ORDINANZA N. 17
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell’iter di approvazione del disegno di legge «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021» (A.S. 981) approvato il 23 dicembre 2018, promosso dal senatore Andrea Marcucci in proprio e quale capogruppo e legale rappresentante pro tempore del «Gruppo parlamentare “Partito democratico”» presso il Senato della Repubblica e altri senatori, con ricorso depositato in cancelleria il 28 dicembre 2018 ed iscritto al n. 8 del registro conflitti tra poteri 2018, fase di ammissibilità.
Udito nella camera di consiglio del 9 gennaio 2019 il Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale in data 28 dicembre 2018, il senatore Andrea Marcucci, in proprio e quale capogruppo e legale rappresentante pro tempore del «Gruppo parlamentare “Partito democratico”» presso il Senato della Repubblica, nonché i senatori Caterina Bini, Edoardo Patriarca, Francesco Bonifazi, Andrea Ferrazzi, Caterina Biti, Alan Ferrari, Valeria Fedeli, Bruno Astorre, Assunta Carmela Messina, Luigi Enrico Zanda, Francesco Giacobbe, Luciano D’Alfonso, Davide Faraone, Valeria Valente, Monica Cirinnà, Leonardo Grimani, Matteo Richetti, Francesco Verducci, Nadia Ginetti, Simona Flavia Malpezzi, Franco Mirabelli, Anna Rossomando, Tommaso Nannicini, Eugenio Alberto Comincini, Dario Parrini, Alessandro Alfieri, Vito Vattuone, Roberta Pinotti, Roberto Rampi, Antonio Misiani, Teresa Bellanova, Annamaria Parente, Stefano Collina, Ernesto Magorno, Mauro Antonio Donato Laus e Salvatore Margiotta, hanno sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ai sensi dell’art. 134 della Costituzione, nei confronti del Governo, del Presidente della V Commissione permanente (Bilancio) del Senato della Repubblica, della Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari (d’ora in avanti anche Conferenza dei capigruppo) del Senato della Repubblica, del Presidente e dell’Assemblea del Senato della Repubblica, in relazione agli «atti e comportamenti relativi all’approvazione del disegno di legge di bilancio nell’iter costituzionalmente previsto, così come svoltosi presso il Senato della Repubblica».
2.– I ricorrenti innanzitutto precisano che il conflitto riguarda le modalità con cui il Senato della Repubblica ha approvato, nella notte tra il 22 e il 23 dicembre del 2018, il disegno di legge «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021» (A.S. 981) e ricostruiscono i passaggi fondamentali del procedimento legislativo svoltosi fino a tale momento presso il Senato, a seguito dell’approvazione da parte della Camera dei Deputati, l’8 dicembre 2018, del testo della legge di bilancio «in una versione, tuttavia, non comprensiva dei correttivi richiesti da Bruxelles all’Esecutivo».
3.– Dopo avere ricostruito i fatti, i ricorrenti dichiarano che la loro iniziativa è volta non a sindacare il contenuto del disegno di legge annuale di bilancio, quanto piuttosto «a ristabilire il corretto esercizio delle competenze costituzionalmente attribuite con riferimento al procedimento legislativo disegnato dall’art. 72 Cost. e soprattutto, con specifico riferimento alla legge di bilancio, dall’art. 81 Cost. e dall’art. 97, comma 1, Cost.».
Il ricorso muove dalla considerazione che nell’attuale contesto costituzionale il principio di separazione dei poteri non sarebbe riducibile al solo rapporto fra Governo e Parlamento, perché l’istituto della fiducia sposta la dialettica tra poteri sul piano del rapporto tra maggioranza e opposizione parlamentare, sancito anche dall’art. 94 della Costituzione. Le disposizioni degli artt. 72 e 94 Cost., la disciplina costituzionale delle diverse maggioranze richieste per l’approvazione dei diversi atti parlamentari e le previsioni costituzionali che riguardano la composizione delle Commissioni parlamentari riconoscerebbero un autonomo rilievo costituzionale sia ai gruppi parlamentari, sia, in particolare, a quote frazionarie di parlamentari che sono legittimate a mettere in moto processi di rilievo costituzionale. La funzione che il gruppo parlamentare e la quota di parlamentari ricorrenti intendono esercitare con la proposizione del conflitto sarebbe dunque, «tipicamente, una funzione garantistica di minoranza o di opposizione, rivolta a tutelare un interesse istituzionale fondamentale della comunità nazionale, e precisamente l’interesse al pieno rispetto delle regole costituzionali nell’approvazione delle leggi e, in particolare, di quella principale legge che è la legge di bilancio».
4.– In punto di legittimazione soggettiva, i ricorrenti sostengono che non sia corretto riconnettere la qualifica di potere dello Stato esclusivamente in capo alla «Assemblea nei suoi organi esponenziali (presidenza)», in quanto ciò significherebbe attribuire esclusivamente alla maggioranza parlamentare la decisione del se e come proteggere interessi costituzionalmente rilevanti, così «di fatto esautorando le minoranze e – ove la maggioranza così voglia – Commissioni e Assemblea». Posto che la giurisprudenza costituzionale ha lasciato finora impregiudicata la possibilità che il singolo parlamentare sia legittimato a promuovere un conflitto fra poteri, gli atti denunciati con l’odierno conflitto rappresenterebbero casi di esercizio di funzioni costituzionali da parte dei rispettivi titolari che si sarebbero tradotte in illegittime interferenze con le funzioni dei ricorrenti talmente macroscopiche e penetranti da porle sostanzialmente nel nulla.
4.1.– In primo luogo, a fronte di un potere, l’esecutivo, che entra pienamente nell’esercizio delle sue funzioni con l’approvazione della mozione di fiducia ex art. 94, primo e secondo comma Cost., la Carta costituzionale, pure senza mai utilizzare espressamente il termine “opposizione”, avrebbe individuato un contropotere, prevedendo, all’art. 94, quinto comma, Cost., che un decimo dei componenti di una Camera possa presentare una mozione di sfiducia al Governo in carica. Peraltro, la stessa frazione di parlamentari può, ai sensi dell’art. 72, terzo comma, Cost., rimettere alla Camera l’approvazione di un disegno di legge deferito alla commissione in sede deliberante. A giudizio dei ricorrenti, tale complessivo quadro normativo lascerebbe intendere come il Costituente abbia voluto individuare un nucleo di parlamentari, quali sarebbero essi «37 senatori proponenti l’attuale ricorso», dotati di poteri e facoltà in grado di limitare il potere della maggioranza e del Governo, ai quali, di conseguenza, andrebbe «riconosciuta la qualifica di potere dello Stato, nel senso di frazione del potere legislativo titolare di attribuzioni costituzionalmente previste, che la connotano come soggetto abilitato ad esprimere in via definitiva la volontà del potere cui appartiene, giacché la presentazione della mozione di sfiducia spetta ad essi e solo ad essi, e in via definitiva ad essi». Nel caso di specie, il profilo soggettivo così individuato sarebbe, inoltre, corroborato anche dalla circostanza per cui la lesione delle prerogative di cui all’art. 72 Cost. è maturata a seguito dell’approvazione di un maxi-emendamento presentato dal Governo e sul quale l’esecutivo stesso ha posto la questione di fiducia.
4.2.– In secondo luogo, non vi sarebbe dubbio che il gruppo parlamentare rientri tra le articolazioni delle Camere, quale istituzione stabile e necessaria, dotata, all’interno di queste, di prerogative direttamente incidenti sul regolare svolgimento del procedimento legislativo. Di conseguenza, preso atto che il «Gruppo parlamentare “Partito democratico”» ricomprende al suo interno la quota di un decimo dei componenti del Senato, le medesime considerazioni riguardanti la frazione minima di un decimo in grado di attivare il meccanismo della sfiducia varrebbero ancor di più per il gruppo ricorrente.
4.3.– Infine, anche il singolo parlamentare sarebbe titolare di specifici poteri riconosciutigli direttamente dalla Costituzione, quale rappresentante della Nazione (art. 67 Cost.), nonché partecipe della funzione legislativa delle Camere (artt. 71 e 72 Cost.). Di conseguenza, la legittimazione attiva dei senatori ricorrenti nel presente conflitto deriverebbe «proprio dalla circostanza che l’esercizio delle loro funzioni costituzionali sopra richiamate è stato conculcato a tal punto da risultare del tutto impedito ad opera e a causa delle modalità con cui altri organi parlamentari intervenuti nel corso dell’iter di approvazione del disegno di legge di bilancio – e, in particolare, la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari, l’Assemblea, il Presidente della V Commissione Bilancio e il Presidente del Senato della Repubblica – hanno concretamente esercitato le funzioni ad essi spettanti».
5.– Quanto all’oggetto del conflitto, secondo i ricorrenti, l’organizzazione e i tempi dei lavori del Senato della Repubblica, nonché le concrete modalità con cui questi si sono svolti in base alle decisioni assunte dal Presidente della Commissione Bilancio, avrebbero impedito l’osservanza del procedimento ordinario di approvazione delle leggi di cui all’art. 72, quarto comma, Cost., che deve essere caratterizzato da una fase necessaria di esame in commissione referente. Infatti, per effetto della tempistica dei lavori svolti dalla Commissione Bilancio, dettagliatamente riportata in ricorso, caratterizzata dalla presentazione in aula da parte del Governo dell’emendamento 1.9000, interamente sostitutivo dell’art. 1 del disegno di legge e contenente un testo normativo di circa 270 pagine, i senatori membri di tale Commissione sarebbero stati posti nell’assoluta impossibilità di conoscere tale testo nei suoi contenuti. Il tempo concesso per l’intero esame, pari a complessivi 70 minuti, sarebbe stato insufficiente già solo per dare una lettura sommaria all’emendamento governativo e, dunque, non avrebbe consentito la maturazione di un consapevole convincimento e la sua susseguente esposizione pubblica nelle forme in cui le dinamiche parlamentari lo consentono. Da ciò, i ricorrenti deducono che sia mancata la possibilità di qualunque esame da parte della Commissione e perciò lamentano la violazione dell’art. 72, primo comma, Cost.
6.– Tali modalità di approvazione del disegno di legge di bilancio in Senato avrebbero altresì violato il principio di leale collaborazione che, in base alla giurisprudenza costituzionale, deve informare i rapporti tra gli organi che costituiscono espressione dei poteri dello Stato e che, nella fattispecie, avrebbe dovuto imporre il rispetto delle attribuzioni dei gruppi parlamentari e dei parlamentari di opposizione. Il principio invocato richiede lealtà e correttezza che si concretizzerebbero «nell’obbligo, da parte di chi esercita una funzione pubblica in base alle norme costituzionali (e non) che la regolano, di tenere presente le prerogative dell’altro “potere” con cui si trovasse ad interagire». Obbligo che, nel caso di specie, sarebbe stato violato, considerato l’oggettivo impedimento frapposto all’ordinario svolgimento della dialettica parlamentare e alla partecipazione al processo deliberativo delle minoranze parlamentari di opposizione.
7.– Passando dagli aspetti temporali della vicenda alle concrete modalità che hanno caratterizzato i lavori «di quello che avrebbe dovuto essere l’“esame” del disegno di legge di bilancio da parte della Commissione Bilancio», i ricorrenti affermano che la Commissione avrebbe votato su un testo che i senatori componenti non conoscevano e che non era neanche nella loro disponibilità materiale. Infatti, appena aperta la seduta della Commissione Bilancio, il Governo si sarebbe premurato di informare i senatori che il testo dell’emendamento 1.9000, poco prima distribuito in formato elettronico, non era da considerarsi più attuale perché erano in lavorazione ulteriori modifiche, illustrate oralmente da parte del rappresentante del Governo, senza che alcun testo definitivo fosse stato fornito né in formato cartaceo, né in formato elettronico. Il che, a opinione dei ricorrenti, aggravava non poco le lesioni alle posizioni riconosciute dall’art. 72 Cost. ai senatori che oggi ricorrono come singoli, come minoranza pari a un decimo dei componenti del Senato, nonché come aderenti al «Gruppo parlamentare “Partito democratico”» costituito presso il Senato della Repubblica.
8.– I ricorrenti ritengono inoltre che l’approvazione della legge di bilancio attraverso un “maxi-emendamento” sul quale il Governo ha posto la questione di fiducia avrebbe comportato un’inaccettabile totale compressione del ruolo delle Camere e delle loro articolazioni, in favore di un’accelerazione del procedimento legislativo, che avrebbe visto anche respingere la richiesta delle minoranze di una nuova calendarizzazione dei lavori in una data compatibile con la prevista votazione della Camera dei deputati. In particolare, il ricorso sottolinea che la censura si rivolge, più che alla prassi in sé dei maxi-emendamenti approvati attraverso la questione di fiducia, alla sua estremizzazione verificatasi nel caso di specie: la presentazione di un maxi-emendamento, esteso per 270 pagine e composto di 654 commi racchiusi in un unico articolo, di cui i senatori non hanno avuto la possibilità di conoscere il contenuto e di discuterlo, né in commissione, né in aula, avrebbe tradito, complice anche la questione di fiducia che il Governo su di esso ha posto, la ratio dell’art. 72, primo comma, Cost., a norma del quale le Camere approvano i disegni di legge «articolo per articolo e con votazione finale». Il riferimento al voto «articolo per articolo» non avrebbe un valore solo formale, ma esigerebbe in linea di principio una certa omogeneità del contenuto di ciascun articolo, in modo che i parlamentari possano esprimere in modo libero e consapevole il proprio convincimento riguardo alle singole determinazioni legislative. Nella fattispecie, invece, la prassi del maxi-emendamento governativo sarebbe stata estremizzata dall’assenza di dibattito parlamentare e dalla ripetuta modifica ad opera del Governo del testo del maxi-emendamento stesso, in modo che potrebbe dubitarsi addirittura della «riferibilità del voto della legge alla volontà del ramo del Parlamento, attraverso la sua maggioranza, piuttosto che alla volontà dell’esecutivo, o verosimilmente a singole parti di esso».
I ricorrenti osservano che l’Assemblea del Senato della Repubblica si è dedicata all’esame del testo dell’emendamento governativo, al netto delle sospensioni intervenute, solo per sette ore. Un tempo che i ricorrenti considerano insufficiente per consentire ai componenti dell’Assemblea di conoscerne effettivamente i plurimi e variegatissimi contenuti, di formarsi una opinione sui medesimi e di discuterli, anche eventualmente al fine di proporre emendamenti, e comunque di manifestare le proprie posizioni favorevoli o contrarie e le ragioni di esse. Il che avrebbe comportato la violazione non solo dell’art. 72, primo comma, Cost., ma anche del principio di leale collaborazione.
9.– In considerazione di quanto esposto, conclusivamente i ricorrenti, ribadito che il ricorso è volto a ristabilire il corretto esercizio delle competenze costituzionalmente attribuite con riferimento al procedimento legislativo disegnato dall’art. 72 Cost., senza chiedere l’annullamento degli atti, né della legge di bilancio, specificano il petitum nei seguenti termini: a) «dichiarare che non spettava al Governo presentare il testo della manovra di bilancio in forma di maxi-emendamento senza rispettare le scadenze previste dalla legislazione vigente in attuazione degli articoli 81, 97, comma 1, e 72, comma 4 Cost.»; b) «dichiarare che non spettava al Presidente della Commissione Bilancio, alla Conferenza dei Capigruppo, al Presidente del Senato della Repubblica organizzare e condurre i lavori dell’Assemblea omettendo di riservare all’esame e all’approvazione del disegno di legge di bilancio il tempo ragionevolmente sufficiente ad acquisire adeguata conoscenza dei contenuti normativi da sottoporre al voto, come risultanti dall’emendamento 1.9000 proposto dal Governo, pari a c.a. 270 pagine di stampa, di formarsi una opinione su di essi e discuterli, anche al fine di proporre emendamenti, e con ciò di esprimere un voto consapevolmente favorevole o contrario, ai sensi dell’art. 72, primo comma, Cost.»; c) «dichiarare che non spettava al Presidente del Senato della Repubblica porre in votazione il testo del disegno di legge di bilancio, come risultante dall’emendamento 1.9000 proposto dal Governo, in mancanza di una sua illustrazione orale da parte dello stesso, determinando così l’impossibilità che i componenti dell’Assemblea potessero conoscerne i contenuti normativi, formarsi una opinione su di essi e discuterli, anche al fine di proporre emendamenti, e comunque esprimere un voto consapevolmente favorevole o contrario, ai sensi dell’art. 72, primo comma, Cost.»; d) «dichiarare che non spettava all’Assemblea del Senato della Repubblica approvare il disegno di legge di bilancio senza che fossero stati garantiti, ai sensi del 72, primo comma, l’esame in Commissione, tramite la presa di conoscenza del testo, la formazione di una posizione sul medesimo e la possibilità di manifestare pubblicamente tale posizione» e «senza che fosse stata garantita la possibilità dei componenti della stessa Assemblea di conoscere il testo, di formarsi una opinione sul medesimo e di discuterlo in Assemblea, anche al fine di proporre emendamenti, e comunque la possibilità di manifestare le proprie posizioni favorevoli o contrarie e le ragioni di esse»; e) «dichiarare che non spettava al Presidente del Senato della Repubblica, nelle circostanze di cui ai precedenti punti a), b) c) e d), trasmettere al Presidente della Camera dei deputati il disegno di legge di bilancio approvato dall’Assemblea».
10.– Con atto denominato «note integrative per i ricorrenti», depositato il 7 gennaio 2019, i ricorrenti ribadiscono e sviluppano gli argomenti relativi ai requisiti soggettivi e oggettivi richiesti per l’ammissibilità del conflitto e insistono per l’accoglimento delle conclusioni formulate nel ricorso in ordine alla spettanza dei poteri costituzionali, precisando tuttavia di non ritenere che spetti loro valutare le conseguenze che da tale accoglimento potrebbero derivare.
Considerato in diritto
1.– Con il ricorso in esame, trentasette senatori hanno sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in relazione alle modalità con cui il Senato della Repubblica ha approvato il disegno di legge «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021» (A.S. 981), chiedendo a questa Corte di ristabilire il corretto esercizio delle competenze costituzionalmente garantite e asseritamente violate dal Governo, dal Presidente della Commissione Bilancio, dalla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari (d’ora in avanti anche Conferenza dei capigruppo), dal Presidente e dall’Assemblea del Senato della Repubblica.
Il ricorso è stato presentato da trentasette senatori a titolo di singoli parlamentari, di «Gruppo parlamentare “Partito democratico”» e di minoranza qualificata pari a un decimo dei componenti del Senato. I ricorrenti lamentano la grave compressione dei tempi di discussione determinatasi in particolare a seguito della presentazione da parte del Governo dell’emendamento 1.9000, interamente sostitutivo del disegno di legge originario, cosiddetto maxi-emendamento, che avrebbe vanificato l’esame in Commissione e avrebbe reso impossibile la conoscibilità del testo, impedendo ai senatori di partecipare consapevolmente alla discussione e alla votazione, in violazione del principi costituzionali stabiliti in materia di procedimento di formazione delle leggi e di quello di leale collaborazione tra poteri.
Non è richiesto alla Corte di procedere all’annullamento di alcuno degli atti ritenuti lesivi.
2.– In questa fase del giudizio, la Corte costituzionale è chiamata esclusivamente a verificare, ai sensi dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in camera di consiglio e senza contraddittorio, se sussistano i requisiti, sul piano soggettivo e oggettivo, di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, e a valutare l’esistenza della materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza.
3.– I senatori ricorrenti sollevano il conflitto a titolo individuale, in qualità di «Gruppo parlamentare “Partito democratico”» e in qualità di minoranza qualificata pari a un decimo dei componenti del Senato.
Nel caso di specie, non può ritenersi legittimata a sollevare conflitto di attribuzioni (ex art. 37 della legge n. 87 del 1953) la minoranza di un decimo dei componenti del Senato, perché la quota di attribuzioni che la Costituzione conferisce a una tale frazione del corpo dei parlamentari riguarda ambiti diversi da quelli oggetto del presente conflitto. Segnatamente, la Costituzione attribuisce, in via definitiva, a tale quota qualificata di parlamentari unicamente il potere di attivare la procedura di sfiducia per il Governo in carica tramite presentazione di mozione di sfiducia (art. 94, quinto comma, della Costituzione) o di rimettere alla Camera l’approvazione di un disegno di legge deferito alla commissione deliberante (art. 72, terzo comma, Cost.). Con tutta evidenza si tratta di poteri non oggetto di menomazione nel caso di specie e financo estranei alle censure oggetto di ricorso.
Va risolta negativamente anche la questione della legittimazione ad agire del «Gruppo parlamentare “Partito democratico”» per l’assorbente ragione che manca, nel ricorso in esame, la necessaria indicazione delle modalità con le quali il gruppo parlamentare avrebbe deliberato di proporre conflitto davanti alla Corte costituzionale (sull’indispensabilità di tale indicazione si veda l’ordinanza n. 280 del 2017).
Occorre dunque procedere a esaminare se, in un caso come quello oggi portato all’esame della Corte, sussista la legittimazione attiva del singolo parlamentare.
3.1.– È ben vero che la giurisprudenza costituzionale, anche recente, ha in talune ipotesi espressamente negato la legittimazione dei parlamentari uti singuli a elevare conflitto di attribuzione. Così, ad esempio, si è escluso che il singolo parlamentare sia legittimato a sollevare conflitto di attribuzione nei confronti del Governo a tutela di prerogative attribuite dalla Costituzione all’intera Camera a cui appartiene (ordinanza n. 163 del 2018, richiamata dall’ordinanza n. 181 del 2018). Costante (sin dalla sentenza n. 1150 del 1988) è anche l’orientamento in base al quale, in materia di insindacabilità, competente a sollevare conflitto di attribuzione nei confronti dell’autorità giudiziaria è esclusivamente la Camera di appartenenza e non il singolo parlamentare, posto che la ratio dell’immunità è proteggere la funzione dell’organo costituzionale (come questa Corte ha sempre affermato, a partire dalla risalente sentenza n. 9 del 1970). I singoli componenti di una Camera neppure possono lamentare la violazione del procedimento legislativo svoltosi presso l’altro ramo del Parlamento, essendo evidente l’inidoneità di tali lesioni a incidere sulle loro attribuzioni e sulle loro prerogative (ordinanze n. 181 del 2018 e n. 277 del 2017).
È altresì vero, tuttavia, che nelle medesime occasioni la Corte ha costantemente ribadito di dover lasciare «impregiudicata la questione se in altre situazioni siano configurabili attribuzioni individuali di potere costituzionale, per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere allo strumento del conflitto tra poteri dello Stato» (ordinanze n. 181 e n. 163 del 2018 e, già in passato, ordinanza n. 177 del 1998; nello stesso senso, sentenza n. 225 del 2001).
La giurisprudenza fin qui esaminata, dunque, non ha negato in radice la legittimazione del singolo parlamentare a sollevare conflitto di attribuzione, bensì ne ha escluso in concreto la sussistenza nelle specifiche ipotesi che si sono presentate.
3.2.– Il caso oggi in esame non è riconducibile alle fattispecie su cui questa Corte si è già espressa in senso negativo. Si tratta dunque di una situazione impregiudicata, da esaminare, nella sua specificità, alla luce dei principi generali elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in materia di conflitto tra poteri dello Stato, che richiedono di valutare se i senatori ricorrano dinanzi a questa Corte «per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali» e, conseguentemente, possano qualificarsi «come organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono», ai sensi dell’art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953.
Nella giurisprudenza costituzionale la nozione di “potere dello Stato” ai fini della legittimazione a sollevare conflitto di attribuzione (ex art. 37 della legge n. 87 del 1953) abbraccia tutti gli organi ai quali sia riconosciuta e garantita dalla Costituzione una quota di attribuzioni costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 87 e n. 88 del 2012) o sia affidata una pubblica funzione costituzionalmente rilevante e garantita (ordinanza n. 17 del 1978), sicché il vaglio della legittimazione dei ricorrenti deve muovere dalla ricognizione della sfera delle attribuzioni conferita ai singoli parlamentari dalla Costituzione, verificando se in relazione a esse il singolo senatore possa ritenersi abilitato a esprimere in via definitiva la volontà del relativo potere.
3.3.– I ricorrenti agiscono a tutela del potere di partecipare al procedimento legislativo che la Costituzione riconoscerebbe loro quali rappresentanti della Nazione (art. 67 Cost.). Tale potere si esprimerebbe tramite la presentazione di progetti di legge e di proposte emendative (art. 71 Cost.) e tramite la partecipazione all’esame dei progetti di legge sia in commissione sia in aula (art. 72 Cost.). Esso implicherebbe altresì la «possibilità per ciascun parlamentare di addivenire alla conoscenza del testo, di formarsi un proprio convincimento e una propria posizione sul medesimo, nonché di manifestare pubblicamente tale posizione».
In effetti, come è stato da tempo rilevato, la Costituzione individua una sfera di prerogative che spettano al singolo parlamentare, diverse e distinte da quelle che gli spettano in quanto componente dell’assemblea, che invece è compito di ciascuna Camera tutelare (sentenza n. 379 del 1996). Si tratta in generale della facoltà, necessaria all’esercizio del libero mandato parlamentare (art. 67 Cost.), di partecipare alle discussioni e alle deliberazioni esprimendo «opinioni» e «voti» (ai quali si riferisce l’art. 68 Cost., sia pure al diverso fine di individuare l’area della insindacabilità); segnatamente, nell’ambito della funzione legislativa che viene in rilievo nel presente conflitto, le prerogative del singolo rappresentante si esplicitano anche nel potere di iniziativa, testualmente attribuito «a ciascun membro delle Camere» dall’art. 71, primo comma, Cost., comprensivo del potere di proporre emendamenti, esercitabile tanto in commissione che in assemblea (art. 72 Cost.). Del resto, è proprio attraverso la presentazione di iniziative legislative ed emendamenti da parte dei parlamentari, sulla base di una disciplina procedurale rimessa ai regolamenti parlamentari, che si concretizza l’attribuzione costituzionale alle Camere della funzione legislativa (art. 70 Cost.), che altrimenti risulterebbe ridotta a una mera funzione di ratifica di scelte maturate altrove.
Lo status costituzionale del parlamentare comprende, dunque, un complesso di attribuzioni inerenti al diritto di parola, di proposta e di voto, che gli spettano come singolo rappresentante della Nazione, individualmente considerato, da esercitare in modo autonomo e indipendente, non rimuovibili né modificabili a iniziativa di altro organo parlamentare, sicché nell’esercizio di tali attribuzioni egli esprime una volontà in se stessa definitiva e conclusa, che soddisfa quanto previsto dall’art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953.
3.4.– Nell’ambito di istituzioni complesse, articolate e polifunzionali, qual è il Parlamento e quali sono le singole Camere, molteplici sono gli organi che possono configurarsi come poteri a sé stanti, idonei a essere parti nei conflitti di attribuzione. I parlamentari che, come si è detto, sono organi-potere titolari di distinte quote o frazioni di attribuzioni costituzionalmente garantite debbono potersi rivolgere al giudice costituzionale qualora patiscano una lesione o un’usurpazione delle loro attribuzioni da parte di altri organi parlamentari.
Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto la legittimazione al conflitto ad esempio alla Commissione parlamentare inquirente per i giudizi d’accusa (abolita a seguito del referendum del 1987 dall’art. 3 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, recante «Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione»; si veda comunque la sentenza n. 13 del 1975), alla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (ex plurimis, in questo senso, le sentenze n. 69 del 2009 e n. 502 del 2000, fin dalla risalente ordinanza n. 171 del 1997) e alle Commissioni di inchiesta istituite a norma dell’art. 82 Cost. (a partire dalle ordinanze n. 229 e n. 228 del 1975).
3.5.– La legittimazione attiva del singolo parlamentare deve, tuttavia, essere rigorosamente circoscritta quanto al profilo oggettivo, ossia alle menomazioni censurabili in sede di conflitto. Occorre anzitutto ribadire che non possono trovare ingresso nei giudizi per conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato le censure che riguardano esclusivamente violazioni o scorrette applicazioni dei regolamenti parlamentari e delle prassi di ciascuna Camera (tra le altre, sentenza n. 9 del 1959 e, più recentemente, ordinanza n. 149 del 2016). Quando derivano dal diritto parlamentare la loro esaustiva qualificazione, le prerogative rivendicate dai membri delle Camere trovano all’interno delle Camere stesse le loro forme di tutela: ad esempio, la Corte ha escluso che le modalità di voto nelle Camere siano assoggettate al potere di accertamento di soggetti esterni (nella specie, il giudice penale), in quanto esse sono disciplinate solo dalle regole parlamentari (sentenza n. 379 del 1996).
Anche l’intervento di questa Corte trova un limite nel principio di autonomia delle Camere costituzionalmente garantito, in particolare dagli artt. 64 e 72 Cost.
La giurisprudenza costituzionale ha già riconosciuto che l’autonomia degli organi costituzionali «non si esaurisce nella normazione, bensì comprende – coerentemente – il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l’osservanza» (da ultimo, sentenza n. 262 del 2017). Tale momento applicativo comprende «i rimedi contro gli atti ed i comportamenti che incidano negativamente sulle funzioni dei singoli parlamentari e che pregiudichino il corretto svolgimento dei lavori» (sentenza n. 379 del 1996).
Pertanto, analogamente a quanto accade negli altri ambiti in cui la Costituzione affida ampi spazi alle valutazioni politiche, è necessario che alle Camere sia riconosciuto un ampio margine di apprezzamento nell’applicazione delle regole parlamentari. Il dovuto rispetto all’autonomia del Parlamento esige che il sindacato di questa Corte debba essere rigorosamente circoscritto ai vizi che determinano violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari ed è necessario che tali violazioni siano rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione.
In definitiva, in ossequio al principio di autonomia delle Camere e nel solco dei precedenti giurisprudenziali poc’anzi richiamati si deve ritenere che, ai fini dell’ammissibilità del conflitto, non è sufficiente che il singolo parlamentare lamenti un qualunque tipo di vizio occorso durante l’iter legislativo, bensì è necessario che alleghi e comprovi una sostanziale negazione o un’evidente menomazione della funzione costituzionalmente attribuita al ricorrente, a tutela della quale è apprestato il rimedio giurisdizionale innanzi a questa Corte ex art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953.
4.– Nel caso di specie le violazioni denunciate dai ricorrenti non rispondono ai criteri poc’anzi enunciati.
4.1.– Occorre premettere che forzature procedurali denunciate dai ricorrenti inducono questa Corte a richiamare l’attenzione sulla necessità che il ruolo riservato dalla Costituzione al Parlamento nel procedimento di formazione delle leggi sia non solo osservato nominalmente, ma rispettato nel suo significato sostanziale. L’art. 70 affida la funzione legislativa alle due Camere e il successivo art. 72 Cost. articola l’esame di ogni progetto di legge in una fase da svolgersi in commissione e in una che coinvolge l’intera assemblea ed esige che la votazione si svolga dapprima articolo per articolo e poi sul testo finale. Tali principi sono volti a consentire a tutte le forze politiche, sia di maggioranza sia di minoranza, e ai singoli parlamentari che le compongono, di collaborare cognita causa alla formazione del testo, specie nella fase in commissione, attraverso la discussione, la proposta di testi alternativi e di emendamenti. Gli snodi procedimentali tracciati dall’art. 72 Cost. scandiscono alcuni momenti essenziali dell’iter legis che la Costituzione stessa esige che siano sempre rispettati a tutela del Parlamento inteso come luogo di confronto e di discussione tra le diverse forze politiche, oltre che di votazione dei singoli atti legislativi, e a garanzia dell’ordinamento nel suo insieme, che si regge sul presupposto che vi sia un’ampia possibilità di contribuire, per tutti i rappresentanti, alla formazione della volontà legislativa.
Ciò vale in particolare in riferimento all’approvazione della legge di bilancio annuale, in cui si concentrano le fondamentali scelte di indirizzo politico e in cui si decide della contribuzione dei cittadini alle entrate dello Stato e dell’allocazione delle risorse pubbliche: decisioni che costituiscono il nucleo storico delle funzioni affidate alla rappresentanza politica sin dall’istituzione dei primi parlamenti e che occorre massimamente preservare. Questa Corte ha già avuto modo di sottolineare (sia pure in riferimento alle Regioni) che «il bilancio è un “bene pubblico” nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte […], sia in ordine all’acquisizione delle entrate, sia alla individuazione degli interventi attuativi delle politiche pubbliche» (sentenza n. 184 del 2016; in senso conforme sentenze n. 247 e n. 80 del 2017). Ciò vale a maggior ragione dopo l’attuazione della riforma costituzionale del 2012 realizzata con la legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), che ne ha accentuato la centralità: il «bilancio – nella nuova veste sostanziale – è destinato a rappresentare il principale strumento di decisione sulla allocazione delle risorse, nonché il principale riferimento della verifica dei risultati delle politiche pubbliche» (sentenza n. 61 del 2018).
Del resto, il procedimento di formazione della legge di bilancio è da sempre circondato da particolari garanzie, trattandosi di una di quelle leggi che, ai sensi dell’art. 72, quarto comma, Cost., esigono il procedimento ordinario a tutela della più ampia partecipazione di tutti i soggetti politici alla loro elaborazione.
4.2.– Non v’è dubbio che le carenze lamentate dal ricorso abbiano determinato una compressione dell’esame parlamentare; tuttavia il ricorso trascura alcuni elementi procedimentali e di contesto, i quali, se fossero stati debitamente tenuti in considerazione, avrebbero offerto un quadro più complesso e sfumato rispetto a quanto rappresentato dai senatori ricorrenti e all’interno del quale le violazioni lamentate non appaiono di evidenza tale da superare il vaglio di ammissibilità del conflitto.
4.3.– Le forzature procedimentali censurate derivano essenzialmente, nella prospettazione dei ricorrenti, dalla “estremizzazione” della prassi dei maxi-emendamenti approvati attraverso il voto della questione di fiducia, che avrebbe limitato i tempi a disposizione per la discussione al punto da vanificare l’esame in Commissione e da pregiudicare la stessa possibilità per i parlamentari di conoscere il testo ed esprimere un voto consapevole.
Questa Corte ha già avuto occasione di segnalare gli effetti problematici dell’approvazione dei disegni di legge attraverso il voto di fiducia apposto su un maxi-emendamento governativo, osservando che in tal modo, per effetto del “voto bloccato” che la questione di fiducia determina ai sensi delle vigenti procedure parlamentari, sono precluse una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina e impedito ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo (sentenza n. 32 del 2014). Tuttavia, occorre anche considerare che tale prassi si è consolidata nel tempo e che se ne è fatto frequente uso sin dalla metà degli anni Novanta anche per l’approvazione delle manovre di bilancio da parte dei governi di ogni composizione politica, in cerca di risposte alle esigenze di governabilità.
Tale prassi aveva trovato, per quanto riguarda le leggi di natura finanziaria, qualche forma di compensazione nel coinvolgimento della Commissione Bilancio nella definizione del testo su cui il Governo poneva la fiducia, tenendo conto delle proposte emendative in quella sede discusse e approvate.
Una perdurante usanza costituisce un fattore non privo di significato all’interno del diritto parlamentare, contrassegnato da un elevato tasso di flessibilità e di consensualità. Ciò non può giustificare, però, qualunque prassi si affermi nelle aule parlamentari, anche contra Constitutionem. Anzi, occorre arginare gli usi che conducono a un progressivo scostamento dai principi costituzionali, per prevenire una graduale ma inesorabile violazione delle forme dell’esercizio del potere legislativo, il cui rispetto appare essenziale affinché la legge parlamentare non smarrisca il ruolo di momento di conciliazione, in forma pubblica e democratica, dei diversi principi e interessi in gioco.
Nondimeno, la prassi fin qui consolidatasi non può essere ignorata in sede di delibazione sull’ammissibilità del presente conflitto, ove si deve valutare se le lesioni lamentate dai ricorrenti raggiungano quella soglia di evidenza che giustifica l’intervento della Corte per arginare l’abuso da parte delle maggioranze a tutela delle attribuzioni costituzionali del singolo parlamentare.
4.4.– Le peculiarità dell’andamento dei lavori al Senato in fase di approvazione della legge di bilancio dello Stato per il 2019 rispetto al passato, anche recente, si sostanzia nel fatto che il testo finale contenuto nel maxi-emendamento 1.9000 ha modificato in larga misura il disegno di legge su cui le Camere avevano lavorato fino a quel momento, senza che su tale contenuto la Commissione Bilancio avesse avuto modo di svolgere alcun esame di merito, in sede referente. L’esame che tale Commissione ha compiuto, nella seduta del 22 dicembre 2018, era infatti finalizzato esclusivamente all’espressione di un parere relativo ai soli profili finanziari di tale emendamento, ai sensi del nuovo art. 161, comma 3-ter, regol. Senato.
Il ricorso non rileva queste peculiarità, così come non dà conto del fatto che esse derivano dall’innesto, sulla ricordata prassi dei maxi-emendamenti votati con la fiducia, di due fattori concomitanti.
Da un lato, la lunga interlocuzione con le istituzioni dell’Unione europea ha portato a una rideterminazione dei saldi complessivi della manovra economica in un momento avanzato del procedimento parlamentare e ha comportato un’ampia modificazione del disegno di legge iniziale, confluita nel maxi-emendamento 1.9000. Il ricorso si limita ad affermare che il maxi-emendamento sostituiva integralmente il testo della legge di bilancio, senza considerare che il disegno di legge originario era già stato esaminato alla Camera dei deputati e ivi votato in commissione e in assemblea e che su di esso era in corso l’esame al Senato: il nuovo testo recepiva almeno in parte i lavori parlamentari svoltisi fino a quel momento, inclusi alcuni emendamenti presentati nel corso della discussione (si veda la tabella di raffronto contenuta nel dossier del Senato della Repubblica dedicato al maxi-emendamento governativo, edizione provvisoria del 23 dicembre 2018, pagine 15 e seguenti).
D’altro lato, le riforme apportate al regolamento del Senato della Repubblica nel dicembre 2017 – applicate al procedimento per l’approvazione del bilancio dello Stato per la prima volta nel caso di specie – possono gettare una diversa luce su taluni passaggi procedimentali censurati nel ricorso.
Il nuovo testo dell’art. 161, comma 3-ter, regol. Senato richiede che i testi sui quali il Governo intende porre la questione di fiducia siano sottoposti alla Presidenza per le valutazioni di ammissibilità, tra cui quelle relative alla copertura finanziaria, per le quali la Commissione Bilancio è chiamata a esprimere un parere ai sensi dell’art. 102-bis (anch’esso modificato in data 20 dicembre 2017). Il successivo art. 161, comma 3-quater, consente al Governo, prima della discussione di un emendamento su cui sia posta la questione di fiducia, di precisarne il contenuto esclusivamente per ragioni di copertura finanziaria o di coordinamento formale del testo e di formulare ulteriori precisazioni per adeguare il testo alle condizioni indicate nel parere della Commissione Bilancio.
È in applicazione di tali disposizioni che la Commissione Bilancio è stata convocata solo per esprimere un parere sui profili finanziari e che il Governo ha presentato ulteriori precisazioni durante l’esame in Commissione. La breve durata dell’esame e la modifica dei testi in corso d’opera, lamentate dai ricorrenti, potrebbero essere state favorite dalle nuove regole procedurali, verosimilmente dettate allo scopo di rafforzare le garanzie della copertura finanziaria delle leggi, ma foriere di effetti problematici, in casi come quello di specie, che dovrebbero essere oggetto di attenzione da parte dei competenti organi parlamentari ed eventualmente rimossi o corretti.
4.5.– In conclusione, questa Corte non può fare a meno di rilevare che le modalità di svolgimento dei lavori parlamentari sul disegno di legge di bilancio dello Stato per il 2019 hanno aggravato gli aspetti problematici della prassi dei maxi-emendamenti approvati con voto di fiducia; ma neppure può trascurare il fatto che i lavori sono avvenuti sotto la pressione del tempo dovuta alla lunga interlocuzione con le istituzioni europee, in applicazione di norme previste dal regolamento del Senato e senza che fosse stata del tutto preclusa una effettiva discussione nelle fasi precedenti su testi confluiti almeno in parte nella versione finale.
In tali circostanze, non emerge un abuso del procedimento legislativo tale da determinare quelle violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari che assurgono a requisiti di ammissibilità nella situazione attuale. Ciò rende inammissibile il presente conflitto di attribuzione. Nondimeno, in altre situazioni una simile compressione della funzione costituzionale dei parlamentari potrebbe portare a esiti differenti.
5.– La rilevata inammissibilità derivante dalla natura delle violazioni lamentate si ripercuote sull’intero ricorso e rende superfluo l’esame degli altri profili del conflitto.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 febbraio 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA