urbanistica e di rilasciare il permesso di costruire; sicché, la disposizione oggetto del presente giudizio lederebbe le prerogative comunali sia ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., perché la competenza al rilascio dei permessi di costruire, quando le strutture sociosanitarie sono realizzate da soggetti privati, è attribuita al Comune direttamente dalla legge statale; sia ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost., perché comunque la norma regionale contrasterebbe con il principio di sussidiarietà e di adeguatezza.
6.– Non può essere accolta l’eccezione di inammissibilità «per indeterminatezza dell’impugnazione» proposta dalla difesa regionale nella memoria depositata nell’imminenza dell’udienza pubblica.
Il ricorso statale, infatti, ha chiaramente dedotto come parametri della sollevata questione di costituzionalità l’art. 117, terzo comma, Cost. in riferimento alla materia della «tutela della salute», indicando specificamente l’art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 quale parametro interposto, e l’art. 118, secondo comma, Cost., rilevando che è la legge statale ad avere conferito ai Comuni la funzione amministrativa di cui si discute, e lamentando altresì una violazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza di cui al primo comma del medesimo art. 118 Cost. L’impugnazione identifica con chiarezza oggetto, parametri e profili della questione portata all’esame di questa Corte. Tanto basta per consentire a questa Corte l’esame nel merito della questione prospettata.
7.– La questione è fondata in relazione all’art. 117, terzo comma, Cost.
La disposizione statale invocata dal ricorrente come norma di principio è l’art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, rubricato «Autorizzazioni alla realizzazione di strutture e all’esercizio di attività sanitarie e sociosanitarie», il quale prevede che: «Per la realizzazione di strutture sanitarie e socio-sanitarie il comune acquisisce, nell’esercizio delle proprie competenze in materia di autorizzazioni e concessioni di cui all’art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 493 e successive modificazioni, la verifica di compatibilità del progetto da parte della regione. Tale verifica è effettuata in rapporto al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, anche al fine di meglio garantire l’accessibilità ai servizi e valorizzare le aree di insediamento prioritario di nuove strutture».
Le competenze comunali cui si riferisce testualmente la norma statale – quelle cioè «in materia di autorizzazioni e concessioni» di cui all’art. 4 della legge n. 493 del 1993, rubricato «Procedure per il rilascio delle concessioni edilizie» – sono in realtà tutte le competenze relative al permesso di costruire, comprese quelle riguardanti la segnalazione certificata di inizio di attività, oggi disciplinate dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), che ha espressamente abrogato l’art. 4 della legge n. 493 del 1993 (art. 136, comma 1, lettera h), distribuendone poi il contenuto in vari suoi articoli.
D’altra parte, il principio che identifica nel Comune il soggetto competente in materia di permessi urbanistici ed edilizi si applica anche alle strutture regolate dalla legge regionale impugnata, posto che il comma 1 del medesimo art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 chiarisce che: «La realizzazione di strutture e l’esercizio di attività sanitarie e socio-sanitarie sono subordinate ad autorizzazione. Tali autorizzazioni si applicano alla costruzione di nuove strutture, all’adattamento di strutture già esistenti e alla loro diversa utilizzazione, all’ampliamento o alla trasformazione nonché al trasferimento in altra sede di strutture già autorizzate, con riferimento alle seguenti tipologie: a) strutture che erogano prestazioni in regime di ricovero ospedaliero a ciclo continuativo o diurno per acuti; […] c) strutture sanitarie e socio-sanitarie che erogano prestazioni in regime residenziale, a ciclo continuativo o diurno». Alle strutture di cui alla lettera a), infatti, possono ascriversi gli hospice, che nella normativa statale e regionale, a partire dal decreto-legge 28 dicembre 1998, n. 450 (Disposizioni per assicurare interventi urgenti di attuazione del Piano sanitario nazionale 1998-2000), convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 1999, n. 39, art. 1, fino alla legge della Regione Veneto 19 marzo 2009, n. 7 (Disposizioni per garantire cure palliative ai malati in stato di inguaribilità avanzata o a fine vita e per sostenere la lotta al dolore), art. 5, sono definite come strutture dedicate all’assistenza palliativa e di supporto prioritariamente per i pazienti affetti da patologia neoplastica terminale. Nelle strutture di cui alla lettera c), invece, si possono ricomprendere gli ospedali di comunità e le unità riabilitative territoriali, che il piano socio-sanitario della Regione Veneto approvato con la legge regionale 29 giugno 2012, n. 23 (Norme in materia di programmazione socio sanitaria e approvazione del Piano socio-sanitario regionale 2012-2016) qualifica, in armonia con la normativa statale di riferimento, come «strutture di ricovero intermedie», e cioè «strutture di ricovero temporaneo in grado di accogliere i pazienti per i quali non sia prefigurabile un percorso di assistenza domiciliare e risulti improprio il ricorso all’ospedalizzazione e all’istituzionalizzazione».
Non vi è alcun dubbio peraltro, né le parti lo contestano, che l’art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 preveda che per la realizzazione di strutture sanitarie e socio-sanitarie siano sempre necessari due tipi di valutazioni: una valutazione relativa alla conformità urbanistico-edilizia dell’opera e una valutazione di politica sanitaria (la «verifica di compatibilità» del progetto rispetto al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture).
Entrambe le parti, inoltre, ritengono che la disposizione statale abbia la natura di norma di principio in materia di «tutela della salute».
Ciò che è posto in discussione dalla difesa regionale è che il richiamato art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 riservi in via assoluta al Comune la competenza a svolgere le valutazioni sulla conformità urbanistico-edilizia dell’opera. Se si accogliesse l’interpretazione della disposizione statale prospettata dalla Regione resistente, la norma regionale impugnata sfuggirebbe alla censura di costituzionalità, posto che essa prevede entrambi i tipi di valutazione – urbanistico-edilizia e di politica sanitaria – anche se, nel caso degli hospice, degli ospedali di comunità e delle unità riabilitative territoriali concentra entrambe in capo alla Regione.
Questa Corte ritiene invece che l’art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 contenga un principio diverso, che richiede di mantenere una duplicità di valutazioni da parte di due differenti organi pubblici – il Comune per le valutazioni urbanistiche e la Regione per quelle di politica sanitaria – e che solo a fini di semplificazione delle procedure e per evitare inutili aggravi a carico degli amministrati fa confluire le due valutazioni in un unico atto finale, facente capo al Comune. In particolare, la norma statale esige che la Regione effettui la verifica di compatibilità del progetto della struttura sanitaria in relazione alla programmazione sanitaria e la metta a disposizione del Comune, al quale poi spetta la valutazione del progetto rispetto agli strumenti urbanistici, nell’esercizio di una funzione amministrativa, quella relativa al rilascio dei titoli abilitativi, che appartiene al nucleo di funzioni intimamente connesso al riconoscimento dell’autonomia dell’ente comunale (per analoghe affermazioni si vedano le sentenze n. 67 del 2016 e n. 387 del 2007).
Anche la giurisprudenza amministrativa conferma questa interpretazione quando afferma che la «verifica di compatibilità» del progetto di realizzazione o ampliamento di strutture sanitarie compiuta dalla Regione introduce un subprocedimento nell’ambito del complesso procedimento comunale per il rilascio della concessione edilizia, e precisa che l’inserimento di tale subprocedimento fa sì che si verifichi nello stesso atto comunale la sintesi, espressione di due poteri amministrativi diversi, della qualità di titolo edilizio in senso proprio e di autorizzazione regionale alla realizzazione (Consiglio di Stato, terza sezione, sentenza 29 gennaio 2013, n. 550; Consiglio di Stato, quinta sezione, sentenza 15 ottobre 2009, n. 6324; e ciò vale anche nel caso di fattispecie quali la DIA o la SCIA, come affermato dal Consiglio di Stato, terza sezione, sentenza 30 gennaio 2012, n. 445 e, più recentemente, da TAR Napoli, sentenza 3 luglio 2017, n. 3575).
La norma regionale impugnata, al contrario, eliminando l’intervento comunale, rompe la necessaria dualità e fa confluire in un unico momento e in un unico soggetto due valutazioni che devono restare distinte. Deve pertanto esserne dichiarata l’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.
Restano assorbite le ulteriori censure.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso indicato in epigrafe;
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, commi 3 e 4, della legge della Regione Veneto 30 dicembre 2016, n. 30 (Collegato alla legge di stabilità regionale 2017);
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 1, della legge della Regione Veneto n. 30 del 2016 promossa, in relazione all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2018.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA