SENTENZA N. 99
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33, promosso dal Consiglio di Stato, nel procedimento vertente tra Marco Vitale e altri e la Banca d’Italia e altri, con ordinanza del 15 dicembre 2016, iscritta al n. 33 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di costituzione di Marco Vitale e altri, della Banca d’Italia, dell’UBI Banca spa e altra, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’Amber Capital UK LLP e altra, quest’ultimo fuori termine;
udito nella udienza pubblica del 20 marzo 2018 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Francesco Saverio Marini e Ulisse Corea per Marco Vitale e altri, Marino Ottavio Perassi per la Banca d’Italia, Giuseppe de Vergottini e Giuseppe Lombardi per l’UBI Banca spa e altra, Pasquale Cardellicchio per l’Amber Capital UK LLP e altra e l’avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2016, il Consiglio di Stato ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33.
Le questioni sono sorte nella fase cautelare del giudizio nel quale sono stati riuniti, per connessione oggettiva e parzialmente soggettiva, gli appelli proposti avverso tre sentenze pronunciate dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, aventi ad oggetto gli atti emessi dalla Banca d’Italia in seguito alle modificazioni apportate dall’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 agli artt. 28 e 29 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia» (t.u. bancario).
Il TAR Lazio è stato investito delle controversie con tre separati ricorsi: due presentati da soci di varie banche popolari (Banca Popolare di Sondrio, Veneto Banca, Banco Popolare, Banca Popolare di Milano, UBI Banca) contro la Banca d’Italia, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’economia e delle finanze, nonché nei confronti delle banche partecipate dai ricorrenti; il terzo presentato da due associazioni di consumatori (ADUSBEF e FEDERCONSUMATORI) e da alcuni soci della Banca Popolare di Milano, anche in questo caso contro la Banca d’Italia, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’economia e delle finanze, nonché nei confronti di Veneto Banca, Banca Popolare di Venezia, UBI Banca, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio e Banca Popolare di Vicenza. In tutti i giudizi è intervenuta un’altra associazione di consumatori (CODACONS).
Oggetto comune delle impugnazioni è il provvedimento della Banca d’Italia denominato «9° aggiornamento del 9 giugno 2015», pubblicato l’11 giugno 2015 nel «Bollettino di Vigilanza n. 6, giugno 2015», che apporta modifiche alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (Disposizioni di vigilanza per le banche), introducendo nella Parte Terza di tale circolare il Capitolo 4, intitolato «Banche in forma cooperativa». Esso definisce i criteri e le modalità di determinazione del valore dell’attivo – distinguendo la fase di prima applicazione da quella a regime – nonché i limiti al rimborso degli strumenti di capitale. Sono impugnati, altresì, gli atti preparatori di tale provvedimento (il «Documento per la consultazione» intitolato «Disposizioni di vigilanza – Banche popolari», pubblicato sul sito web della Banca d’Italia il 9 aprile 2015, nonché il «Resoconto della consultazione» e la «Relazione sull’analisi d’impatto» della regolamentazione, pubblicati sullo stesso sito web contestualmente al «9° aggiornamento del 9 giugno 2015»).
Il provvedimento è impugnato – unitamente agli atti preparatori – sia per illegittimità derivata dalla asserita illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative che ne costituiscono la base normativa, sia per vizi propri, relativi a parti diverse da quelle che sarebbero colpite da illegittimità derivata.
Il TAR Lazio ha escluso la legittimazione al ricorso delle due associazioni di consumatori, ha escluso la legittimazione all’intervento dell’altra associazione e ha rigettato nel merito i ricorsi proposti dai soci delle banche, ritenendo manifestamente infondate le eccezioni di illegittimità costituzionale da essi sollevate.
Adìto per la riforma, con preliminare istanza di sospensione, delle sentenze di primo grado, il Consiglio di Stato ha riunito gli appelli e sospeso interinalmente l’efficacia del provvedimento impugnato, limitatamente ad alcune sue parti, sino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte di questa Corte. Lo stesso giudice ha quindi sollevato, con successiva ordinanza, le questioni oggetto del presente giudizio costituzionale.
1.1.– Sulla rilevanza, il giudice a quo osserva che l’applicazione della disposizione censurata, costituente la base normativa del provvedimento impugnato, è pregiudiziale alla decisione definitiva dell’incidente cautelare, considerato il carattere provvisorio e temporaneo della sospensione, concessa fino alla ripresa del giudizio dopo l’incidente di legittimità costituzionale, e considerata anche la possibilità, prevista dagli artt. 60 e 98, comma 2, dell’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo» (Codice del processo amministrativo), di pronunciare sentenza nel merito in sede di decisione definitiva della fase cautelare.
Secondo il rimettente, la rilevanza delle questioni sarebbe giustificata anche dal periculum in mora che incombe sui soci delle banche popolari.
Ove non fossero state ancora assunte le decisioni imposte alle banche popolari dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015 (riduzione dell’attivo al di sotto della soglia di otto miliardi di euro, trasformazione in società per azioni o liquidazione), l’esclusione del rimborso delle azioni arrecherebbe un pregiudizio attuale e concreto alla volontà negoziale del socio da esprimere con il voto nell’assemblea; inoltre, la disciplina censurata creerebbe, in seno all’assemblea chiamata a deliberare sulla trasformazione, un conflitto di interessi tra i soci che preferiscono la liquidazione della quota e quelli intenzionati a mantenere la partecipazione, la cui risoluzione sembrerebbe tradursi in un immediato pregiudizio dei primi a favore dei secondi, che potrebbero “finanziare” la prosecuzione dell’impresa con risorse provenienti anche dai soci intenzionati a recedere.
Nel caso di trasformazione già deliberata, sarebbe comunque pregiudicata la libertà negoziale del socio, la cui volontà di recedere risulterebbe condizionata dal concreto pericolo di non ottenere il rimborso della quota.
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 violerebbe in primo luogo l’art. 77, secondo comma, della Costituzione, «in relazione alla evidente carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti il ricorso allo strumento decretale d’urgenza (ove non ritenuta sanata, seppure soltanto ex nunc, dalla legge di conversione)».
La questione è posta con l’uso della formula «ovvero, secondo altra prospettazione dogmatica», anche nei riguardi «della relativa legge di conversione n. 33/2015, per avere quest’ultima convertito in legge il predetto decreto pur nell’evidente difetto dei prefati presupposti essenziali».
Dopo avere descritto l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale nella materia, il rimettente afferma di preferire la tesi secondo cui la conversione del decreto-legge ne sanerebbe con effetto ex nunc l’illegittimità per mancanza dei presupposti, osservando che, ove si aderisse a tale orientamento, la questione non sarebbe rilevante, in quanto i «provvedimenti impugnati si collocano in un ambito temporale successivo alla conversione del decreto n. 3 del 2015».
Nondimeno il giudice a quo prende atto del prevalente orientamento difforme della Corte costituzionale, secondo cui la conversione non sanerebbe i vizi di un decreto-legge emesso in manifesta carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, e solleva la questione rilevando che il d.l. n. 3 del 2015, come convertito, introdurrebbe norme in gran parte non auto-applicative e richiedenti ulteriori misure attuative, in contrasto con la previsione generale dell’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
Neppure la relazione illustrativa varrebbe a fugare i dubbi sull’evidente mancanza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost. Essa giustificherebbe l’urgenza dell’intervento riformatore delle banche popolari con i rischi, segnalati dal Fondo monetario internazionale, dalla Commissione europea e dalla Banca d’Italia, di concentrazione di potere in favore di gruppi di soci organizzati, di autoreferenzialità della dirigenza e di difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato, ma tali rischi non sarebbero attuali e concreti bensì solo potenziali, non trovando essi «riscontro concreto in circostanze straordinarie» e gravi, esistenti «all’atto dell’emanazione del decreto-legge».
L’urgenza sarebbe ulteriormente smentita dalla natura dell’intervento legislativo, che realizzerebbe una riforma organica e di sistema delle banche popolari sulla quale era in corso da tempo un ampio dibattito in sede dottrinale e politica.
1.3.– In secondo luogo, il rimettente dubita della legittimità dell’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 «nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo» per il ritardo nel rimborso.
Sotto questo profilo, la norma violerebbe gli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Dopo avere richiamato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla nozione di «beni» ex art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, che comprende le partecipazioni societarie e i crediti, come quelli al rimborso delle azioni in caso di recesso, il rimettente osserva che il risultato finale della duplice previsione normativa – dell’obbligo di trasformazione delle banche popolari da società cooperative in società per azioni nel caso di superamento della soglia di otto miliardi di euro di attivo (ove non si opti per la riduzione dell’attivo o per la liquidazione della società) e della possibilità di escludere in tutto o in parte o di rinviare indefinitamente e senza un «corrispettivo compensatorio» il diritto del socio recedente al rimborso delle azioni – finirebbe «per tradursi in una sorta di esproprio senza indennizzo (o con indennizzo ingiustificatamente ridotto) della quota societaria».
1.3.1.– Il legislatore non avrebbe compiuto un corretto bilanciamento, ispirato al «principio del minimo mezzo», tra gli opposti interessi di rilievo costituzionale in gioco, da identificare, da un lato, nel diritto al rispetto dei propri «beni» correlato alla tutela della proprietà nell’ampia accezione accolta dalla Corte EDU e, dall’altro, nell’interesse generale alla sana e prudente gestione dell’impresa bancaria, collegato alla tutela del credito e del risparmio.
Imponendo la trasformazione della banca (sia pure con la previsione di obblighi alternativi), la norma censurata, per un verso, consentirebbe di privare il socio di una banca popolare di uno status che garantisce specifici diritti “amministrativi” come quello al voto “capitario” nelle assemblee, modificando in senso peggiorativo il contenuto dei poteri inerenti alla sua partecipazione sociale, e per altro verso non assicurerebbe il rimborso delle azioni del socio che ritenesse di non accettare lo status sensibilmente diverso conseguente alla trasformazione in società per azioni, producendo così un effetto espropriativo senza indennizzo.
Pur dando atto che in materia sussiste la preminente esigenza di tutelare l’interesse pubblico, di rilievo costituzionale e comunitario, enunciato dalla norma con il richiamo alla necessità di «[…] assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca» (art. 1, comma 1, lettera a, del d.l. n. 3 del 2015, come convertito, che aggiunge il comma 2-ter all’art. 28 del t.u. bancario), il giudice a quo lamenta che il contrapposto interesse del socio recedente al rimborso delle azioni sarebbe irragionevolmente sacrificato al di là dei limiti entro i quali tale sacrificio appare strettamente necessario per assicurare un’adeguata tutela dell’interesse pubblico.
I sospetti di irragionevolezza della norma censurata per violazione del «principio del minimo mezzo» nel bilanciamento degli interessi in gioco sarebbero confermati dal fatto che il diritto al rimborso è sacrificato dal legislatore anche se la banca è costantemente incapace di ripristinare il patrimonio di qualità primaria senza ricorrere alle quote non rimborsate e continua a operare nel mercato solo grazie al capitale conferito dagli ex soci.
L’esigenza di assicurare la sana e prudente gestione dell’attività bancaria potrebbe giustificare non già la «perdita definitiva» del diritto al rimborso, consentita dalla norma censurata, bensì soltanto il «suo differimento nel tempo (con la previsione di un termine massimo prestabilito, rimessa alla discrezionalità del legislatore) e salva la corresponsione di un interesse corrispettivo (parametrabile al tasso di riferimento della BCE […] attualmente prossimo allo 0, purché comunque positivo)» diretto a evitare che il pur minore sacrificio imposto al socio si risolva comunque in una forma di espropriazione senza indennizzo.
1.3.2.– L’esclusione ex lege del diritto al rimborso non troverebbe «fondamento e copertura» neppure nel diritto dell’Unione europea in tema di requisiti prudenziali per gli enti creditizi.
Secondo il rimettente, la norma di settore che si occupa dei limiti al rimborso degli «strumenti di capitale» emessi dagli enti creditizi sarebbe contenuta nell’art. 10, paragrafo 2, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014, che integra il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti. Tale disposizione, nello stabilire che «[l]a capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile […]», non imporrebbe l’obbligo incondizionato di escludere il diritto al rimborso e consentirebbe di optare tra il rinvio e la limitazione dell’importo rimborsabile. A fronte di più opzioni «comunitariamente consentite», il legislatore nazionale avrebbe avuto dunque l’obbligo di scegliere quella che meglio assicura il rispetto dei principi costituzionali, da individuare, come visto, nel differimento del rimborso «ad un tempo dato» con la corresponsione di un interesse corrispettivo per il ritardo.
1.4.– Infine, il rimettente dubita della legittimità della norma censurata «nella parte in cui, comunque, attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità d[ella] esclusione» del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso a seguito di trasformazione della società «anche in deroga a norme di legge».
A suo avviso, in quella parte l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 si pone in contrasto con gli artt. 1, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost.. Il dubbio di costituzionalità investe, in primo luogo, l’attribuzione stessa di un potere di delegificazione all’Istituto di vigilanza, ovvero a un soggetto estraneo al circuito politico dei rapporti Parlamento-Governo, e dunque politicamente irresponsabile. Difetterebbero, infatti, le ragioni tradizionalmente invocate a sostegno del potere regolamentare delle Autorità indipendenti, incidendo il potere normativo in esame su materie non connotate da particolare «tecnicità o settorialità».
In secondo luogo, si tratterebbe di un potere di delegificazione conferito «in bianco», in quanto il legislatore non avrebbe dettato alcuna norma generale regolatrice della materia e neppure avrebbe individuato le norme primarie di cui sarebbe consentita l’abrogazione ad opera della fonte secondaria.
Il sospetto di incostituzionalità sarebbe rafforzato dalla considerazione che tale «potere regolamentare atipico con effetto delegificante» è stato attribuito in materie coperte da riserva di legge. L’esclusione del diritto al rimborso si risolverebbe in una prestazione patrimoniale imposta al socio recedente, rispetto alla quale la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. dovrebbe precludere una delegificazione regolamentare di così ampia portata. L’interferenza tra l’esclusione del diritto al rimborso e la tutela della proprietà privata consentirebbe di richiamare anche la riserva di legge prevista dall’articolo 42 Cost., e dall’art. 1, paragrafo 1, del protocollo addizionale alla CEDU.
2.– Con atto depositato il 4 aprile 2017 si sono costituiti in giudizio alcuni soci della Banca Popolare di Sondrio e della Banca Popolare di Milano, parti del processo principale, concludendo per l’accoglimento delle questioni, previo eventuale rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130.
2.1.– Le parti richiamano quanto esposto dal rimettente sul meccanismo legislativo che pone il socio di fronte all’alternativa se accettare uno status “ridimensionato” per effetto della deliberata trasformazione in società per azioni, o recedere, esponendosi al rischio concreto di perdere in tutto o in parte la quota versata, e ne sottolineano il contrasto con l’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU (applicabile anche alle partecipazioni sociali e ai crediti), nonché con gli artt. 41 e 42 Cost., in quanto la limitazione del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso si tradurrebbe in un’espropriazione senza indennizzo.
I limiti e le garanzie fissate dall’art. 1 del protocollo addizionale non sarebbero rispettati, in primo luogo, perché non sussisterebbe una base legale sufficiente a soddisfare il principio di legalità (e la riserva di legge ex art. 42 Cost.), in quanto il radicale mutamento normativo introdotto dalla disposizione censurata, che oltretutto assegna alla Banca d’Italia la disciplina della limitazione del diritto al rimborso senza indicare specifici criteri, non poteva essere previsto nei suoi deteriori effetti dai soci delle banche popolari, che costituiscono da tempo un modello societario distintivo del nostro ordinamento, connotato da istituti tipici come il voto capitario, il limite al possesso azionario e il numero minimo di soci.
In secondo luogo, neppure sussisterebbe una causa di pubblica utilità idonea a giustificare la privazione dei «beni» dei soci, tale da realizzare, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, un giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale e quelle individuali, garantendo un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito dalle misure restrittive della proprietà.
La causa di pubblica utilità non sarebbe individuabile nella necessità di dare attuazione alle norme prudenziali europee – contenute nel regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012, e nel regolamento delegato (UE) n. 241/2014 – sulla limitazione al rimborso delle quote del socio in caso di recesso ai fini della computabilità degli strumenti di capitale delle banche cooperative nel «capitale primario di classe 1» (cosiddetto CET1). Oltre ad avere natura auto-applicativa – ciò che escluderebbe (e anzi renderebbe incompatibile) un intervento normativo interno di attuazione – i citati regolamenti detterebbero una disciplina di carattere generale sui requisiti del capitale primario e sulle possibili limitazioni al diritto di rimborso in caso di recesso, applicabile a tutte le banche e destinata a regolare le situazioni “ordinarie”, ben diverse dall’ipotesi della trasformazione delle banche popolari che superino una certa soglia di attivo, trasformazione non prevista né tantomeno imposta dalle fonti sovranazionali. Queste sarebbero dunque impropriamente evocate per dare fondamento a una riforma di sistema tradottasi nella violazione dei diritti fondamentali tutelati dalla CEDU.
In ogni caso, come osserva il giudice a quo, l’intervento normativo censurato violerebbe i principi di proporzionalità e ragionevolezza nel bilanciamento tra gli opposti interessi in gioco. Né l’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 imporrebbe di limitare il diritto al rimborso, consentendo al legislatore di scegliere tra limitazione e differimento temporale.
Analogo ragionamento varrebbe in riferimento alla violazione dell’art. 41 Cost., in quanto la limitazione del diritto al rimborso in caso di recesso conseguente alla trasformazione delle banche popolari, senza limiti di tempo predeterminati dalla legge e senza la previsione di un indennizzo, determinerebbe una compressione ingiustificata e comunque non proporzionale della libertà di iniziativa economica e imprenditoriale del socio.
2.2.– Quanto al dubbio di costituzionalità evocato dal Consiglio di Stato in relazione agli artt. 1, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost., le parti del processo principale reiterano gli argomenti utilizzati dal giudice rimettente, secondo cui: la norma censurata attribuirebbe un potere di delegificazione a un soggetto diverso dal Governo ed estraneo al circuito politico dei rapporti Parlamento-Governo; tale attribuzione non potrebbe trovare giustificazione nell’elevato tecnicismo della materia; il potere di delegificazione presenterebbe latitudine estrema, senza che neppure siano previamente individuate le norme primarie suscettibili di abrogazione o deroga; tali considerazioni risulterebbero avvalorate dall’incidenza della predetta delegificazione su ambiti coperti da riserva di legge.
Viene rimarcato che la fonte legale della limitazione al rimborso non potrebbe rinvenirsi nei menzionati regolamenti sovranazionali. Quello che si contesta, infatti, è la facoltà concessa alla banca popolare di limitare il rimborso al fine di garantire le perdite con il proprio patrimonio, anche in caso di recesso giustificato dalla trasformazione della cooperativa in società per azioni, ipotesi quest’ultima che non sarebbe contemplata dalle fonti europee.
2.3.– In subordine, qualora questa Corte non condividesse le considerazioni svolte sull’inidoneità dell’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 a escludere l’effetto espropriativo della norma censurata e a garantire il rispetto della riserva di legge e del principio di legalità ex artt. 23, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, le parti chiedono che questa Corte proponga alla Corte di giustizia UE una domanda di pronuncia pregiudiziale interpretativa ex art. 267 del TFUE, diretta a verificare se il citato art. 10, «nella parte in cui prevede alternativamente la possibilità sia di rinviare il diritto al rimborso sia di escluderlo (in tutto o in parte), osti a una normativa nazionale, come quella rilevante nel presente giudizio, che prevede la possibilità di limitare del tutto, e non soltanto di differire entro limiti predeterminati dalla legge e a fronte della corresponsione di un interesse corrispettivo, il diritto del rimborso in caso di recesso, laddove esso sia esercitato in conseguenza della trasformazione della Banca popolare in S.p.A., parimenti prevista dall’art. 1, del d.l. 3/2015, come convertito (ipotesi, questa, non prevista espressamente dal Regolamento)».
Si tratterebbe di una questione interpretativa rilevante, oltre che proponibile in un giudizio costituzionale incidentale, in quanto l’interpretazione richiesta alla Corte di giustizia consentirebbe di definire l’esatto significato della normativa comunitaria e, di conseguenza, la portata e i «limiti di copertura comunitaria» della norma censurata.
2.4.– Infine, sarebbe fondata anche la censura relativa alla violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.
Le parti, pur prendendo atto che la sentenza n. 287 del 2016 ha giudicato non fondata un’analoga questione sollevata in via principale, auspicano un “ripensamento” di questa Corte alla luce delle argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione e dell’ulteriore rilievo concernente la diversità e l’eterogeneità degli ambiti materiali sui quali è intervenuto il d.l. n. 3 del 2015, al cui interno si potrebbero rinvenire norme dal più disparato contenuto.
3.– Con atto depositato il 3 aprile 2017 si è costituita in giudizio la Banca d’Italia, parte del giudizio a quo, che ha concluso per la manifesta inammissibilità o, in subordine, per la manifesta infondatezza delle questioni.
3.1.– I profili di contrasto con l’art. 77, secondo comma, Cost. sarebbero superati dalla sentenza n. 287 del 2016 e comunque andrebbero esclusi.
Le previsioni del d.l. n. 3 del 2015, come convertito, sui limiti dimensionali delle banche popolari, sulla disciplina delle trasformazioni e sull’attribuzione alla Banca d’Italia del potere di adottare disposizioni di attuazione dell’art. 29 del t.u. bancario sarebbero immediatamente applicabili, in quanto il regime transitorio introdotto dall’art. 2 dello stesso decreto-legge sarebbe diretto solo a consentire alle banche già autorizzate di adeguarsi al nuovo limite dimensionale.
Per altro verso, il requisito dell’urgenza non sembra contraddetto dalla complessità e laboriosità dell’avviato processo di riordino del settore, il cui perfezionamento richiederebbe di fatto un certo lasso di tempo, nel rispetto delle procedure decisionali delle società coinvolte.
La relazione illustrativa, inoltre, darebbe atto dell’inadeguatezza attuale e concreta del modello della banca popolare rispetto al nuovo assetto regolamentare e ai nuovi strumenti della vigilanza nonché rispetto alla disciplina europea delle crisi bancarie, assolvendo così all’onere di dare conto dei presupposti della decretazione d’urgenza. Né il Governo sarebbe tenuto ai più specifici oneri di allegazione prospettati nell’ordinanza di rimessione.
Neppure sarebbe stata realizzata con decreto-legge una riforma sistematica e ordinamentale, in quanto l’intervento riguarderebbe limitati profili di un tipo di società di capitali operante in uno specifico settore economico.
La questione, pertanto, dovrebbe essere dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto sostanzialmente identica ad altra già decisa da questa Corte, o manifestamente infondata.
3.2.– Con riguardo alla violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, la Banca d’Italia premette in via generale che «in base alla disciplina codicistica delle società cooperative, applicabile alle banche popolari in forza del rinvio operato dall’art. 2519, primo comma, cod. civ, in caso di recesso di un socio, anche nell’ipotesi di trasformazione, lo stesso ha diritto al rimborso delle azioni», e che, «[d]i contro, la disciplina europea in tema di vigilanza prudenziale delle banche prescrive che gli intermediari con forma di società cooperativa devono avere la possibilità di limitare il rimborso delle azioni affinché queste siano computate tra i “fondi propri” imposti a fini di solidità patrimoniale».
Pertanto, il potere di limitare il rimborso delle azioni al socio che eserciti il recesso nelle varie ipotesi previste dalla legge, anche nel caso di trasformazione della banca popolare in società per azioni, sarebbe stato introdotto dal d.l. n. 3 del 2015, come convertito, al fine di assicurare che le azioni delle banche popolari soddisfino le condizioni previste dall’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013 per il computo quali strumenti di capitale primario di classe 1 (CET1). Ciò risulterebbe sia dalla relazione illustrativa al disegno di legge di conversione, dove è richiamata l’esigenza di «mantenere un’adeguata patrimonializzazione della banca», sia dallo stesso art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, che collega la limitazione del rimborso alla necessità di «assicurare la computabilità delle azioni nel capitale di qualità primaria della banca».
Il giudice a quo avrebbe erroneamente interpretato l’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013 e l’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, ritenendo che, al fine di assicurare la computabilità delle azioni delle banche popolari nel CET1, il legislatore non fosse vincolato ad attribuire agli enti creditizi anche il potere di limitare il rimborso in caso di recesso, in alternativa a quello di rinviare. Il tenore letterale del citato art. 10, là dove prevede, al paragrafo 2, che «[l]a capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile», e che «[l]’ente è in grado di rinviare il rimborso o di limitare l’importo rimborsabile per un periodo illimitato in conformità al paragrafo 3», sarebbe al contrario inequivoco nell’esigere che sia prevista la titolarità in capo alla banca di ambedue i poteri, tra loro non fungibili, per il computo degli strumenti nel CET1.
Gli opposti interessi in gioco sarebbero stati bilanciati dalla norma europea, che, nell’ottica della stabilità del sistema, ha anteposto quello alla continuità dell’impresa bancaria. Il legislatore nazionale, di conseguenza, non avendo discrezionalità nella materia, avrebbe dovuto prevedere anche il potere di limitare il rimborso, al fine di rendere le azioni delle banche popolari computabili nel CET1, senza che gli fosse consentito di applicare il principio del «minimo mezzo», scegliendo tra limitazione e rinvio.
In ogni caso, la scelta fra l’uno o l’altro strumento (limitazione o rinvio) non sarebbe rimessa all’arbitrio della banca, ma a sue motivate valutazioni di carattere prudenziale riferite alle concrete condizioni patrimoniali e ancorate ai precisi criteri indicati nell’art. 10, paragrafo 3, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, che la Banca d’Italia ha riprodotto nelle disposizioni di attuazione. Tali criteri circoscriverebbero la possibilità di limitare il diritto al rimborso a quanto strettamente necessario per la salvaguardia della stabilità della banca, nel rispetto dei requisiti prudenziali previsti dalla normativa europea. La facoltà dell’ente di limitare «per un periodo illimitato» il rimborso non si tradurrebbe dunque in quella di rinviarlo ad libitum, ma solo per il tempo necessario per fronteggiare le descritte esigenze prudenziali, nel rispetto del criterio della proporzionalità.
In definitiva, l’unico modo per assicurare che le azioni delle banche popolari soddisfino le condizioni previste dal regolamento (UE) n. 575/2013 per il computo come strumenti del CET1, a tutela della stabilità delle banche e del sistema nel suo complesso, consisterebbe nel rendere la disciplina nazionale in linea con i pertinenti requisiti prudenziali indicati dagli artt. 28 e 29 del richiamato regolamento (UE) n. 575/2013.
Tale risultato sarebbe precluso dall’intervento manipolativo auspicato dal rimettente, giacché la previsione di un corrispettivo per il ritardo nel rimborso imporrebbe di considerare le azioni come strumenti di debito anziché di capitale, secondo i principi contabili applicabili (art. 28, paragrafo 1, lettera c, punto ii); ancora, farebbe venire meno la cosiddetta “flessibilità dei pagamenti” (art. 28, paragrafo 1, lettera h, punti iv e v); inoltre, non sarebbe rispettata la condizione stabilita dal citato art. 10, paragrafo 3, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, che integra l’art. 29, paragrafo 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 575/2013, secondo il quale la banca deve essere «in grado di rinviare il rimborso o di limitare l’importo rimborsabile per un periodo illimitato», vale a dire indeterminato, nella misura e per il tempo necessari in relazione alla situazione prudenziale.
Impedendo la computabilità delle azioni delle banche popolari come strumenti del CET1, l’intervento richiesto dal giudice a quo creerebbe pertanto una disciplina viziata da irragionevolezza intrinseca, in quanto sarebbe contraria alla propria ratio, che è quella di assicurare la stabilità patrimoniale delle banche. La mancata possibilità di computo, infatti, determinerebbe la presumibile discesa di tutte le banche popolari al di sotto dei requisiti prudenziali minimi e farebbe scattare l’obbligo per le Autorità di vigilanza di adottare i provvedimenti straordinari o liquidatori imposti dalla disciplina di settore.
3.2.1.– Ad avviso della Banca d’Italia, il giudice a quo neppure avrebbe correttamente individuato gli interessi in conflitto, oggetto di bilanciamento da parte del legislatore. La limitazione dei diritti dei soci sarebbe stata introdotta per assicurare la stabilità non solo delle banche partecipate, ma anche del sistema finanziario nel suo complesso, stabilità di fronte alla quale la giurisprudenza della Corte di giustizia UE e della Corte EDU riconoscerebbe carattere recessivo ai diritti di proprietà degli azionisti e persino di certi creditori delle banche, quali i depositanti.
Inoltre, la limitazione in esame non dovrebbe essere eccessivamente enfatizzata, poiché quasi tutte le banche popolari soggette a trasformazione sono quotate in mercati regolamentati, nei quali i soci possono ottenere agevolmente la liquidazione dell’investimento in altre forme. E ciò senza considerare che le azioni rimarrebbero nella loro titolarità anche dopo il recesso, onde sembra improprio parlare di “espropriazione” e di mancanza di “indennizzo”.
Le questioni sarebbero dunque manifestamente inammissibili, per la scorretta ricostruzione e la conseguente mancata ponderazione del quadro normativo di riferimento, nonché per la richiesta di una pronuncia manipolativa a contenuto non costituzionalmente obbligato, oltre che in contrasto con la stessa ratio della modifica auspicata; in subordine, esse sarebbero manifestamente infondate.
3.3.– La Banca d’Italia contesta la tesi del giudice a quo, secondo cui la norma censurata le avrebbe attribuito un potere di delegificazione «in bianco».
Preliminarmente, la questione sarebbe inammissibile, sia per l’assenza di una adeguata motivazione delle ragioni per cui la disposizione avrebbe delineato un procedimento di delegificazione, sia per la scorretta ricostruzione e conseguente mancata ponderazione del quadro normativo di riferimento.
Nel merito, contrariamente a quanto erroneamente presupposto dal giudice rimettente, l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 non darebbe affatto luogo ad un fenomeno di delegificazione. La disposizione non ricollegherebbe infatti all’entrata in vigore delle disposizioni attuative emanate dalla Banca d’Italia l’abrogazione di alcuna disposizione legislativa, bensì introdurrebbe - espressamente e direttamente - una deroga alla disciplina del recesso del socio di cui all’art. 2437 e seguenti del codice civile.
La questione sarebbe infondata anche perché la disciplina censurata, in linea con la pertinente normativa europea, ancorerebbe l’esercizio da parte dell’ente della facoltà di limitare o differire il rimborso a valutazioni di carattere prudenziale, di natura eminentemente tecnica, circoscritte dall’angusta cornice normativa definita dal regolamento delegato (UE) n. 241/2014.
Le perplessità sollevate dall’ordinanza di rimessione con riferimento all’assenza di collegamento della Banca d’Italia con il circuito rappresentativo non sarebbero condivisibili - non solo in ragione della sussistenza di connotati di tecnicismo e settorialità della materia affidata al potere regolamentare dell’Autorità di vigilanza, ma anche - in quanto le norme regolamentari della Banca d’Italia e le norme tecniche di regolamentazione recate dal citato regolamento delegato (UE) n. 241/2014 sarebbero redatte all’esito di «rafforzate forme di partecipazione degli operatori del settore nell’ambito del procedimento di formazione degli atti regolamentari», idonee a compensare la «dequotazione del principio di legalità in senso sostanziale» anche secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (è citata, tra le altre, la sentenza del Consiglio di Stato, sesta sezione, 24 maggio 2016, n. 2182).
4.– Con atti depositati il 4 aprile 2017, di identico contenuto, si sono costituite in giudizio UBI Banca spa e Banco BPM spa (quale società risultante dalla fusione tra Banco Popolare società cooperativa e Banca Popolare di Milano società cooperativa a responsabilità limitata), parti del giudizio a quo, che hanno concluso per l’infondatezza delle questioni e, in subordine, per il rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 del TFUE.
A loro avviso, la disciplina nazionale sui limiti al rimborso, fondata sulle previsioni del regolamento (UE) n. 575/2013 e del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, rispetterebbe pienamente i parametri evocati nell’ordinanza di rimessione, in quanto essa, in un’interpretazione costituzionalmente orientata, non escluderebbe in radice tale diritto. Il legislatore avrebbe semplicemente replicato nella normativa nazionale il principio comunitario prudenziale di tutela del sistema bancario, affidandone la garanzia a un’operazione di bilanciamento flessibile, che prevede la possibilità, nei casi di concreta e oggettiva difficoltà, di mantenere o raggiungere i requisiti prudenziali, di limitare il diritto del singolo secondo valutazioni da condurre in concreto rispettando i principi di proporzionalità e ragionevolezza, senza escludere il differimento nel tempo del rimborso, come ha espressamente stabilito il provvedimento della Banca d’Italia impugnato nel giudizio a quo.
4.1.– Non sussisterebbe la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., alla luce della sentenza n. 287 del 2016, della cui motivazione le parti riportano ampli stralci, ove si esclude che il d.l. n. 3 del 2015 difetti con evidenza dei presupposti di necessità e urgenza e che abbia portata di riforma sistematica.
Si sottolinea, altresì, che la volontà politica di adeguare l’ordinamento italiano agli indirizzi europei sarebbe stata rinnovata mediante la “riproposizione” della norma sui limiti del diritto di rimborso, con formulazione pressoché identica, nell’art. 1, comma 15, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), in ordine al quale non varrebbero i limiti stabiliti per la decretazione d’urgenza.
4.2.– La questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. l, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost. sarebbe inammissibile perché non adeguatamente motivata.
Nel merito, il dubbio di costituzionalità sarebbe infondato, in quanto i limiti della potestà regolatrice della Banca d’Italia emergerebbero dalla compiuta disamina del diritto europeo. A riprova di ciò, la disciplina adottata dalla Banca d’Italia riprodurrebbe puntualmente la disciplina di dettaglio contenuta all’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, mostrando così di avere un carattere meramente ricognitivo.
4.3.– Neppure sussisterebbe la violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU.
La limitazione del rimborso prevista dall’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario non comporterebbe un effetto espropriativo e non priverebbe il socio recedente del suo status.
Innanzi tutto, nel caso della trasformazione delle banche popolari in società per azioni il richiamo alla fattispecie espropriativa non sarebbe pertinente, trattandosi di conflitto orizzontale tra privati e non di conflitto verticale tra Stato e privati, presupposto dall’art. 42, terzo comma, Cost.
In secondo luogo, non vi sarebbe alcuna privazione di utilità economiche in danno dei soci recedenti, in quanto a seguito della limitazione del rimborso le azioni verrebbero restituite ai loro titolari, dovendosi così escludere un’ablazione o comunque una riduzione del corrispettivo del recesso, nonché l’acquisizione definitiva, in capo all’ente creditizio, del valore delle partecipazioni. Ne potrebbe tutt’al più conseguire il mancato perfezionamento del recesso, dal quale non sembrano però sorgere ulteriori dubbi di illegittimità, esistendo altre fattispecie nelle quali l’ordinamento non riconosce al socio il diritto di recedere.
In ogni caso, anche secondo la giurisprudenza della Corte EDU l’illegittimità di una misura espropriativa non si potrebbe desumere solo dalla compressione del diritto del singolo, qualora prevalgano motivi di interesse generale per effetto di un bilanciamento ispirato a criteri di ragionevolezza e proporzionalità, senza che all’ablazione debba corrispondere sempre e comunque la garanzia di un pieno indennizzo.
Tale bilanciamento, rimesso all’apprezzamento discrezionale del legislatore, risulterebbe effettuato dalla disciplina comunitaria sui requisiti prudenziali delle banche cui si conforma la disposizione censurata. Quest’ultima non violerebbe il principio del minimo mezzo, della ragionevolezza e della proporzionalità, non imponendo alcuna specifica limitazione al rimborso, ma lasciando alla valutazione del caso concreto la scelta da operare, tale da ridurre al minimo, se possibile, la compressione del diritto del singolo.
Il rimettente, pur riconoscendo la preminente esigenza di tutelare l’interesse generale alla stabilità patrimoniale del sistema finanziario, che anche secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia può prevalere sugli interessi degli azionisti e dei creditori delle banche, avrebbe arbitrariamente sostituito la propria valutazione a quella del legislatore, affermando che solo il rinvio del rimborso a tempo determinato sarebbe compatibile con la Costituzione.
Al contrario, la disciplina nazionale primaria e secondaria sulla limitazione del rimborso in caso di recesso, che riproduce quanto previsto dall’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013 e dall’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, non lascerebbe alla totale discrezione della singola banca la scelta delle misure da adottare, che risulterebbe invece ancorata a condizioni patrimoniali oggettive verificabili caso per caso. L’articolato assetto tracciato dalla normativa comunitaria presupposta da quella interna avrebbe dunque lasciato agli Stati membri «libertà di […] rinviare il diritto al rimborso fino ad un tempo illimitato oppure [di] escludere ovvero limitare il rimborso», sicché legittimamente il legislatore italiano avrebbe riproposto la stessa alternativa nel proprio ordinamento, approntando una regolamentazione rispettosa della Costituzione e dell’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU.
Inoltre, il riconoscimento degli interessi per il ritardo nel rimborso, auspicato dal rimettente, vanificherebbe lo scopo perseguito dalla normativa comunitaria e nazionale, consistente nella tutela dei requisiti prudenziali delle banche, in quanto avrebbe un evidente impatto sul loro patrimonio.
Qualora questa Corte ritenesse che gli argomenti svolti non siano idonei a respingere le questioni, le parti propongono istanza di rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE, diretto a «verificare quale sia l’effettivo valore ermeneutico da riconoscere al combinato disposto dell’art. 29, comma 2, del [regolamento (UE) n. 575/2013] con l’art. 10 del Regolamento [delegato (UE) n. 241/2014]», atteso che, «anche nell’ottica del giudizio di costituzionalità, la questione di compatibilità comunitaria costituisce un prius logico e giuridico rispetto alla questione di costituzionalità».
5.– Con atto depositato il 4 aprile 2017 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o la manifesta infondatezza delle questioni.
5.1.– L’interveniente osserva in via preliminare che il giudice a quo, deducendo la violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, avrebbe identificato la norma censurata nel «nuovo testo dell’art. 29 co. 2 ter del D.lgs. 1 settembre 1993 n. 385», sull’erroneo presupposto che esso disciplini la limitazione del diritto al rimborso del socio recedente, mentre tale norma, introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015, contiene la diversa previsione dei poteri della Banca d’Italia nel caso in cui non sia deliberata la trasformazione della banca popolare con attivo “sopra soglia”. Viene pertanto chiesto a questa Corte di valutare se l’errata identificazione della norma censurata si possa tradurre nell’inammissibilità delle questioni.
Sempre in via preliminare, l’interveniente eccepisce il difetto di rilevanza o di sufficiente motivazione sulla rilevanza con riferimento alla censura che riguarda il diritto al rimborso.
Il giudice a quo avrebbe erroneamente posto a base della rilevanza il «pregiudizio» che i soci ricorrenti potrebbero subire dalla norma sospettata di illegittimità, anziché la necessità di applicare tale norma per definire la controversia. L’ordinanza di rimessione non preciserebbe se i soci ricorrenti hanno esercitato il diritto di recesso, sicché le domande proposte nel giudizio principale dovrebbero essere dichiarate inammissibili per difetto di interesse ad agire, con conseguente inammissibilità delle questioni, per irrilevanza.
Non sarebbero condivisibili, inoltre, le considerazioni svolte dal giudice a quo sull’esistenza di un pregiudizio attuale e concreto alla «libertà di autodeterminazione negoziale del socio» nell’espressione del diritto di voto in assemblea, che sarebbe condizionata dalla «eventualità di vedersi escluso il diritto al rimborso in caso di recesso conseguente alla trasformazione». Per i soci delle banche popolari già trasformate in società per azioni (la quasi totalità di quelle “sopra soglia”), tale “condizionamento” costituirebbe un fatto già avvenuto e dunque inidoneo a fondare un interesse attuale all’annullamento del provvedimento della Banca d’Italia. Né l’ordinanza riferirebbe di deliberazioni societarie che hanno limitato il diritto al rimborso o di impugnazioni proposte avverso le delibere di trasformazione, a conferma dell’assenza di prova dell’asserito “condizionamento”. Per i soci delle banche popolari che non avessero ancora deliberato la trasformazione, l’ordinanza non fornirebbe alcun elemento idoneo a ipotizzare che la trasformazione verrà deliberata, che i soci ricorrenti eserciteranno in tal caso il diritto di recesso, che si realizzeranno le condizioni per rendere necessaria la limitazione del diritto al rimborso delle loro azioni e che la limitazione si tradurrà nella riduzione del rimborso anziché, come auspicato dal rimettente, nel suo mero differimento: ciò porrebbe in dubbio, anche sotto il profilo prospettato nell’ordinanza di rimessione, la sussistenza di un effettivo interesse ad agire in capo ai soci.
5.1.1.– Ancora in via preliminare, l’interveniente osserva che tutte le questioni sollevate dal giudice a quo, riferite in apparenza all’intero art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, dovrebbero essere circoscritte al comma 1, lettera a) di tale disposizione, che ha aggiunto il comma 2-ter all’art. 28 del t.u. bancario, in tema di limitazione del diritto al rimborso in caso di recesso, giacché la residua disciplina contenuta nel citato art. 1 sarebbe irrilevante per la definizione del processo principale.
Tuttavia, la previsione sui limiti al rimborso non deriverebbe più dalla disposizione censurata, anche così circoscritta, bensì dall’art. 1, comma 15, del d.lgs. n. 72 del 2015, entrato in vigore il 27 giugno 2015, che ha sostituito il testo dell’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario con il seguente, riproduttivo di quello anteriore: «2-ter. Nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione, morte o esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi.».
L’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, sarebbe stato dunque implicitamente abrogato, per incompatibilità, dall’art. 1, comma 15, del d.lgs. n. 72 del 2015.
Da qui l’irrilevanza della questione concernente il difetto dei requisiti della decretazione d’urgenza, ex art. 77 Cost., poiché la norma vigente, applicabile in materia di recesso dei soci di banche popolari e di limitazione al rimborso delle loro quote di capitale, sarebbe stata adottata con l’ordinario procedimento di legislazione delegata ex art. 76 Cost.
5.2.– Ove rilevante, la questione ex art. 77, secondo comma, Cost, sarebbe comunque infondata.
I requisiti di necessità e urgenza sussisterebbero, in quanto la previsione di limiti al rimborso in caso di recesso sarebbe espressamente finalizzata alla necessità di «assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca», onde prevenire il rischio che, in occasione della trasformazione delle maggiori banche popolari, si verifichi una tale quantità di recessi da porre in dubbio il rispetto da parte di tali banche ai requisiti prudenziali di stabilità patrimoniale.
L’urgenza di provvedere nel settore bancario, imperniato sulla funzione normativa e di vigilanza della Banca d’Italia, coesisterebbe logicamente con la rimessione a quest’ultima del potere di adottare norme di attuazione. Solo in questo modo l’intervento legislativo avrebbe rivestito i caratteri di completezza e organicità indispensabili ad assicurarne l’efficacia concreta, anche in considerazione della laboriosità del processo riformatore delle banche popolari (è citata sul punto la sentenza n. 133 del 2016). L’avvio del processo avrebbe garantito la necessaria stabilizzazione di queste banche, con la previsione di un lasso di tempo sufficiente a consentire la loro trasformazione nelle condizioni di maggiore convenienza.
Infine, la valutazione del rischio e dell’urgenza di provvedere competerebbe esclusivamente al legislatore, non apparendo manifestamente irragionevole il rischio che la presenza di banche popolari di dimensioni sistemiche indebolisca la stabilità complessiva del sistema bancario, sicché dovrebbe essere esclusa ogni valutazione sostitutiva da parte del giudice a quo e dello stesso giudice delle leggi. L’ampiezza e la durata nel tempo del dibattito sul tema della riforma delle banche popolari, al quale allude il rimettente, dimostrerebbe l’esistenza del problema e l’urgenza di risolverlo.
5.3.– Secondo l’interveniente, anche la questione inerente alla legittimità costituzionale della previsione che conferisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare la limitazione del diritto al rimborso della quota del socio recedente sarebbe infondata.
Dalla norma censurata, letta nella sua inscindibile interezza, si ricaverebbe infatti che la potestà normativa della Banca d’Italia è esclusivamente finalizzata a garantire il rispetto da parte della banca, in caso di recesso del socio, dei requisiti di stabilità patrimoniale identificabili nel possesso di un patrimonio di vigilanza di qualità primaria non inferiore ai minimi legali. Ciò renderebbe operanti, come criteri limitativi della discrezionalità della Banca d’Italia, le norme dell’ordinamento comunitario che disciplinano il patrimonio di vigilanza delle banche, le quali sarebbero rigide e stringenti, e non consentirebbero margini di effettiva discrezionalità. D’altra parte occorrerebbe ricordare che già l’art. 53, comma l, lettere a), b) e d), del t.u. bancario attribuisce alla Banca d’Italia un ampio potere regolamentare in tema di adeguatezza patrimoniale degli istituti di credito.
5.4.– Anche le censure riferite agli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, sarebbero infondate.
L’interveniente ribadisce che secondo l’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario la limitazione del rimborso costituirebbe una misura non fine a se stessa, ma funzionale alla stabilità della banca, garantita dalla tutela dell’integrità del suo patrimonio di vigilanza di qualità primaria, che il rimborso immediato potrebbe intaccare. Inoltre, la misura realizzerebbe un equilibrio con l’eccezionale diritto di recesso riconosciuto dall’ordinamento al socio della cooperativa bancaria, a differenza del socio di una banca ordinaria. Tale diritto sorgerebbe già intrinsecamente limitato dalla condizione negativa che il rimborso non comporti la perdita o l’indebolimento del patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca.
Sarebbe inoltre errato il presupposto interpretativo dal quale muove il rimettente, che equipara il differimento sine die all’esclusione totale del rimborso. In realtà la norma censurata prevede solo la possibilità di limitare il diritto al rimborso o il suo rinvio a un momento determinato o da determinare, senza contemplarne l’esclusione immediata e definitiva. Né il rinvio a un momento da determinare sembra consentire tale equiparazione, posto che l’esclusione farebbe venire meno il credito al rimborso, mentre il differimento lo conserverebbe, pur incidendo sulla sua esigibilità.
Ove si intendessero superare tali considerazioni, l’interveniente osserva che il dubbio di illegittimità costituzionale deriverebbe dalla scorretta e incompleta ricostruzione dell’istituto del recesso del socio e della normativa comunitaria in materia di rafforzamento della disciplina prudenziale, ricostruzione che avrebbe condotto il giudice a quo all’errata configurazione della quota di partecipazione del socio come un valore economico intangibile, la cui eventuale limitazione ex lege si tradurrebbe in un’espropriazione senza indennizzo.
Al contrario, il credito al rimborso del valore della partecipazione sociale, che sorge con l’esercizio del recesso, non potrebbe essere qualificato come un diritto reale sul capitale della società, suscettibile di espropriazione, né la situazione prodotta dal recesso si risolverebbe in un mero conflitto tra soci recedenti e soci che proseguono l’attività, come sembra ritenere il rimettente, coinvolgendo essa invece sia i diritti dei terzi che operano con la banca che l’interesse pubblico, tutelato dalle Autorità di vigilanza, alla stabilità del sistema bancario nel suo complesso.
Nell’approfondire questo profilo, l’interveniente esamina, in primo luogo, la disciplina ordinaria del recesso del socio nelle società di capitali contenuta nel codice civile. Tale disciplina evidenzierebbe la possibilità di ridurre il rimborso qualora – inutilmente esaurite tutte le fasi nelle quali si articola il complesso procedimento di liquidazione (trasferimento delle azioni del socio recedente agli altri soci o a terzi; acquisto di azioni proprie; riduzione del capitale in proporzione alle azioni da rimborsare, che può essere impedita dalla vittoriosa opposizione dei creditori sociali alla delibera di riduzione) – si giunga allo scioglimento della società con apertura del concorso del credito del socio recedente con i crediti vantati dai terzi, in posizione di parità: situazione che, nel caso di mancato rimborso per insufficienza dell’attivo, non attribuirebbe il diritto a indennizzi o corrispettivi, essendo connessa al rischio d’impresa assunto dal socio con la partecipazione alla società.
Nella disciplina prudenziale comunitaria delle società che esercitano l’attività bancaria – introdotta dalla direttiva 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, nonché dal regolamento (UE) n. 575/2013 e dal regolamento delegato (UE) n. 241/2014 – il recesso del socio riceverebbe un trattamento normativo sostanzialmente diverso, diretto ad assicurare un adeguato livello di capitale di primaria qualità degli enti creditizi sulla base di rigidi parametri di riferimento. Allo scioglimento della società, configurato dalla disciplina codicistica quale strumento estremo per soddisfare il credito del socio recedente, nel caso in cui la società non disponga di risorse sufficienti e non possa procedere alla riduzione del capitale, la disciplina prudenziale comunitaria e nazionale opporrebbe un obiettivo contrario, diretto a evitare lo scioglimento della banca e a favorire la stabilità del sistema finanziario globale.
Attraverso l’obbligatoria creazione del patrimonio di vigilanza, di cui fa parte il capitale, la banca costituirebbe un fondo proprio idoneo a fronteggiare in via permanente i rischi di perdite connesse alle esposizioni creditorie, sicché il diritto al rimborso del socio recedente non potrebbe essere soddisfatto se ciò comportasse la riduzione di tale patrimonio al di sotto dei limiti prudenziali. Il relativo diritto di credito si collocherebbe, pertanto, in una posizione subordinata al superiore interesse pubblico che l’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario intende proteggere.
5.4.1.– Per queste considerazioni, non sarebbe dunque violato il principio del minimo mezzo, come sostiene il rimettente, in quanto il sacrificio imposto dalla norma censurata al socio di una banca cooperativa appare funzionale all’attuazione di interessi superiori, che non si identificano con quelli dei soci che intendono proseguire l’attività bancaria, bensì con quello alla stabilità della singola banca e del sistema bancario nel suo complesso. Tale assetto normativo sarebbe in linea sia con i valori costituzionali, considerato che la libertà di iniziativa economica può essere limitata in funzione dell’utilità sociale ex art. 41 Cost., sia con la giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di superiorità dell’interesse pubblico alla stabilità del sistema finanziario sul legittimo affidamento dei singoli (è citata la sentenza 19 luglio 2016, in causa C-526/14, Tadej Kotnik e altri).
Neppure sarebbe violato il diritto all’indennizzo in caso di esproprio, tutelato dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, in quanto la situazione del socio recedente di una banca popolare, il cui diritto al rimborso sia limitato ex art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, sembra analoga a quella del socio recedente di una società ordinaria che, a seguito dello scioglimento di questa, non ottenga soddisfazione del credito in sede di liquidazione, per insufficienza dell’attivo: anche in questo caso, il sacrificio imposto al socio troverebbe giustificazione nel rischio d’impresa che egli ha assunto partecipando alla società. La limitazione al rimborso deriverebbe infatti da esposizioni di rischio della banca sorte prima dell’exit, tali da imporre un livello di patrimonio prudenziale raggiungibile solo con la quota di capitale di cui è titolare il socio che ha esercitato il recesso.
Il principio del minimo mezzo neppure sarebbe violato dalla mancata previsione del differimento per un termine massimo predeterminato dal legislatore. La norma censurata – come quella comunitaria di riferimento – rinvierebbe infatti a parametri certi e rigorosi, connessi all’esistenza di risorse che consentano il rimborso delle azioni senza depauperare il patrimonio di qualità primaria della banca, determinato proporzionalmente alle esposizioni di rischio.
Né si comprenderebbe come la previsione di un termine, da rimettere comunque all’intervento del legislatore, riuscirebbe a garantire il rispetto delle regole prudenziali, ove la condizione della banca rimanesse invariata alla scadenza del termine stesso, quando le azioni ancora necessarie per il mantenimento del patrimonio di vigilanza dovrebbero essere rimborsate.
La norma censurata, inoltre, sarebbe pienamente conforme alla disciplina comunitaria, che prevede le facoltà alternative della limitazione e del rinvio, ancorandole al mantenimento di livelli patrimoniali adeguati.
Neppure sarebbe fondata la censura relativa alla mancata previsione di un interesse corrispettivo per il ritardo nel rimborso, in quanto la parte di capitale versata dal socio recedente non potrebbe produrre interessi, essendo destinata a garantire le esposizioni di rischio della banca fino a che le condizioni patrimoniali della stessa ne impediscano la “liberazione”.
6.– Con atto depositato il 31 luglio 2017, fuori termine, sono intervenute nel giudizio Amber Capital UK LLP e Amber Capital Italia SGR spa, che il 23 febbraio 2018 hanno depositato anche una memoria illustrativa.
Esse chiedono, ai fini dell’ammissibilità dell’intervento, una «nuova valutazione» sulla natura del termine stabilito dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Questo termine non dovrebbe essere considerato perentorio, secondo il costante orientamento della Corte, ma ordinatorio, in applicazione del principio generale di cui all’art. 152, secondo comma, codice di procedura civile. Inoltre, coordinando la previsione dell’art. 4, comma 4, con quella del successivo art. 7 delle citate Norme integrative, che regola la fase processuale successiva alla scadenza del termine per la costituzione delle parti, l’intervento cosiddetto “tardivo” potrebbe essere ammesso fino a quando il Presidente della Corte non abbia nominato il giudice relatore, al quale il cancelliere deve immediatamente trasmettere il fascicolo.
7.– Anche le altre parti costituite e l’interveniente hanno depositato memorie nell’imminenza dell’udienza.
7.1.– I soci della Banca Popolare di Sondrio e della Banca Popolare di Milano ribadiscono le loro difese e insistono nelle conclusioni già rassegnate, chiedendo altresì, «in alternativa, o in via di ulteriore subordine, nell’ipotesi in cui si ritenesse ovvero venisse confermato in sede di rinvio pregiudiziale che la citata normativa europea consente di escludere tout court il rimborso», di proporre alla stessa Corte di giustizia, sempre ai sensi dell’art. 267, terzo comma, del TFUE, un rinvio pregiudiziale sulla validità del citato art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, per violazione dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE), «integrato, anche alla luce dell’art. 52, comma 3, della medesima Carta […] dalle prevision[i] e dalla giurisprudenza della CEDU richiamate nel I Motivo».
7.2.– La Banca d’Italia ribadisce e illustra le considerazioni svolte, insistendo per la manifesta inammissibilità o la manifesta infondatezza delle questioni. La parte osserva che l’assunto del giudice a quo sull’effetto espropriativo conseguente all’applicazione della norma censurata sarebbe comunque superato dalla considerazione che le azioni non rimborsate per le esigenze prudenziali della banca dovrebbero essere restituite al socio. Non potendosi completare il procedimento di liquidazione del loro valore, esse sarebbero infatti liberate dal vincolo di indisponibilità ex art. 2437-bis, cod. civ. Inoltre, la trasformazione in società per azioni accrescerebbe la contendibilità dell’impresa e, con essa, il valore di scambio della partecipazione azionaria, incrementando, anziché diminuendo, le opportunità patrimoniali del socio. La previsione di un interesse corrispettivo, auspicata dal giudice a quo, contrasterebbe poi con la mancanza di liquidità ed esigibilità del credito. Infine, la Banca d’Italia illustra le ragioni per cui le disposizioni oggetto del giudizio si collocherebbero armonicamente all’interno del complessivo sistema del diritto bancario europeo, riproducendone le logiche e gli equilibri, e salvaguardando il contenuto essenziale del diritto che si assume leso.
7.3.– UBI Banca spa e Banco BPM spa, dopo avere descritto le fasi dei procedimenti di liquidazione nell’ambito dei quali si sono avvalse della facoltà di limitare parzialmente il rimborso delle azioni oggetto di recesso restituendo ai soci recedenti le azioni non rimborsate nelle rispettive misure del 94,8 e del 93 per cento, eccepiscono l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza. Muovendo da erronei presupposti giuridici, il giudice a quo non avrebbe esperito il tentativo di interpretazione conforme e avrebbe chiesto una pronuncia manipolativa dai contenuti indefiniti e non costituzionalmente obbligati, sovrapponendo la propria valutazione alle scelte discrezionali spettanti al legislatore. Il rimettente non avrebbe inoltre considerato che la previsione dell’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario è stata riproposta con una formulazione pressoché identica nel successivo d.lgs. n. 72 del 2015, in vigore dal 27 giugno 2015, sicché l’incompleta individuazione delle norme censurate determinerebbe l’inammissibilità di tutte le questioni dedotte o, quantomeno, l’irrilevanza di quella sollevata in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. Infine, il difetto di rilevanza deriverebbe anche dalla mancanza di attualità delle questioni, poiché la dichiarazione di illegittimità costituzionale non potrebbe incidere su situazioni o rapporti giuridici relativi a «fasi che devono ritenersi esaurite o concluse», come la già eseguita trasformazione in società per azioni delle banche popolari con attivo superiore alla soglia di otto miliardi di euro.
Nel merito, le parti illustrano le difese già svolte, richiamando la sentenza n. 287 del 2016 a dimostrazione dell’infondatezza della questione sul difetto dei requisiti della decretazione d’urgenza e diffondendosi nell’esame delle norme di diritto europeo rilevanti in materia, che sarebbero state erroneamente interpretate dal giudice a quo e sarebbero assistite da una presunzione di validità estesa alla loro conformità alla Carta dei diritti fondamentali.
Infine, le parti insistono nella subordinata istanza di rinvio pregiudiziale ex art. 267, terzo comma, del TFUE.
7.4.– il Presidente del Consiglio dei ministri insiste a sua volta nelle eccezioni e richieste rassegnate nell’atto di intervento.
Quanto alle censure di violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, l’interveniente sottolinea che nel contesto normativo creato dalle regole prudenziali europee i diritti degli azionisti di società bancarie sarebbero diritti “limitatamente disponibili” perché originariamente connotati dalla funzione di concorrere all’adeguatezza patrimoniale della banca rispetto alla sua esposizione al rischio. Disciplinando i diritti conseguenti all’esercizio del recesso dalle banche popolari, la norma censurata avrebbe dunque reso esplicito tale limite intrinseco, dato dal fatto che l’azione bancaria (lo strumento di capitale) servirebbe innanzitutto a formare la componente indefettibile dei fondi propri (il capitale primario di classe 1) e con ciò ad assicurare il mantenimento del rapporto predeterminato, fissato dalle predette regole, tra i fondi propri della banca e la sua esposizione al rischio. Tale rapporto verrebbe messo in crisi, nel caso delle banche popolari soggette alla trasformazione “obbligatoria”, dalla variabilità del loro capitale, che ne implicherebbe la riduzione a seguito del recesso, nonché dalla loro natura “sistemica”, implicante un’elevata esposizione al rischio, che nel caso di riduzione del capitale a seguito dei recessi le costringerebbe ad uscire dal mercato per la sopravvenuta perdita dei requisiti di stabilità patrimoniale o a ridurre l’attivo, rinunciando alla propria dimensione operativa.
L’interveniente si sofferma, inoltre, sulla diversità di regime giuridico tra il recesso del socio di società ordinaria e quello del socio di società bancaria. Per quest’ultimo il potere di inibire la riduzione del capitale sociale a seguito del recesso non è rimessa alla volontà dei creditori sociali, mediante il rimedio dell’opposizione alla delibera di riduzione, ma è previsto ex lege, mediante la determinazione di un vincolo normativo rigido, che vieta di ridurre quella parte del capitale sociale, determinata secondo un criterio matematico, rientrante nel patrimonio di vigilanza della banca e pertanto destinato a garantirne la solvibilità. Il patrimonio di vigilanza costituirebbe dunque un bene giuridico che il legislatore comunitario e nazionale ritiene funzionale alla tutela del superiore interesse alla stabilità della banca stessa e dell’intero sistema finanziario. L’intervento legislativo in esame non avrebbe fatto altro che precisare tale condizione, chiarendo che la limitazione del rimborso, cioè il diniego totale o parziale in caso di recesso, potrebbe verificarsi non solo quando lo imponga o lo consigli la situazione economica e patrimoniale della banca popolare, bensì anche nel caso di sua trasformazione in banca ordinaria, e dunque in un caso in cui il recesso sarebbe sì previsto dalla legge, ma contraddirebbe l’esigenza di accrescere o, almeno, non diminuire il coefficiente di capitale primario di classe 1 (CET1), resa inderogabile proprio dalla trasformazione in banca ordinaria dotata di un attivo (rischio) di proporzioni sistemiche.
Nella prospettiva così delineata perderebbero dunque consistenza le censure di illegittimità riferite agli artt. 41 e 42 Cost., in ordine alle quali l’interveniente approfondisce le considerazioni svolte, anche con riguardo alla conformazione che il legislatore avrebbe impresso alla proprietà azionaria per assicurarne la «funzione sociale», all’analoga limitazione apposta alla libertà di iniziativa economica, in funzione della sua «utilità sociale», all’insussistenza di lesioni dell’affidamento dei soci e alla mancata violazione del principio di proporzionalità.
Quanto alla violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., anche l’interveniente richiama la sentenza n. 287 del 2016, ribadendo le precedenti difese.
In merito alle altre questioni, l’interveniente osserva, infine, che la norma censurata non avrebbe previsto alcuna delegificazione, id est nessuna abrogazione di norme di legge primaria all’entrata in vigore di norme di rango subprimario, avendo disposto, al contrario, che il diritto al rimborso dei soci recedenti potrà essere limitato se è necessario per consentire il computo delle loro azioni nel capitale di qualità primaria della banca, e che ciò costituisce deroga alle norme di legge (del codice civile), le quali prevedono il rimborso immediato e integrale delle quote dei soci recedenti dalle società non bancarie.
Considerato in diritto
1.– Il Consiglio di Stato dubita sotto vari profili della legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33, norma che riforma la disciplina delle banche popolari.
Le questioni sono sorte nella fase cautelare del giudizio in cui sono stati riuniti gli appelli proposti contro tre sentenze del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, rese in processi aventi ad oggetto atti emessi dalla Banca d’Italia in seguito alle modificazioni apportate dal citato art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 agli artt. 28 e 29 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia» (t.u. bancario).
Più precisamente, davanti al giudice amministrativo era stato impugnato – da soci di varie banche popolari e da due associazioni di consumatori, con l’intervento in giudizio di una terza associazione – il provvedimento della Banca d’Italia denominato «9° aggiornamento del 9 giugno 2015», pubblicato l’11 giugno 2015 nel «Bollettino di Vigilanza n. 6, giugno 2015», che apporta modifiche alla circolare della Banca d’Italia n. 285 del 17 dicembre 2013 (Disposizioni di vigilanza per le banche), introducendo nella Parte Terza di tale circolare il Capitolo 4, intitolato «Banche in forma cooperativa». Secondo quanto riportato nelle sue premesse, il provvedimento «[…] dà attuazione alla riforma delle banche popolari introdotta con le modifiche al Capo V, Sezione I del TUB apportate dal decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito con legge 24 marzo 2015, n. 33». Esso definisce, per quello che qui interessa, i criteri, le modalità e i limiti al rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale nel caso di recesso, in applicazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, che ha aggiunto all’art. 28 t.u. bancario il comma 2-ter, secondo il quale «[n]elle banche popolari il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi».
Nel giudizio erano altresì impugnati gli atti preparatori di tale provvedimento, ossia il «Documento per la consultazione» intitolato «Disposizioni di vigilanza – Banche popolari», pubblicato nel sito web della Banca d’Italia il 9 aprile 2015, nonché il «Resoconto della consultazione» e la «Relazione sull’analisi d’impatto» della regolamentazione, pubblicato nel sito web della Banca d’Italia contestualmente al «9° aggiornamento».
Il TAR Lazio aveva escluso la legittimazione al ricorso delle due associazioni di consumatori, nonché la legittimazione all’intervento dell’altra associazione e aveva respinto nel merito i ricorsi proposti dai soci delle banche.
Adìto per la riforma delle sentenze di primo grado con preliminare istanza di sospensione, il Consiglio di Stato ha riunito gli appelli e sospeso interinalmente l’efficacia del provvedimento impugnato, per alcune sue parti, sino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte di questa Corte. Con successiva ordinanza ha quindi sollevato le questioni oggetto del presente giudizio costituzionale.
2.– Innanzitutto deve essere ribadita l’inammissibilità dell’intervento in giudizio di Amber Capital UK LLP e Amber Capital Italia SGR spa, per le ragioni esposte nell’ordinanza emessa all’udienza del 20 marzo 2018.
3.– In secondo luogo deve essere respinta, in quanto infondata, l’eccezione del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio, che ha contestato il difetto di rilevanza o di sufficiente motivazione sulla rilevanza delle questioni.
Il giudice a quo motiva espressamente sulla pregiudizialità delle questioni (e, con essa, sulla loro rilevanza), affermando che la norma censurata costituisce la base legislativa del provvedimento amministrativo emesso dalla Banca d’Italia impugnato nel processo principale, sicché la sua applicazione è necessaria per definire il giudizio a quo anche nella sua fase cautelare, attualmente sospesa in attesa della risoluzione dell’incidente di costituzionalità.
Neppure può essere accolto l’assunto dell’Avvocatura sul difetto di interesse ad agire dei ricorrenti nel processo principale, che si tradurrebbe in un difetto di rilevanza o di sufficiente motivazione sulla rilevanza delle questioni.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «il controllo della […] rilevanza “va limitato all’adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale a dire un petitum, separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere” (ex plurimis, sentenza n. 263 del 1994)», sicché «[i]l riscontro dell’interesse ad agire e la verifica della legittimazione delle parti, agli stessi fini, sono rimessi a loro volta alla valutazione del giudice a quo e non sono suscettibili di riesame da parte [della] Corte, qualora risultino sorretti da una motivazione non implausibile (ex plurimis, sentenze n. 1 del 2014, n. 91 del 2013, n. 280, n. 279, n. 61 del 2012, n. 270 del 2010)» (sentenza n. 110 del 2015).
Le considerazioni svolte dal giudice rimettente sull’attualità e sulla concretezza del pregiudizio alla libertà di espressione del voto del socio in assemblea nel caso di trasformazione sociale non ancora deliberata, ovvero alla sua libertà di recedere dalla società a trasformazione deliberata, offrono argomenti non implausibili a sostegno dell’esistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, si trovino essi nell’una o nell’altra situazione.
4.– Nel merito, il rimettente dubita innanzitutto che l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 violi l’art. 77, secondo comma, della Costituzione, «in relazione alla evidente carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti il ricorso allo strumento decretale d’urgenza (ove non ritenuta sanata, seppure soltanto ex nunc, dalla legge di conversione)».
Il d.l. n. 3 del 2015 introdurrebbe norme in gran parte non auto-applicative, richiedenti ulteriori misure attuative, in contrasto con la previsione generale dell’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
Neppure la relazione illustrativa varrebbe a fugare i dubbi di evidente mancanza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost. Essa giustificherebbe l’urgenza dell’intervento riformatore delle banche popolari con i rischi, segnalati dal Fondo monetario internazionale, dalla Commissione europea e dalla Banca d’Italia, di concentrazione di potere in favore di gruppi di soci organizzati, di autoreferenzialità della dirigenza e di difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato, ma tali rischi non sarebbero attuali e concreti, bensì solo potenziali, non trovando «riscontro concreto in circostanze straordinarie» e gravi, esistenti «all’atto dell’emanazione del decreto-legge».
L’urgenza sarebbe ulteriormente smentita dalla natura dell’intervento legislativo, diretto a realizzare una riforma organica e di sistema delle banche popolari sulla quale era in corso da tempo un ampio dibattito in sede dottrinale e politica.
4.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che tutte le questioni sollevate dal giudice a quo, anche se riferite in apparenza all’intero art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, dovrebbero essere circoscritte al comma 1, lettera a) di tale disposizione, che ha aggiunto il comma 2-ter all’art. 28 del t.u. bancario in tema di limitazione del diritto al rimborso in caso di recesso. La residua disciplina contenuta nel citato art. 1, relativa alle altre parti della riforma delle banche popolari, sarebbe irrilevante per la definizione del processo principale.
La previsione sui limiti al rimborso, tuttavia, non sarebbe più contenuta nella disposizione censurata, anche così circoscritta, bensì nell’art. 1, comma 15, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), entrato in vigore il 27 giugno 2015, che ha sostituito l’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario riproducendone sostanzialmente il testo, salvo modifiche qui non rilevanti che estendono l’efficacia della norma alle banche di credito cooperativo e ai casi di morte del socio.
L’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015 sarebbe stato così implicitamente abrogato, per incompatibilità, dal successivo art. 1, comma 15, del d.lgs. n. 72 del 2015. Da qui l’eccepita irrilevanza della questione concernente il difetto dei requisiti della decretazione d’urgenza, ex art. 77 Cost., poiché la disposizione vigente, applicabile in materia di recesso dei soci di banche popolari e di limitazione al rimborso delle loro azioni, sarebbe stata adottata secondo l’ordinario procedimento di legislazione delegata ex art. 76 Cost.
L’eccezione non è fondata.
Il rilievo dell’interveniente è corretto nel suo presupposto, perché la norma che, tra le molteplici contenute nel censurato art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, è pregiudiziale alla definizione della controversia, fungendo da base legislativa del provvedimento impugnato, è quella che prevede limiti del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso di cui all’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015. Se nel giudizio a quo fosse applicabile una norma analoga ma contenuta in una disposizione diversa, successivamente introdotta con un decreto legislativo, per la cui adozione non valgono i requisiti di necessità e urgenza propri del decreto-legge, la censura ex art. 77, secondo comma, Cost. non sarebbe rilevante.
Tuttavia, come visto, il «9° aggiornamento del 9 giugno 2015» alla circ. Banca d’Italia n. 285 del 2013 è stato pubblicato l’11 giugno 2015 nel «Bollettino di Vigilanza n. 6, giugno 2015». La fonte primaria del provvedimento impugnato nel giudizio a quo deve essere individuata dunque, secondo il principio tempus regit actum e in conformità al suo stesso tenore letterale («Il presente aggiornamento introduce nella parte Terza della Circolare n. 285 il Capitolo 4 “Banche in forma cooperativa” […] Il Capitolo dà attuazione alla riforma delle banche popolari introdotta con le modifiche al Capo V, Sezione I del TUB apportate dal decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito con legge 24 marzo 2015, n. 33 […]»), nella disposizione in vigore al momento della sua emanazione, e dunque nell’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, giacché nel momento in cui l’atto è venuto a esistenza il potere esercitato dall’autorità amministrativa non poteva che fondarsi su tale base legislativa.
Nel giudizio a quo, pertanto, si deve fare applicazione della disposizione censurata, con la conseguenza che le questioni continuano a essere rilevanti.
4.2.– Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. non è fondata.
Con la sentenza n. 287 del 2016, questa Corte ha dichiarato non fondata un’identica questione promossa in via principale dalla Regione Lombardia, che aveva impugnato l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 anche per la mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, sulla base di argomentazioni in gran parte analoghe a quelle offerte in questa sede. Nella sentenza si ricorda innanzitutto che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «[…] il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge va limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione (ex plurimis, sentenze n. 133 del 2016, n. 10 del 2015, n. 22 del 2012, n. 93 del 2011, n. 355 e n. 83 del 2010, n. 128 del 2008, n. 171 del 2007)». E si prosegue affermando che le ragioni giustificative esposte nel preambolo del d.l. n. 3 del 2015 (dove si fa riferimento alla straordinaria necessità e urgenza di avviare il processo di adeguamento del sistema bancario agli indirizzi europei) e le diffuse considerazioni svolte nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione (dove sono menzionate anche le forti sollecitazioni del Fondo monetario internazionale e dell’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica a trasformare le banche popolari maggiori in società per azioni), «[…] che collegano le esigenze di rafforzamento patrimoniale, di competitività e di sicurezza delle banche popolari, sia all’adeguamento del sistema bancario nazionale a indirizzi europei e di organismi internazionali, sia ai noti e deleteri effetti sull’erogazione creditizia della crisi economica e finanziaria in atto, escludono che si sia in presenza di evidente carenza del requisito della straordinaria necessità e urgenza di provvedere», così come «escludono che la valutazione del requisito sia affetta da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà».
Anche per quanto riguarda la natura di riforma di sistema della normativa impugnata, che ne impedirebbe l’adozione con decreto-legge, si devono richiamare le conclusioni della citata sentenza n. 287 del 2016, secondo cui la normativa in esame «non presenta una portata così ampia da caratterizzarsi come vera e propria riforma del sistema bancario», poiché, «[p]er quanto essa incida significativamente su un particolare tipo di azienda di credito, resta pur sempre un intervento settoriale e specifico, non assimilabile dunque a un atto definibile come riforma di sistema».
Secondo il rimettente, inoltre, la sussistenza dei presupposti della decretazione d’urgenza sarebbe da escludere in quanto l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 contiene norme non auto-applicative, come il nuovo comma 2-ter dell’art. 28 t.u. bancario, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), e il nuovo comma 2-quater dell’art. 29 t.u. bancario, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), la cui attuazione è affidata alla Banca d’Italia.
Nemmeno questo rilievo può essere accolto. La presenza, nel contesto della normativa introdotta, di talune disposizioni non auto-applicative, che richiedono per tale motivo norme di attuazione, non fa venir meno l’urgenza di avviare ex lege il processo di trasformazione delle banche popolari di maggiori dimensioni o di stabilire la regola generale sulla possibilità di prevedere limiti al rimborso delle azioni in caso di recesso del socio, con disposizioni destinate quindi a operare immediatamente.
Alcune parti private (appellanti nel processo principale) offrono a sostegno della censura l’ulteriore argomento della diversità e dell’eterogeneità degli ambiti materiali di intervento del d.l. n. 3 del 2015, al cui interno si potrebbero rinvenire norme dal più disparato contenuto. Anche sul punto specifico questa Corte ha già avuto modo di osservare che «[l]’eterogeneità non sussiste, poiché tutte le misure contemplate nella normativa oggetto di impugnazione possono essere ricondotte al comune obiettivo di sostegno dei finanziamenti alle imprese, ostacolati dalla straordinarietà della crisi economica e finanziaria in atto» (sentenza n. 287 del 2016).
Non essendovi ragioni per discostarsi da tale recente pronuncia, per questo come per gli altri aspetti esaminati, si deve concludere per l’infondatezza della questione.
5.– In secondo luogo, il rimettente dubita della legittimità dell’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 «nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo» per il ritardo nel rimborso.
Sotto questo profilo, la norma violerebbe gli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il rimettente osserva che il risultato finale della duplice previsione normativa – dell’obbligo di trasformazione delle banche popolari da società cooperative in società per azioni nel caso di superamento della soglia di otto miliardi di attivo (ove non si opti per la riduzione dell’attivo o per la liquidazione della società) e della possibilità di escludere in tutto o in parte o di rinviare indefinitamente e senza un «corrispettivo compensatorio» il diritto del socio recedente al rimborso delle azioni – finirebbe «per tradursi in una sorta di esproprio senza indennizzo (o con indennizzo ingiustificatamente ridotto) della quota societaria».
Il legislatore non avrebbe operato un corretto bilanciamento, ispirato al «principio del minimo mezzo», tra gli opposti interessi di rilievo costituzionale in gioco, che si identificherebbero, da un lato, nel diritto al rispetto dei propri «beni», correlato alla tutela della proprietà nell’ampia accezione accolta dalla Corte EDU, e, dall’altro lato, nell’interesse generale alla sana e prudente gestione dell’impresa bancaria, correlato alla tutela del credito e del risparmio.
L’intervento legislativo, imponendo la trasformazione del tipo societario della banca (sia pure con la previsione di obblighi alternativi), consentirebbe di privare il socio di una banca popolare di uno status che garantisce specifici diritti “amministrativi”, come quello al voto “capitario” nelle assemblee, modificando in senso peggiorativo il contenuto dei poteri inerenti alla partecipazione sociale, senza peraltro assicurare il rimborso delle azioni qualora il socio ritenesse di non accettare lo status conseguente alla trasformazione della banca popolare in società per azioni. Si produrrebbe così un effetto espropriativo senza indennizzo.
Pur dando atto che in materia sussiste la preminente esigenza di tutelare l’interesse pubblico di rilievo costituzionale e comunitario – enunciato dalla norma censurata con il richiamo alla necessità di «[…] assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca» – il giudice a quo lamenta che il contrapposto interesse del socio recedente al rimborso delle azioni sarebbe irragionevolmente sacrificato al di là dei limiti di quanto strettamente necessario per assicurare un’adeguata tutela dell’interesse pubblico.
I sospetti di irragionevolezza della norma censurata per violazione del «principio del minimo mezzo» nel giudizio di bilanciamento degli interessi in gioco sarebbero confermati dal fatto che il diritto al rimborso è sacrificato dal legislatore anche per il caso in cui la banca fosse costantemente incapace di ripristinare il patrimonio di qualità primaria senza ricorrere alle quote non rimborsate, e continuasse di conseguenza a operare nel mercato solo grazie al capitale conferito dagli ex soci.
Pertanto, l’esigenza di assicurare la sana e prudente gestione dell’attività bancaria potrebbe giustificare non già la «perdita definitiva» del diritto al rimborso, consentita dalla norma censurata, bensì soltanto il «suo differimento nel tempo (con la previsione di un termine massimo prestabilito, rimessa alla discrezionalità del legislatore) e salva la corresponsione di un interesse corrispettivo (da parametrare al tasso di riferimento della BCE […] attualmente prossimo allo 0, purché comunque positivo)», diretto a evitare che il minor sacrificio imposto al socio si risolva comunque in una forma di espropriazione senza indennizzo.
L’esclusione ex lege del diritto al rimborso non troverebbe «fondamento e copertura» nemmeno nel diritto dell’Unione europea in tema di requisiti prudenziali per gli enti creditizi. Secondo il rimettente, la norma di settore che si occupa dei limiti al rimborso degli «strumenti di capitale» emessi dagli enti creditizi è l’art. 10, paragrafo 2, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione, del 7 gennaio 2014, che integra il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti. Tale disposizione, nello stabilire che «[l]a capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile […]», non imporrebbe l’obbligo incondizionato di escludere il diritto al rimborso, e consentirebbe invece di optare tra il rinvio e la limitazione dell’importo rimborsabile. A fronte di più opzioni «comunitariamente consentite», il legislatore nazionale avrebbe pertanto l’obbligo di scegliere quella che meglio assicura il rispetto dei principi costituzionali, da individuare, come detto, nel differimento del rimborso «ad un tempo dato», con la corresponsione di un interesse corrispettivo per il ritardo.
5.1.– Devono essere preliminarmente considerate le eccezioni formulate dalle difese del Presidente del Consiglio dei ministri e della Banca d’Italia.
5.1.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che il giudice a quo ha dedotto la violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, e ha identificato la norma censurata nel «nuovo testo dell’art. 29 co. 2 ter del D.lgs. 1 settembre 1993 n. 385» sull’erroneo presupposto che esso disciplini la limitazione del diritto al rimborso del socio recedente, mentre tale norma, introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015, contiene la diversa previsione dei poteri della Banca d’Italia nel caso in cui non sia deliberata la trasformazione della banca popolare con attivo “sopra soglia”. Chiede pertanto a questa Corte di valutare se l’errata identificazione della norma censurata si possa tradurre nell’inammissibilità delle questioni.
Il rilievo non è corretto. Il rimettente non identifica la norma censurata nell’art. 29, comma 2-ter, del t.u. bancario, ma richiama la disposizione inserita dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015 per indicare la fattispecie della trasformazione delle banche popolari “sopra soglia”, da essa regolata, in quanto in tale ipotesi la limitazione del diritto al rimborso del socio recedente prevista dall’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, inserito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, è a suo giudizio sospetta di illegittimità.
5.1.2.– La Banca d’Italia eccepisce a sua volta la manifesta inammissibilità delle questioni in quanto con esse si chiederebbe una pronuncia manipolativa a contenuto non costituzionalmente obbligato.
Nemmeno questa eccezione è fondata. Come visto, il rimettente dubita della legittimità dell’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 (censura da circoscrivere al comma 1, lettera a, della disposizione) «nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo».
L’espressione «nella parte in cui prevede […] e non, invece, […]» deve essere letta come esplicativa, non già dell’intenzione di richiedere un intervento sostitutivo, bensì delle ragioni poste a fondamento delle censure desunte dalla motivazione. Non è chiesta dunque una pronuncia manipolativa di tipo sostitutivo, ma una pronuncia caducatoria della norma nella parte in cui essa prevede la possibilità dell’esclusione (cioè della limitazione integrale e senza limiti di tempo) del diritto al rimborso anche nel caso di recesso esercitato dal socio a seguito della trasformazione delle banche popolari sopra soglia, esclusione che comporterebbe il totale sacrificio dell’interesse del socio recedente, evitabile invece, a giudizio del rimettente, con la soluzione legislativa ipotizzata. Depone nel senso indicato anche il dato letterale del petitum dell’ordinanza di rimessione, che, parlando di «limiti temporali predeterminati dalla legge» e di «previsione legale di un interesse corrispettivo», esclude l’intenzione del giudice a quo di chiedere a questa Corte di sostituirsi al legislatore.
5.2.– Passando al merito delle questioni sollevate, è necessario individuare preliminarmente il senso della norma censurata. A tale fine occorre fare riferimento alla normativa dell’Unione europea sui requisiti prudenziali delle banche, costituita dal regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012, nonché dal regolamento delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014 che integra il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti.
Tale normativa pone al centro del sistema della disciplina prudenziale i «fondi propri» quali strumenti di assorbimento delle perdite potenziali. I requisiti patrimoniali minimi di ciascun ente creditizio sono fissati da coefficienti che esprimono il rapporto percentuale tra i fondi propri delle banche e l’ammontare complessivo dell’esposizione al rischio. L’insufficienza, a questi fini, dei fondi propri impone all’ente creditizio interventi di ricapitalizzazione in tempi brevi, pena il verificarsi dei presupposti per la sua risoluzione. È quindi particolarmente importante che le banche, quale che sia il modello organizzativo adottato, possano rispondere prontamente a esigenze di rafforzamento patrimoniale e di capitalizzazione, e che la normativa assicuri questa possibilità.
Secondo il regolamento (UE) n. 575/2013, il «capitale» è un elemento dei fondi propri che tutti gli enti creditizi devono possedere nel rispetto dei requisiti minimi, a fini prudenziali. Esso è suddiviso nelle due categorie del «capitale di classe 1» e del «capitale di classe 2», al cui interno operano ulteriori suddivisioni. In particolare, in base all’art. 25 del regolamento (UE) n. 575/2013, il capitale di classe 1 è composto dal «capitale primario di classe 1» e dal «capitale aggiuntivo di classe 1». Gli elementi del capitale primario di classe 1 sono definiti dall’art. 26 dello stesso regolamento, che alla lettera a) del paragrafo 1 contempla gli «[…] strumenti di capitale, purché siano soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 28 o, ove applicabile, all’articolo 29».
Ai sensi del successivo art. 29, gli strumenti di capitale emessi da banche aventi la forma di società mutue e cooperative (quali sono le banche popolari), enti di risparmio ed enti analoghi sono considerati strumenti del capitale primario di classe 1 se sono soddisfatte, oltre a tutte le condizioni di cui all’art. 28 (previste per le altre banche), anche le ulteriori condizioni così descritte al paragrafo 2: «[…] a) ad eccezione dei casi di divieto imposto dalla normativa nazionale applicabile, l’ente può rifiutare il rimborso degli strumenti; b) se la normativa nazionale applicabile vieta all’ente di rifiutare il rimborso degli strumenti, le disposizioni che governano gli strumenti autorizzano l’ente a limitare il rimborso […]».
Se tali condizioni non sono soddisfatte, le azioni di una società esercente l’attività bancaria, che costituiscono i tipici «strumenti di capitale» della società stessa, non possono essere computate nel capitale primario di classe 1 ai fini del rispetto dei requisiti patrimoniali minimi. È chiara in questo senso la previsione dell’art. 30 del regolamento (UE) n. 575/2013, secondo cui «[q]uando le condizioni di cui all’articolo 28 o, ove applicabile, all’articolo 29 non sono più soddisfatte, […] lo strumento in questione cessa immediatamente di essere considerato strumento del capitale primario di classe 1» e «i sovrapprezzi di emissione relativi a tale strumento cessano immediatamente di essere considerati elementi del capitale primario di classe 1».
Nella materia rilevano anche gli artt. 77 e 78 del regolamento (UE) n. 575/2013, che subordinano comunque il riacquisto integrale o parziale ovvero il rimborso, anche anticipato, degli strumenti di capitale primario di classe 1, di capitale aggiuntivo di classe 1 e di capitale di classe 2, all’autorizzazione dell’autorità di vigilanza competente, che accerta il rispetto di determinate condizioni per ridurre i fondi propri. L’art. 78, paragrafo 3, stabilisce poi che, se il rifiuto di rimborso degli strumenti di capitale primario di classe 1 è proibito dalla norma nazionale applicabile, l’autorità competente può derogare a tali condizioni purché «l’autorità competente imponga all’ente, su una base appropriata, di limitare il rimborso di tali strumenti».
5.2.1.– Nella disciplina del codice civile, il recesso del socio determina lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al recedente e fa sorgere a suo favore un credito nei confronti della società avente ad oggetto il valore della partecipazione (art. 2437-ter, primo comma, cod. civ. per la società per azioni; art. 2473, terzo comma, cod. civ. per la società a responsabilità limitata; art. 2519 cod. civ. per la società cooperativa, che richiama in generale le disposizioni sulla società per azioni). I procedimenti di liquidazione del valore della partecipazione mutano a seconda del tipo sociale ma vale per tutte le società il divieto di rifiutare unilateralmente il rimborso. Il rifiuto equivarrebbe all’inadempimento dell’obbligazione restitutoria derivante dal recesso.
La normativa italiana vieta dunque a una banca cooperativa di rifiutare il rimborso delle azioni in caso di recesso del socio. Di conseguenza, non ricorrendo nella normativa nazionale la condizione (la previsione del rifiuto del rimborso) indicata dall’art 29, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (UE) n. 575/2013, ai fini prudenziali perseguiti dalla normativa europea deve essere soddisfatta l’alternativa condizione prevista dalla lettera b), del citato art. 29, paragrafo 2, ossia che «le disposizioni che governano gli strumenti autorizzano l’ente a limitare il rimborso».
Nel dettare le «disposizioni che governano gli strumenti», tuttavia, il legislatore nazionale non è libero di conformare discrezionalmente i limiti del rimborso, poiché la materia è disciplinata inderogabilmente dalle norme tecniche del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, adottato al fine di integrare le previsioni del regolamento (UE) n. 575/2013, ai sensi dell’art. 29, paragrafo 6, di quest’ultimo. Ne è conferma la previsione dell’art. 11, paragrafo 2, del citato regolamento delegato, secondo cui, «[s]e gli strumenti sono regolati dalla normativa nazionale […], perché gli strumenti abbiano i requisiti per essere considerati capitale primario di classe 1 la legislazione deve consentire all’ente di limitare il rimborso come previsto dall’articolo 10, paragrafi da 1 a 3».
5.2.2.– Più precisamente, l’art. 10, paragrafo 2, del regolamento delegato prevede che «la capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile, anche per un periodo illimitato», e aggiunge che «[l]’ente è in grado di rinviare il rimborso o di limitare l’importo rimborsabile per un periodo illimitato in conformità al paragrafo 3».
L’espressione «sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile» deve essere interpretata nel senso del valore coordinativo-aggiuntivo, e non disgiuntivo, della coppia «sia […] che», come è confermato – in maniera non equivocabile – dalla versione inglese del testo normativo: «[t]he ability of the institution to limit the redemption under the provisions governing capital instruments as referred to in Article 29(2)(b) and 78(3) of Regulation (EU) No 575/2013 shall encompass both the right to defer the redemption and to limit the amount to be redeemed». E come è ulteriormente confermato dal Considerando n. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, dove si legge che «[…] laddove il rifiuto al rimborso degli strumenti sia proibito ai sensi della normativa nazionale applicabile per queste tipologie di enti [id est per le società mutue, società cooperative, enti di risparmio o enti analoghi], è essenziale che le disposizioni che regolano gli strumenti conferiscano all’ente la capacità di rinviare il loro rimborso e limitare l’importo da rimborsare».
Quanto appena osservato sul significato, secondo questa Corte inequivoco, della citata disciplina europea porta a escludere che ricorrano i presupposti per il rinvio pregiudiziale che alcune parti hanno chiesto, in via subordinata, di proporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130. Il rinvio, infatti, «[…] non è necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente […] e si impone soltanto quando occorra risolvere un dubbio interpretativo (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza 27 marzo 1963, in causa C-28-30/62, Da Costa; Corte costituzionale, ordinanza n. 103 del 2008)» (ex plurimis, ordinanza n. 2 del 2017).
5.2.3.– Il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo per sollevare le questioni, prospettando l’esistenza di una fattispecie espropriativa senza indennizzo, è dunque errato: le regole prudenziali dell’Unione europea non lasciano al legislatore nazionale alcuna facoltà di scelta tra le due presunte “opzioni” della limitazione quantitativa del rimborso e del suo rinvio, ma gli impongono di attribuire all’ente creditizio la «capacità» di adottare sia l’una che l’altra misura come condizione perché le azioni possano essere considerate strumenti del capitale primario di classe 1.
È opportuno precisare che l’unica “opzione” concessa dalla normativa europea al legislatore nazionale si colloca su un altro piano e riguarda la scelta, da operare nell’ambito dell’alternativa prevista dall’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013, tra il rifiuto del rimborso delle azioni e la limitazione al rimborso stesso. Rispetto a tale opzione, la norma censurata si conforma in effetti, secondo questa Corte, al criterio del minimo mezzo – non prevedendo la possibilità del rifiuto e invece – introducendo lo strumento della limitazione del rimborso sulla base della situazione prudenziale della banca.
Al legislatore nazionale non può dunque essere addebitato di avere illegittimamente sacrificato l’interesse del socio recedente, «andando oltre a quanto strettamente necessario per tutelare l’interesse pubblico alla sana e prudente gestione dell’attività bancaria» nel bilanciare gli opposti interessi in gioco.
Una normativa nazionale che, allo scopo di assicurare la computabilità delle azioni nel capitale primario di classe 1 delle banche popolari che si trasformino in società per azioni, consentisse alle banche stesse, come auspica il rimettente, solo di rinviare a tempo determinato il rimborso delle loro azioni in caso di recesso, assegnerebbe alle azioni di quelle banche un contenuto difforme da quello minimo definito a livello europeo ai fini della loro computabilità nella corrispondente classe di fondi propri. Non solo: la previsione di interessi compensativi del ritardo, anch’essa auspicata dal giudice a quo, imporrebbe addirittura di considerare le stesse azioni come strumenti di debito anziché di capitale, secondo la disciplina contabile sulla classificazione del patrimonio netto richiamata dall’art. 28, paragrafo 1, lettera c), punto ii), del regolamento (UE) n. 575/2013, con la conseguenza di escluderne radicalmente la computabilità dal capitale.
In ogni caso, il divieto di computo opererebbe anche se la limitazione del rimborso fosse legislativamente circoscritta al rinvio puro e semplice, senza predeterminazione di durata e di misure compensative, poiché tale soluzione escluderebbe comunque la «capacità» della banca di limitare il rimborso in altro modo, mediante una riduzione del quantum, come prescrivono le regole prudenziali europee.
Si deve quindi concludere che l’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario introdotto dalla disposizione censurata impone la limitazione, nei modi indicati, del diritto al rimborso delle azioni per assicurare il rispetto dei requisiti prudenziali applicabili alle banche popolari, ovvero, come si esprime la stessa disposizione, per assicurare «la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca» in conformità con la normativa europea in materia, mentre la previsione che, secondo il rimettente, sarebbe idonea a evitare l’effetto espropriativo denunciato, bilanciando a suo dire correttamente gli interessi in gioco, si porrebbe in contrasto con quella normativa, o, meglio, si presenterebbe contraria alla sua propria ratio, giacché finirebbe per impedire – anziché consentire, secondo la sua funzione – la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca.
5.2.4.– Alcune parti private (appellanti nel giudizio a quo) osservano che i regolamenti comunitari di settore avrebbero natura auto-applicativa – ciò che escluderebbe (e anzi renderebbe incompatibile) un intervento normativo interno di attuazione – e si limiterebbero a dettare una disciplina di carattere generale in tema di requisiti di capitale primario e di possibili limitazioni al diritto di rimborso in caso di recesso, valida per tutte le banche. Si tratterebbe dunque di una disciplina destinata a trovare applicazione in situazioni “ordinarie”, che non considera – né tantomeno impone – la trasformazione delle banche popolari in società per azioni al superamento di una certa soglia di attivo e la correlata limitazione del diritto di recesso dei soci. La norma censurata, quindi, non potrebbe trovare giustificazione nella necessità di adeguare l’ordinamento interno alla disciplina comunitaria.
Il rilievo non è fondato.
Per un verso si deve osservare che l’effetto vincolante delle previsioni regolamentari europee in tema di rimborso delle azioni si realizza nello stabilire che gli ordinamenti degli Stati membri devono attribuire alle banche la capacità sia di limitare che di rinviare il rimborso, come condizione perché gli strumenti di capitale delle banche possano essere computati nel capitale primario di classe 1 ai fini del rispetto dei requisiti del patrimonio di vigilanza. Sicché, per consentire agli enti creditizi di rispettare i requisiti prudenziali, il legislatore nazionale era tenuto ad adottare disposizioni attributive alle banche stesse del potere di limitare il rimborso previsto dalla normativa europea.
Per altro verso, è vero che la citata normativa ha natura generale, operando in tutte le ipotesi di rimborso degli strumenti di capitale delle banche cooperative nonché delle mutue bancarie, degli enti di risparmio e di entità analoghe, ex art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013, ma tale sua caratteristica non ne esclude, bensì ne conferma l’applicabilità anche ai casi di recesso conseguenti alla trasformazione delle banche popolari “sopra soglia”.
In questi casi le esigenze sottese alle regole prudenziali europee si impongono addirittura con maggiore forza per il pericolo che il recesso dei soci a seguito della trasformazione del tipo sociale assuma estese dimensioni ed esponga le banche al rischio di esborsi a loro volta di eccezionale consistenza. Non solo, dunque, non sono ravvisabili ragioni sistematiche per derogare, per i rimborsi conseguenti alla trasformazione prevista dall’art. 29, comma 2-ter, del t.u. bancario, alle regole generali, ma, al contrario, è evidente che l’esclusione di questa ipotesi dall’ambito di applicazione di tali regole condurrebbe all’irragionevole risultato di esonerare le banche popolari dal rispetto dei requisiti prudenziali proprio nell’evenienza più rischiosa, di un prevedibile maggiore impatto dei rimborsi sul loro capitale.
5.2.5.– In conclusione, non c’è dubbio che l’attuazione delle regole europee nell’ordinamento interno è avvenuta in piena conformità ad esse, e soprattutto che, quanto alla definizione dei limiti da apporre al rimborso delle azioni nel caso di recesso per trasformazione della società, il legislatore non gode di alcuna discrezionalità, essendo vincolato a prevedere che alla banca che intenda computare le proprie azioni nel capitale primario di classe 1 devono essere attribuite entrambe le facoltà, di rinviare il rimborso per un periodo illimitato e di limitarne in tutto o in parte l’importo.
5.3.– Ciò considerato in linea generale sulla portata della normativa europea in tema di computabilità degli strumenti di capitale e sulla sua attuazione nell’ordinamento nazionale, si può passare a considerare il profilo della censura che mette in relazione la limitazione del rimborso alla trasformazione delle banche popolari ex art. 29, comma 2-ter, del t.u. bancario, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015.
Si deve preliminarmente osservare che il rimettente non avanza specifiche censure sulla disposizione che prevede l’obbligo di trasformazione delle banche popolari nel caso di superamento della soglia di otto miliardi di attivo – ritiene anzi manifestamente infondato il dubbio di costituzionalità sollevato sul punto dai ricorrenti nel giudizio a quo – e si limita a considerare la disposizione in quanto presupposto di applicabilità, insieme all’esercizio del recesso, del regime di rimborso delle azioni censurato. Ciò nondimeno, a suo giudizio il sacrificio del socio recedente assumerebbe in questo caso un carattere peculiare – essendo la modifica del contenuto dei diritti connessi alla qualità di socio delle banche popolari “sopra soglia” in una certa misura imposta dalla legge (in alternativa ad altre opzioni, come visto) – che dovrebbe condurre a ritenere il regime generale non applicabile alla fattispecie.
L’assunto non è condivisibile: una volta accertato che il legislatore è vincolato nella definizione delle condizioni poste dalla normativa europea in funzione della computabilità degli strumenti di capitale, non vi sono ragioni per ritenere che esse possano essere derogate, in alcun caso. Tantomeno in fattispecie nelle quali, come già osservato, le esigenze sottese alle regole prudenziali si presentano particolarmente pressanti. Sicché, come in tutte le altre ipotesi di recesso, anche in questo caso il limite opera sempre come mezzo inderogabilmente previsto dalla disciplina prudenziale ai fini del rispetto dei requisiti patrimoniali della banca, senza che ad esso possa essere attribuita alcuna diversa valenza che ne comporti autonomi profili di illegittimità costituzionale, diversi da quelli che si sono sopra già ritenuti infondati.
5.4.– Le considerazioni fin qui svolte consentono di ritenere errato, per quanto ancora rilevasse, anche l’altro presupposto dal quale muove il rimettente, che equipara l’apposizione di un limite al rimborso all’esclusione del diritto, e quindi a una fattispecie espropriativa senza indennizzo. Il giudice a quo ritiene infatti che la facoltà di limitare o di differire il rimborso senza limiti di tempo si traduca nella «esclusione» del diritto, vale a dire nella sua «perdita definitiva», e determini inoltre l’inaccettabile conseguenza di permettere ai soci rimanenti di finanziare la continuazione dell’attività d’impresa con le risorse patrimoniali dei soci che hanno esercitato il recesso.
Al riguardo si deve osservare innanzitutto che, configurata in questi termini, la facoltà della banca di limitare il rimborso non si differenzierebbe dalla facoltà di rifiutare senz’altro il rimborso, alternativamente offerta, come visto, dalla disciplina comunitaria – art. 29, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (UE) n. 575/2013 – e scartata dal legislatore nazionale.
La soluzione adottata nella legislazione nazionale può, e deve, essere invece diversamente ricostruita con un’interpretazione della disciplina censurata che valorizzi l’inscindibile collegamento da essa operato – e che il giudice a quo trascura di considerare – tra la facoltà della banca di limitare il rimborso delle azioni e la sua situazione prudenziale. Tale collegamento è imposto in primo luogo dalla normativa europea, che all’art. 10, paragrafo 3, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 prevede che «[l]’entità dei limiti al rimborso previsti dalle disposizioni che regolano gli strumenti è determinata dall’ente sulla base della sua situazione prudenziale in qualsiasi momento, considerando in particolare i seguenti elementi: a) la situazione complessiva dell’ente in termini di liquidità e di solvibilità; b) l’importo del capitale primario di classe 1 e del capitale totale rispetto all’importo complessivo dell’esposizione […]». Esso è poi recepito, negli stessi termini, nella determinazione della Banca d’Italia, ove si precisa che «[l]’organo con funzione di supervisione strategica assume le proprie determinazioni sull’estensione del rinvio e sulla misura della limitazione del rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale tenendo conto della situazione prudenziale della banca. In particolare, ai fini della decisione l’organo valuta: – la complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità della banca o del gruppo bancario; – l’importo del capitale primario di classe 1 […]» (Parte Terza, Capitolo 4, Sezione III, punto 1, della circ. Banca d’Italia n. 285 del 2013, come modificata dal «9° aggiornamento del 9 giugno 2015»).
Letta sistematicamente e nella sua interezza, la disposizione prevede dunque sì che il rimborso possa essere limitato dalla banca (alla quale le disposizioni nazionali devono garantire tale facoltà, con l’ampiezza descritta), ma solo se, nella misura e nello stretto tempo in cui ciò sia necessario per soddisfare le esigenze prudenziali. Essa impone così agli amministratori il dovere di verificare periodicamente la situazione prudenziale della banca e la permanenza delle condizioni che hanno imposto l’adozione delle misure limitative del rimborso e di provvedere ove esse siano venute meno. Più precisamente, nel caso di rinvio del rimborso, una volta che si sia accertato il venire meno degli elementi che hanno giustificato il differimento, il credito del recedente si deve considerare esigibile. La limitazione quantitativa, invece, deve condurre alla conservazione dei titoli non rimborsati in capo al recedente, che si vedrà in questo modo reintegrato nel suo status e nel valore patrimoniale della partecipazione.
L’effetto espropriativo paventato dal giudice a quo è così scongiurato, dal momento che il socio recedente non subisce alcuna perdita definitiva del valore delle azioni di cui sia limitato il rimborso. A ciò si aggiunga che la previsione legislativa dell’obbligo dell’organo di gestione strategica di tenere conto della situazione prudenziale della banca nell’adozione delle scelte di limitazione del rimborso del socio recedente comporta che la sua scelta debba essere motivata con riferimento alle descritte esigenze, con la conseguenza che l’operato della banca potrà essere sindacato in sede giudiziaria a tutela della posizione del socio.
Soffermandosi sull’ipotesi di un’impresa bancaria che continuasse a operare solo grazie al computo nel patrimonio di vigilanza delle azioni dei soci recedenti, il rimettente non considera che, in un caso di questo tipo, l’alternativa alla prospettata soluzione comporterebbe per gli stessi soci un sacrificio uguale se non probabilmente più grave. A fronte di un capitale di vigilanza insufficiente, infatti, troverebbero applicazione le misure di risoluzione (e, in caso di crisi non risolvibile, di liquidazione) della banca previste dalla direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e che modifica la direttiva 82/891/CEE del Consiglio, e le direttive 2001/24/CE, 2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e 2013/36/UE e i regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 648/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio. Queste regole, caratterizzate dal cosiddetto principio del bail-in, prevedono che la crisi di una banca debba essere risolta innanzitutto attraverso l’utilizzo di risorse interne alla stessa in funzione di risanamento delle perdite, a partire da quelle di pertinenza dei soci, che sarebbero i primi a rimanere esposti alle perdite: con la conseguenza che il diritto al rimborso sarebbe comunque soggetto a rilevanti, se non maggiori, limitazioni.
5.5.– Sulla base di quanto esposto con riferimento alle censure esaminate fin qui, è agevole escludere anche l’incompatibilità della norma denunciata con l’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU. La disciplina contestata rispetta infatti le condizioni alle quali, in base alla giurisprudenza della Corte EDU, l’ingerenza di un’autorità pubblica nel pacifico godimento di un bene è giudicata compatibile con la tutela convenzionale della proprietà, ossia che essa sia legittima, necessaria per la tutela di un interesse generale e proporzionata (ex plurimis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 17 novembre 2015, Preite contro Italia; sentenza 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; sentenza 23 settembre 1982, Sporrong e Lönnroth contro Svezia).
In primo luogo, essa risulta legittima: è infatti conforme alle condizioni richieste inderogabilmente dalle regole prudenziali europee, che escludono fra l’altro, nello specifico, qualsivoglia discrezionalità del legislatore nazionale nella scelta delle misure appropriate per assicurare il loro rispetto. In secondo luogo, per le ragioni ampiamente esposte sopra, la disciplina appare necessaria al perseguimento dei superiori interessi pubblici alla stabilità del sistema bancario e finanziario e tanto più appare tale nel caso delle banche popolari nel quale il rischio di recessi in grande numero e di rimborsi conseguentemente di ampie dimensioni può mettere gravemente a repentaglio la stabilità delle banche interessate e, con esse, dell’intero sistema. La disposizione censurata risulta inoltre proporzionata al fine da realizzare, bilanciando in maniera non irragionevole le esigenze dell’interesse generale della comunità e la tutela dei diritti fondamentali della persona, e ciò senza oneri individuali eccessivi (ex plurimis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 gennaio 2015, Vécony contro Ungheria; sentenza 30 giugno 2005, Jahn e altri contro Germania; sentenza 5 gennaio 2000, Beyeler contro Italia; sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito; sentenza 21 febbraio 1986, James e altri contro Regno Unito; sentenza 23 settembre 1982, Sporrong e Lönnroth contro Svezia), stante, come visto, l’obbligo degli enti creditizi di verificare costantemente la permanenza delle condizioni che richiedono l’intervento prudenziale e il loro vincolo a porre termine alle misure limitative nel momento in cui le esigenze che le hanno determinate cessino. Si può ricordare come, nella specifica materia bancaria, la Corte EDU abbia già avuto modo di affermare, ad esempio, che non è manifestamente priva di ragionevole fondamento – e quindi non contrasta con l’art. 1 del protocollo addizionale, nel cui ambito di protezione ricadono anche le azioni di società (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 25 luglio 2002, Sovtransavto Holding contro Ucraina) – una misura che, allo scopo di proteggere un settore economico chiave come quello finanziario, nazionalizza una banca in crisi senza prevedere un indennizzo per gli azionisti (Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione 10 luglio 2012, Grainger e altri contro Regno Unito).
In conclusione, nemmeno le questioni sollevate in riferimento agli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, sono fondate.
5.6.– Per ragioni non diverse da quelle appena esposte, questa Corte ritiene che non sussistano i presupposti per un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla validità della citata normativa europea ai sensi dell’art. 267, terzo comma, TFUE, come richiesto, in via subordinata alle altre conclusioni, dai soci della Banca Popolare di Sondrio e della Banca Popolare di Milano costituiti in giudizio, per supposta violazione dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE).
Misure comportanti sacrifici per i diritti degli azionisti e dei creditori subordinati di società bancarie non determinano una ingerenza sproporzionata e intollerabile nel diritto di proprietà riconosciuto dall’art. 17 CDFUE, quando esse perseguono l’obiettivo della stabilità finanziaria e non possono arrecare ai soggetti sacrificati un pregiudizio maggiore di quello che essi subirebbero in caso di procedura di fallimento conseguente alla mancata adozione delle misure stesse (nel senso della prevalenza delle ragioni di stabilità finanziaria sul diritto di proprietà degli azionisti e dei creditori subordinati delle banche, possono intendersi, sia pure con riferimento a situazioni diverse da quella in esame, Corte di giustizia UE, sentenza 8 novembre 2016, Grande sezione, in causa C-41/15, Gerard Dowling e altri, in tema di ricapitalizzazione di una banca in crisi mediante la sottoscrizione di nuove azioni da parte dello Stato, con sacrificio del diritto di opzione dei soci; nonché sentenza 20 settembre 2016, Grande sezione, in cause riunite da C-8/15 P a C-10/15 P, Ledra Advertising Ltd e altri, in tema di azzeramento e conversione delle passività ai fini della ristrutturazione e risoluzione delle banche cipriote).
Argomenti del tutto simili possono essere riferiti all’ipotesi della limitazione al rimborso anticipato delle azioni, in quanto anche in questo caso il sacrificio è imposto, come visto, allo scopo di consentire il rispetto dei requisiti patrimoniali di vigilanza cui è sotteso l’interesse pubblico alla stabilità del sistema bancario e finanziario nel suo complesso, ma anche l’obiettivo di evitare, a tutela di investitori e depositanti, che la banca possa cadere in una procedura di risoluzione.
6.– Infine, il rimettente dubita della legittimità della norma censurata «nella parte in cui, comunque, attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità d[ella] esclusione» del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso a seguito di trasformazione della società «anche in deroga a norme di legge».
A suo avviso, l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, nella parte in cui attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità dell’esclusione del diritto al rimborso, si porrebbe in contrasto con gli artt. 1, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost.
Il dubbio di legittimità costituzionale investirebbe, in primo luogo, l’attribuzione stessa di un potere di delegificazione all’Istituto di vigilanza, ovvero a un soggetto estraneo al circuito politico dei rapporti Parlamento-Governo, e dunque politicamente irresponsabile. Poiché inoltre il potere normativo in esame riguarderebbe materie non connotate da particolare «tecnicità o settorialità», difetterebbero le ragioni tradizionalmente invocate a sostegno del potere regolamentare delle Autorità indipendenti.
In secondo luogo, si tratterebbe di un potere di delegificazione conferito «in bianco», in quanto il legislatore non avrebbe dettato alcuna norma generale regolatrice della materia, e neppure avrebbe individuato le norme primarie di cui sarebbe consentita l’abrogazione ad opera della fonte secondaria.
Il sospetto di incostituzionalità sarebbe rafforzato dalla considerazione che tale «potere regolamentare atipico con effetto delegificante» è stato attribuito in materie coperte da riserva di legge. L’esclusione del diritto al rimborso si tradurrebbe, infatti, in una prestazione patrimoniale imposta al socio recedente, rispetto alla quale la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. dovrebbe precludere una delegificazione regolamentare di così ampia portata. L’interferenza tra l’esclusione del diritto al rimborso e la tutela della proprietà privata consentirebbe di richiamare anche la riserva di legge prevista dall’articolo 42 Cost., e dall’art. 1, paragrafo 1, del protocollo addizionale alla CEDU.
Il Consiglio di Stato conclude sul punto osservando che le riserve di legge previste dalla citate disposizioni costituzionali non sembrano, invece, precludere alla legge di affidare, previa fissazione di un limite temporale predeterminato e di un tasso di interesse indennitario minimo, a una fonte di rango secondario (o eventualmente anche al potere regolatorio della Banca d’Italia) l’individuazione o la specificazione, sotto il profilo eminentemente tecnico, dei presupposti economici, finanziari o patrimoniali che possono concretamente giustificare il differimento del diritto al rimborso della quota del socio recedente.
6.1.– I vizi prospettati sono accomunati dalla medesima premessa ermeneutica: che la norma censurata abbia attribuito all’Istituto di vigilanza un «potere regolamentare atipico con effetto delegificante». È su queste basi, infatti, che il rimettente contesta, nell’an, l’attribuzione del potere di delegificazione in capo a un’Autorità amministrativa indipendente dall’indirizzo politico del Governo e, nel quomodo, l’estensione del potere normativo così attribuito, senza previa fissazione delle norme generali regolatrici della materia e senza individuazione delle disposizioni legislative di cui sarebbe consentita l’abrogazione da parte della fonte secondaria.
Ancora una volta, tuttavia, il presupposto interpretativo da cui muove il rimettente è erroneo: contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza di rimessione, infatti, la fattispecie normativa censurata non delinea un procedimento di delegificazione.
Nel caso di specie «[l]’elemento comune alle diverse forme di delegificazione possibili nel nostro ordinamento […], costituito dal trasferimento della funzione normativa […] dalla sede legislativa ad altra sede» (sentenza n. 130 del 2016), non ricorre. La legge impugnata non attribuisce alla Banca d’Italia la facoltà di adottare una disciplina “sostitutiva” di quella già dettata dalla legge, e neppure riconduce all’entrata in vigore della fonte secondaria la contemporanea cessazione di efficacia di disposizioni legislative delegificate. È infatti l’organo cui spetta ordinariamente l’esercizio della funzione legislativa che ha introdotto direttamente - e del tutto indipendentemente dall’entrata in vigore del provvedimento della Banca d’Italia - la regola che consente una limitazione del diritto al rimborso delle azioni, in deroga alla disciplina ordinaria che pure rimane in vigore.
In questo quadro è la legge stessa che comporta l’introduzione di previsioni statutarie che, anche in deroga alle norme del codice civile, accordino agli organi amministrativi la facoltà di limitare il rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale computabili nel capitale primario di classe 1; mentre alla Banca d’Italia è affidato soltanto il compito di definire le condizioni tecniche che consentono alla banca di rispettare i coefficienti patrimoniali minimi stabiliti dalla normativa prudenziale europea.
Ciò chiarito, il dubbio di costituzionalità - prospettato sulla base della considerazione che l’Autorità indipendente non avrebbe sufficiente «legittimazione istituzionale» per essere investita di un potere «ad effetto delegificante», e che in ogni caso l’attribuzione di tale speciale competenza regolamentare avrebbe richiesto il duplice requisito della legge di autorizzazione, di contenere le norme regolatrici della materia e di predisporre l’abrogazione delle norme previgenti - cade insieme con le sue premesse.
6.2.- Ad analoga conclusione di infondatezza si giunge anche ove si ritenga che il giudice a quo abbia inteso censurare - al di là della pretesa «surrettizia» forma di delegificazione introdotta con la norma censurata - anche un vizio più radicale, attinente cioè alla violazione del principio di legalità sostanziale. Secondo questa lettura dell’ordinanza di rimessione, il legislatore avrebbe omesso di regolare compiutamente materie che dal punto di vista costituzionale lo avrebbero richiesto, in ragione delle riserve di legge fissate in Costituzione per le discipline che incidono sul diritto di proprietà (art. 42) e che impongono prestazioni patrimoniali (art. 23 Cost.), e avrebbe altresì trascurato di delimitare e indirizzare il potere regolamentare.
Contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, nella definizione della disciplina del rimborso delle azioni dei soci recedenti, alla Banca d’Italia non spetta alcuna valutazione politico-discrezionale sugli interessi in gioco, il cui bilanciamento – in particolare quello fra l’interesse dei soci che intendono recedere e quello della stabilità del sistema bancario - è già definitivamente operato dalla legge. Inoltre, il suo stesso potere di definire le modalità tecniche di limitazione del rimborso è fortemente circoscritto dai citati regolamenti europei (segnatamente dalle norme tecniche del più volte citato regolamento delegato dell’UE n. 241/2014), che, come visto, dettano condizioni stringenti per la computabilità degli strumenti di capitale delle banche nel capitale primario di classe 1.
In definitiva, il principio della necessaria predeterminazione normativa dell’attività amministrativa è rispettato e, di conseguenza, la questione di legittimità costituzionale in esame risulta infondata anche sotto questo profilo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33, sollevate dal Consiglio di Stato, in riferimento agli artt. 1, 3, 23, 41, 42, 77, secondo comma, 95, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2018.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Allegato:
ordinanza letta all'udienza del 20 marzo 2018
ORDINANZA
Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Consiglio di Stato con ordinanza del 15 dicembre 2016 (reg. ord. n. 33 del 2017).
Rilevato che nel giudizio sono intervenute ad opponendum Amber Capital UK LLP e Amber Capital Italia SGR spa, con atto depositato il 31 luglio 2017;
che l'atto di intervento è stato depositato oltre il termine di 20 giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'atto introduttivo del giudizio, previsto dall'art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, giacché la pubblicazione dell'ordinanza del Consiglio di Stato è avvenuta nella Gazzetta Ufficiale n. 11 del 15 marzo 2017.
Considerato che l'intervento in giudizio di Amber Capital UK LLP e Amber Capital Italia SGR spa è tardivo;
che secondo il costante orientamento di questa Corte il termine previsto dall'art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, contrariamente a quanto sostengono le intervenienti, deve essere ritenuto perentorio e non ordinatorio, con la conseguenza che l'intervento avvenuto dopo la sua scadenza è inammissibile (ex plurimis, sentenze n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009);
che non risultano le condizioni per la rimessione in termini;
che, pertanto, l'intervento spiegato in giudizio da Amber Capital UK LLP e Amber Capital Italia SGR spa deve essere dichiarato inammissibile.
per questi motivi
la corte costituzionale
dichiara inammissibile l'intervento di Amber Capital UK LLP e Amber Capital Italia SGR spa nel giudizio di legittimità costituzionale di cui al reg. ord. n. 33 del 2017.
F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente