SENTENZA N. 137
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Firenze nel procedimento di convalida dell’arresto di A. B., con ordinanza del 7 dicembre 2018, iscritta al n. 128 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Stefano Petitti nella camera di consiglio del 26 maggio 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a);
deliberato nella camera di consiglio del 27 maggio 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 7 dicembre 2018, il Tribunale ordinario di Firenze, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, del codice di procedura penale, per contrasto con gli artt. 3 e 13 della Costituzione.
In particolare, l’art. 391, comma 5, cod. proc. pen. è censurato nella parte in cui prevede che quando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell’art. 381, comma 2, cod. proc. pen. l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli artt. 274, comma 1, lettera c), e 280 cod. proc. pen. L’art. 280, comma 1, cod. proc. pen. è a sua volta censurato nella parte in cui, nel prevedere i requisiti di applicazione delle misure cautelari coercitive, fa salvo il disposto dell’art. 391 cod. proc. pen.
1.1.– Il rimettente espone che A. B. è stato arrestato in flagranza ai sensi dell’art. 381, comma 2, cod. proc. pen. dopo essere stato sorpreso, a breve distanza di tempo dal suo allontanamento dai locali del Pronto Soccorso dell’Ospedale di C., con beni di modesto valore appartenenti alla dott. D. P.
In sede di udienza di convalida, il giudice rimettente ha convalidato l’arresto dopo aver qualificato il fatto come furto aggravato perché commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, ai sensi dell’art. 625, primo comma, numero 7), del codice penale. Richiesto dal pubblico ministero di applicare nei confronti del prevenuto la misura della custodia cautelare in carcere, il giudice rimettente ha ritenuto sussistenti le esigenze cautelari di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., tenuto conto che l’arrestato era recidivo ed era pertanto da ritenersi concreto e attuale il rischio di reiterazione del reato o di commissione di reati della stessa specie. Identificata nella misura degli arresti domiciliari quella più idonea a soddisfare le predette esigenze cautelari e meglio commisurata all’entità del fatto, il giudice ha determinato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 278 cod. proc. pen., un massimo edittale per il reato ascritto al prevenuto pari a tre anni di reclusione, a seguito di bilanciamento compiuto in termini di equivalenza ai sensi dell’art. 69 cod. pen. con la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen.
Alla luce di ciò, il giudice rimettente ha preso atto che l’applicazione della misura custodiale domiciliare, di per sé impedita dai più elevati limiti edittali contenuti nell’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. (pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni) e nell’art. 280, comma 1, cod. proc. pen. (pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni), era tuttavia possibile nel caso di specie in virtù di quanto disposto dall’art. 391, comma 5, cod. proc. pen., secondo il quale «[q]uando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati dall’art. 381, comma 2, ovvero per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dei casi di flagranza, l’applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lettera c), e 280».
2.– Il meccanismo derogatorio derivante dal combinato disposto di cui agli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, cod. proc. pen. è ritenuto dal giudice rimettente in contrasto con gli artt. 3 e 13 della Costituzione.
Innanzi tutto, esso darebbe luogo a una irragionevole disparità di trattamento poiché uno stesso fatto, come nel caso di specie un furto, o qualsiasi altro delitto per cui l’art. 381, comma 2, cod. proc. pen. prevede l’arresto facoltativo in flagranza, «è suscettibile di fondare o meno l’applicazione di una misura cautelare coercitiva o addirittura custodiale a seconda che sia intervenuto o meno un arresto in flagranza», dipendendo tale esito da fattori anche casuali e che comunque denotano gravi indizi di colpevolezza a carico dell’arrestato ma che non attengono, invece, al profilo della gravità del fatto di reato o della pericolosità del suo autore. Ciò si tradurrebbe in un difetto di proporzionalità della misura cautelare perché «ad incidere sull’applicabilità della misura è un dato (l’arresto) estraneo all’entità del fatto (e alla sanzione irrogabile) e alle esigenze cautelari». A contrastare con l’art. 13 Cost. sarebbe anche il fatto che il giudice della convalida svolge un apprezzamento limitato alla verifica dei presupposti per l’arresto, con la conseguenza che una simile prospettiva solo parziale acquisirebbe indebitamente rilievo anche ai fini dell’applicazione di misure cautelari. Ad essere violato sarebbe altresì il principio costituzionale della riserva di legge in tema di limitazione della libertà personale, perché per effetto delle norme censurate «un atto della Polizia Giudiziaria, soggetto a verifica di legittimità ma comunque discrezionale, finisce per effetto della citata deroga ex art. 391 co. 5 c.p.p. per incidere non solo sulla limitazione della libertà personale connessa alla misura precautelare, ma sulla concreta applicabilità successiva di una misura cautelare coercitiva e dunque limitativa della libertà personale».
2.1.– Distinto profilo di censura avanzato dal giudice rimettente è poi quello che investe gli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, cod. proc. pen. per il fatto che la deroga in essi contenuta darebbe luogo ad «evidenti disparità di trattamento», che discenderebbero dal fatto che gli autori dei delitti di cui all’art. 381, comma 2, cod. proc. pen., tutti puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, si troverebbero, in sede di udienza di convalida, a subire ai fini cautelari un regime più sfavorevole rispetto ai soggetti accusati dei delitti previsti in via generale dall’art. 381, comma 1, cod. proc. pen., puniti con pene più severe (delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni ovvero delitti colposi per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni).
Tale disparità di trattamento emergerebbe, in particolare, laddove venga in rilievo un delitto consumato per il quale sia previsto un massimo edittale superiore a tre anni, ma inferiore a cinque anni di reclusione (come nel caso di violenza privata ex art. 610 cod. pen. o cessione di stupefacenti ex art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, recante il Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), in relazione al quale sarà possibile l’arresto ma non l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Altra ipotesi addotta a sostegno dell’incostituzionalità è poi quella relativa alla fattispecie di un delitto consumato per il quale sia previsto un massimo edittale superiore a tre anni ma inferiore a quattro anni (come nel caso della cessione di stupefacenti ex art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, ove ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4, cod. pen.), per il quale sarà possibile l’arresto ma non l’applicazione di misure custodiali neppure domiciliari. Altri casi da cui ricavare la medesima disparità di trattamento sarebbero poi quelli consistenti in taluni reati di cui all’art. 381, comma 2, cod. proc. pen. (come il furto aggravato di cui all’art. 625, cod. pen.), ma integrati nella sola forma tentata, per cui l’arresto sarebbe possibile ai sensi del comma 1 dello stesso articolo ma non opererebbe la deroga di cui all’art. 391, comma 5, cod. proc. pen., ovvero in taluni reati sempre integrati nella forma tentata – come nel caso di tentati furti aggravati ex art. 625, primo comma, numero 2, prima ipotesi, cod. pen. o ex art. 625, primo comma, numero 5), cod. pen., senza che ricorra l’attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4), cod. pen –, per i quali l’arresto è obbligatorio secondo quanto prevede l’art. 380 cod. proc. pen. senza che sia applicabile la misura della custodia cautelare in carcere, riferendosi il censurato art. 391, comma 5, cod. proc. pen. unicamente agli specifici delitti per cui l’art. 381, comma 2, cod. proc. pen. prevede l’arresto facoltativo in flagranza.
3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili e, in subordine, infondate.
L’Avvocatura ritiene le questioni inammissibili perché prive del requisito della rilevanza, in quanto il giudice rimettente ha proceduto alla convalida dell’arresto e, senza pronunciarsi sulla richiesta di misura cautelare, ha ordinato l’immediata liberazione dell’arrestato all’atto di sollevare le presenti questioni di legittimità costituzionale. In questo modo, egli si situerebbe al di fuori dello spazio applicativo dell’art. 391, comma 5, cod. proc. pen., che presuppone la simultaneità tra convalida della misura precautelare e applicazione delle cautele, optando, con la liberazione dell’arrestato, per una soluzione alternativa rispetto a quella di cui alla norma censurata, rappresentata dalla facoltà attribuitagli dal comma 6 dello stesso articolo, secondo il quale «[q]uando non provvede a norma del comma 5, il giudice dispone con ordinanza la immediata liberazione dell’arrestato o del fermato». Le questioni sarebbero poi inammissibili sotto l’ulteriore profilo della violazione dell’ambito di discrezionalità riservato al legislatore in questa materia.
Esse sarebbero comunque infondate perché il rimettente muove da erronei presupposti interpretativi quanto ai presupposti di applicazione delle norme censurate e denuncia disparità di trattamento non sussistenti, ponendo a raffronto situazioni eterogenee.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, dell’art. 391, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che quando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell’art. 381, comma 2, cod. proc. pen. l’applicazione della misura cautelare personale è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli artt. 274, comma 1, lettera c), e 280 cod. proc. pen., nonché dell’art. 280, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui, nel prevedere i requisiti di applicazione delle misure coercitive, fa salvo il disposto dell’art. 391 cod. proc. pen.
1.1.– Il rimettente ritiene che le norme censurate violerebbero gli evocati parametri perché esse attribuiscono rilievo, ai fini dell’applicazione di misure cautelari in sede di udienza di convalida, al “dato” dell’intervenuto arresto, di per sé non idoneo a giustificare la deroga agli ordinari limiti edittali, né con riferimento alle ragioni giustificative della misura precautelare, consistenti nei soli gravi indizi di colpevolezza a carico dell’arrestato, né, di conseguenza, in relazione al controllo demandato al giudice della convalida, limitato a vagliare, in un’ottica retrospettiva, la sola legittimità dell’apprehensio effettuata dall’autorità di pubblica sicurezza. Le norme censurate sarebbero poi irragionevoli perché esse si applicano unicamente ai delitti elencati nell’art. 381, comma 2, cod. proc. pen., puniti in modo meno grave rispetto ai delitti di cui al comma 1 dello stesso articolo.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, perché il giudice rimettente, nel momento in cui ha convalidato l’arresto e disposto la liberazione dell’arrestato, avrebbe optato per l’applicazione di una norma alternativa rispetto al censurato art. 391, comma 5, cod. proc. pen. Mentre quest’ultimo, infatti, rinviene il suo presupposto applicativo nel fatto che il giudice adotti, all’atto della convalida, misure cautelari nei confronti di soggetto già limitato nella sua libertà personale per effetto della misura precautelare, nel momento in cui ha disposto la liberazione dell’arrestato il giudice a quo avrebbe dato invece seguito a quanto previsto dall’art. 391, comma 6, cod. proc. pen., che costituisce un’opzione alternativa e incompatibile rispetto all’esercizio del potere cautelare attribuito dal comma precedente al giudice della convalida, oggetto del presente giudizio di costituzionalità.
2.1.– L’eccezione è infondata.
Benché l’esercizio del potere cautelare attribuito al giudice dall’art. 391, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen. presupponga che esso si dispieghi, simultaneamente alla convalida dell’arresto, nei confronti di persona già sottoposta a limitazione della libertà personale, ciò non comporta che, quando il giudice dubiti proprio della legittimità delle norme che di quel potere regolano presupposti e condizioni, la mancata applicazione delle misure cautelari e la conseguente necessità di disporre la liberazione dell’arrestato possano essere di ostacolo al promovimento della relativa questione di costituzionalità.
A ragionare diversamente, il giudice della convalida si troverebbe sistematicamente nell’impossibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale sulle norme che disciplinano i presupposti delle misure cautelari, con conseguente creazione di una vera e propria “zona franca” dal giudizio di costituzionalità. Se, infatti, il giudice della convalida – al fine di promuovere l’incidente di costituzionalità – applicasse la misura richiesta dal pubblico ministero, egli non solo limiterebbe la libertà personale dell’arrestato sulla base di presupposti normativi della cui legittimità costituzionale dubita, ma farebbe con ciò stesso applicazione della disposizione censurata, esaurendo il proprio potere decisionale e privando così di rilevanza la stessa questione di legittimità costituzionale. In questo quadro, la liberazione dell’arrestato disposta dal giudice è conseguenza non già del rigetto implicito della richiesta del pubblico ministero, ma della impossibilità della protrazione dello stato di privazione della libertà dell’arrestato in assenza di una misura cautelare adottata ai sensi dell’art. 391, comma 5, cod. proc. pen., e cioè della norma della cui legittimità costituzionale il rimettente dubita.
Del resto, la questione di legittimità costituzionale delle norme censurate assume nel giudizio a quo, in conformità a quanto richiesto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), un’evidente portata pregiudiziale rispetto alla decisione del giudice della convalida sulle misure cautelari, che egli ritiene di non poter applicare in presenza dei riferiti vizi di costituzionalità, senza che a ciò possa essere di ostacolo la struttura del giudizio di convalida. In proposito, non può non rilevarsi che il giudice ben può «limitare il provvedimento di sospensione al singolo momento o segmento processuale in cui il giudizio si svolge» e che resta sempre in capo a questa Corte il controllo «dell’effettiva possibilità di circoscrivere la rilevanza della questione, che rimane pur sempre incidentale e che, come tale, è pregiudiziale rispetto ad una decisione del giudice rimettente» (sentenza n. 180 del 2018).
Peraltro, il giudice a quo, con la convalida dell’arresto, da un lato, ha soddisfatto un presupposto necessario per pronunciarsi in materia cautelare ai sensi dell’art. 391, comma 5, cod. proc. pen. e, dall’altro, disponendo la liberazione dell’arrestato e sollevando l’odierno incidente di costituzionalità, non ha omesso di condizionare l’esito del procedimento cautelare alla definizione del presente giudizio. In tal modo, egli non ha esaurito la propria potestas iudicandi, potendo ancora adottare la misura cautelare in deroga agli ordinari limiti edittali (ex multis, sentenze n. 10 del 2018 e n. 84 del 2016).
3.– Deve essere del pari disattesa l’ulteriore eccezione di inammissibilità delle questioni formulata dalla difesa statale, sul rilievo che le questioni stesse investirebbero un ambito, quello relativo alle forme e alle modalità di limitazione della libertà personale, riservato costituzionalmente alla discrezionalità del legislatore.
L'eccezione è, in realtà, relativa a un profilo che attiene al merito delle questioni, anziché alla loro ammissibilità, poiché implica un esame della ratio e dei presupposti applicativi delle norme censurate.
4.– Nel merito, le questioni non sono fondate.
4.1.– Nella disciplina del codice, l’arresto obbligatorio in flagranza è previsto dall’art. 380, comma 1, cod. proc. pen., per i delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni; ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, l’arresto è obbligatorio per una serie di delitti specificamente indicati dal legislatore per il titolo del reato.
Analoga struttura ha la disciplina dell’arresto facoltativo in flagranza: l’art. 381, comma 1, cod. proc. pen. prevede che «[g]li ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria hanno facoltà di arrestare chiunque è colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni ovvero di un delitto colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni». Il comma 2 dello stesso articolo prevede poi alcuni delitti, specificamente e tassativamente indicati, per i quali è comunque possibile procedere all’arresto in flagranza, a prescindere dalla entità della sanzione massima edittale.
L’art. 391, comma 5, cod. proc. pen. attribuiva al giudice chiamato a convalidare l’arresto il potere di applicare misure cautelari allorché sussistessero le condizioni previste dall’art. 273 cod. proc. pen. e taluna delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 cod. proc. pen. Il medesimo comma, in un secondo periodo, stabiliva che «[q]uando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell’articolo 381 comma 2, l’applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti previsti dall’articolo 280».
L’art. 280, comma 1, cod. proc. pen., a sua volta, disponeva che le misure coercitive potessero essere disposte dal giudice nei procedimenti relativi a delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a tre anni: ciò faceva sì che per i reati che ricadevano nella previsione generale di cui all’art. 381, comma 1, cod. proc. pen., le misure cautelari potevano essere applicate secondo la regola generale; per altro verso, per i delitti tassativamente elencati nell’art. 381, comma 2, cod. proc. pen., per i quali l’art. 280, cod. proc. pen. poneva una barriera edittale all’applicazione di misure coercitive, le esigenze cautelari erano comunque soddisfatte in virtù del meccanismo derogatorio scaturente dal richiamo effettuato dallo stesso art. 280, comma 1, all’intero art. 391, e dunque anche al suo comma 5, cod. proc. pen. e alla disciplina ivi prevista.
Il legislatore è intervenuto successivamente a modificare tali coordinate normative, innanzi tutto stabilendo, mediante il nuovo comma 2 dell’art. 280 cod. proc. pen., introdotto dall’art. 7 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa), che, fermo quanto previsto dal comma 1 (rimasto invariato), la custodia cautelare in carcere potesse essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali fosse prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. A tale sopravvenienza normativa si aggiungeva poi, per effetto della modifica introdotta con l’art. 3, comma 2, della medesima legge n. 332 del 1995, un periodo nell’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., secondo il quale, nel caso in cui l’esigenza cautelare derivasse da una prognosi di recidiva, le misure di custodia cautelare venivano disposte solo se il reato di cui si paventava la reiterazione era punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Solo con l’art. 12 della legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini) è stato modificato l’art. 391, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen., il quale prevede oggi che «[q]uando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell’articolo 381, comma 2, ovvero per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dai casi di flagranza, l’applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lettera c), e 280».
Da ultimo, e per effetto della modificazione apportata dalla lettera 0a) del comma 1 dell’art. 1 del decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 94, l’art. 280, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce ora che «[l]a custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni e per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni». Identico limite edittale è stato poi previsto, per effetto della modifica introdotta dalla lettera 0b) del comma 1 dell’art. 1 del già richiamato d.l. n. 78 del 2013, nel testo dell’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. per l’applicazione della misura cautelare carceraria nel caso in cui ricorra l’esigenza cautelare ivi prevista.
Il quadro normativo scaturito dalle plurime modificazioni di cui si è detto mostra un difetto di coordinamento tra le norme richiamate, derivante dalla circostanza che solo per i delitti tassativamente indicati dall’art. 381, comma 2, cod. proc. pen., è oggi possibile l’applicazione, in sede di convalida, delle misure cautelari coercitive in deroga agli ordinari limiti edittali, nel mentre per i delitti, consumati o tentati, di cui al precedente comma 1, per i quali la pena edittale massima sia compresa tra i tre anni e i quattro anni, non è possibile applicare la misura degli arresti domiciliari, fermo restando che per l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, al di fuori della deroga contenuta nel comma 5 dell’art. 391, cod. proc. pen., è necessario che il delitto per il quale si procede sia punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
Ed è proprio muovendo correttamente dal vigente quadro normativo, che il rimettente dubita della legittimità costituzionale degli artt. 391, comma 5 e 280, comma 1, cod. proc. pen.
4.2.– Tanto premesso, deve rilevarsi che la facoltà, per il giudice chiamato a convalidare l’arresto, di applicare nei confronti del prevenuto misure cautelari in deroga agli ordinari limiti edittali segnati dagli artt. 274, comma 1, lettera c), e 280 cod. proc. pen., secondo quanto previsto dal censurato art. 391, comma 5, cod. proc. pen., è riconducibile all’esigenza di raccordare funzionalmente la decisione in ordine alla misura precautelare con quella riguardante la salvaguardia di esigenze di natura propriamente cautelare. Già la legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale) aveva previsto all’art. 2, numero 34), che al giudice dovesse incombere l’obbligo di decidere «sulla convalida o meno dell’arresto o del fermo e sulla loro eventuale conversione, ai sensi del numero 59), in una delle misure di coercizione ivi previste», con ciò prefigurando l’attribuzione alle relative previsioni del codice di procedura penale di un carattere speciale rispetto ai limiti sanciti in via generale per le misure cautelari coercitive applicabili in via autonoma.
Ciò si è tradotto nella disciplina dell’art. 391, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen., che contempla, come si è detto, la possibilità di derogare agli ordinari limiti edittali, sia quello generale di cui all’art. 280, comma 1, cod. proc. pen., sia quello connesso all’esigenza cautelare special-preventiva di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., quando la misura cautelare sia da applicarsi nei confronti di soggetto accusato di uno dei delitti di cui all’art. 381, comma 2, cod. proc. pen. e già temporaneamente limitato nella sua libertà personale per effetto della misura precautelare dell’arresto. Tale eccezionale possibilità resta pur sempre rigidamente condizionata al «presupposto necessario» (sentenza n. 4 del 1992) che l’arresto sia convalidato, a differenza di quanto avviene nei casi ordinari, nei quali il giudice della convalida può pronunciarsi in materia cautelare nel rispetto della disciplina generale di cui agli artt. 280 e 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.: in tali casi, dunque, «la decisione sulla convalida è concettualmente e funzionalmente scissa da quella che inerisce alla applicazione delle misure cautelari» (ancora sentenza n. 4 del 1992).
4.2.1.– Nel motivare il dubbio di incostituzionalità delle norme censurate, il rimettente muove pertanto da un erroneo assunto interpretativo, consistente nel fatto che ad operare quale presupposto per l’applicazione delle misure cautelari di cui all’art. 391, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen. sia il fatto costituito dall’arresto e non, invece, l’intervenuta convalida della misura precautelare ad opera del giudice. Solo la verifica della legittimità dell’arresto effettuata dal giudice, idonea come tale a preservare la natura di esso come istituto eccezionale dai contorni applicativi di stretta interpretazione (sentenza n. 89 del 1970 e ordinanza n. 412 del 1999), può operare infatti come presupposto in grado di attribuire al medesimo giudice il potere di pronunciarsi in materia cautelare anche in deroga rispetto agli ordinari limiti edittali, «all’evidente e non irragionevole fine di coordinare la facoltà di procedere all’arresto in flagranza con la possibilità di disporre all’esito della convalida, e dunque solamente quando l’arresto risulti legittimamente eseguito, misure coercitive» (ordinanza n. 187 del 2001).
Le norme censurate, pertanto, rientrano in un ambito caratterizzato dalla discrezionalità legislativa, riguardante «la determinazione dei casi eccezionali di necessità e urgenza in cui possono essere adottati provvedimenti provvisori limitativi della libertà personale ai sensi dell’art. 13, terzo comma, della Costituzione» (sentenza n. 188 del 1996 e ordinanza n. 187 del 2001), intesa anche quale riflesso specifico della più ampia discrezionalità del legislatore nella conformazione degli istituti processuali in materia penale (sentenze n. 31 e n. 20 del 2017, n. 216 del 2016).
Pur ribadendo che i provvedimenti provvisori restrittivi della libertà personale, secondo quanto imposto dall’art. 13, comma 3, Cost., possono essere adottati «solo quando abbiano natura servente rispetto alla tutela di esigenze previste dalla Costituzione, tra cui in primo luogo quelle connesse al perseguimento delle finalità del processo penale» (sentenza n. 223 del 2004) e che la convalida dell’arresto è da ritenersi «di per sé non sufficiente a legittimare l’applicazione in concreto delle misure» (ordinanza n. 148 del 1998), dovendo il giudice vagliare, secondo un criterio di stretta necessità, la sussistenza delle esigenze cautelari e in particolare quella di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., deve nondimeno ritenersi che le norme censurate non siano di per sé manifestamente irragionevoli, perché con esse il legislatore ha ritenuto non impropriamente che possa essere esclusa la liberazione dell’arrestato ove specifiche esigenze cautelari impongano il mantenimento della restrizione della libertà personale, senza che a tale esito possano essere di impedimento soglie edittali più basse rispetto a quelle ordinarie, laddove i relativi delitti, come quelli tassativamente elencati dall’art. 381, comma 2, cod. proc. pen., siano dal legislatore apprezzati come di particolare allarme sociale.
La questione di legittimità costituzionale non è quindi fondata.
5.– Con una distinta censura, il rimettente prospetta un più limitato motivo di illegittimità costituzionale degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, cod. proc. pen., consistente nella disparità di trattamento che da essi discende per chi, accusato di uno dei delitti elencati dall’art. 381, comma 2, cod. proc. pen. e puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, subisce ai fini dell’applicazione delle misure cautelari – e, in particolare, della misura degli arresti domiciliari – in sede di udienza di convalida dell’arresto un trattamento deteriore rispetto a quello che si presterebbero a subire, ai medesimi fini, i soggetti arrestati in flagranza e accusati, secondo quanto prescrive l’art. 381, comma 1, cod. proc. pen., di un delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni.
5.1.– Anche tale questione non è fondata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la determinazione delle ipotesi tassative, di per sé eccezionali, nelle quali è consentito adottare misure custodiali […] spetta al legislatore, ai sensi dell’art. 13 della Costituzione, nel rispetto degli altri principi costituzionali e nei limiti della non manifesta irragionevolezza» (ordinanza n. 137 del 2003; nello stesso senso, ordinanza n. 40 del 2002).
L’elenco di delitti di cui all’art. 381, comma 2, cod. proc. pen., in relazione ai quali è previsto l’arresto facoltativo in flagranza ed è attribuita al giudice della convalida, nei confronti dei soggetti di essi accusati e in stato d’arresto la facoltà di applicare misure cautelari dall’art. 391, comma 5, cod. proc. pen., anche in deroga ai limiti edittali contenuti negli artt. 274, comma 1, lettera c), e 280 cod. proc. pen., ha sicuramente portata derogatoria rispetto alla clausola generale del comma 1 dell’art. 381 cod. proc. pen. e, pertanto, «non è suscettibile né di letture estensive (i reati sono indicati con la loro denominazione e con il richiamo alla corrispondente disposizione del codice penale o di altra legge, e dunque si tratta di fattispecie ben determinate), né tanto meno di applicazione analogica» (sentenza n. 188 del 1996).
Ribaditi questi principi, il rinvio, operato dall’art. 391, comma 5, cod. proc. pen. e, indirettamente, dall’art. 280 cod. proc. pen. ai delitti di cui all’art. 381, comma 2, dello stesso codice non si traduce tuttavia in una soluzione manifestamente irragionevole, né in linea generale, né con riferimento alle specifiche figure di reato per cui si procede nel giudizio a quo, con particolare riferimento al delitto di furto.
Come questa Corte ha più volte stabilito, «la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione della pena per ciascuna di esse costituiscono materia affidata alla discrezionalità del legislatore, involvendo apprezzamenti tipicamente politici. Le scelte legislative sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 35 del 2018; nello stesso senso, sentenze n. 179 del 2017, n. 236 e n. 148 del 2016).
5.1.1.– La categoria di delitti elencati nell’art. 381, comma 2, cod. proc. pen. risponde a un apprezzamento tipicamente riservato al legislatore, che ha ritenuto – anche sulla scorta del criterio direttivo contenuto nel già richiamato art. 2, numero 34) della legge n. 81 del 1987 – di individuare in quelle figure di reato non solo delle fattispecie idonee a consentire l’arresto in flagranza al di fuori della regola generale del comma 1, ma anche, e per l’effetto, delle ipotesi in relazione alle quali il rispetto dei limiti edittali ordinari per l’applicazione delle cautele avrebbe irragionevolmente frustrato l’esigenza di dare continuità, al ricorrere di determinati presupposti (tra cui in primis la legittimità dell’arresto, vagliata in sede di convalida), alla preservazione delle esigenze cautelari messe a repentaglio dagli autori di delitti ritenuti generatori di un particolare allarme sociale.
Peraltro, nel caso di specie il legislatore non ha stabilito un collegamento tra determinati titoli di reato e l’applicazione necessaria di determinate misure cautelari, come quella carceraria, nei termini di una presunzione assoluta, facendo leva semplicemente sulla loro gravità astratta e sull’allarme sociale da essi destato (sentenza n. 45 del 2014). Non è infatti superfluo ribadire, sul punto, che il compito di pronunciarsi in materia cautelare, valutando la sussistenza delle relative esigenze (con particolare riferimento a quella contenuta nell’art. 274, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.) e approntando la misura eventualmente ritenuta più idonea, non può nel caso di specie che spettare in ultima istanza al giudice della convalida, chiamato a liberamente valutare gli elementi forniti dal pubblico ministero.
Del resto, il collegamento tra la discrezionale scelta legislativa intorno all’allarme sociale generato da determinati delitti e la correlata possibilità che, in relazione ad essi, si proceda all’arresto in flagranza e si applichino, anche in deroga ai limiti edittali previsti, misure cautelari coercitive è di particolare evidenza nel caso dell’art. 381, comma 2, cod. proc. pen., che ha una struttura e una ratio non omogenee rispetto a quelle del primo comma del medesimo articolo. Non solo perché quest’ultimo prevede limiti generali di pena, laddove il secondo comma rimanda invece a fattispecie determinate, da intendersi in modo tassativo e non ancorate a soglie edittali massime predeterminate, ma anche perché il catalogo di cui al medesimo art. 381, comma 2, cod. proc. pen. ha operato col tempo – a riprova dell’inerenza dei suoi contenuti a scelte politiche discrezionali – quale catalogo aperto, nel quale sono stati via via inseriti ulteriori delitti rispetto a quelli originariamente previsti, e nel quale figurano oggi delitti che si prestano ad essere ricondotti anche alla categoria generale del primo comma, come nel caso della violazione di domicilio di cui all’art. 614, primo e secondo comma, cod. pen. (art. 381, comma 2, lettera f-bis, cod. proc. pen.), punita con la pena della reclusione fino a quattro anni, dell’appropriazione indebita di cui all’art. 646 cod. pen. (art. 381, comma 2, lettera l, cod. proc. pen.), punita con la pena della reclusione fino a cinque anni, ovvero delle fraudolente alterazioni per impedire l’identificazione o l’accertamento di qualità personali di cui all’art. 495-ter cod. pen. (art. 381, comma 2, lettera m-quater, cod. proc. pen.), punite con la pena della reclusione fino a sei anni.
Fermo rimanendo, pertanto, il rispetto del complesso dei principi costituzionali attinenti alla tutela della libertà personale, e in particolare del principio di tassatività (art. 13, comma terzo, Cost.), deve pertanto essere ribadito come nella materia de qua spetti al legislatore il compito di individuare presupposti e condizioni per l’esercizio dell’azione punitiva dello Stato, raccordando le relative scelte, anche quelle concernenti i presupposti per l’applicazione delle misure cautelari, all’apprezzamento dei fatti generatori di allarme sociale. Tali scelte incontrano i soli limiti della non manifesta irragionevolezza e della non arbitrarietà, che, nel caso di specie, per le ragioni sin qui esposte, non possono ritenersi superati.
5.2.– Né, per quanto detto, le norme censurate danno luogo, nel caso di specie, a una disparità di trattamento lesiva degli artt. 3 e 13 Cost.
Il giudice rimettente ha addotto a sostegno delle censure una serie di esempi, da cui tuttavia non è dato ricavare alcun elemento a supporto della pretesa disparità di trattamento subita dall’arrestato nel giudizio a quo.
Le situazioni poste a raffronto sono infatti, nella maggior parte dei casi, inconferenti e inidonee a essere commisurate rispetto a quella sub iudice, perché riferite a situazioni del tutto eterogenee e non comparabili, come nel caso di delitti integrati nella sola forma tentata ovvero nel caso in cui la disparità sia riferita all’applicazione della custodia cautelare in carcere. Né è fondata la censura relativa alla disparità di trattamento subita dal soggetto arrestato e accusato di furto semplice (delitto ricompreso nell’art. 381, comma 2, lettera g, cod. proc. pen.) rispetto a chi sia accusato di cessione di stupefacenti ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), quando ricorre la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, numero 4, cod. pen., in relazione alla quale è consentito l’arresto facoltativo in flagranza secondo quanto prevede l’art. 381, comma 1, cod. proc. pen., ma non l’applicazione della misura custodiale domiciliare, perché punita con pena inferiore a quattro anni e per la quale non opera la deroga di cui all’art. 391, comma 5, cod. proc. pen. Anche in questo caso, il giudice pone a raffronto situazioni marcatamente eterogenee, sia con riferimento alla struttura dei reati che al bene giuridico rispetto ai quali essi si pongono a presidio, sicché non è dato a questa Corte di addivenire a una pronuncia che, senza inficiare la scelta non manifestamente irragionevole del legislatore di consentire al giudice della convalida l’adozione in deroga delle misure custodiali per i delitti di cui all’art. 381, comma 2, cod. proc. pen., consenta di superare il problema denunciato dal rimettente.
Pertanto, il fatto che siano stati indicati a paragone una quantità di reati, tra loro diversi, e non soltanto uno od alcuni di essi, mostra chiaramente che nessuno di questi è in grado di costituire un modello comparativo. Ed è noto che «anche in presenza di norme manifestamente arbitrarie o irragionevoli, solo l’indicazione di un tertium comparationis idoneo, o comunque di specifici cogenti punti di riferimento, può legittimare l’intervento della Corte in materia penale, poiché non spetta ad essa assumere autonome determinazioni in sostituzione delle valutazioni riservate al legislatore. Se così non fosse, l'intervento, essendo creativo, interferirebbe indebitamente nella sfera delle scelte di politica sanzionatoria rimesse al legislatore (sentenze n. 236 e n. 148 del 2016)» (sentenza n. 207 del 2017).
5.3.– Non può peraltro non rilevarsi come la deroga ai termini massimi della pena detentiva edittale previsti per l’adozione delle misure cautelari coercitive, non irragionevolmente disposta dal legislatore con le disposizioni censurate, presenti profili problematici che, pur senza dare luogo alla illegittimità costituzionale delle disposizioni qui in esame, tuttavia rendono opportuno un intervento che eccede l’ambito del sindacato di costituzionalità. In proposito, non può non considerarsi che la disciplina dei presupposti per l’adozione delle misure cautelari, anche di quella custodiale in carcere, originariamente coordinata con quelli per le misure precautelari, ha subito numerose variazioni nel corso degli anni, sicché sarebbe auspicabile un intervento del legislatore volto a ricondurre il rapporto tra misure precautelari e misure cautelari coercitive all’originario coordinamento quanto ai presupposti per la loro adozione.
6.– In conclusione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, cod. proc. pen. devono essere dichiarate non fondate in riferimento a entrambi i parametri evocati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 280, comma 1, e 391, comma 5, del codice di procedura penale, sollevate dal Tribunale ordinario di Firenze, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 maggio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Stefano PETITTI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA