SENTENZA N. 127
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, promosso dalla Corte d’appello di Torino, sezione per la famiglia, nel procedimento vertente tra A. C., nella qualità di curatore speciale di R.F. A., e M. A. e altro, con ordinanza del 4 ottobre 2017, iscritta al n. 245 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Giuliano Amato nella camera di consiglio del 26 maggio 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);
deliberato nella camera di consiglio del 26 maggio 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Nel corso di un giudizio di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità, la Corte d’appello di Torino, sezione per la famiglia, con ordinanza del 4 ottobre 2017 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che abbia compiuto tale atto nella consapevolezza della sua non veridicità.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto innanzitutto con l’art. 3 della Costituzione, per l’irragionevole disparità di trattamento tra chi abbia consapevolmente effettuato il riconoscimento non veridico e chi abbia prestato il consenso alla fecondazione assistita eterologa: mentre, nel primo caso, l’art. 263 cod. civ. consente all’autore del riconoscimento di proporre l’impugnazione per difetto di veridicità, invece l’art. 9, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) preclude tale impugnazione a chi abbia prestato consenso al concepimento mediante fecondazione medicalmente assistita.
L’irragionevolezza della disposizione censurata risiederebbe, inoltre, nel consentire a chi abbia consapevolmente scelto di instaurare un rapporto di filiazione di sacrificare l’interesse del soggetto riconosciuto come figlio sulla base di una personale riconsiderazione dei propri interessi, «accampando quale causa quello di cui fin dal principio egli era perfettamente consapevole, ossia la non veridicità del riconoscimento medesimo».
La disposizione censurata si porrebbe in contrasto, altresì, con l’art. 2 Cost., per la violazione dei principi di responsabilità individuale, di solidarietà sociale e di tutela dell’identità personale del figlio.
2.– Il giudizio a quo ha ad oggetto l’appello, proposto dalla curatela di una minore, avverso la sentenza con cui il Tribunale ordinario di Torino – in accoglimento della domanda proposta dall’autore del riconoscimento della stessa minore quale figlia – ha annullato per difetto di veridicità tale riconoscimento, effettuato nel 2004, disponendo le relative annotazioni sui registri dello stato civile. Il giudice a quo riferisce che non forma oggetto di contestazione tra le parti la piena consapevolezza della falsità del riconoscimento da parte del suo autore.
2.1.– Il giudice a quo premette che nel caso in esame non è in discussione nemmeno il rispetto del termine di decadenza per la proposizione dell’azione, posto che la domanda è stata proposta nella vigenza della precedente disciplina che ne prevedeva l’imprescrittibilità. In ogni caso, il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), all’art. 104, comma 10, consente in via transitoria di beneficiare del termine di un anno dall’entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 154 del 2013.
Dopo avere disatteso l’eccezione di nullità della sentenza per il mancato interpello della minore, il rimettente dichiara di condividere la ricostruzione normativa e l’interpretazione fatta propria dal giudice di primo grado, non potendo essere accolti i rilievi dell’appellante, nel senso di attribuire prevalenza all’interesse della minore alla propria identità familiare, comunque realizzatasi.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. sarebbe, dunque, rilevante nel caso in esame, poiché la riforma della sentenza impugnata potrebbe avere luogo solo laddove fosse accolta la questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata.
2.2.– Quanto al merito delle questioni, la Corte di appello premette che non è in discussione la pienezza della discrezionalità legislativa nella disciplina delle diverse situazioni, fermo restando il limite della non manifesta irragionevolezza.
Peraltro, le situazioni fattuali alle quali fanno riferimento sia la disposizione censurata, come ridisegnata dal d.lgs. n. 154 del 2013, sia l’art. 9 della legge n. 40 del 2004 – sotto il profilo soggettivo di colui che pone in essere l’atto determinativo dello “status” del nato, quale figlio proprio – sarebbero assolutamente identiche. In entrambi i casi, infatti, sussistono la consapevolezza di non essere il padre biologico del riconosciuto e la volontà di assumere la paternità e la responsabilità, quale genitore, di un figlio che non è biologicamente il proprio.
In entrambi i casi, alla base del riconoscimento, vi sarebbe un atto consapevole e contra legem: nel caso dell’art. 9 della legge n. 40 del 2004, il consenso alla pratica di procreazione assistita di tipo eterologo e, nel caso del riconoscimento cosiddetto “di compiacenza”, la violazione dell’art. 567 del codice penale. Tuttavia, mentre l’art. 9 della legge n. 40 del 2004 preclude l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, l’art. 263 cod. civ. legittima l’autore del riconoscimento non veritiero all’azione di impugnazione dello stesso.
Osserva il giudice a quo che la ratio sottesa al divieto dell’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 è rappresentata dalla necessità di rispettare il principio, deducibile dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali e entrato a far parte integrante dell’ordinamento italiano, secondo il quale in ogni provvedimento legislativo, amministrativo o giudiziario riguardante un minore l’interesse di quest’ultimo deve sempre essere considerato preminente. Il rimettente richiama, a questo riguardo, la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176; la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
Dovrebbe, quindi, escludersi che colui che, consapevole della difformità dalla realtà biologica, altrettanto consapevolmente abbia scelto di instaurare con un minore un rapporto di filiazione, possa successivamente sacrificare lo status del figlio solo perché la riconsiderazione dei propri interessi, la natura dei quali neanche è tenuto a rappresentare, lo avrebbe indotto a ritrattare il riconoscimento già prestato, adducendo una circostanza di cui fin dal principio egli era perfettamente consapevole, ossia la non veridicità del riconoscimento medesimo.
Ad avviso della Corte d’appello, la situazione in esame sarebbe sostanzialmente identica a quella considerata dall’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004. Tuttavia, la tutela accordata al minore in quest’ultimo caso è viceversa negata nel caso dell’art. 263 cod. civ.
Il rimettente dubita, quindi, della legittimità della disparità di trattamento derivante dall’art. 263 cod. civ., sia in relazione al principio di uguaglianza e ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost., sia in relazione ai principi di responsabilità individuale e di solidarietà sociale, nonché di tutela dell’identità personale, che trovano espressione nell’art. 2 Cost.
Al riguardo, il rimettente osserva che l’identità personale trova il suo elemento caratterizzante proprio nel nome, quale autonomo segno distintivo di tale identità, e che nel contesto sociale l’acquisizione del nome è l’effetto di più immediata percezione del riconoscimento di paternità (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 13 del 1994). Nel caso di specie, sia in considerazione della minore età del soggetto riconosciuto, sia della sua volontà di non rinunciare allo status di figlia, sia del considerevole arco di tempo durante il quale, pubblicamente, si è manifestata la paternità dell’autore del riconoscimento, il cognome paterno è divenuto autonomo segno distintivo dell’identità personale della minore.
2.3.– Si osserva, inoltre, che la questione di legittimità costituzionale sollevata non sarebbe riconducibile ai precedenti già esaminati dalla Corte costituzionale nelle pronunce n. 134 del 1985, n. 158 del 1991 e n. 7 del 2012, tutte relative alla modulazione del termine per la proposizione dell’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ., perché nel caso in esame il dubbio di legittimità costituzionale attiene alla legittimazione all’azione di impugnazione.
D’altra parte, ad avviso del rimettente, l’art. 9 sarebbe idoneo a rappresentare il tertium comparationis, ai fini della valutazione di omogeneità rispetto alla fattispecie disciplinata dall’art. 263 cod. civ. Invero, come affermato dalla indicata ordinanza n. 7 del 2012, il divieto del disconoscimento della paternità o di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, in caso di procreazione medicalmente assistita eterologa, «configura una ipotesi di intangibilità ex lege dello status, la quale (come tale) incide non già sul profilo della imprescrittibilità dell’azione di cui alla norma censurata, quanto piuttosto su quello completamente diverso (e qui non censurato) della legittimazione alla impugnazione medesima». Il giudice a quo fa rilevare che è proprio la legittimazione di colui che impugna il riconoscimento che viene in considerazione nel caso in esame, non già la imprescrittibilità dell’azione.
2.3.1.– Il rimettente osserva, infine, che il petitum rivolto a questa Corte non sarebbe volto a una pronuncia additiva di principio, né alla mera abrogazione dell’art. 263 cod. civ. Infatti, la fattispecie dell’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 coincide con quella del riconoscimento per compiacenza sotto il profilo della consapevolezza della non corrispondenza tra il rapporto di filiazione dichiarato e la effettiva relazione biologica. L’eliminazione di questa irragionevole disparità di trattamento dovrebbe avvenire mediante l’esclusione della legittimazione all’azione di cui all’art. 236 cod. civ. del solo soggetto che ha operato un riconoscimento cosiddetto “compiacente”, mentre rimarrebbe intatto il restante contenuto normativo della disposizione censurata, né si verificherebbe alcun vuoto normativo.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto nel giudizio per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice a quo siano dichiarate inammissibili e comunque manifestamente non fondate.
3.1.– Preliminarmente, è eccepita l’inammissibilità delle questioni poiché volte a ottenere una pronuncia additiva che, sostituendosi alla discrezionalità del legislatore, attribuirebbe rilevanza esclusiva all’interesse del minore, vietando l’azione di impugnazione del riconoscimento a chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua non veridicità.
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, inoltre, l’inammissibilità delle questioni per insufficiente ricostruzione del quadro normativo, tale da riflettersi nel difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Il giudice a quo non avrebbe considerato la portata delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 154 del 2013, che ha sostituito l’originaria imprescrittibilità dell’impugnazione dell’autore del riconoscimento con la previsione di un rigoroso limite temporale (un anno dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita). L’art. 104 dello stesso d.lgs. n. 154 del 2013 ha poi previsto che, per i riconoscimenti effettuati in precedenza, i termini decorrano dalla data di entrata in vigore dello stesso d. lgs. n. 154 del 2013, ossia dal 7 febbraio 2014. Il rimettente non avrebbe, quindi, spiegato perché la sostituzione dell’originaria imprescrittibilità con un limite temporale assai ristretto non valga ad attuare un bilanciamento ragionevole degli interessi contrapposti: quello del figlio alla stabilità dell’assetto familiare e quello dell’autore del riconoscimento non veritiero al ristabilimento della verità e all’esclusione di una falsa relazione parentale.
3.2.– Nel merito, non sussisterebbe la denunciata disparità di trattamento, poiché le situazioni poste a raffronto dal rimettente non sarebbero equiparabili.
Ad avviso della difesa statale, l’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004, laddove vieta il disconoscimento della paternità qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, sarebbe una norma speciale, che disciplina una situazione particolare. Con essa il legislatore ha scelto di privilegiare la tutela del figlio nato dalla fecondazione eterologa, la quale si fonda sul preventivo consenso di coloro che, per effetto di essa, risulteranno genitori.
Diverso sarebbe il caso contemplato dall’art. 263 cod. civ., in cui il nato ha acquisito lo status di figlio per filiazione naturale. Rispetto a esso, rimarrebbe la volontà legislativa di attribuire prevalenza al favor veritatis e di consentire il disconoscimento, sebbene entro limiti temporali ben circoscritti. Questo bilanciamento tra veridicità del riconoscimento e interesse superiore del minore è riservato alla discrezionalità legislatore (sono richiamate le sentenze n. 158 del 1991 e n. 134 del 1985 e l’ordinanza n. 7 del 2012).
Inoltre, l’Avvocatura generale dello Stato richiama anche la sentenza n. 272 del 2017, che proprio con riferimento all’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004, nel raffronto con l’art. 263 cod. civ., constata che «in questo caso, in un’ipotesi di divergenza tra genitorialità genetica e genitorialità biologica, il bilanciamento è stato effettuato dal legislatore attribuendo la prevalenza al principio di conservazione dello status filiationis».
L’Avvocatura generale dello Stato fa notare che anche la giurisprudenza di legittimità, di recente, ha rilevato che l’azione di cui all’art. 263 cod. civ. possiede la peculiare natura delle azioni di stato, le quali incidono in materia dominata da interessi pubblici e sono perciò sottratte alla disponibilità dei privati «senza che ciò violi l’art. 3 Cost.» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 21 febbraio 2019, n. 5242).
Le situazioni disciplinate dagli artt. 263 cod. civ. e 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 sarebbero dunque basate su presupposti fattuali non coincidenti, tali da giustificare, sul piano della ragionevolezza, la previsione di discipline differenti.
Ed invero, si osserva che la prestazione del consenso alla procreazione assistita di tipo eterologo costituisce una conditio della nascita stessa, ossia presume una scelta di genitorialità che precede l’esistenza del soggetto che nascerà ed è diretta alla formazione di un embrione. In questo caso, l’irretrattabilità della scelta e la preclusione dell’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ. sono volte a proteggere il nascituro, evitando di esporlo a eventuali ripensamenti successivi e imponendo la responsabilizzazione di chi sceglie di farlo venire al mondo.
La difesa statale fa, inoltre, rilevare che l’esclusione di un legame parentale fra il donatore dei gameti e il nascituro (prevista dall’art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004) sarebbe coerente con questa impostazione. La preclusione di azioni di contestazione o di rivendicazione della genitorialità, in contrasto con la volontà manifestata dagli attori della vicenda nel momento in cui vi hanno dato avvio, sarebbe volta a prevenire i possibili conflitti che la particolare situazione della fecondazione assistita eterologa potrebbe determinare.
Con la disciplina dell’art. 263 cod. civ., invece, il legislatore ha ritenuto di lasciare uno spazio al favor veritatis, sulla base del rilievo che nel breve arco di tempo indicato (un anno o al massimo cinque), l’identità personale potrebbe non essere considerevolmente incisa, ferma l’eventuale diversa valutazione giudiziale basata sull’interesse del minore, che è comunque sempre sotteso e immanente alla materia delle azioni di stato, come chiarito dalla citata sentenza n. 272 del 2017. In questo caso, l’accertamento della verità naturale, anche attraverso l’impugnazione da parte dell’autore di un riconoscimento non veritiero, appare un mezzo non irragionevole per prevenire successivi conflitti e per stabilizzare gli stati personali dei soggetti coinvolti.
Le scelte sottese alle discipline in esame sarebbero di peso diverso: l’una (quella del consenso alla procreazione assistita di tipo eterologo) investe profili di genitorialità che riguardano il nascituro sin da un momento antecedente al concepimento e sarebbe connotata dalla consapevolezza dell’irretrattabilità della decisione (al pari della genitorialità naturale) e della recisione definitiva di ogni legame con il donatore di gameti, con conseguente impossibilità di individuare in futuro altre figure genitoriali; l’altra (quella del riconoscimento consapevolmente non veritiero) riguarda lo status di un soggetto esistente, la cui genitorialità naturale potrebbe peraltro essere appurata anche successivamente, in virtù dell’esercizio delle opportune azioni di stato da parte di altri legittimati. Gli elementi caratterizzanti le diverse situazioni giustificano scelte normative diverse, non censurabili sul piano della ragionevolezza.
3.3.– Quanto alla lamentata violazione dell’art. 2 Cost., la difesa statale ribadisce che i diversi regimi impugnatori muovono da situazioni fattuali diverse ed hanno una ratio che poggia su un bilanciamento di valori, di competenza del legislatore, che non appare irragionevole. Da ciò discenderebbe la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 263 cod. civ. anche in riferimento all’art. 2 Cost.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Torino, sezione per la famiglia, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio da parte di chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua non veridicità.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto innanzitutto con l’art. 3 della Costituzione, per l’irragionevole disparità di trattamento tra chi abbia consapevolmente effettuato il riconoscimento non veridico e chi abbia prestato il consenso alla fecondazione assistita eterologa: mentre, nel primo caso, l’art. 263 cod. civ. consente all’autore del riconoscimento di proporre l’impugnazione per difetto di veridicità, l’art. 9, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) preclude tale impugnazione a chi abbia prestato consenso al concepimento mediante fecondazione medicalmente assistita.
L’irragionevolezza della disposizione censurata consisterebbe, inoltre, nel consentire, a chi abbia consapevolmente scelto di instaurare un rapporto di filiazione, di sacrificare l’interesse del soggetto riconosciuto come figlio, sulla base di una personale riconsiderazione dei propri interessi, «accampando quale causa quello di cui fin dal principio egli era perfettamente consapevole, ossia la non veridicità del riconoscimento medesimo».
La disposizione censurata si porrebbe in contrasto, altresì, con l’art. 2 Cost., per la violazione dei principi di responsabilità individuale, di solidarietà sociale e di tutela dell’identità personale del figlio.
2.– In via preliminare, occorre esaminare le eccezioni formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio incidentale per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato. La difesa statale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni in quanto volte a ottenere una pronuncia additiva che, sostituendosi alla discrezionalità del legislatore, attribuisca rilevanza allo stato soggettivo di mala fede dell’autore del riconoscimento e ne escluda la legittimazione ad impugnare. Spetterebbe, viceversa, al legislatore stabilire se l’accoglimento di tale impugnazione debba essere subordinato all’interesse del minore all’appartenenza familiare.
Questa eccezione è priva di fondamento.
Il petitum del rimettente mira a precludere l’impugnazione del riconoscimento a chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua non veridicità. L’obiettivo perseguito dal giudice a quo è volto a delimitare l’ambito dei soggetti legittimati a proporre l’azione, escludendone chi abbia consapevolmente effettuato un riconoscimento falso. L’intervento richiesto è, dunque, limitato alla verifica del fondamento costituzionale di questa legittimazione, che, ove risultasse manifestamente irragionevole e contraria all’art. 2 Cost., così come ipotizzato dal rimettente, sarebbe per ciò stesso estranea alle scelte discrezionali rimesse al legislatore. Del resto, sono rinvenibili nell’ordinamento altre fattispecie di preclusione dell’azione ex art. 263 cod. civ., in considerazione di interessi ritenuti meritevoli di tutela. Nessuna manipolazione creativa deriverebbe, pertanto, dall’eventuale accoglimento delle questioni (in questo senso, ex plurimis, sentenze n. 212 e n. 113 del 2019).
2.1.– Non è fondata neppure l’ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, relativa all’insufficiente ricostruzione del quadro normativo, per l’omessa considerazione delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219).
In particolare, ad avviso dell’interveniente, il giudice a quo non avrebbe spiegato perché la previsione di rigorosi limiti temporali per l’impugnazione del riconoscimento, proposta dal suo autore, non valga a realizzare un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di accertamento della verità e l’interesse alla stabilità degli status personali.
Tuttavia, il giudice rimettente, dopo avere dato atto delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 154 del 2013, ha evidenziato che nel giudizio a quo l’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ. è stata proposta prima dell’entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 154 del 2013. Pertanto, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 14 febbraio 2017, n. 3834), a questo giudizio non era applicabile la disciplina dell’art. 263, secondo e quarto comma, cod. civ., come novellato dall’art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013, in vigore dal 7 febbraio 2014 e, in particolare, non erano applicabili i nuovi termini per la proposizione dell’azione. In quanto proposta nella vigenza della disciplina precedente, l’impugnazione proposta dall’autore del riconoscimento non era soggetta a termini. Pertanto, nel caso oggetto del giudizio a quo, l’impugnazione – ancorché proposta a distanza di otto anni dal riconoscimento – era tempestiva.
La rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. non è dunque scalfita dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 154 del 2013, né la motivazione del rimettente denota lacune nella ricostruzione del quadro normativo.
Va, inoltre, rilevato che le modifiche introdotte dall’art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013 sono intervenute sulle disposizioni dei commi secondo e quarto dell’art. 263 cod. civ. e non su quella oggetto di censura. Infatti, mentre la previsione dei soggetti legittimati ad impugnare è contenuta nel primo comma dell’art. 263 cod. civ., le condizioni e i termini per la proposizione dell’azione, invece, sono disciplinate nei successivi commi e sono proprio questi ad essere stati profondamente modificati dal disegno riformatore del 2013. È vero che tali modifiche non possono non incidere sul significato attuale dello stesso primo comma, rimasto per parte sua immutato, ma ciò attiene al merito della questione, non alla sua ammissibilità.
3.– Nel merito, non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. e alla denunciata disparità di trattamento con l’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004.
3.1.– La prospettazione del giudice a quo fa leva sulla ritenuta affinità della situazione dell’autore del riconoscimento consapevolmente falso rispetto a quella di chi abbia prestato il consenso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. L’art. 9 della legge n. 40 del 2004 preclude espressamente l’impugnazione di cui all’art. 263 cod. civ. – oltre che l’azione di disconoscimento della paternità, nei casi previsti dall’art. 235, primo comma, numeri 1) e 2), cod. civ. – al coniuge o al convivente che abbia prestato il proprio consenso a tecniche di procreazione medicalmente assistita. È siffatta preclusione ad essere indicata dal rimettente come tertium comparationis, al fine di evidenziare la disparità di trattamento rispetto alla disposizione censurata.
Il giudice a quo richiama l’ordinanza n. 7 del 2012, in cui questa Corte ha ritenuto che la previsione dell’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 configura «una ipotesi di intangibilità ex lege dello status» e ravvisa delle significative analogie tra la dichiarazione di riconoscimento consapevolmente falsa e il consenso prestato alla procreazione medicalmente assistita. L’elemento unificante delle due situazioni è individuato nella volontaria e consapevole instaurazione del rapporto di filiazione, con conseguente assunzione della responsabilità genitoriale. La ratio della preclusione di cui al suddetto art. 9, comma 1, sarebbe pertanto estensibile all’impugnazione del riconoscimento per compiacenza.
3.2.– Tuttavia, nel caso del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, il divieto d’impugnare il riconoscimento è riferito a particolari situazioni, specificamente qualificate dal legislatore, e riveste carattere eccezionale. Esso è volto a sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una volontà che, in alcuni casi particolari e a certe condizioni, tassativamente previste, rileva ai fini del suo concepimento. È per questo stesso motivo che la legge speciale nega – sempre in via d’eccezione – il diritto di anonimato della madre (art. 9, comma 2, della legge n. 40 del 2004). Si tratta, dunque, di eccezioni rispetto al regime generale della filiazione e il carattere derogatorio si accentua nell’àmbito di una disciplina che connette effetti giuridicamente rilevanti a tecniche altrimenti espressamente vietate.
Né possono essere equiparate la volontà di generare con materiale biologico altrui e la volontà di riconoscere un figlio altrui: nel primo caso, la volontà porta alla nascita una persona che altrimenti non sarebbe nata; nel secondo caso, la volontà del dichiarante si esprime rispetto a una persona già nata. Invero, anche la condizione giuridica del soggetto riconosciuto risulta differente: mentre per la persona nata attraverso procreazione medicalmente assistita eterologa un eventuale accertamento negativo della paternità non potrebbe essere la premessa di un successivo accertamento positivo della paternità biologica, stante l’anonimato del donatore di gameti e l’esclusione di qualsiasi relazione giuridica parentale con quest’ultimo (art. 9, comma 3, della legge n. 40 del 2004). Viceversa, nel caso del falso riconoscimento esiste un genitore “biologico”, la cui responsabilità può venire in gioco.
D’altra parte, il divieto di impugnazione del riconoscimento, previsto dall’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004, si riferisce a un contesto in cui operano alcune garanzie associate alla figura e all’intervento del medico. Viceversa, la fattispecie del riconoscimento per compiacenza è destinata a realizzarsi in situazioni “opache”, al di fuori del circuito medico-sanitario disegnato dalla legge speciale, talora addirittura per aggirare la disciplina dell’adozione, come dimostra la previsione di cui all’art. 74 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), che prevede, infatti, l’attivazione di poteri ufficiosi di segnalazione, accertamento e di impugnazione, ove ricorrano indici del carattere fraudolento del riconoscimento.
Dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso non è, dunque, desumibile un principio generale in base al quale, ai fini dell’instaurazione del rapporto di filiazione, è sufficiente il solo elemento volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione, ovvero dall’adesione a un comune progetto genitoriale. È pur vero che lo sviluppo scientifico ha reso possibili forme di procreazione svincolate dal legame genetico e che l’ordinamento ne ha preso atto. Tuttavia, la disciplina del rapporto di filiazione rimane tuttora strettamente connessa all’esistenza di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori.
Non è possibile, pertanto, fondare la valutazione di irragionevolezza postulata dal giudice a quo sulla disparità di trattamento con la disciplina di cui all’art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004. La differente natura delle fattispecie impedisce, infatti, di considerare la scelta normativa dell’indicato art. 9 come un idoneo tertium comparationis ai fini della valutazione della ragionevolezza estrinseca della disposizione dell’art. 263 cod. civ. Si tratta di fattispecie differenti e la diversità delle rispettive discipline si sottrae ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati in nome del principio d’eguaglianza.
4.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. non è fondata neppure in riferimento alla violazione dell’art. 2 Cost., nonché all’irragionevolezza intrinseca della disposizione in esame.
4.1.– Occorre premettere che, per quanto le argomentazioni del giudice a quo ruotino principalmente attorno all’art. 3 Cost., sussiste un’intima connessione tra le censure che evocano il canone di ragionevolezza e quelle relative alla violazione del diritto all’identità personale, garantito dall’art. 2 Cost.
Nella prospettiva del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con i richiamati principi costituzionali nella parte in cui essa consente l’impugnazione per difetto di veridicità anche a chi abbia effettuato il riconoscimento, pur essendo consapevole della sua falsità. L’irragionevolezza consisterebbe, quindi, nel consentire a chi abbia instaurato un rapporto di filiazione, nella consapevolezza della sua falsità, di vanificare il riconoscimento, sacrificando gli interessi del soggetto riconosciuto sulla base di una esclusiva riconsiderazione dei propri.
L’assunto del rimettente riflette la tradizionale interpretazione dell’art. 263 cod. civ. offerta dalla giurisprudenza di legittimità nei casi di riconoscimento consapevolmente falso (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 14 febbraio 2017, n. 3834, e 24 maggio 1991, n. 5886; ordinanza 21 febbraio 2019, n. 5242). Essa si fonda sulla assoluta prevalenza da attribuire all’interesse, di natura pubblicistica, all’accertamento della verità, rispetto a qualsiasi altro interesse che con esso venga in conflitto e quindi anche rispetto al diritto, anch’esso dotato di copertura costituzionale, all’identità sociale del soggetto riconosciuto, nonché alla necessità di far valere le responsabilità, inerenti alla qualità di genitore, assunte con il riconoscimento.
4.2.– Si tratta, tuttavia, di un’impostazione ormai superata dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale, anche di questa Corte.
Sul rilievo che l’art. 30 Cost. non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, siffatta evoluzione ha portato a negare l’assoluta preminenza del favor veritatis e ad affermare la necessità della sua ragionevole comparazione con altri valori costituzionali.
In più occasioni, infatti, il legislatore, cui l’art. 30, quarto comma, Cost. demanda il potere di fissare limiti e condizioni per far valere la genitorialità biologica nei confronti di quella legale, ha attribuito prevalenza al consenso alla genitorialità e all’assunzione della conseguente responsabilità rispetto al favor veritatis.
4.2.1.– È certo un significativo passaggio di questa evoluzione il richiamato art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 che, in un caso di divergenza tra genitorialità genetica e genitorialità giuridica, tanto specifico e peculiare da non valere, come si è detto, come tertium comparationis, fa comunque prevalere l’interesse alla conservazione dello status, così riconoscendo che la corrispondenza tra lo stato di figlio e la verità biologica, pur auspicabile, non è elemento indispensabile dello status filiationis.
Anche le novità apportate dal d.lgs. n. 154 del 2013 si pongono nella direzione indicata. Se, da un lato, è stato garantito senza limiti di tempo l’interesse primario ed inviolabile del figlio a ottenere l’accertamento della mancata corrispondenza tra genitorialità legale e genitorialità biologica, dall’altro lato sono stati introdotti rigorosi termini per la proposizione dell’azione da parte degli altri legittimati, assicurando così tutela al diritto alla stabilità dello status acquisito, in particolare laddove ad impugnare il riconoscimento sia il suo stesso autore. Il nuovo testo dell’art. 263 cod. civ. prevede, infatti, che il termine per proporre l’azione di impugnazione – originariamente imprescrittibile – è di un anno, se ad agire è l’autore del riconoscimento, e di cinque anni per gli altri legittimati.
Ciò dimostra la volontà di tutelare gli interessi del figlio, evitando il protrarsi di un’incertezza potenzialmente lesiva della solidità degli affetti e dei rapporti familiari. È stata così riconosciuta e garantita la tendenziale stabilità dello stato di filiazione, in connessione con il consolidamento in capo al figlio di una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l’interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con la verità biologica della procreazione.
In questa prospettiva, va anche notata la decorrenza del termine per la proposizione dell’azione: non dalla nascita, ma da un momento successivo, quello dell’annotazione del riconoscimento nell’atto di nascita. In questo modo è stato attribuito rilievo, ai fini della proponibilità dell’azione e del consolidamento del diritto all’identità personale che essa ha di fronte, non all’età del figlio – in genere, ma non necessariamente, un minore – bensì alla durata del rapporto di filiazione, anche se iniziato in un momento successivo alla nascita.
4.2.2.– D’altra parte, l’assolutezza del principio di prevalenza dell’interesse all’accertamento della verità biologica della procreazione è stata superata anche dalla giurisprudenza di legittimità che, da tempo, ha riconosciuto come l’equazione tra “verità naturale” e “interesse del minore” non sia predicabile in termini assoluti, essendo viceversa necessario bilanciare la verità del concepimento con l’interesse concreto del figlio alla conservazione dello status acquisito (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 21 febbraio 2020, n. 4791; sentenze 3 aprile 2017, n. 8617, 15 febbraio 2017, n. 4020, 22 dicembre 2016, n. 26767, 8 novembre 2103, n. 25213 e 19 ottobre 2011, n. 21651; sezione sesta civile, sentenza 23 settembre 2015, n. 18817).
4.2.3.– Anche la giurisprudenza di questa Corte ha preso atto di questa evoluzione, non solo con il riconoscimento che «il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia» (sentenza n. 162 del 2014), ma anche con l’affermazione dell’immanenza dell’interesse del figlio, specie se minore, nell’ambito delle azioni volte alla rimozione dello status (sentenze n. 272 del 2017, n. 494 del 2002, n. 170 del 1999 e ordinanza n. 7 del 2012).
In particolare, proprio con riferimento alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ., questa Corte ha sottolineato che «[l]’affermazione della necessità di considerare il concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano è fortemente radicata nell’ordinamento sia interno, sia internazionale […]. Non si vede conseguentemente perché, davanti all’azione di cui all’art. 263 cod. civ., fatta salva quella proposta dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se l’interesse a far valere la verità di chi la solleva prevalga su quello del minore; se tale azione sia davvero idonea a realizzarlo […]; se l’interesse alla verità abbia anche natura pubblica […] ed imponga di tutelare l’interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità» (sentenza n. 272 del 2017).
In definitiva, la necessità di valutare l’interesse alla conservazione della condizione identitaria acquisita, nella comparazione con altri valori costituzionalmente rilevanti, è già contenuta nel giudizio di cui all’art. 263 cod. civ. ed è immanente a esso. Si tratta, infatti, di una valutazione comparativa che attiene ai presupposti per l’accoglimento della domanda proposta ai sensi dell’art. 263 cod. civ. e non alla legittimazione dell’autore del riconoscimento inveridico.
4.3.– Pertanto, nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ.
È appena il caso di aggiungere che di tale apprezzamento giudiziale non può non far parte la stessa considerazione del diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia.
In conclusione, anche nell’impugnazione del riconoscimento proposta da chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua falsità, «la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi [deve] tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso» (sentenza n. 272 del 2017). Tra queste variabili, rientra sia il legame del soggetto riconosciuto con l’altro genitore, sia la possibilità di instaurare tale legame con il genitore biologico, sia la durata del rapporto di filiazione e del consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento (in particolare nelle azioni, come quella oggetto del giudizio a quo, esercitate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 154 del 2013), sia, infine, l’idoneità dell’autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’appello di Torino, sezione per la famiglia, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA