ORDINANZA N. 52
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 65, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), come modificato dall’art. 13, comma 1, della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013), e dell’art. 74, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promosso dal Tribunale ordinario di Torino, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra S. E.A. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e altro, con ordinanza del 13 dicembre 2016, iscritta al n. 178 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di costituzione di S. E.A.;
udito nell’udienza pubblica del 5 febbraio 2019 il Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto che, con ordinanza del 13 dicembre 2016 (r.o. n. 178 del 2017), il Tribunale ordinario di Torino, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 65, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), come modificato dall’art. 13, comma 1, della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013), nonché dell’art. 74, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui limitano ai soli cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo l’accesso all’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori e a quello di maternità, per contrasto con gli artt. 3, 10, secondo comma – quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – e 38 della Costituzione;
che il rimettente ha premesso di dover decidere in merito alle controversie instaurate da una cittadina marocchina, legalmente soggiornante nel territorio italiano in via continuativa da più di cinque anni, titolare di un permesso di soggiorno per motivi familiari, ossia per coesione con il marito, madre di tre figli, tutti nati a Torino e muniti di regolare permesso di soggiorno, alla quale, in base alle disposizioni qui denunciate, erano state negate le provvidenze sopradette a causa del mancato possesso del «permesso di soggiorno CE di lungo periodo»;
che, in punto di rilevanza, il giudice osserva che la ricorrente ha dimostrato di possedere tutti i requisiti fondanti il diritto al percepimento di entrambi gli assegni, ad eccezione del titolo di soggiorno richiesto dalle disposizioni censurate, le quali, pertanto, costituiscono l’unico ostacolo all’accoglimento della domanda della ricorrente nel giudizio a quo;
che, ad avviso del giudice rimettente, non sarebbe possibile procedere alla disapplicazione delle disposizioni in questione «in quanto il contrasto che parte ricorrente rileva con la normativa comunitaria riguarda norme di principio, espresse in direttive, e alle quali l’Italia ha comunque dato attuazione (proprio con la legge 97/2013), anche se, secondo l’interpretazione attrice, in modo non completo ed insufficiente»;
che non vi sarebbe spazio per un’interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto le disposizioni sottoposte al vaglio di costituzionalità sono chiare nel richiedere espressamente, per i cittadini di paesi terzi, il possesso del titolo di soggiorno di lungo periodo;
che, prosegue il Tribunale di Torino, non sarebbe possibile ritenere la normativa italiana superata dall’Accordo euromediterraneo che istituisce un’associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e il Regno del Marocco, dall’altra, firmato a Bruxelles il 26 febbraio 1996, il quale, all’art. 65, prevede l’estensione ai lavoratori marocchini e ai loro familiari conviventi degli istituti di previdenza sociale, in quanto gli assegni richiesti dalla cittadina straniera attengono all’area dell’assistenza sociale e sono da questa pretesi, non in qualità di familiare convivente di un lavoratore marocchino, bensì come titolare di un autonomo diritto a godere di una prestazione assistenzialistica;
che, in ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo richiama la giurisprudenza di questa Corte, la quale «si è pronunciata più volte in merito al diritto dei cittadini stranieri a godere di previdenze il cui riconoscimento è stato limitato dalla legge dello Stato al possesso dell’allora carta di soggiorno», e a tal fine ricorda, in particolare, le sentenze n. 230 e n. 22 del 2015, n. 40 del 2013, n. 187 del 2010, n. 11 del 2009 e n. 306 del 2008;
che, secondo il rimettente, la normativa censurata violerebbe anzitutto i principi di cui all’art. 3 Cost., poiché, da un lato, avrebbe introdotto «un’ingiustificata disparità di trattamento tra cittadini italiani e cittadini stranieri, entrambi legalmente soggiornanti nel territorio nazionale, laddove soltanto per i secondi è previsto l’ulteriore requisito di essere in possesso della carta o del permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo» e, dall’altro, sarebbe affetta da un vizio di irragionevolezza laddove subordina «il diritto alla ricezione di tali assegni al possesso del permesso di soggiorno CE di lungo periodo, per ottenere il quale, come emerge dalla normativa, è necessario il possesso di un certo reddito minimo», con un’ulteriore ingiustificata discriminazione tra cittadini stranieri legalmente soggiornanti in Italia, titolari di carta o «permesso di soggiorno CE di lungo periodo», e cittadini stranieri legalmente soggiornanti per il medesimo periodo, ma privi di tale certificazione;
che sarebbe altresì violato l’art. 10, secondo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU, che vieta ogni discriminazione fondata sull’origine nazionale, in quanto introdurrebbe un trattamento diversificato tra cittadini italiani e stranieri in ordine al godimento del diritto degli assegni richiesti, subordinandolo, solo per questi ultimi, al possesso della carta o del «permesso di soggiorno CE di lungo periodo»;
che anche l’art. 38 Cost. sarebbe leso, in quanto il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale del cittadino straniero, legalmente soggiornante in Italia da più di cinque anni (parametro che, secondo il rimettente, appare ragionevole alla luce della giurisprudenza costituzionale citata), verrebbe limitato dal possesso di una certificazione di tipo amministrativo;
che nel giudizio si è costituita la parte ricorrente dinanzi al Tribunale di Torino, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate manifestamente inammissibili per insufficienza della motivazione in punto di rilevanza;
che, ad avviso della parte, il giudice a quo non avrebbe infatti sufficientemente spiegato le ragioni per cui la controversia non si sarebbe potuta risolvere applicando la normativa europea e pattizia, atteso che un esame più approfondito della normativa europea avrebbe permesso al giudice di risolvere la controversia applicando il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale previsto dagli artt. 3 e 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, ovvero il divieto di discriminazione in materia di previdenza sociale previsto dall’art. 65 del già citato Accordo euromediterraneo con il Regno del Marocco;
che la difesa della parte richiama, in primo luogo, l’ordinanza di questa Corte n. 95 del 2017, con cui sono state dichiarate inammissibili due analoghe questioni sollevate dai Tribunali ordinari di Bergamo e di Reggio Calabria per omessa considerazione della direttiva 2011/98/UE, e, successivamente, illustra le ragioni a sostegno dell’immediata applicabilità al giudizio a quo sia della normativa dell’Unione europea, sia dell’accordo euromediterraneo sopra citati.
Considerato che, con ordinanza del 13 dicembre 2016 (r.o. n. 178 del 2017), il Tribunale ordinario di Torino, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 65, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), come modificato dall’art. 13, comma 1, della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013), nonché dell’art. 74, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui limitano ai soli cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo l’accesso all’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori e a quello di maternità, per contrasto con gli artt. 3, 10, secondo comma – quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – e 38 della Costituzione;
che le presenti questioni di legittimità costituzionale hanno origine da un giudizio nel quale una cittadina marocchina, titolare di permesso di soggiorno per motivi familiari, ha chiesto l’accertamento del diritto a ottenere l’assegno di maternità (ai sensi dell’art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 151 del 2001) e l’assegno per nuclei familiari con almeno tre figli minori (ai sensi dell’art. 65, comma 1, della legge n. 448 del 1998 e s.m.);
che l’ordinanza di rimessione riferisce che la ricorrente ha dimostrato di possedere tutti i requisiti necessari al percepimento di entrambi gli assegni, ad eccezione del possesso della carta di soggiorno, ora permesso di soggiorno per lungo residenti, disciplinato dalla direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo;
che il citato titolo di soggiorno è esplicitamente richiesto dalle disposizioni censurate;
che il giudice rimettente ravvisa nel requisito del possesso della carta di soggiorno, ora permesso di soggiorno UE per i soggiornanti di lungo periodo, una discriminazione ai danni dei cittadini di paesi terzi nel godimento di prestazioni assistenziali, quali l’assegno di maternità e l’assegno per nuclei familiari numerosi, in violazione degli artt. 3, 10, secondo comma – in relazione all’art. 14 CEDU – e 38 Cost.;
che l’ordinanza di rimessione si basa su una inesatta e incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento, all’interno del quale deve essere compreso il problema del diritto alla titolarità dell’assegno di maternità e dell’assegno per nuclei familiari con più di tre figli, da parte di cittadini di paesi terzi;
che, più specificamente, quanto ai profili di diritto dell’Unione europea, l’ordinanza si riferisce genericamente ed erroneamente a «norme di principio, espresse in direttive, e alle quali l’Italia ha comunque dato attuazione (proprio con la legge 97/2013)», richiamando così indirettamente e impropriamente solo la normativa relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, non riferibile alla controversia in esame in quanto la ricorrente è sprovvista proprio di detto status;
che il rimettente ha per contro del tutto ignorato la direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, e, in particolare, la disciplina dettata dal suo art. 12, che riconosce a determinate categorie di cittadini di paesi terzi il diritto alla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne i settori della «sicurezza sociale», come definiti dal regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale;
che, a mente dell’art. 3, paragrafo 1, lettera b), la medesima direttiva 2011/98/UE si applica anche «ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002»;
che il titolo di soggiorno posseduto dalla ricorrente potrebbe rientrare nella categoria di beneficiari individuata dall’art. 3, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/98/UE, atteso che il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, indicato nelle premesse dell’ordinanza di rimessione, è un titolo che non preclude al cittadino di un paese terzo di lavorare in Italia;
che, quanto alla individuazione degli ambiti della «sicurezza sociale» a cui si applica il principio di parità di trattamento disposto dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, occorre fare riferimento al regolamento (CE) n. 883/2004;
che l’art. 3, paragrafo 1, del suddetto regolamento include «le prestazioni di maternità» (lettera b) e «le prestazioni familiari» (lettera j);
che il rimettente ha altresì del tutto trascurato la copiosa giurisprudenza di merito espressasi in materia e, soprattutto, ha ignorato le pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea, più volte intervenuta sulla portata del principio di parità di trattamento di cui all’art. 12 della citata direttiva 2011/98/UE;
che quindi, come questa Corte ha già avuto modo di rilevare in relazione ad un’analoga questione, decisa con ordinanza n. 95 del 2017, il giudice rimettente avrebbe dovuto prendere in esame la suddetta direttiva 2011/98/UE – e in particolare il principio di parità di trattamento, come interpretato dalla Corte di giustizia – e valutarne l’applicabilità nel caso sottoposto al suo giudizio;
che le argomentazioni spese nella specie dal Tribunale rimettente non sono quindi sufficienti a soddisfare l’onere motivazionale richiesto nei giudizi di costituzionalità in via incidentale ai fini dell’ammissibilità della questione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 65, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), come modificato dall’art. 13, comma 1, della legge 6 agosto 2013, n. 97 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013), e dell’art. 74, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma – quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – e 38 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torino, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 febbraio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 marzo 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA