SENTENZA N. 100
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria nel procedimento vertente tra la S.C.T. Group srl (già S.C.T. Sistemi di Controllo Traffico srl) e il Comune di Alassio e altri, con ordinanza del 15 novembre 2018, iscritta al n. 77 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti l’atto di costituzione della S.C.T. Group srl (già S.C.T. Sistemi di Controllo Traffico srl);
udito il Giudice relatore Giancarlo Coraggio secondo le prescrizioni del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1) lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 5 maggio 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 5 maggio 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha sollevato, in riferimento all’art. 76 della Costituzione – ed in relazione all’art. 1, comma 1, lettere a) ed eee), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 (Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture) – questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti danno conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.
1.1.- Il rimettente espone in punto di fatto che:
- la società ricorrente, S.C.T. Sistemi di Controllo Traffico srl, gestiva, in esito a procedura aperta bandita nell’anno 2011, il servizio di parcheggio a pagamento nel Comune di Alassio;
- quest’ultimo, nel corso del 2017, in prossimità della scadenza del contratto stipulato con la ricorrente, aveva bandito una gara pubblica per l’affidamento di diversi servizi nel campo della mobilità, tra cui quello di gestione della sosta a pagamento;
- la gara era andata deserta e l’amministrazione, anziché indire una nuova procedura con diversi parametri economici e minori investimenti a carico del concessionario, aveva prorogato, alle medesime condizioni, il contratto di affidamento a S.C.T.;
- il Comune di Alassio aveva in seguito affidato, senza gara, il servizio di gestione dei parcheggi alla società in house GE.S.CO. srl;
- la ricorrente ha impugnato la deliberazione della Giunta comunale 7 maggio 2018, n. 154, di affidamento del servizio, per il periodo 11 giugno 2018-31 dicembre 2023, alla società in house GE.S.CO. srl, nonché la presupposta deliberazione del Consiglio comunale 5 aprile 2018, n. 25, di approvazione della relazione illustrativa delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per l’affidamento in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, richiesta dall’art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221;
- a sostegno del ricorso, la S.C.T. ha proposto un’unica articolata censura, rubricata «violazione dell’art. 106 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e dei principi comunitari in materia di in house providing – violazione dell’articolo 1 della L. n. 241/1990 e del principio di trasparenza – violazione dell’articolo 3 della legge 241/1990 e del principio della motivazione – violazione dell’articolo 192, comma 2, del d.lgs. 50/2016 – violazione dell’art. 34, comma 20, decreto-legge 179/2012 – violazione degli articoli 3 bis commi 1 bis e 6 bis del d.l. 138/2011 – eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento e della carenza di istruttoria»;
- sotto un primo profilo, la ricorrente lamenta la violazione dei princìpi comunitari in materia di in house providing, non avendo l’amministrazione dato adeguatamente conto della preferenza per tale modello rispetto alle altre possibili forme di affidamento, delle valutazioni economico-qualitative dei servizi offerti e della verifica dell’effettiva capacità del gestore di svolgere correttamente il servizio affidato; nonchè la violazione dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 (d’ora in avanti: codice dei contratti pubblici), ai sensi del quale l’affidamento diretto dovrebbe essere necessariamente preceduto da una valutazione che dia conto delle ragioni che fanno propendere per una delle diverse tipologie, «motivando, secondo una logica di preferenza via via decrescente, in ordine all’impossibilità di utilizzare: 1) in prima battuta, lo strumento – altrimenti sempre preferibile – dell’affidamento mediante procedura di evidenza pubblica; 2) in subordine, quello dell’affidamento a società mista, che in ogni caso presuppone la gara per la scelta del socio privato; 3) in via di ulteriore subordine, quello dell’affidamento in house e senza gara»;
- sotto un secondo profilo, incentrato sull’inesistenza di qualsiasi comparazione tra le forme di gestione e sulla carenza di motivazione e istruttoria, la ricorrente deduce che sarebbe quanto meno «sospetto» il comportamento del Comune, che, dopo avere bandito una procedura andata deserta a causa di valutazioni tecnico-economiche sugli investimenti necessari palesemente erronee, anziché «aggiustare il tiro», con l’indizione di una nuova procedura strutturata su un progetto tecnico-economico sostenibile per il mercato, avrebbe sottratto ad ogni possibile confronto concorrenziale soltanto una parte dei servizi precedentemente posti in gara (la gestione dei parcheggi a pagamento); «[l]a stessa progressione temporale degli atti impugnati costituirebbe spia dell’eccesso di potere per sviamento, apparendo verosimile che la decisione di affidare il servizio in house fosse antecedente, e prescindesse del tutto dalle valutazioni contenute nella relazione illustrativa», predisposta dal Comune ai sensi dell’art. 34, comma 20, del d.l. n. 179 del 2012;
- oltre alla domanda di annullamento la ricorrente ha spiegato anche domanda risarcitoria;
- il Comune di Alassio, costituitosi in giudizio, ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, essendo il contratto con la ricorrente scaduto l’11 giugno 2018, e, nel merito, ne ha chiesto il rigetto.
1.2.- Ciò premesso, il rimettente afferma, in punto di rilevanza, che l’eccezione di inammissibilità del ricorso è infondata, dal momento che, secondo la pacifica giurisprudenza amministrativa, la semplice qualità di operatore del settore legittimerebbe senz’altro la ricorrente a impugnare l’affidamento diretto.
Il TAR Liguria deduce, poi, che il contratto per cui è causa ha ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza e rientra, in ragione dell’importo del canone di concessione (euro 200.000,00 annui, dall’11 gennaio 2018 al 31 dicembre 2023), nella soglia di rilevanza comunitaria di cui all’art. 4, lettera c), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE.
Osserva ancora il rimettente che la norma sospettata di illegittimità costituzionale impone alle stazioni appaltanti di valutare l’opportunità e la convenienza dei provvedimenti di affidamento in house, alla luce, innanzitutto, «delle ragioni del mancato ricorso al mercato», di cui occorre dare conto in motivazione.
Essa costituirebbe, dunque, alla luce dell’unico motivo di ricorso, il parametro legislativo alla stregua del quale il rimettente è chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti impugnati, sotto il profilo dell’indicazione espressa delle ragioni del mancato ricorso al mercato e della congruità e/o adeguatezza delle stesse, e ciò perché la società S.C.T. non contesterebbe affatto la sussistenza, in capo alla controinteressata GE.S.CO. srl, delle condizioni stabilite dall’art. 5, comma 1, lettere a), b) e c), del codice dei contratti pubblici per il legittimo ricorso all’in house providing (controllo dell’amministrazione aggiudicatrice analogo a quello esercitato sui propri servizi, 80 per cento dell’attività della controllata effettuato nello svolgimento dei compiti affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante, e assenza di partecipazione diretta di capitali privati).
1.3.- In relazione alla non manifesta infondatezza, il TAR Liguria afferma che è noto l’ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull’in house providing, che costituisce una modalità di aggiudicazione di una concessione o di un appalto pubblici a soggetti formalmente distinti ma sottoposti ad un controllo talmente penetrante di un’amministrazione da costituirne sostanzialmente un’articolazione organizzativa, e che rappresenta una modalità alternativa all’esternalizzazione (così detto outsourcing) mediante l’avvio di una procedura di evidenza pubblica.
L’istituto, di origine pretoria, avrebbe trovato la sua prima codificazione nell’ordinamento europeo ad opera della citata direttiva 2014/24/UE, la quale, al quinto considerando, afferma che «nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva».
Si tratterebbe di una specifica applicazione del principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche, più efficacemente scolpito dall’art. 2, comma 1, della direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, a mente del quale la medesima direttiva «riconosce il principio per cui le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni».
Coerentemente con tale principio, l’art. 12 della direttiva 2014/24/UE escluderebbe espressamente dal proprio ambito di applicazione gli appalti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice a una persona giuridica di diritto pubblico o privato, quando siano soddisfatte le tre condizioni proprie dell’in house (quelle recepite dall’art. 5 del codice dei contratti pubblici).
Secondo il rimettente, dunque, potrebbe definitivamente considerarsi acquisito, quantomeno in ambito europeo, che l’in house providing non configura un’ipotesi eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica.
Tale principio potrebbe ritenersi operante anche nell’ordinamento nazionale, posto che, ai sensi del citato art. 34, comma 20, del d.l. n. 179 del 2012, «[p]er i servizi pubblici locali di rilevanza economica […] l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste».
1.4.- Questo essendo il quadro normativo di riferimento, il TAR Liguria ritiene che l’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, nell’imporre un onere motivazionale supplementare circa le ragioni del mancato ricorso al mercato, abbia palesemente ecceduto rispetto ai principi e ai criteri direttivi contenuti nella legge delega n. 11 del 2016, in violazione dell’art. 76 Cost.
L’art. 1, comma 1, della legge delega – prosegue il rimettente – ha infatti fissato, tra gli altri, i seguenti princìpi e criteri direttivi: 1) alla lettera a), il cosiddetto divieto di gold plating, ossia di introduzione o mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall’art. 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005); 2) alla lettera eee), la garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico (cosiddetti affidamenti in house), prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione, e l’istituzione, a cura dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house (ovvero che esercitano funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire affidamenti diretti).
Secondo il rimettente, la norma sospettata d’illegittimità costituzionale avrebbe innanzitutto violato il criterio direttivo di cui alla lettera a), in quanto avrebbe introdotto un onere amministrativo di motivazione più gravoso rispetto a quello strettamente necessario per l’attuazione della direttiva 2014/24/UE, che ammette senz’altro gli affidamenti in house ove ricorrano le tre condizioni di cui all’art. 12.
In secondo luogo, sarebbe stato violato il criterio direttivo di cui alla menzionata lettera eee), poiché l’introduzione dell’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato non troverebbe «alcun addentellato» nel citato criterio e, soprattutto, non avrebbe nulla a che vedere con la valutazione sulla congruità economica delle offerte o con la pubblicità e la trasparenza degli affidamenti mediante l’istituzione, a cura dell’ANAC, di un elenco di soggetti aggiudicatori di affidamenti in house.
2.- Con atto d’intervento depositato nella cancelleria di questa Corte il 18 giugno 2019, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità e la non fondatezza della questione sollevata dal rimettente.
2.1.- Dopo avere ricostruito i fatti di causa e il quadro normativo di riferimento, l’interveniente osserva che «[a]l legislatore delegato, secondo la giurisprudenza costituzionale, spettano […] margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che ne sia rispettata la ratio e che l’attività del delegato si inserisca in modo coerente nel complessivo quadro normativo (sentenze n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, n. 119 del 2013). L’art. 76 Cost. non riduce, infatti, la funzione del legislatore delegato ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal legislatore delegante» (sentenza n. 250 del 2016).
2.2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri osserva, poi, quanto alla dedotta violazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega, che essa prescrive «il divieto di introduzione o mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dell’art. 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246». Secondo il comma 24-ter, «[c]ostituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie: a) l’introduzione o il mantenimento di requisiti, standard, obblighi e oneri non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive; b) l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l’introduzione o il mantenimento di sanzioni, procedure o meccanismi operativi più gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l’attuazione delle direttive».
Lo scopo del criterio direttivo sarebbe quello di scongiurare il gold plating, delineato dalla Commissione europea nella comunicazione dell’8 ottobre 2010 «Smart regulation in the European Union», ossia la pratica delle istituzioni nazionali di andare oltre quanto richiesto dall’Unione nel recepimento della legislazione europea.
L’esatta individuazione di tale fenomeno andrebbe operata tenendo conto della finalità di omogeneità che la legislazione europea mira a realizzare nell’ambito dell’Unione, per garantire parità concorrenziale tra i suoi cittadini. Ove la legislazione europea riconosca ai singoli Stati facoltà di autonoma disciplina, in relazione alla individuazione di più stringenti sistemi di tutela, non potrebbe ravvisarsi una ipotesi di gold plating.
Essa, dunque, non parrebbe configurabile nel caso di specie, poiché la legislazione nazionale di recepimento non comporta una diminuzione della necessaria parità concorrenziale nell’ambito delle procedure di gara per l’assegnazione degli appalti.
La norma sospetta d’illegittimità costituzionale, per contro, muovendo dalla «presunzione di preferibilità» delle procedure ad evidenza pubblica rispetto al modulo in house, si porrebbe nella direzione della necessaria realizzazione di un vasto regime di concorrenzialità.
Il criterio di delega in questione, inoltre, andrebbe inteso nel senso che il divieto di introduzione di requisiti standard, obblighi, e oneri opera qualora tali restrizioni siano poste a carico del cittadino comunitario e non anche dell’amministrazione.
2.3.- Nemmeno potrebbe ritenersi violato il criterio di cui all’art. 1, comma 1, lettera eee), della legge delega, che prescrive, in ipotesi di affidamento in house, «l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione».
Se l’obbligo di motivazione previsto dalla norma censurata di certo non costituisce «valutazione di congruità delle offerte», ponendosi a monte di tale fase, ciò non significherebbe che la sua previsione sia in contrasto con il criterio di delega indicato.
Come già rammentato, del resto, residuerebbero in capo al legislatore delegato margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che ne sia rispettata la ratio e che l’attività del delegato si inserisca in modo coerente nel complessivo quadro normativo di riferimento.
3.- Con memoria depositata in cancelleria il 17 giugno 2019, si è costituita la Group srl (già S.C.T. Sistemi di Controllo Traffico srl), ricorrente nel giudizio a quo, instando per la non fondatezza e l’inammissibilità delle questioni sollevate dal rimettente.
3.1.- Dopo avere ripercorso le vicende di causa, la parte costituita si è soffermata, in primo luogo, sulla dedotta violazione del divieto di gold plating.
Nel parere n. 855 del 1° aprile 2016 dell’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato, avente ad oggetto lo schema di decreto legislativo recante «Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 28 gennaio 2016, n. 11», si sarebbe osservato che «la legge delega da un lato impone al Governo il divieto di gold plating e il recepimento degli strumenti di flessibilità previsti dalle direttive, dall’altro consente essa stessa criteri di maggior rigore rispetto alle direttive».
Tale contraddizione, solo apparente, si spiegherebbe, secondo il Consiglio di Stato, con l’esigenza di trovare «un temperamento a tutela di interessi e obiettivi ritenuti dal Parlamento più meritevoli, quali sono la prevenzione della corruzione e la lotta alla mafia, la trasparenza, una tutela rafforzata della concorrenza, la salvaguardia di valori ambientali e sociali».
Il Consiglio di Stato avrebbe quindi sottolineato come il «divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive va rettamente interpretato in una prospettiva di riduzione degli “oneri non necessari”, e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive. Così, in termini generali, il maggior rigore nel recepimento delle direttive deve, da un lato, ritenersi consentito nella misura in cui non si traduce in un ostacolo ingiustificato alla concorrenza; dall’altro, ritenersi giustificato (quando non imposto) dalla salvaguardia di interessi e valori costituzionali».
Anche alla luce di tali premesse, sarebbe significativo che il parere citato abbia individuato le norme del decreto delegato che costituiscono un recepimento delle direttive più oneroso del cosiddetto “minimo comunitario”, non includendovi quella sospettata d’illegittimità costituzionale dal TAR Liguria.
Sotto altro e diverso profilo, andrebbe poi evidenziato che l’art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega vieta l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, «come definiti dall’articolo 14, commi 24-ter e 24-quater della legge 28 novembre 2005, n. 246».
A sua volta il citato comma 24-quater, nel chiarire i limiti operativi e funzionali del gold plating, avrebbe disposto che «l’amministrazione dà conto delle circostanze eccezionali, valutate nell’analisi d’impatto della regolamentazione, in relazione alle quali si rende necessario il superamento del livello minimo di regolazione comunitaria».
Sarebbe quindi dirimente l’osservazione che nell’analisi di impatto della regolamentazione (AIR) relativa allo schema di decreto legislativo poi divenuto il codice dei contratti pubblici tra le principali criticità emerse vi sia proprio «il ricorso eccessivo e ingiustificato all’in house».
Ne discenderebbe che il divieto di gold plating, in sede di attuazione della delega legislativa: 1) è destinato a trovare un necessario contemperamento nella tutela di valori costituzionali preminenti, quali l’efficienza e il buon andamento della pubblica amministrazione, l’ottimale impiego delle risorse pubbliche e – non ultimo – la trasparenza degli atti amministrativi; 2) deve tener conto delle concrete esigenze e criticità dell’ordinamento interno, come evidenziato nell’AIR; 3) risulta comunque finalizzato a garantire l’assenza di ostacoli ingiustificati alla concorrenza e alla parità di trattamento degli operatori presenti nel mercato, non potendo essere inteso come un «rafforzamento», ancorché indiretto, dei limiti posti all’apertura al confronto concorrenziale dei servizi pubblici.
3.2.- Ancora, la norma censurata si porrebbe in continuità con le scelte compiute dal legislatore a far tempo almeno dal 2008.
Ed infatti, l’art. 23-bis, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, prevedeva che, nel caso di affidamenti in house, «l’ente affidante deve dare pubblicità alla scelta motivandola in base ad un’analisi di mercato».
Il successivo e a tutt’oggi vigente art. 34, comma 20, del d.l. n. 179 del 2012, in materia di affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in conformità agli obblighi di trasparenza e motivazione degli atti amministrativi, impone all’amministrazione, quale che sia la forma di gestione prescelta (evidenza pubblica o affidamento diretto), di dare conto, in una apposita relazione, delle ragioni che la hanno determinata.
Poiché la gestione in house si contrappone, come unica alternativa, alle diverse ipotesi di ricorso al mercato, sarebbe evidente, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, che la motivazione dell’affidamento diretto non possa prescindere dallo spiegare perché si è deciso di non aprire il confronto con il mercato.
Tali «canoni interpretativi» avrebbero trovato «positiva rispondenza» nell’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, che, a differenza di quanto sostenuto dal rimettente, non richiederebbe un più gravoso onere motivazionale rispetto a quello imposto dall’art. 34, comma 20, del d.l. n. 179 del 2012.
La norma censurata, dunque, lungi dal concretizzare un eccesso di delega, si collocherebbe nel solco delle scelte già compiute dal legislatore, il che sarebbe logico in un’attività di codificazione che deve coordinarsi con il tessuto normativo preesistente.
3.3.- Fermo quanto sopra dedotto, l’onere motivazionale in questione non concreterebbe alcuna ipotesi di gold plating, perché, come si ricaverebbe dalla giurisprudenza costituzionale in materia di affidamenti interorganici, esso è posto a tutela della concorrenza.
In particolare – aggiunge la parte – questa Corte, nel valutare la legittimità delle condizioni più rigorose rispetto al diritto comunitario all’epoca poste dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, per il ricorso all’affidamento in house, ha affermato che tale maggior rigore «[non] si pone in contrasto […] con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a principi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato» (si cita la sentenza n. 325 del 2010).
Tale orientamento sarebbe stato confermato dalla successiva giurisprudenza costituzionale, che avrebbe ribadito come l’affidamento in regime di delegazione interorganica «costituisc[a] un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica» (sentenza n. 46 del 2013).
Queste considerazioni non sarebbero smentite neppure dalle sopravvenute direttive 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione e 2014/24/UE sugli appalti pubblici.
Osserva la parte, infatti, che il primo considerando di quest’ultima direttiva ribadisce che «[l]’aggiudicazione degli appalti pubblici da o per conto di autorità degli Stati membri deve rispettare i principi del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e in particolare la libera circolazione delle merci, la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi, nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza. Tuttavia, per gli appalti pubblici con valore superiore a una certa soglia è opportuno elaborare disposizioni per coordinare le procedure nazionali di aggiudicazione degli appalti in modo da garantire che a tali principi sia dato effetto pratico e che gli appalti pubblici siano aperti alla concorrenza».
Sarebbe, d’altro canto, principio pacifico della giurisprudenza comunitaria, confermato anche successivamente all’entrata in vigore delle citate direttive, quello secondo cui l’obiettivo principale delle norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici è la libera circolazione delle merci e dei servizi e l’apertura a una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, sicché qualsiasi deroga all’applicazione di tale obbligo deve essere interpretata restrittivamente.
3.4.- Quanto alla presunta violazione del criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 1, lettera eee), della legge delega n. 11 del 2016, la S.C.T. Group srl afferma che la tesi del rimettente non considera il dato letterale della disposizione, che individua come criteri direttivi «[l]a garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house».
Il criterio direttivo, cioè, prevede, in primo luogo, il rispetto del principio, di rango costituzionale, di trasparenza dell’azione amministrativa, che non potrebbe essere garantito, contrariamente a quanto dedotto dal rimettente, dalla mera istituzione presso l’ANAC dell’elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house o dalla sola pubblicazione degli atti di affidamento, ma richiederebbe una loro puntule motivazione, in conformità alla tradizione legislativa e giurisprudenziale del nostro ordinamento.
4.- Con memoria depositata il 14 aprile 2020 la parte costituita ha ulteriormente illustrato le argomentazioni già svolte e ha dedotto che la Corte di giustizia dell’Unione europea, con due recenti pronunce (quarta sezione, sentenza 3 ottobre 2019, in causa C-285/18, Irgita, e nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa), avrebbe fugato ogni dubbio in ordine alla compatibilità comunitaria della norma indubbiata dal TAR Liguria.
Con l’ultima sentenza citata, in particolare, la Corte di giustizia, su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, avrebbe affermato che l’art. 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE non osta ad una norma nazionale (l’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici) che subordina la conclusione di un’operazione interna (cosiddetto affidamento in house) all’impossibilità di procedere all’aggiudicazione di un appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna.
Alla luce di tale esplicita presa di posizione della Corte di giustizia, sarebbe ancora più evidente la non contrarietà della norma censurata ai criteri di delega invocati dal rimettente.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti danno conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.
La norma censurata violerebbe l’art. 76 della Costituzione, in relazione ai criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 1, lettere a) ed eee), della legge 28 gennaio 2016, n. 11 (Deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture).
Più in particolare, l’art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016, che pone il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie (cosiddetto gold plating), sarebbe violato perché l’onere di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato non sarebbe previsto dalle direttive medesime.
L’art. 1, comma 1, lettera eee), della citata legge delega sarebbe invece violato poiché prescriverebbe, «per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico», la valutazione della congruità economica delle offerte degli affidatari, nonché la pubblicità e la trasparenza degli affidamenti, mediante l’istituzione, a cura dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), di un elenco di enti aggiudicatori, ma non l’ulteriore onere, introdotto dal legislatore delegato, di specifica motivazione delle ragioni del mancato ricorso al mercato.
2.- Il rimettente, nel motivare l’ammissibilità della questione, afferma che: 1) l’eccezione di inammissibilità del gravame per essere la ricorrente non legittimata all’impugnazione è infondata, dal momento che la semplice qualità di operatore del settore della gestione del servizio di parcheggio a pagamento la legittima senz’altro a impugnare l’affidamento diretto ad una concorrente; 2) il contratto per cui è causa ha ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza e rientra, in ragione dell’importo del canone di concessione (euro 200.000,00 annui, dall’11 gennaio 2018 al 31 dicembre 2023), nella soglia di rilevanza comunitaria di cui all’art. 4, lettera c), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE; 3) la norma costituisce, alla luce dell’unico motivo di ricorso, il parametro legislativo alla stregua del quale il rimettente medesimo è chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti impugnati, sotto il profilo dell’indicazione espressa delle ragioni del mancato ricorso al mercato e della loro congruità e adeguatezza.
2.1.- La motivazione sulla rilevanza della questione è plausibile, ma con la precisazione che l’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 (d’ora in avanti codice dei contratti pubblici) riguarda tutti i casi di affidamento in house di contratti aventi ad oggetto «servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza», anche ove si tratti di contratti sotto soglia, per i quali, ai sensi dell’art. 36 del medesimo codice, è comunque prevista una gara semplificata (fatte salve ipotesi minimali di affidamento diretto non ricorrenti nel caso di specie) in alternativa a quella ordinaria (in ogni caso e quindi anche per le cennate ipotesi minimali).
Ciò rende irrilevante la mancata motivazione sulla riconducibilità dell’affidamento oggetto del giudizio a quo al modulo dell’appalto di servizi (come sembra ritenere il rimettente, che invoca la direttiva 2014/24/UE), piuttosto che a quello della concessione, avente una soglia ben più elevata, che nel caso di specie non sarebbe raggiunta.
3.- Nel merito, la questione – che ripropone sotto l’angolo visuale del vizio di delega, il noto dibattito, particolarmente vivo nella giurisprudenza amministrativa, sulla natura generale o eccezionale dell’affidamento in house – non è fondata in relazione ad entrambi i parametri interposti dedotti.
4.- Quanto alla violazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016, va in primo luogo precisato che il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie (il cosiddetto gold plating) è imposto da tale criterio direttivo e dalle norme da esso richiamate, ma non è un principio di diritto comunitario, il quale, come è noto, vincola gli Stati membri all’attuazione delle direttive, lasciandoli liberi di scegliere la forma e i mezzi ritenuti più opportuni per raggiungere i risultati prefissati (salvo che per le norme direttamente applicabili).
Il termine gold plating, tuttavia, compare nella comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, dell’8 ottobre 2010, che reca delle riflessioni e delle proposte per il raggiungimento dell’obiettivo di una legiferazione «intelligente», comunitaria e degli Stati membri, in grado di ridurre gli oneri amministrativi a carico dei cittadini e delle imprese.
Tra le iniziative che la Commissione ha adottato per migliorare la qualità della legislazione vigente vi è quella di richiedere «una relazione sulle migliori pratiche negli Stati membri per un’attuazione meno onerosa della legislazione UE», contestualmente impegnandosi ad approfondire «l’analisi del fenomeno delle “regole aggiuntive” (il cosiddetto “gold plating”)».
Nella comunicazione si precisa che «[i]l termine gold-plating si riferisce alla prassi delle autorità nazionali di regolamentare oltre i requisiti imposti dalla legislazione UE, in sede di recepimento o di attuazione in uno Stato membro».
4.1.- Nel nostro ordinamento il divieto di gold plating è stato introdotto dall’art. 15, comma 2, lettera b), della legge 12 novembre 2011, n. 183, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. (Legge di stabilità 2012)», con l’inserimento nell’art. 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005), dei commi 24-bis, ter e quater.
Il comma 24-bis recita: «[g]li atti di recepimento di direttive comunitarie non possono prevedere l’introduzione o il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive stesse, salvo quanto previsto al comma 24-quater».
Il comma 24-ter, poi, puntualizza quali debbano intendersi livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie, ovvero: «a) l’introduzione o il mantenimento di requisiti, standard, obblighi e oneri non strettamente necessari per l’attuazione delle direttive; b) l’estensione dell’ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari; c) l’introduzione o il mantenimento di sanzioni, procedure o meccanismi operativi più gravosi o complessi di quelli strettamente necessari per l’attuazione delle direttive».
Il comma 24-quater, infine, dispone che [l’]amministrazione dà conto delle circostanze eccezionali, valutate nell’analisi d’impatto della regolamentazione, in relazione alle quali si rende necessario il superamento del livello minimo di regolazione comunitaria. Per gli atti normativi non sottoposti ad AIR, le Amministrazioni utilizzano comunque i metodi di analisi definiti dalle direttive di cui al comma 6 del presente articolo».
5.- Ebbene, da tali disposizioni emerge con chiarezza che la ratio del divieto, assurto a criterio direttivo nella legge delega n. 11 del 2016, è quella di impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini, mentre è evidente che la norma censurata si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto è volta ad allargare il ricorso al mercato.
La rilevanza di questa finalità è riconosciuta anche dall’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato, nel parere n. 855 del 1° aprile 2016, relativo allo schema di decreto legislativo recante «Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 28 gennaio 2016, n. 11», in cui si osserva che «il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive” va rettamente interpretato in una prospettiva di riduzione degli “oneri non necessari”, e non anche in una prospettiva di abbassamento del livello di quelle garanzie che salvaguardano altri valori costituzionali, in relazione ai quali le esigenze di massima semplificazione e efficienza non possono che risultare recessive».
5.1.- La correttezza di tale linea interpretativa trova poi conferma nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, che, nell’affermare la non contrarietà della norma oggi scrutinata all’art. 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE, ha ribadito che dal principio di libera autorganizzazione delle autorità pubbliche (di cui al quinto considerando della direttiva 2014/24/UE e all’art. 2, paragrafo 1, della direttiva 2014/23 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione) discende la «libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze» e, conseguentemente, quel principio «li autorizza a subordinare la conclusione di un’operazione interna all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna» (Corte di giustizia, nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa, resa su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, sezione quinta, con ordinanze 7 gennaio 2019, n. 138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296; nello stesso senso, Corte di giustizia, quarta sezione, sentenza 3 ottobre 2019, in causa C-285/18, Irgita).
6.- L’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato imposto dall’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, che risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza, non è dunque in contrasto con il criterio previsto dall’art. 1 comma 1, lettera a), della legge delega n. 11 del 2016.
7.- Nemmeno sussiste la violazione dell’art. 1, comma 1, lettera eee), della medesima legge delega, che impone, per quanto qui rileva, di garantire «adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell’ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all’affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto e al valore della prestazione».
8.- Va evidenziato anzitutto che il criterio direttivo trova il suo epicentro non tanto nel generico obbligo di adeguata pubblicità e trasparenza – che, in quanto principio fondamentale dell’azione amministrativa (art. 97 Cost. e art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»), non richiede una conferma nelle normative di settore – quanto nel suo essere riferito, in particolare, agli affidamenti diretti, segno di una specifica attenzione a questo istituto già da parte del legislatore delegante.
È dunque alla stregua di questo dato che occorre valutare la scelta del legislatore delegato di imporre, per tali casi, un onere di motivazione circa il mancato ricorso al mercato.
8.1.- La valutazione, peraltro, va fatta anche alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, che riconosce al legislatore delegato margini di discrezionalità e la necessità di tener conto del quadro normativo di riferimento (sentenze n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013), specie quando la delega «riguardi interi settori di disciplina o comunque organici complessi normativi» (sentenza n. 10 del 2018; nello stesso senso, sentenze n. 229 del 2014 e n. 162 del 2012).
Quest’ultimo criterio interpretativo è particolarmente calzante nel caso in esame, in cui si è in presenza di un “codice”, che, come è tipico di tale corpo normativo nell’ambito amministrativo, nell’adeguare la normativa nazionale alle direttive europee, si prefigge anche lo scopo di razionalizzare una disciplina di settore stratificatasi nel tempo.
9.- La norma delegata, in effetti, è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni, e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali, come emerge dalla relazione AIR dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), relativa alle Linee guida per l’istituzione dell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house, ai sensi dell’art. 192 del codice dei contratti pubblici.
9.1.- Già l’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e poi abrogato a seguito di referendum,
richiedeva, tra le altre condizioni legittimanti il ricorso all’affidamento in house nella materia dei servizi pubblici locali, la sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato».
L’onere motivazionale in questione, poi, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, non si discosta, nella sostanza, da quello imposto dall’art. 34, comma 20, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221.
Quest’ultima disposizione, infatti, richiede l’indicazione delle «ragioni» dell’affidamento diretto dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, il rispetto della parità degli operatori e l’adeguata informazione alla collettività di riferimento, e ciò non può che essere letto come necessità di rendere palesi (anche) i motivi che hanno indotto l’amministrazione a ricorrere all’in house invece di rivolgersi al mercato.
A sua volta, l’art. 7, comma 3, dello schema di decreto legislativo di riforma dei servizi pubblici locali di interesse economico generale (adottato ai sensi degli artt. 16 e 19 della legge 7 agosto 2015, n. 124, recante «Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»), stabiliva, tra l’altro, che, «[n]el caso di affidamento in house o di gestione mediante azienda speciale, il provvedimento dà, altresì, specificamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato».
Infine, l’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica), che reca la rubrica «[o]neri di motivazione analitica», manifesta la stessa cautela verso la costituzione e l’acquisto di partecipazioni di società pubbliche (comprese quelle in house), prevedendo, nella sua versione attuale, che «l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica […] deve essere analiticamente motivato […], evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato».
9.2.- Si tratta di una scelta di fondo già vagliata da questa Corte, che – con specifico riferimento alle condizioni allora poste dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, ma con affermazioni estensibili anche al caso odierno – ha osservato: «[s]iffatte ulteriori condizioni […] si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica. Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione più estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano. Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale più rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato –, ma neppure si pone in contrasto […] con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princìpi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato» (sentenza n. 325 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2013).
10.- Si deve dunque concludere che la specificazione introdotta dal legislatore delegato è riconducibile all’esercizio dei normali margini di discrezionalità ad esso spettanti nell’attuazione del criterio di delega, ne rispetta la ratio ed è coerente con il quadro normativo di riferimento (tra le tante, sentenze n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, n. 146 e n. 98 del 2015, e n. 119 del 2013).
11.- La questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, sollevata dal TAR Liguria in riferimento all’art. 76 Cost. ed in relazione all’art. 1, comma 1, lettere a) ed eee), della legge n. 11 del 2016, va quindi dichiarata non fondata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 maggio 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA