SENTENZA N. 135
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana 9 maggio 1986, n. 22 (Riordino dei servizi e delle attività socio-assistenziali in Sicilia), promossi dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con ordinanze del 15 ottobre 2018 e del 20 febbraio 2019, iscritte, rispettivamente, ai numeri 79 e 80 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione della Regione Siciliana e, fuori termine, di L. V. e altri, nonché di M.M. R. e altri;
udito il Giudice relatore Giancarlo Coraggio, secondo le prescrizioni del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 10 giugno 2020;
deliberato nella camera di consiglio dell’11 giugno 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Con due ordinanze di identico tenore il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento agli artt. 97, secondo e quarto comma, 117, secondo comma, lettera e), 119, «primo, secondo, quinto, sesto, settimo e ottavo comma» della Costituzione, nonché all’art. 15, secondo comma, del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), «unitamente o separatamente considerati», questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana 9 maggio 1986, n. 22 (Riordino dei servizi e delle attività socio-assistenziali in Sicilia), nella parte in cui «obbliga i Comuni ad assorbire il patrimonio ed il personale delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza soppresse autoritativamente dall’Amministrazione regionale, e ciò anche in deroga alle norme sul contenimento della spesa pubblica (comprese quelle che introducono divieti di assunzioni o limitazioni alle assunzioni di personale) e sull’equilibrio dei bilanci pubblici (nonostante tali norme siano espressione del principio fondamentale del coordinamento della finanza pubblica)».
1.1.- Dalla lettura delle due ordinanze emerge, in punto di fatto, che:
- i giudizi sono stati intrapresi dai Comuni di Castellamare del Golfo e di Piazza Armerina, insorti avverso i decreti del Presidente della Regione Siciliana con cui, ai sensi della norma censurata, sono state estinte, rispettivamente, le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) «Istituto Regina Elena e Vittorio Emanuele II di Castellammare del Golfo» e «Istituto assistenziale S. Giuseppe e S. Giovanni Battista di Rodi», con devoluzione ai Comuni medesimi di ogni rapporto attivo e passivo ad esse facente capo e con trasferimento del personale dipendente;
- i Comuni ricorrenti lamentano l’illegittimità dei provvedimenti impugnati: a) perché non hanno tenuto conto dei pareri negativi espressi dai competenti organi comunali in ordine alla successione in tutti i rapporti attivi e passivi delle IPAB; b) poiché l’automatico trasferimento del personale delle IPAB nei ruoli degli enti locali confligge con i limiti posti dalla vigente normativa in materia di contenimento della spesa pubblica per le assunzioni a tempo indeterminato; c) perché la norma che dispone l’assorbimento del personale deve essere interpretata in maniera costituzionalmente orientata, con conseguente passaggio all’ente locale solo del personale reclutato tramite pubblico concorso; d) in via subordinata, il Comune di Castellamare del Golfo ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana n. 22 del 1986, per violazione degli artt. 81, 97, primo e terzo comma, 117 e 119 Cost., ove si ritenga che esso disponga il subentro dell’ente locale in tutti i rapporti attivi e passivi dell’IPAB e a prescindere dalla verifica dei limiti di spesa per le assunzioni e dalla modalità di reclutamento del personale;
- in entrambi i giudizi si sono costituiti i dipendenti delle IPAB disciolte, instando per il rigetto dei ricorsi;
- il TAR Sicilia, Palermo, sezione terza, con sentenza del 4 settembre 2018, n. 2122, ha accolto il ricorso proposto dal Comune di Castellamare del Golfo, annullando l’atto impugnato, per difetto di motivazione in relazione ai pareri negativi espressi dall’amministrazione comunale in ordine alla successione nei rapporti attivi e passivi delle estinte IPAB, per violazione delle norme che pongono limiti assunzionali, e perché, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, il trasferimento del personale potrebbe operare solo per i soggetti assunti a mezzo di pubblico concorso;
- il TAR Sicilia, sezione staccata di Catania, con sentenza del 27 marzo 2018, n. 648, ha invece rigettato il ricorso proposto dal Comune di Piazza Armerina, ritenendo il provvedimento di estinzione basato su un’adeguata istruttoria e sufficientemente motivato, le limitazioni di assunzione del personale non operanti in caso di successione ope legis, e il disposto trasferimento di personale riferito esclusivamente a quello assunto con pubblico concorso;
- avverso le due sentenze hanno proposto ricorso in appello, innanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, rispettivamente, i dipendenti dell’IPAB di Castellamare del Golfo e il Comune di Piazza Armerina, riproponendo le opposte argomentazioni sostenute in primo grado.
1.2.- Ciò premesso in punto di fatto, il rimettente osserva che l’art. 4, lettera m), dello statuto della Regione Siciliana attribuisce alla Regione potestà legislativa «esclusiva» in materia di pubblica beneficenza ed opere pie.
L’art. 34 della legge della Regione Siciliana n. 22 del 1986 – prosegue il Consiglio di giustizia – stabilisce, al primo comma, che «[l]’Assessore regionale per gli enti locali avvia il procedimento amministrativo per la fusione delle istituzioni pubbliche, proprietarie delle strutture non utilizzabili o non riconvertibili, con altre IPAB che dispongono di strutture giudicate utilizzabili o riconvertibili in esito alle procedure di cui ai precedenti articoli o con IPAB che, mediante l’integrazione delle strutture, su proposta del comune territorialmente competente, possono attivare servizi socioassistenziali e socio-sanitari conformi alle previsioni degli articoli 31 e 32 della presente legge»; al secondo comma, che «[i]n subordine l’istituzione è estinta e i beni patrimoniali sono devoluti al comune, che assorbe anche il personale dipendente, facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico»; al terzo comma, che «[l]a fusione e l’estinzione non hanno luogo qualora la struttura non utilizzabile o riconvertibile appartenga ad istituzione che disponga di altre strutture agibili e riconvertibili».
Il menzionato secondo comma dell’art. 34, dunque, attribuirebbe alla Regione il potere di accertare se le IPAB non siano più in grado di funzionare autonomamente (nemmeno a seguito di processi di fusione o di riconversione), nonché di decidere se debbano essere soppresse, e da tale decisione conseguirebbe automaticamente la devoluzione dei beni patrimoniali e il trasferimento del personale dalla soppressa istituzione al Comune territorialmente competente.
Deduce il rimettente che nel nostro ordinamento vige il principio di autonomia finanziaria dei Comuni, «espressamente declinato» sia dall’art. 119 Cost. sia dai singoli statuti delle Regioni speciali e, con specifico riferimento alla Regione Siciliana, dall’art. 15, secondo comma, del relativo statuto.
Corollario di tale principio sarebbe quello secondo cui «ad ogni trasferimento di funzioni deve corrispondere un adeguato trasferimento (o un’attribuzione) di risorse economico-finanziarie per farvi fronte, principio che vale, all’evidenza, anche per il caso di trasferimento di complessi patrimoniali che determinino oneri (quali spese di manutenzione, restauro etc.) forieri di perdite economiche, nonché – ovviamente – per il caso di trasferimento di personale».
Tale «“principio di correlazione fra funzioni e risorse” (così ormai correntemente definito in teoria generale)» sarebbe desumibile, «oltre che dalla logica giuridica (e dunque dal “principio di ragionevolezza” al quale la Corte costituzionale attribuisce, da sempre, valore fondamentale)», «dall’intero assetto del Titolo V della Carta costituzionale; e, in particolare, dai commi primo, quinto e sesto dell’art. 119 della Costituzione, disposizioni costituzionali che nella misura in cui (e nelle parti nelle quali) mirano a garantire uno standard minimo di tutela in favore degli Enti locali – e dunque un valore costituzionale di base – sono ad essi comunque applicabili (e da essi invocabili) a prescindere da ogni delimitazione territoriale (il che risponde al criterio metodologico secondo cui agli enti locali ubicati nelle Regioni a statuto speciale non può essere riconosciuta una autonomia finanziaria inferiore rispetto a quella devoluta agli enti ubicati nelle Regioni a statuto ordinario)».
L’art. 119, primo comma, Cost. – prosegue il rimettente – stabilisce che i Comuni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa e tale «norma organizzativa di base» sarebbe stata disattesa dal legislatore siciliano, il quale, con il comma 4 (recte: comma 2) dell’art. 34 della legge della Regione Siciliana n. 22 del 1986, avrebbe creato un meccanismo idoneo «ad incidere “estemporaneamente” (id est: al di fuori da ogni programmazione finanziaria locale; consentendo, con semplici atti provvedimentali adottati dall’Amministrazione regionale, di determinare sostanziali modifiche ai bilanci comunali e deroghe alle leggi finanziarie statali e regionali; e finanche alla legislazione sul contenimento della spesa pubblica, non ostante quest’ultima abbia natura di “legislazione di principio”) sull’autonomia finanziaria dei Comuni».
Ancora, l’art. 119, quinto comma (recte: quarto comma), Cost. stabilisce che le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite, ed anche tale principio costituzionale sarebbe stato disatteso dal legislatore siciliano, il quale con la disposizione censurata avrebbe creato un meccanismo idoneo a gravare i Comuni «di una nuova funzione (quella di gestione e manutenzione dei patrimoni in dissesto delle soppresse I.P.A.B.; e quella, di natura socio-assistenziale, di ricollocazione ed eventuale riqualificazione del personale da esse dipendente), senza dotarli (di un minimo) di risorse finanziarie (aggiuntive) necessarie per il raggiungimento dell’obiettivo».
Il sesto comma (recte: quinto comma) dell’art. 119 Cost., poi, stabilisce che lo Stato, per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni: anche tale principio sarebbe stato violato dalla norma censurata, che avrebbe creato un meccanismo idoneo a devolvere ai Comuni coinvolti nel processo di «acquisizione forzosa» in esame una serie di compiti volti al perseguimento di «scopi diversi» da quelli corrispondenti al «“normale esercizio delle loro funzioni” […], senza dotarli della necessaria provvista finanziaria».
Secondo il rimettente, anche prescindendo dalla questione della piena o parziale applicabilità ai Comuni siciliani delle disposizioni contenute nell’art. 119 Cost., quello della correlazione tra risorse e funzioni sarebbe «un principio immanente e pervasivo» del sistema costituzionale, desumibile, per quanto attiene alla Regione Siciliana, dall’art. 15, secondo comma, dello statuto, secondo cui gli enti locali sono «dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria», e la disposizione censurata sarebbe comunque in contrasto con tale norma statutaria di rango costituzionale.
La Corte costituzionale, occupandosi della questione del «trasferimento di funzioni senza risorse», avrebbe affermato che le norme di legge «che consentono operazioni istituzionali di tal fatta» sono costituzionalmente illegittime, in quanto lesive del principio di correlazione tra funzioni e risorse, nonché del «principio fondamentale del coordinamento della finanza pubblica» e del «principio dell’equilibrio dei bilanci pubblici», «declinati dagli artt. 117, lettera “e” e 119 primo, settimo ed ottavo comma della Costituzione», quando determinano i seguenti due effetti: «a) un’alterazione del “rapporto tra complessivi bisogni regionali e insieme dei mezzi finanziari per farvi fronte”; b) ed una variazione del rapporto entrate/spese foriero di un “grave squilibrio” nel bilancio».
Nella fattispecie disciplinata dalla norma censurata ciò si verificherebbe ogni volta che il numero dei dipendenti in transito dalla soppressa IPAB verso il Comune obbligato ad assumerli o le spese di manutenzione dei beni patrimoniali ceduti determinino spese impreviste (non esistendo capitoli di bilancio su cui farli gravare) ovvero non possano trovare adeguata copertura (se non facendo ricorso ad indebitamenti o a strumenti straordinari).
L’art. 34, comma 2, infine, si porrebbe in contrasto con la legislazione sul contenimento della spesa pubblica – e, in particolare con l’art. 3, comma 5, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, e con l’art. 1, comma 228, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» – ritenuta dalla Corte costituzionale prevalente sulle leggi regionali anche delle Regioni a statuto speciale, «in quanto espressione del (già menzionato) “principio fondamentale” secondo cui – in forza degli artt. 119, secondo comma, e 117 lett. “e” della Carta costituzionale – spetta allo Stato il coordinamento della finanza pubblica»: esso, pertanto, sarebbe costituzionalmente illegittimo anche perché idoneo a «“scompaginare” la politica di contenimento delle assunzioni come misura volta a perseguire il riequilibrio finanziario».
1.3.- Il rimettente afferma, quindi, che le questioni di legittimità costituzionale sarebbero rilevanti in quanto pregiudiziali ai fini della decisione della causa, posto che «dai destini della norma regionale derivano i destini dell’impugnato provvedimento e dunque del giudizio pendente in appello innanzi al Giudice amministrativo».
Secondo il giudice a quo, non sarebbe possibile una interpretazione costituzionalmente orientata della norma che «valorizzi la rilevanza ostativa del parere negativo espresso dal Comune», attesa la chiarezza del dato testuale.
In «nessun luogo del testo normativo» sarebbe specificato che il parere del Comune sulla soppressione dell’IPAB (e sulle conseguenti operazioni di devoluzione del patrimonio e di transito del personale) debba essere considerato vincolante o parzialmente vincolante (oltre che obbligatorio) su determinati punti.
La rigidità del testo in esame, dunque, porterebbe ad escludere la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata, poiché tale opzione ermeneutica presuppone «un certo spazio di indeterminatezza della pericope».
1.3.1.- Né, per escludere la rilevanza delle questioni, si potrebbe sostenere che, a fronte di un parere sfavorevole del Comune in ordine alla soppressione dell’IPAB, occorra, per discostarsene, una motivazione rinforzata, e che tale motivazione, nei casi di specie, non sia stata fornita dall’amministrazione regionale.
La motivazione posta a fondamento dei provvedimenti impugnati sarebbe infatti sufficiente, in quanto proporzionata a quelle poste a fondamento dei pareri sfavorevoli dei Comuni, i quali si sarebbero limitati ad affermare di non avere le risorse finanziarie per accollarsi i costi di gestione derivanti dall’acquisizione del patrimonio e del personale delle IPAB.
Essendo, dunque, sufficientemente motivate le determinazioni dell’amministrazione regionale procedente, la rilevanza delle questioni non sarebbe revocabile, perché l’esito del giudizio dipenderebbe esclusivamente dalla «tenuta» della disposizione censurata.
1.3.2.- La rilevanza non verrebbe meno neanche «ove l’attenzione si concentri esclusivamente sul contrasto della norma in questione con il c.d. “principio di coordinamento della finanza pubblica (art. 117 lett. “e” ed art. 119, secondo comma, della Costituzione), contrasto scaturente dalla violazione dei cc.dd. “limiti assunzionali” introdotti dalla […] normativa sul contenimento della spesa e sul blocco delle assunzioni».
Anche in questo caso non sarebbe possibile «salvare» la norma regionale affermando che, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, essa si applica nel rispetto dei predetti limiti e divieti.
Da un lato, infatti, la rilevanza permarrebbe comunque per la parte della norma che impone ai Comuni l’acquisizione forzosa del patrimonio (ancorché passivo) della soppressa IPAB; dall’altro, non potrebbe ignorarsi che, secondo il consolidato orientamento della Corte dei conti, sezione delle autonomie, «[n]ei casi di trasferimento di personale ad altro ente pubblico, derivante dalla soppressione di un ente obbligatoriamente disposta dalla legge, non si ritiene applicabile il limite assunzionale fissato dalla normativa vigente in materia di spese di personale ai fini del coordinamento della finanza pubblica», e che in tali casi «la deroga al detto vincolo comporta […] il necessario riassorbimento della spesa eccedente negli esercizi finanziari successivi a quello del superamento del limite» (Corte dei conti, sezione delle autonomie, deliberazione 4 febbraio 2016, n. 4).
Una volta chiarito, dunque, che dall’applicazione della norma censurata deriva l’obbligo dei Comuni di procedere all’assunzione del personale proveniente dall’IPAB, con accollo degli oneri finanziari che ne conseguono, anche ove ciò possa produrre dissesti o indebitamenti straordinari (non decisi autonomamente), sarebbe evidente la rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
1.4.- In relazione alla non manifesta infondatezza, poi, il rimettente afferma che, «come del resto già illustrato nei primi Capi della presente ordinanza», non è revocabile in dubbio che l’introduzione mediante legge regionale di un congegno atto ad incidere sui richiamati principi costituisce una evidente «rottura» dell’ordinario assetto delle «competenze legislative» stabilite dalla Costituzione e determina una «eccessiva compressione dell’autonomia finanziaria degli enti locali».
2.- È intervenuta la Regione Siciliana, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo l’inammissibilità e la non fondatezza delle questioni sollevate dal rimettente.
2.1.- Le questioni sarebbero inammissibili, in primo luogo, perché il giudice a quo avrebbe omesso di esperire il tentativo di interpretazione conforme a Costituzione e avrebbe richiesto l’avallo interpretativo di questa Corte.
Andrebbe al riguardo rammentata la deliberazione della Corte dei conti, sezione delle autonomie, 4 febbraio 2016, n. 4, pronunciatasi sull’esame della questione di massima rimessale dalla sezione di controllo per la Regione Siciliana, con deliberazione 24 novembre 2015, n. 316, e riguardante proprio la «corretta interpretazione ed applicazione delle previsioni di cui all’art. 34, comma 2, della legge della Regione siciliana 9 maggio 1986, n. 22».
La Corte dei conti, nella citata deliberazione, avrebbe affermato che, «[n]ei casi di trasferimento di personale ad altro ente pubblico derivante dalla soppressione di un ente obbligatoriamente disposta dalla legge, non si ritiene applicabile il limite assunzionale fissato dalla normativa vigente in materia di spese di personale ai fini del coordinamento di finanza pubblica. La deroga al detto vincolo comporta, tuttavia, il necessario riassorbimento della spesa eccedente negli esercizi finanziari successivi a quello di superamento del limite».
Con tale interpretazione costituzionalmente orientata il rimettente avrebbe omesso di confrontarsi.
2.2.- Le questioni sarebbero poi inammissibili per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
In particolare, il riferimento all’art. 97, secondo e quarto comma, Cost., contenuto nel punto 5 del considerato in diritto dell’ordinanza di rimessione ma non riportato nel dispositivo, sarebbe del tutto privo di supporto espositivo.
Quanto agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119 Cost., non vi sarebbe alcuna indicazione delle ragioni per cui essi sarebbero violati, né di quelle per cui le invocate disposizioni in tema di contenimento della spesa pubblica assurgerebbero a parametri interposti, né, infine, dei motivi di contrasto tra esse e la norma censurata.
2.3.- Le questioni sarebbero comunque non fondate nel merito.
Rammenta l’Avvocatura generale dello Stato che la Regione Siciliana ha competenza esclusiva in materia di «pubblica beneficenza ed opere pie», ai sensi dell’art. 14, lettera m), dello statuto.
Il d.P.R. 30 agosto 1975, n. 636 (Norme di attuazione dello statuto della regione siciliana in materia di pubblica beneficenza ed opere pie) avrebbe poi disposto, all’art. 1, comma 1, il trasferimento in capo all’amministrazione regionale delle competenze amministrative già attribuite agli organi centrali e periferici dello Stato dalla legge 17 luglio 1890, n. 6972 (Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) in materia di ordinamento e controlli sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e sugli enti comunali di assistenza, operanti nel territorio della Sicilia.
Con la legge della Regione Siciliana n. 22 del 1986, il legislatore regionale avrebbe provveduto al «[r]iordino dei servizi e delle attività socioassistenziali in Sicilia», dettando, al Titolo V, «[d]isposizioni sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB)», concernenti la privatizzazione delle IPAB (art. 30), nonché le IPAB che non hanno caratteristiche di enti privati, disciplinando, segnatamente, l’utilizzazione delle strutture (art. 31), la loro riconversione (art. 32), ovvero la fusione ed estinzione delle IPAB proprietarie di strutture non utilizzabili e non riconvertibili (art. 34).
Con decreto del Presidente della Regione Siciliana 4 novembre 2002 sarebbero poi state dettate le «[l]inee guida per l’attuazione del piano socio-sanitario della Regione siciliana», in cui si darebbe atto che la ridefinizione del sistema dei servizi socio-sanitari della Regione necessita di interventi legislativi, tra cui una «legge di riordino delle IPAB» (punto 4.1).
Il complesso processo di riordino, tuttavia, non avrebbe avuto ancora luogo. Si dovrebbe ritenere, pertanto, che in Sicilia, in assenza di una riforma legislativa, trovino ancora applicazione le disposizioni di cui alla legge n. 6972 del 1890, che affermano la natura pubblicistica delle IPAB, e quelle della legge della Regione Siciliana n. 22 del 1986.
Lo spirito della norma censurata sarebbe chiaro ed inequivocabile: esperito ogni tentativo di rilancio dell’IPAB e verificata l’impossibilità di procedere alla fusione con altra IPAB del medesimo territorio comunale, l’istituzione è estinta e il patrimonio e il personale sono devoluti al Comune.
Non potendo l’IPAB proseguire nella «mission» a suo tempo affidatale dai fondatori, sia per questioni organizzative che per questioni economico-finanziarie, l’estinzione dovrebbe considerarsi un atto dovuto e ineludibile.
Il Comune, prosegue la Regione Siciliana, per effetto delle disposizioni normative vigenti, detiene la prerogativa di organizzare e gestire i servizi socio-assistenziali, con la conseguenza che solo esso potrebbe subentrare nella proprietà del patrimonio e nelle funzioni dell’IPAB.
A tal proposito, l’Avvocatura generale dello Stato richiama ancora una volta la deliberazione della Corte dei conti, sezione delle autonomie n. 4 del 2016, ove si sarebbe pure affermato che, «[o]ve una legge regionale stabilisca la soppressione di un ente e il concomitante riassorbimento del personale da parte di un altro ente pubblico, si deve ritenere applicabile il principio sancito dall’art. 97 della Costituzione dell’obbligatorietà del previo ricorso a procedure concorsuali per il reclutamento del personale da parte dell’ente soppresso. Pertanto, non possono essere ammessi nei ruoli dell’ente pubblico accipiente dipendenti che non abbiano superato un pubblico concorso».
Nello stesso senso si sarebbe espressa la sezione di controllo per la Regione Siciliana della Corte dei conti con la deliberazione 28 aprile 2016, n. 81.
3.- Con due memorie depositate fuori termine si sono costituiti alcuni dipendenti delle IPAB, parti dei due giudizi a quibus, instando per la inammissibilità e non fondatezza delle questioni sollevate dal rimettente.
Considerato in diritto
1.- Con due ordinanze di identico tenore il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento agli artt. 97, secondo e quarto comma, 117, secondo comma, lettera e), 119, «primo, secondo, quinto, sesto, settimo e ottavo comma» della Costituzione, nonché all’art. 15, secondo comma, del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), «unitamente o separatamente considerati», questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana 9 maggio 1986, n. 22 (Riordino dei servizi e delle attività socio-assistenziali in Sicilia), nella parte in cui «obbliga i Comuni ad assorbire il patrimonio ed il personale delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza soppresse autoritativamente dall’Amministrazione regionale».
Secondo il rimettente, la disposizione censurata non assicura la correlazione tra risorse e funzioni degli enti locali, determina «un’eccessiva compressione» dell’autonomia finanziaria dei Comuni siciliani e dà luogo a spese impreviste che non possono trovare adeguata copertura, in violazione dei princìpi di autonomia finanziaria degli enti locali, di corrispondenza tra funzioni e risorse, dell’equilibrio di bilancio e di buon andamento della pubblica amministrazione.
Essa, inoltre, sarebbe in contrasto con la legislazione sul contenimento della spesa pubblica e delle assunzioni, ed in particolare con l’art. 3, comma 5, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, e con l’art. 1, comma 228, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», da considerarsi espressione di princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, vincolanti anche per le Regioni ad autonomia speciale.
2.- I giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia, vertendo su questioni identiche per oggetto e censure.
3.- In via preliminare, deve essere dichiarata la inammissibilità della costituzione delle parti private M.M. R., D. R., A.M. C. e S. S. nel giudizio iscritto al registro ordinanze n. 80 del 2019, nonché della costituzione di L. V., S.M. B., A. G., A. C., M. B. e V. A. nel giudizio iscritto al registro ordinanze n. 79 del 2019.
Esse, infatti, sono intervenute, rispettivamente, in data 18 febbraio e 4 marzo 2020, oltre il termine perentorio stabilito dall’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale (tra le tante, sentenze n. 6 del 2018, n. 102 del 2016, n. 220 e n. 128 del 2014, e ordinanza allegata alla sentenza n. 173 del 2016), ossia venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, avvenuta, nel caso di specie, il 5 giugno 2019.
4.- Sempre in via preliminare, la Regione Siciliana, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, in primo luogo, per avere il rimettente omesso di esperire il tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata ed inteso, in realtà, ottenere da questa Corte un avallo interpretativo.
Secondo l’Avvocatura dello Stato, sarebbe possibile dare all’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana n. 22 del 1986 una interpretazione conforme a Costituzione e tale interpretazione sarebbe quella fatta propria dalla Corte dei conti, sezione delle autonomie, con la deliberazione 4 febbraio 2016, n. 4, pronunciatasi sull’esame della questione di massima rimessale dalla sezione di controllo per la Regione Siciliana, con deliberazione 24 novembre 2015, n. 316, ed avente ad oggetto proprio l’interpretazione della norma censurata, sotto i profili della possibile deroga ai vincoli alle assunzioni posti dalla legislazione statale e al principio del pubblico concorso.
La Corte dei conti, nella deliberazione n. 4 del 2016, avrebbe affermato, quanto al primo profilo qui rilevante, che «[n]ei casi di trasferimento di personale ad altro ente pubblico derivante dalla soppressione di un ente obbligatoriamente disposta dalla legge, non si ritiene applicabile il limite assunzionale fissato dalla normativa vigente in materia di spese di personale ai fini del coordinamento di finanza pubblica. La deroga al detto vincolo comporta, tuttavia, il necessario riassorbimento della spesa eccedente negli esercizi finanziari successivi a quello di superamento del limite».
4.1.- L’eccezione, che peraltro riguarda solo l’aspetto della devoluzione del personale, non è fondata.
È vero che la Corte dei conti, nelle citate delibere, ha fornito tale interpretazione della disposizione censurata, ritenendola idonea a contemperare, da un lato, gli interessi statali sottesi alle norme di coordinamento della finanza pubblica che pongono vincoli alle assunzioni, e, dall’altro, l’autonomia organizzativa e finanziaria riservata alle Regioni a statuto speciale.
Il rimettente, tuttavia, lungi dal non considerare tale interpretazione della norma come possibile, la fa addirittura propria, per poi però dubitare della sua legittimità costituzionale dal diverso punto di vista della eccessiva compressione delle autonomie locali (profilo, questo, non esaminato dalla Corte dei conti).
In altri termini, quello che l’Avvocatura contesta al rimettente non è un omesso tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata, ma l’avere, nel merito, sollevato una questione non fondata: secondo l’interveniente, la norma censurata, in quel significato fatto proprio anche dal rimettente, sarebbe conforme a Costituzione.
5.- La Regione Siciliana ha poi eccepito l’inammissibilità per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, poiché: 1) l’invocazione dell’art. 97, secondo e quarto comma, Cost., indicato al punto 5 del considerato in diritto dell’ordinanza di rimessione ma non riportato nel dispositivo, sarebbe priva di supporto espositivo; 2) non vi sarebbe alcuna indicazione delle ragioni per cui sarebbero violati gli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119 Cost.; 3) non sarebbe spiegato perché le invocate norme sul contenimento della spesa pubblica assurgerebbero a parametri interposti, né, ancora, i motivi di contrasto tra esse e la norma censurata.
5.1.- Anche questa eccezione, che impone di delineare con precisione il thema decidendum delle questioni sollevate, non è fondata.
Quanto al primo rilievo, è vero che l’art. 97, secondo e quarto comma, Cost., compare esclusivamente in un passaggio del considerato in diritto ma non nel dispositivo.
A prescindere da tale aspetto formale, è altresì vero che la dedotta violazione dell’art. 97, quarto comma, Cost., ossia del principio dell’accesso all’impiego nella pubblica amministrazione mediante pubblico concorso, non è in alcun modo sviluppata nell’ordinanza di rimessione.
Il tema, cioè, pur essendo stato oggetto del giudizio di primo grado e delle sentenze impugnate davanti al rimettente – le quali, pur recando due statuizioni opposte (annullamento e rigetto), hanno entrambe ritenuto che il passaggio di dipendenti dalle IPAB ai Comuni possa avvenire esclusivamente per gli assunti a mezzo di pubblico concorso – è estraneo alle questioni sollevate.
Diversamente è a dirsi con riferimento al principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97, secondo comma Cost., poiché, in caso di devoluzione del personale – che, secondo il giudice a quo, nella sua automaticità, unitamente alla devoluzione del patrimonio, determina il vulnus ai parametri costituzionali invocati – la incisione sull’assetto organizzativo e funzionale dell’amministrazione ricevente è intimamente connessa alla lamentata compressione dell’autonomia finanziaria.
Quanto agli altri rilievi, una lettura sostanziale ed unitaria dell’ordinanza di rimessione consente di affermare che il rimettente, con motivazione sufficientemente congrua ed articolata, censura l’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana n. 22 del 1986, perché, nel prevedere, a seguito dell’estinzione delle IPAB aventi strutture «non utilizzabili o non riconvertibili», la necessaria devoluzione ai Comuni del patrimonio e del personale dipendente: 1) non assicura la correlazione tra risorse e funzioni degli enti locali, determina «un’eccessiva compressione» dell’autonomia finanziaria dei Comuni siciliani e dà luogo a spese impreviste che non possono trovare adeguata copertura, in violazione dei princìpi di autonomia finanziaria degli enti locali, di corrispondenza tra funzioni e risorse, dell’equilibrio di bilancio e di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui, rispettivamente all’art. 119, primo comma, Cost. e all’art. 15, secondo comma, dello statuto della Regione Siciliana, all’art. 119, quarto e quinto comma, all’art. 119, primo e sesto comma, e all’art. 97 Cost. (il rimettente, in motivazione, riporta parte del contenuto dei commi quarto e quinto dell’art. 119 Cost., erroneamente indicandoli, rispettivamente, come quinto e sesto, ed invoca i commi settimo e ottavo, non presenti nel menzionato parametro costituzionale); 2) contrasta con l’art. 3, comma 5, del d.l. n. 90 del 2014 e con l’art. 1, comma 228, della legge n. 208 del 2015, che, nel disporre vincoli alle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, recano – come costantemente affermato da questa Corte – princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica (il giudice a quo erroneamente invoca l’art. 117, secondo comma, lettera e, Cost., ma è chiaro che intende riferirsi all’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione alla competenza concorrente nella materia del coordinamento della finanza pubblica).
6.- Prima di passare all’esame del merito delle questioni, appare necessario illustrare il contesto fattuale che ad esse fa da sfondo e in cui opera la norma sospettata d’illegittimità costituzionale.
6.1.- La Regione Siciliana negli ultimi anni, in applicazione dell’art. 34, secondo comma, della legge regionale n. 22 del 1986, ha provveduto alla soppressione di diverse IPAB in grave dissesto finanziario, devolvendo tutti i rapporti attivi e passivi e trasferendo il personale ai Comuni nel cui territorio ricadevano le strutture degli istituti.
Già nel giudizio di parificazione del rendiconto della Regione Siciliana per l’esercizio 2014 le Sezioni riunite della Corte dei conti per la Regione Siciliana osservavano: «[l]a maggior parte delle centotrentasette IPAB sparse sull’intero territorio regionale presenta gravi disavanzi finanziari, sicché pare indispensabile un’incisiva innovazione del settore attraverso l’introduzione di sistemi economico-patrimoniali di tipo aziendale e attraverso una rigorosa riorganizzazione complessiva, che richiede la liquidazione e l’estinzione di numerose istituzioni».
Analoghi rilievi si rinvengono nelle deliberazioni di parifica dei rendiconti degli anni 2016, 2017 e 2018, nella quale ultima, in particolare, si osserva che, «mentre a livello nazionale il legislatore è intervenuto sul riordino del settore con il decreto legislativo 4 maggio 2001, n. 207, la disciplina delle IPAB in Sicilia, anche in conseguenza della competenza legislativa regionale, è tuttora contenuta nelle norme del titolo V (articoli 30 - 43) della legge regionale 9 maggio 1986, n. 22, che, a sua volta, avrebbe dovuto avere carattere transitorio. Il servizio di Vigilanza dell’Assessorato nel corso del 2018 ha incrementato le attività di vigilanza e ha confermato numerose e persistenti criticità che investono quasi tutte le IPAB: a) l’omessa o tardiva approvazione dei bilanci di previsione o dei consuntivi e, comunque, l’omessa trasmissione degli stessi all’Assessorato; b) l’assenza di documentazione giustificativa dei bilanci e dei consuntivi; c) il sistematico inserimento di previsioni di entrata non supportate dal necessario titolo; d) l’inadempimento non infrequente degli obblighi contributivi e previdenziali; f) una gestione anomala del personale, spesso individuato al di fuori di selezioni pubbliche; g) un contenzioso di notevole importo, senza che nei bilanci siano stati previsti gli oneri conseguenti all’eventuale soccombenza; h) diffusi fenomeni di mala gestio, che hanno condotto anche all’avvio di numerosi procedimenti penali; i) la violazione di norme di contabilità pubblica e l’illegittimo ricorso a procedure di riequilibrio. La Corte ribadisce che è necessaria un’organica riforma di tali Istituzioni, favorendo la privatizzazione di quelle, specialmente di origine ecclesiastica, che non hanno matrice pubblicistica; si tratta di un intervento non più rinviabile sia in considerazione della precarietà finanziaria di molte IPAB sia in ragione dell’esigenza di disciplinare l’intero settore dei servizi alla persona».
La Corte dei conti rileva, altresì, che «[i]l tema delle IPAB […] può avere notevoli ricadute sulla finanza degli enti locali, poiché l’art. 34 della legge regionale n. 22 del 1986, prevede che, se l’istituzione è estinta, i beni patrimoniali sono devoluti al comune territorialmente competente, che assorbe anche il personale dipendente, facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico».
La grave situazione organizzativa e finanziaria delle IPAB siciliane è ben conosciuta dal legislatore regionale, come emerge dalla relazione di accompagnamento al disegno di legge di riforma delle IPAB n. 308 del 20 luglio 2018 (XVII Legislatura), ove si legge che «[l]e II.PP.A.B. […] da alcuni anni vivono una grave crisi finanziaria, dovuta sia alla costante riduzione del contributo previsto dalla legge regionale n. 71/82, passato da quasi 10 milioni di euro l’anno, alle 1.698 migliaia di euro del corrente anno (addirittura nell’anno 2015 non è stata prevista in bilancio alcuna somma), sia al costante aumento del costo dei servizi erogati […]. Le II.PP.A.B. siciliane, tranne pochissime eccezioni, non sono inserite nella programmazione regionale e distrettuale del sistema integrato degli interventi e servizi sociali e socio-sanitari, nonostante la previsione della L. n. 328/2000 ed il D.P.R.S. del 4 novembre 2002. I Comuni, infine, per le note difficoltà di cassa, liquidano le rette di ricovero, anch’essi, con grandi ritardi, spesso oltre un anno dalla presentazione delle fatture/note contabili. Tale situazione ha prodotto gravi disavanzi nella gestione finanziaria delle II.PP.AA.BB. (che complessivamente ammontano a circa 40 milioni di euro), con ritardi nei pagamenti degli stipendi al personale e delle fatture ai fornitori. In alcuni casi il ritardo nel pagamento degli stipendi ammonta ad oltre 24 mesi. Alcune di loro, per le suddette motivazioni, da qualche anno hanno cessato l’attività, altre hanno avviato il procedimento di estinzione».
6.2.- La grave situazione di dissesto economico delle IPAB ha quindi originato diversi procedimenti giurisdizionali attivati dai Comuni innanzi ai due TAR siciliani (e tra questi i due giudizi a quibus) per contestare i decreti di estinzione del Presidente della Regione, recanti la devoluzione ai Comuni medesimi di «tutti i rapporti attivi e passivi» facenti capo alle istituzioni soppresse, nonché il trasferimento del personale.
Altro consistente filone di contenzioso collegato all’estinzione è quello avviato dal personale trasferito, che, a fronte dei rifiuti di assunzione opposti da alcuni dei Comuni interessati, ha fatto ricorso ai competenti giudici del lavoro per l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di impiego alle loro dipendenze e la condanna al pagamento delle somme spettanti a titolo di retribuzione.
6.3.- Per trovare una soluzione alla spinosa vicenda delle IPAB siciliane, e in particolare di quelle estinte, sono state presentate diverse iniziative legislative regionali, tutte confluite nel citato disegno di legge n. 308 del 2018, recante «Riordino delle Istituzioni Pubbliche di assistenza e Beneficenza», che prevede la soppressione di tutte le IPAB e la loro trasformazione in aziende pubbliche di servizi alla persona (ASAP) ovvero in associazioni o fondazioni di diritto privato (artt. 1 e 3).
Nel citato disegno di legge, le ASAP, una per ciascuna Provincia, «subentrano nelle funzioni, nelle attività e nelle competenze delle istituzioni soppresse e succedono in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi di qualunque genere nonché al patrimonio già di titolarità delle istituzioni soppresse» (art. 3, comma 3), e «[l]a trasformazione non costituisce causa di risoluzione del rapporto di lavoro del personale dipendente» (art. 3, comma 5).
Alla trasformazione si accompagnano l’obbligo di adozione di piani aziendali di risanamento finanziario (art. 13) e l’istituzione di fondi regionali per il funzionamento delle aziende e il loro risanamento (artt. 14 e 15).
La descritta iniziativa legislativa si è però arenata, poiché, con nota dell’11 giugno 2019, n. 30514, la Ragioneria generale della Regione ha fornito riscontro negativo alla relazione tecnica di accompagnamento, «in quanto carente e/o non esatto quanto esposto in merito alla copertura finanziaria degli oneri previsti a carico del bilancio della Regione di cui al DDL in oggetto e mancante degli elementi utili a dare ampia dimostrazione/giustificazione della quantificazione dei medesimi oneri».
7.- Nel merito, la prima delle due questioni, con cui il rimettente lamenta la violazione dei princìpi di autonomia finanziaria degli enti locali, di corrispondenza tra risorse e funzioni, dell’equilibrio di bilancio e di buon andamento della pubblica amministrazione (di cui, rispettivamente all’art. 119, primo comma, Cost. e all’art. 15, secondo comma, dello statuto della Regione Siciliana, all’art. 119, quarto e quinto comma, all’art. 119, primo e sesto comma, e all’art. 97 Cost.), è fondata.
7.1.- L’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana n. 22 del 1986 prevede che le IPAB «proprietarie di strutture non utilizzabili o non riconvertibili», in caso di mancata fusione con altre IPAB aventi strutture utilizzabili o riconvertibili (o che «mediante l’integrazione delle strutture» possano «attivare servizi socio-assistenziali e socio-sanitari conformi alle previsioni» della stessa legge regionale n. 22 del 1986), sono estinte e i «beni patrimoniali sono devoluti al comune, che assorbe anche il personale dipendente».
La norma censurata, per come non implausibilmente interpretata dal giudice a quo, dalla Corte dei conti (con la citata deliberazione n. 316 del 2015 della sezione regionale di controllo) e da tutte le parti, pubbliche e private, coinvolte, dispone una successione a titolo universale, con la conseguenza che ai Comuni (individuati ai sensi dell’art. 60 della legge della Regione Siciliana 27 aprile 1999, n. 10, recante «Misure di finanza regionale e norme in materia di programmazione, contabilità e controllo. Disposizioni varie aventi riflessi di natura finanziaria») passano non solo i beni immobili e il personale, ma anche tutti i rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo alle estinte IPAB.
Tale scelta in sé non è irragionevole, poiché, ai sensi dell’art. 3 della legge della Regione Siciliana 2 gennaio 1979, n. 1 (Attribuzione ai comuni di funzioni amministrative regionali), i Comuni siciliani sono titolari delle generali funzioni amministrative in materia di assistenza e beneficenza (al pari dei Comuni delle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’art. 25, comma 1, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, recante «Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382»).
Ad integrare la violazione dei dedotti parametri costituzionali è invece la rigidità della norma, che impone ai Comuni siciliani l’accollo delle ingenti posizioni debitorie delle IPAB, accollo che, in assenza di un’adeguata provvista finanziaria, diventa insostenibile nei casi (come quelli di specie) dei Comuni più piccoli, per i quali l’effetto quasi fisiologico della successione è quello dell’attivazione delle procedure di dissesto.
Questa Corte ha già affermato che «il subentro di un ente nella gestione di un altro ente soppresso (o sostituito) deve avvenire in modo tale che l’ente subentrante sia salvaguardato nella sua posizione finanziaria, necessitando al riguardo una disciplina […] la quale regoli gli aspetti finanziari dei relativi rapporti attivi e passivi e, dunque, anche il finanziamento della spesa necessaria per l’estinzione delle passività pregresse (tra le altre, sentenza n. 364 del 2010)» (sentenza n. 8 del 2016; nello stesso senso, sentenze n. 364 del 2010, n. 116 del 2007, n. 437 del 2005 e n. 89 del 2000).
Né in senso contrario può essere valorizzata l’esistenza nella legge regionale n. 22 del 1986 di un fondo regionale, denominato «Fondo per la gestione dei servizi e degli interventi socio-assistenziali» (art. 44), dal momento che, in primo luogo, esso, è ripartito, quanto alle spese connesse al funzionamento dei servizi socio-assistenziali (cui in astratto potrebbero ricondursi i costi delle attribuzioni degli enti disciolti), sulla base della popolazione residente in ciascun Comune secondo i dati dell’Istat dell’ultimo anno disponibile, e quindi senza nessun ancoraggio alle spese effettivamente necessarie per fare fronte alle situazioni debitorie delle IPAB estinte; e, in secondo luogo, non ne è certa l’attivazione né sono certe le risorse che vi confluiscono (come dimostra la citata relazione di accompagnamento al disegno di legge regionale di riforma delle IPAB n. 308 del 2018).
7.2.- Sotto altro profilo, poi, l’assorbimento totalitario del personale proveniente dalle IPAB con conseguente immissione nei ruoli organici dei Comuni, incidendo sui vincoli relativi alle assunzioni negli anni successivi, comprime le scelte organizzative degli enti locali, impedendo di assumere figure che possono essere necessarie per lo svolgimento delle loro funzioni.
Questa Corte, con la sentenza n. 202 del 2014 - nell’esaminare una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto una norma della Regione Campania che aveva disposto il trasferimento del personale dipendente dal soppresso Consorzio di bonifica della Valle Telesina a quello del Sannio Alifano (peraltro con contestuale attribuzione di un contributo annuo pari a 800.000 euro dal 2012 al 2016) – ha ritenuto che, pur accordando protezione ad «un bene di indubbia pregnanza, quale la tutela dei lavoratori interessati al processo di trasferimento», quella norma andasse interpretata «nel rispetto dei principi costituzionali, tra i quali assume rilievo prioritario il buon andamento della pubblica amministrazione sotto il profilo dell’effettivo e corretto impiego dei lavoratori nel nuovo organismo in cui vengono inseriti. Ne deriva la previa necessaria determinazione dei criteri e delle modalità relativi all’individuazione delle figure professionali e dei dipendenti destinati a ricoprirle in modo congruente e compatibile con l’apparato amministrativo ricevente».
Nello stesso senso, questa Corte, con la sentenza n. 123 del 1968, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma della Regione Siciliana che, in violazione dell’art. 97 Cost., aveva disposto l’immissione in organico di personale illegittimamente assunto e di personale licenziato da molto tempo, dal momento che l’assunzione non era rivolta «a provvedere ad effettive esigenze dell’Amministrazione ma solo ad incrementare gli organici».
In quella sede si è osservato che «l’ordine costituzionale dà la massima tutela al lavoro», ma si è anche aggiunto che «[l]a norma che accorda tale protezione non vive a sé, ma forma sistema con le altre che provvedono ad interessi di uguale portata costituzionale, com’è quello inerente al buon andamento dei pubblici uffici, cardine della vita amministrativa e quindi condizione dello svolgimento ordinato della vita sociale».
Le medesime considerazioni di fondo sul necessario attento bilanciamento tra tutela del diritto al lavoro ed organizzazione razionale della pubblica amministrazione sono state peraltro riaffermate nelle recenti sentenze n. 170 e n. 79 del 2019.
8.- Assorbita la seconda questione, deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana n. 22 del 1986, nella parte in cui prevede: «e i beni patrimoniali sono devoluti al comune, che assorbe anche il personale dipendente, facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico».
9.- Dalla dichiarazione d’illegittimità costituzionale consegue l’obbligo per il legislatore regionale di provvedere alla complessiva risoluzione del problema delle IPAB in dissesto, individuando un ragionevole punto di equilibrio che contemperi tutti i valori costituzionali in gioco, primo fra tutti quello della tutela dei soggetti deboli.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana 9 maggio 1986, n. 22 (Riordino dei servizi e delle attività socio-assistenziali in Sicilia), nella parte in cui prevede: «e i beni patrimoniali sono devoluti al comune, che assorbe anche il personale dipendente, facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 giugno 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA