SENTENZA N. 167
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, dell’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, come integrato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi l, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), dell’art. 1, comma 256, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», promossi dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, con ordinanza del 18 gennaio 2019 e dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Abruzzo, con ordinanza del 13 maggio 2019, iscritte, rispettivamente, ai numeri 104 e 169 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 28 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione di S. A. M., di P. B. e altri e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
uditi il Giudice relatore Giovanni Amoroso e gli avvocati Andrea Saccucci per S. A. M., Antonella Patteri per l’INPS, e l’avvocato dello Stato Leonello Mariani per il Presidente del Consiglio dei ministri nell’udienza pubblica del 24 giugno 2020, svolta, ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1) lettere a) e d), in collegamento da remoto, su richiesta dell’avvocato Andrea Saccucci pervenuta in data 10 giugno 2020 e ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 24 giugno 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 24 giugno 2020.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, con ordinanza del 18 gennaio 2019 (r.o. n. 104 del 2019), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, dell’art. 16, comma l, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, come integrato dall’art. l, comma l, lettera a), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi l, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), e dell’art. 1, comma 256, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)».
Secondo la Corte dei conti le disposizioni censurate contrasterebbero con l’art. 3 Cost. nella parte in cui «per il personale di cui all’art. 3 del D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, cessato dal servizio dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2017, non prevedono la valorizzazione in quiescenza, a far data dalla cessazione dal servizio, degli emolumenti pensionabili derivanti dalle progressioni stipendiali automatiche che sarebbero spettate in relazione alle classi ed agli scatti che sarebbero maturati nel periodo dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2015».
Le questioni sono state sollevate nel procedimento promosso da S. A. M., ufficiale della Guardia di Finanza cessato dal servizio per limiti di età a decorrere dal 26 agosto 2017, contro il Ministero dell’economia e delle finanze, la Guardia di Finanza e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), per ottenere l’annullamento del provvedimento di determinazione della pensione e la conseguente rideterminazione da effettuarsi tenendo conto delle progressioni di carriera maturate nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2011 e il 31 dicembre 2014, nonché delle classi e degli scatti stipendiali maturati nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2011 e il 31 dicembre 2015. L’amministrazione, infatti, aveva considerato come base di calcolo della contribuzione previdenziale la retribuzione percepita nell’intervallo di tempo della vigenza della disciplina censurata.
Il ricorrente ha lamentato che gli effetti della misura, riverberandosi sul trattamento pensionistico, avrebbero assunto carattere permanente, in contrasto con il principio, affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui il cosiddetto “blocco retributivo” è costituzionalmente legittimo in quanto presenta carattere eccezionale, transeunte, non arbitrario, in coerenza con lo scopo prefissato, temporalmente limitato, di contenimento della spesa pubblica.
Sotto un diverso profilo, il ricorrente ha denunciato la disparità di trattamento richiamando la speciale disciplina posta dall’art. 11, comma 7, del decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 94 (Disposizioni in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze armate, ai sensi dell’articolo 1, comma 5, secondo periodo, della legge 31 dicembre 2012, n. 244), secondo il quale «gli ufficiali superiori e gli ufficiali generali sono reinquadrati, a decorrere dal 1° gennaio 2018, nelle rispettive posizioni economiche, tenendo in considerazione gli anni di servizio effettivamente prestato», quindi anche sulla base delle classi e degli scatti maturati nel periodo del cosiddetto “blocco retributivo”.
Pertanto S. A. M. ha domandato alla Corte dei conti, in via principale, l’accoglimento della domanda di rideterminazione della pensione, ritenendo possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate. In subordine, ha chiesto di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui non prevede la valorizzazione in quiescenza, a far data dalla cessazione dal servizio, degli emolumenti pensionabili derivanti dalle progressioni stipendiali automatiche relative alle classi e agli scatti che sarebbero maturati nel periodo dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2015.
Innanzi alla Corte dei conti si è costituita la Guardia di Finanza sostenendo l’irrilevanza ai fini del calcolo della pensione di incrementi stipendiali non effettivamente percepiti e contestando la ricorrenza dei presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionale, essendosi questa Corte già pronunciata sul punto.
Si è costituito l’INPS, eccependo in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione della Corte dei conti quanto alla pretesa del ricorrente al diverso trattamento stipendiale, nonché il difetto di legittimazione passiva dell’Istituto stesso, privo del potere di valutare la legittimità degli atti relativi allo status e al trattamento economico in quiescenza dei dipendenti statali.
All’udienza del 6 novembre 2018, con sentenza parziale n. 1 del 2019, la Corte dei conti, affermata la propria giurisdizione, ritenuta sussistente la legittimazione passiva dell’INPS, ha dichiarato l’ammissibilità del gravame e, ritenuta la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità prospettata da parte ricorrente, ha disposto, con separata ordinanza, la rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
2.- Illustrati i termini del giudizio, il giudice a quo osserva che, alla luce del vigente quadro normativo, il ricorrente non può ottenere il computo a fini pensionistici delle classi e degli scatti di stipendio che avrebbe maturato durante la vigenza del blocco retributivo, la cui legittimità costituzionale è stata più volte affermata da questa Corte (ex plurimis, sentenza n. 96 del 2016).
Il giudice rimettente ricorda che, con la sentenza n. 200 del 2018, la Corte costituzionale ha escluso che il diverso regime pensionistico spettante a seconda che il soggetto sia cessato dal servizio nell’arco temporale della «cristallizzazione» degli incrementi retributivi o dopo la scadenza del quadriennio possa dar luogo a una disparità di trattamento lesiva dell’art. 3 Cost. Tuttavia la Corte dei conti, facendo proprie le argomentazioni svolte dalla parte ricorrente, ritiene che in seguito all’entrata in vigore dell’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017, sia emerso un nuovo e diverso profilo di illegittimità costituzionale poiché tale disposizione avrebbe eliminato retroattivamente gli effetti pregiudizievoli del blocco solo a beneficio degli ufficiali generali e degli ufficiali superiori cessati dal servizio dopo il 1° gennaio 2018, dando luogo a una discriminazione tra categorie omogenee.
Il legislatore, inoltre, avrebbe operato una ingiustificata discriminazione attribuendo rilevanza unicamente alla data del pensionamento, ponendosi in contrasto con quanto affermato con la sentenza n. 200 del 2018, ove si legge che «[u]na volta sterilizzati ex lege, per effetto della disposizione censurata, gli automatismi retributivi nel quadriennio in questione, la retribuzione utile ai fini previdenziali è quella risultante dall’applicazione di tale regola limitativa, senza che a tal fine rilevi il momento del collocamento in quiescenza, se nel corso del quadriennio o successivamente alla sua scadenza».
Il rimettente, infine, denuncia la violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza per intrinseca contraddittorietà, assumendo che il contenuto delle disposizioni impugnate, viziate per eccesso di potere legislativo, contrasti con la ratio dell’intervento legislativo che – secondo quanto si desume dall’esame complessivo del quadro normativo, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale – va ricondotta alla volontà di contenere la spesa pubblica mediante l’imposizione di un sacrificio temporaneo.
3.- Con atto di intervento depositato in data 30 luglio 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto di dichiarare inammissibili e comunque infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
La difesa statale osserva che le censure riguardano in realtà l’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017, norma non impugnata, ma considerata per sostenere l’asserita violazione dell’art. 3 Cost. Muovendo da questa premessa, e affermato il carattere speciale e derogatorio dell’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017 rispetto alla disciplina generale, l’Avvocatura sostiene che il rimettente è incorso in un errore logico nel domandare una declaratoria di incostituzionalità della norma generale. Infatti, l’accoglimento della questione comporterebbe l’eliminazione degli effetti del blocco per tutte le categorie considerate, frustrando così l’intento di contenimento della spesa pubblica che lo stesso giudice riconosce come elemento qualificante dell’intera disciplina.
4.- Con atto depositato in data 29 luglio 2019, si è costituito l’INPS, che ha contestato l’ammissibilità e la fondatezza delle questioni.
Sotto il primo profilo, l’Istituto ha osservato che le questioni sono già state affrontate e risolte dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2018.
Nel merito, l’INPS contesta l’interpretazione dell’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017, data dal rimettente, assumendo che «[l]a norma non è affatto finalizzata ad eliminare gli effetti del blocco stipendiale, ma, più semplicemente, a razionalizzare la dinamica retributiva, legata al riordino delle carriere, agganciando la determinazione della retribuzione ad un dato oggettivo, il numero degli anni di servizio effettivo dell’Ufficiale». Si tratterebbe, in altri termini, di una disposizione che prevede un incremento riconducibile al normale sviluppo, nel tempo, della dinamica salariale.
5.- Con atto depositato in data 29 luglio 2019, si è costituito S. A. M., aderendo alla richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale avanzata dal giudice rimettente, per le ragioni e i profili indicati nell’ordinanza.
6.- Con memoria depositata il 31 marzo 2020 il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito le proprie difese, evidenziando che, posta l’identità della ratio legis, i principi affermati dalla Corte con la sentenza n. 200 del 2018 in relazione all’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010 sono applicabili anche al secondo periodo di tale disposizione.
7.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Abruzzo, con ordinanza del 13 maggio 2019 (r.o. n. 169 del 2019), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni censurate dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, per violazione degli artt. 2, 3, 36, 38, 53 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 5 agosto 1955, n. 848, e all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla CEDU, firmato a Roma il 4 novembre 2000.
Espone il rimettente che P. B., S. C., G. N. F., G. M. e M. R., ricorrenti nel giudizio a quo, sono cessati dal servizio nel corso del quinquennio 2011-2015. In applicazione delle disposizioni censurate, il Ministero della difesa, quale amministrazione di appartenenza, ha considerato come base di calcolo della contribuzione previdenziale la retribuzione percepita nell’intervallo di tempo della vigenza della disciplina censurata, dunque «sulla base della retribuzione congelata all’ultima classe o scatto maturati prima dell’inizio del “blocco”».
Le questioni sono state sollevate nel procedimento promosso contro il Ministero della difesa e l’INPS per ottenere l’annullamento del provvedimento di determinazione della pensione e la conseguente rideterminazione da effettuarsi «dalla data di cessazione dal servizio o, almeno, dal 1° gennaio 2016, da calcolare comprendendo nella base di computo anche tutti gli automatismi economici spettanti per ed in relazione al quinquennio 2011-2015».
I ricorrenti hanno poi domandato la «remissione degli atti del giudizio alla Corte Costituzionale, per la decisione della questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2, 3, 36, 38, 53 e 117 della Cost., dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del d.l. n. 78/2010 e successive proroghe». Al riguardo hanno lamentato che, interpretando le disposizioni nel senso fatto proprio dall’amministrazione, gli effetti della misura, producendosi anche sul trattamento pensionistico, finiscono per assumere carattere permanente, là dove, per contro, la manovra, diretta al contenimento delle spese per il pubblico impiego, ha superato il vaglio di costituzionalità (sono citate le sentenze n. 154 del 2014, n. 304 e n. 310 del 2013 e l’ordinanza n. 113 del 2014), in quanto connotata da un carattere eccezionale, transeunte, non arbitrario, nonché temporalmente limitato dei sacrifici richiesti.
Infine, i ricorrenti hanno denunciato la disparità di trattamento conseguente all’entrata in vigore dell’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017, che consente solo agli ufficiali generali e agli ufficiali superiori collocati in pensione dopo il 1° gennaio 2018 di ottenere la determinazione della base pensionabile «tenendo in considerazione gli anni di servizio effettivamente prestato», quindi anche sulla base delle classi e degli scatti maturati nel periodo del blocco retributivo.
Segnatamente, le citate disposizioni vengono ritenute in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., per manifesta irragionevolezza e per ingiustificata disparità di trattamento in quanto la disciplina ivi contenuta penalizza il personale cessato dal servizio senza salvaguardare, «neppure a fini pensionistici, la posizione del personale “più anziano” e, per ciò accidentalmente incappato nel “blocco” della operatività degli automatismi stipendiali».
La Corte rimettente richiama poi gli artt. 36 e 38 Cost., in quanto, a parità di posizione maturata, la diversità di trattamento viola il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, nonché il diritto a un adeguato trattamento pensionistico.
Anche l’art. 53 Cost. sarebbe violato atteso che il blocco stipendiale integrerebbe una fattispecie di tributo anomalo.
Infine la Corte rimettente denuncia la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Prot. addiz. CEDU poiché le disposizioni censurate avrebbero comportato una privazione definitiva «del “bene” costituito dagli incrementi retributivi», nonché in relazione all’art. 1 del Prot. n. 12 alla CEDU, sotto il profilo della discriminazione tra categorie omogenee di soggetti.
8.- Con atto di intervento depositato in data 12 novembre 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale, ha chiesto di dichiarare infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
La difesa statale premette che la questione è già stata affrontata e risolta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2018 e che la regola posta dall’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017, è in linea con quanto stabilito nella pronuncia ove, in particolare, si afferma che spetta «al legislatore, nell’esercizio discrezionale delle scelte di politica economica e di compatibilità con l’esigenza di equilibrio della finanza pubblica, prevedere eventualmente […] la riliquidazione dei trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, collocati in quiescenza nel quadriennio del blocco degli incrementi stipendiali, e che nello stesso periodo abbiano conseguito una progressione di carriera o un passaggio a un’area superiore».
Inoltre, la citata disposizione prevede solo che gli ufficiali superiori e generali vengano reinquadrati nelle rispettive posizioni economiche, ma non riconosce il diritto a percepire arretrati. Dunque, va escluso che il legislatore abbia loro consentito, con effetto retroattivo, di sottrarsi alle conseguenze del blocco retributivo.
9.- Con atto depositato in data 12 novembre 2019, si è costituito l’INPS, che ha contestato l’ammissibilità e la fondatezza delle questioni.
Sotto il primo profilo, l’Istituto ha osservato che il rimettente, rinviando alle deduzioni svolte dalla parte, non ha elaborato una motivazione specifica.
Inoltre, posto che la questione è già stata affrontata e risolta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2018, l’Istituto osserva che il preteso contrasto con l’art. 2 Cost. sarebbe rimasto comunque privo di motivazione. La presunta violazione dell’art. 36 Cost. è già stata esclusa dalla giurisprudenza costituzionale (si ricordano le sentenze n. 304 e n. 310 del 2013, n. 154 del 2014). La censura relativa all’art. 38 Cost. sarebbe generica in quanto priva di argomentazioni puntuali sull’asserita violazione dei principi di proporzionalità e adeguatezza della pensione. Anche la prospettata violazione dell’art. 53 Cost. sarebbe viziata dalla genericità. Infine, quanto alla dedotta lesione dell’art. 117, primo comma, Cost., l’INPS osserva che la legittimità costituzionale del meccanismo posto in essere dal legislatore con il blocco stipendiale, affermata in termini generali dalla Corte, porta a escludere la lesione di altri parametri, peraltro, nella specie, motivata in modo carente.
La questione, poi, sarebbe infondata perché il rimettente ha posto in comparazione situazioni diverse, ossia la posizione di coloro che, alla medesima data, siano ancora in servizio e quella di coloro che, invece, siano già stati collocati in quiescenza. Inoltre, come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 200 del 2018, non è possibile tenere conto di una retribuzione virtuale, non percepita.
10.- Con atto depositato in data 28 ottobre 2019, si sono costituiti P. B., S. C., G. N. F., G. M. e M. R., aderendo alla richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale avanzata dal giudice rimettente, per le ragioni e i profili indicati nell’ordinanza.
11.- Con memoria depositata il 31 marzo 2020 (comune anche al giudizio di legittimità costituzionale promosso con ordinanza iscritta al n. 104 del r.o. del 2019) il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito le proprie difese, dichiarando, inoltre, di aderire alle deduzioni dell’INPS.
12.- Con memoria depositata il 6 aprile 2020, P. B., S. C., G. N. F., G. M. e M. R. hanno replicato alle deduzioni articolate dall’INPS e dal Presidente del Consiglio dei ministri, richiamando, per il resto, quanto esposto con il precedente scritto difensivo.
13.- La sola difesa della parte privata, costituita nel giudizio incidentale promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Lombardia, ha chiesto di decidere la causa in udienza pubblica con le modalità “da remoto” previste dal decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, recante misure per l’emergenza da Covid-19.
Considerato in diritto
1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, con ordinanza del 18 gennaio 2019 (r.o. n. 104 del 2019) ha sollevato questioni incidentali di legittimità costituzionale della disciplina del blocco degli incrementi retributivi sia automatici, sia legati a progressioni nella qualifica, nel quinquennio 2011-2015 e quindi dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, dell’art. 16, comma l, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, come integrato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), nonché dell’art. 1, comma 256, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)».
La Corte rimettente lamenta la violazione dell’art. 3 della Costituzione nella parte in cui tali norme non prevedono - per il personale di cui all’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), cessato dal servizio dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2017 - la valorizzazione in quiescenza, a far data dalla cessazione dal servizio, degli emolumenti pensionabili, derivanti dalle progressioni stipendiali automatiche, in relazione alle classi e agli scatti che sarebbero maturati nel periodo dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2015. Il diverso trattamento di quiescenza sarebbe ingiustificato soprattutto in ragione della successiva disciplina del reinquadramento, con rilevanza dell’intero servizio prestato, dettata solo per ufficiali superiori e ufficiali generali dall’art. 11, comma 7, del decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 94 (Disposizioni in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze armate, ai sensi dell’articolo 1, comma 5, secondo periodo, della legge 31 dicembre 2012, n. 244). Solo per tale personale militare sarebbe previsto il recupero, ai fini pensionistici, degli effetti del blocco stipendiale.
1.1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Abruzzo, con ordinanza del 13 maggio 2019 (r.o. n. 169 del 2019), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni deducendo – oltre alla violazione dell’art. 3 Cost. – anche quella degli artt. 2, 36, 38, 53 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 5 agosto 1955, n. 848, e all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla CEDU, firmato a Roma il 4 novembre 2000.
Secondo la Corte rimettente sarebbe ingiustificato il diverso trattamento di quiescenza riservato a chi è cessato dal servizio durante l’arco temporale del blocco rispetto a chi, invece, ha conseguito la pensione prima o dopo il blocco, soprattutto se si considera che solo per una parte del personale militare (ufficiali superiori e ufficiali generali) è stato previsto il reinquadramento in virtù del citato art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017. Ciò si risolverebbe in una violazione del diritto a un adeguato trattamento pensionistico, correlato a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Inoltre il blocco stipendiale integrerebbe una fattispecie di tributo anomalo, trattandosi di un prelievo straordinario di parte della retribuzione.
Altresì – secondo la Corte rimettente - i ricorrenti avrebbero subìto una privazione del «bene» costituito dagli incrementi retributivi ai quali avrebbero avuto diritto per il quinquennio dal 2011 al 2015, con effetti proiettati anche sul trattamento di quiescenza, e quindi in via definitiva, con conseguente ingiustificato trattamento discriminatorio in violazione delle richiamate norme della CEDU.
2.- I giudizi incidentali promossi con le due ordinanze di rimessione sono strettamente connessi per l’oggetto, stante l’identità delle disposizioni censurate e la parziale sovrapponibilità dei parametri evocati, e quindi vanno riuniti per essere trattati e decisi congiuntamente.
3.– Va preliminarmente rilevata la manifesta inammissibilità della censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Prot. n. 12 CEDU, firmato a Roma il 4 novembre 2000, per l’assorbente ragione della mancata ratifica di tale Protocollo (cfr. sentenza n. 194 del 2018 con riferimento alla mancata ratifica di un accordo OIL).
4.- Per il resto, sono ammissibili le sollevate questioni incidentali di legittimità costituzionale.
Entrambi i giudici rimettenti devono fare applicazione della censurata disciplina sul blocco degli automatismi retributivi nel periodo 2011-2015 per decidere in ordine alla pretesa dei ricorrenti, nei due giudizi principali, di rideterminazione del trattamento pensionistico con il calcolo anche degli incrementi stipendiali non percepiti nel periodo suddetto.
Nel giudizio principale promosso innanzi alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, il militare ricorrente, ufficiale della Guardia di Finanza, è stato collocato in quiescenza nel 2017 dopo la cessazione degli effetti del blocco.
La Corte rimettente, all’udienza di precisazione delle conclusioni del 6 novembre 2018, si era riservata di decidere anche sulle numerose eccezioni di legittimità costituzionale della disciplina del blocco stipendiale sollevate dalla difesa del ricorrente, che in particolare si rifacevano alle censure già espresse dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Liguria, in una precedente ordinanza di rimessione (ordinanza del 13 gennaio 2017, r.o. n. 71 del 2017). Nelle more della decisione, è stata pubblicata la sentenza n. 200 del 2018 di questa Corte che ha dichiarato non fondate tutte le questioni sollevate in tale precedente ordinanza, di talché la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, investita del giudizio principale, nel pronunciare anche sentenza parziale sulla propria giurisdizione, ha contestualmente sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina del blocco stipendiale concentrando e focalizzando le sue censure, in riferimento all’art. 3 Cost., essenzialmente in un profilo che in precedenza non era venuto in rilievo e di cui si dirà oltre: quello che chiama in causa la disciplina posta dall’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017, sul reinquadramento di ufficiali superiori e ufficiali generali. In questa più circoscritta prospettiva – non considerata dalla sopravvenuta decisione di questa Corte (sentenza n. 200 del 2018) - la motivazione della non manifesta infondatezza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale è ampiamente sufficiente, oltre che puntuale.
4.1.- Nel giudizio principale promosso innanzi alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Abruzzo, i militari ricorrenti, che chiedono anch’essi la rideterminazione del trattamento pensionistico, sono cessati dal servizio nel corso del quinquennio di blocco e quindi parimenti sussiste la rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Anche la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Abruzzo, nell’enunciare le plurime eccezioni di legittimità costituzionale sollevate dalla difesa dei ricorrenti, tiene conto della sopravvenuta decisione di questa Corte (sentenza n. 200 del 2018). E anch’essa solleva questioni di legittimità costituzionale motivando, soprattutto, sulla asserita disparità di trattamento (art. 3 Cost.) con riferimento all’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017, quanto al previsto reinquadramento, introdotto dopo il blocco stipendiale, solo per gli ufficiali superiori e per gli ufficiali generali; profilo appunto non considerato dalla pronuncia di questa Corte. Ma, seppur in termini molto sintetici ed essenzialmente aderendo alle eccezioni sollevate dalla difesa dei ricorrenti, la Corte rimettente richiama anche gli altri evocati parametri (artt. 2, 36, 38, 53 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla Cedu, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 5 agosto 1955, n. 848, e all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla CEDU, firmato a Roma il 4 novembre 2000), assolvendo comunque all’obbligo di motivazione delle censure, che pertanto sono tutte ammissibili.
5.- Nel merito le sollevate questioni di legittimità costituzionale - che costituiscono essenzialmente un seguito di quelle già scrutinate da questa Corte con le sentenze n. 304 e n. 310 del 2013, n. 154 del 2014, n. 96 del 2016, e, da ultimo, con la già richiamata sentenza n. 200 del 2018, tutte di non fondatezza – sono anch’esse non fondate.
6.- Giova premettere che la regola limitativa degli incrementi stipendiali è stata posta dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, che stabilisce: «I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui all’articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, così come previsti dall’articolo 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, non si applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 ancorché a titolo di acconto, e non danno comunque luogo a successivi recuperi. Per le categorie di personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti. Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici. Per il personale contrattualizzato le progressioni di carriera comunque denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici».
Tutto il pubblico impiego è stato coinvolto da questa articolata regola di conformazione della retribuzione. Infatti, si prevede che per il pubblico impiego non contrattualizzato la retribuzione è determinata senza tener conto né dei meccanismi di adeguamento retributivo – quello di cui all’art. 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), o altri di progressione automatica degli stipendi – né delle «progressioni di carriera comunque denominate». Simmetricamente, per il lavoro pubblico contrattualizzato si stabilisce che la retribuzione è determinata senza tener conto né delle «progressioni di carriera comunque denominate» (esattamente come per il pubblico impiego non contrattualizzato) né dei passaggi tra le aree, che sono parimenti assimilabili a progressioni di carriera.
È questa la regola complessiva per determinare, in chiave di contenimento della spesa, la retribuzione “spettante” a tutto il pubblico impiego, contrattualizzato e non, nel triennio 2011-2013, regola prorogata all’anno 2014 e poi all’anno 2015. Il blocco è quindi durato complessivamente un quinquennio (dal 2011 al 2015).
7.- Questa ampia manovra diretta al contenimento della spesa per il trattamento stipendiale del pubblico impiego ha superato il vaglio di costituzionalità, innanzi tutto quanto al congelamento delle retribuzioni previsto dal comma 21 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 (sentenze n. 96 del 2016, n. 154 del 2014, n. 310 e n. 304 del 2013; ordinanza n. 113 del 2014).
Questa Corte ha dichiarato non fondate varie questioni di costituzionalità, sollevate con riferimento essenzialmente all’art. 36 Cost. (sentenza n. 304 del 2013). Il legislatore può temporaneamente congelare gli incrementi retributivi che, senza la regola limitativa posta dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, sarebbero altrimenti spettati ai pubblici dipendenti, sempre che la retribuzione di risulta assicuri comunque il rispetto del canone di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost., che nella fattispecie non risulta violato.
Con riferimento alla stessa disposizione censurata, ha affermato questa Corte (sentenza n. 96 del 2016) che «esigenze di politica economica giustificano interventi che, come quello in esame, comprimono solo temporaneamente gli effetti retributivi della progressione in carriera». Ha, quindi, già ritenuto che la limitazione degli incrementi stipendiali sia tale da non compromettere l’adeguatezza complessiva della retribuzione, sicché non vi è ragione di dubitare della legittimità di questa regola legale conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti.
Analogamente sono state ritenute non fondate le questioni relative alle ricadute “pensionistiche” del blocco stipendiale (sentenza n. 200 del 2018). Il contenimento della retribuzione nel periodo suddetto ha comportato, come conseguenza, che la retribuzione, calcolata con il criterio limitativo in questione, è stata anche la base di calcolo della contribuzione previdenziale ed è quella rilevante al fine della quantificazione del trattamento pensionistico, sia nel generalizzato sistema contributivo, sia in quello residuale ancora retributivo.
Ha osservato questa Corte che il differenziale tra la retribuzione percepita (perché “spettante” in ragione del criterio limitativo suddetto) e quella che altrimenti sarebbe stata percepita dal pubblico dipendente, ove tale criterio non fosse stato applicabile, rappresenta una quota di retribuzione virtuale non rilevante ai fini pensionistici, perché non spettante né percepita. Manca una disposizione che deroghi a tale effetto naturale della limitazione legale della retribuzione spettante nel quinquennio in questione, a differenza di quanto è invece previsto – come eccezione alla regola – da altre disposizioni dello stesso censurato art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, sia al comma 2 (secondo cui la riduzione percentuale delle retribuzioni superiori a una determinata soglia «non opera ai fini previdenziali»), sia al comma 22, quanto alle soppressioni di acconti e conguagli per il personale magistratuale, che parimenti «non opera ai fini previdenziali» e che, comunque, è stata ritenuta costituzionalmente illegittima, perché «eccede i limiti del raffreddamento delle dinamiche retributive» (sentenza n. 223 del 2012).
Né, in generale, per il pubblico impiego è prevista alcuna contribuzione figurativa su tale quota differenziale, altrimenti necessaria ove in ipotesi essa dovesse rilevare ai fini pensionistici.
La ricaduta del blocco stipendiale sui trattamenti di quiescenza - sia che abbia ad oggetto incrementi retributivi automatici, sia che concerna miglioramenti stipendiali per progressioni di qualifica - è quindi proporzionale alla contribuzione previdenziale sulla retribuzione effettivamente percepita dal dipendente e non altera il canone di complessiva adeguatezza delle pensioni di cui all’art. 38, secondo comma, Cost.
Una volta sterilizzati ex lege, per effetto della normativa censurata, gli automatismi retributivi nel quinquennio in questione, la retribuzione utile ai fini previdenziali è quella risultante dall’applicazione della predetta regola limitativa, senza che a tal fine rilevi il momento del collocamento in quiescenza, se nel corso del periodo di blocco o successivamente alla sua scadenza.
8.- Innanzi tutto non è fondata la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost.
Il profilo di novità, in riferimento a tale parametro, che accomuna le due ordinanze di rimessione, è costituito dall’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017.
Entrambe le ordinanze di rimessione focalizzano le loro censure richiamando tale disposizione; la quale, in vero, da una parte non è investita da dubbi di legittimità costituzionale, né d’altra parte può dirsi invocata come tertium comparationis, nel senso che le ordinanze di rimessione non sono dirette, in realtà, a estenderne l’ambito di operatività sì da renderla applicabile, nei giudizi principali, anche al fine della (pretesa) riliquidazione del trattamento pensionistico dei ricorrenti. Esse invece invocano tale disposizione per trarre argomento a sostegno della censurata mancata previsione, ritenuta ingiustificata, del ricalcolo, sotto l’aspetto pensionistico, degli incrementi retributivi non percepiti nel periodo del blocco stipendiale come conseguenza permanente della sterilizzazione prevista dalle disposizioni censurate. E infatti, in particolare, l’ordinanza della Corte dei conti, sezione giurisdizionale per l’Abruzzo, evidenzia come la sentenza n. 200 del 2018 di questa Corte abbia affermato che «[s]petterebbe comunque al legislatore, nell’esercizio discrezionale delle scelte di politica economica e di compatibilità con l’esigenza di equilibrio della finanza pubblica, prevedere eventualmente quanto richiede il giudice rimettente: la riliquidazione dei trattamenti pensionistici dei pubblici dipendenti, collocati in quiescenza nel quadriennio del blocco degli incrementi stipendiali, e che nello stesso periodo abbiano conseguito una progressione di carriera o un passaggio a un’area superiore». Evidenzia la Corte rimettente che il legislatore avrebbe in realtà già previsto una misura di riliquidazione dei trattamenti pensionistici proprio nell’art. 11, comma 7, citato, limitandola però – ingiustificatamente, secondo la prospettazione della stessa Corte rimettente - in favore di una specifica categoria di pubblici dipendenti: i militari con qualifica di ufficiale superiore o ufficiale generale in servizio alla data del 1° gennaio 2018.
9.- In realtà così non è perché non c’è stata questa predicata rivalutazione, ai fini pensionistici, degli incrementi retributivi automatici, non percepiti nel periodo del blocco.
Il d.lgs. n. 94 del 2017 è stato adottato sulla base della legge 31 dicembre 2012, n. 244 (Delega al Governo per la revisione dello strumento militare nazionale e norme sulla medesima materia). Tale legge di delega ha perseguito l’obiettivo di «realizzare un sistema nazionale di difesa efficace e sostenibile, informato alla stabilità programmatica delle risorse finanziarie e a una maggiore flessibilità nella rimodulazione delle spese, che assicuri i necessari livelli di operatività e la piena integrabilità dello strumento militare nei contesti internazionali e nella prospettiva di una politica di difesa comune europea, per l’assolvimento dei compiti istituzionali delle Forze armate». A tale scopo è stata conferita delega al Governo affinché adottasse, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge, due o più decreti legislativi per disciplinare la revisione, in senso riduttivo: a) dell’assetto strutturale e organizzativo del Ministero della difesa, in particolare con riferimento allo strumento militare, compresa l’Arma dei Carabinieri limitatamente ai compiti militari; b) delle dotazioni organiche complessive del personale militare dell’Esercito italiano, della Marina militare e dell’Aeronautica militare nell’ottica della valorizzazione delle relative professionalità; c) delle dotazioni organiche complessive del personale civile del Ministero della difesa, nell’ottica della valorizzazione delle relative professionalità.
Il decreto legislativo adottato in attuazione di tale delega (n. 94 del 2017) contiene diverse modifiche e integrazioni al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) e persegue, nel complesso, lo scopo di realizzare l’equiordinazione dell’ordinamento delle Forze armate con quello delle Forze di polizia ad ordinamento civile, secondo i principi e i criteri direttivi contenuti nella legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) (cosiddetta “Riforma Madia”), che prevede analoga delega per le Forze di polizia ad ordinamento civile e militare. Tra gli elementi qualificanti del provvedimento c’è l’istituzione per gli ufficiali «di una carriera unitaria e a sviluppo dirigenziale».
In questo contesto sono state riordinate le categorie di militari e le carriere (art. 1), con disposizioni speciali per alcune categorie (art. 4 e seguenti) ed è stato ridefinito il trattamento economico e previdenziale a regime del personale militare. In particolare è stata rimodulata l’entità degli stipendi del personale militare, dell’indennità integrativa speciale e dell’indennità dirigenziale, le indennità operative, nonché la parametrazione dello stipendio agli anni di servizio, come anche è stato ridefinito il meccanismo della progressione economica (rispettivamente agli artt. 1810-bis, 1810-ter, 1820, 1822, 1811 e 1811-bis cod. ordinamento militare).
Il decreto legislativo non ha ignorato neppure i profili pensionistici avendo previsto la pensionabilità delle misure economiche suddette (art. 10, comma 2) e ridefinito l’assegno pensionabile (art. 1817 cod. ordinamento militare).
In questo generale contesto riformatore, successivamente integrato dal decreto legislativo 27 dicembre 2019, n. 173 (Disposizioni in materia di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze armate, ai sensi dell’articolo 1, commi 2, lettera a, 3, 4 e 5, della legge 1° dicembre 2018, n. 132), che ha dettato norme correttive, non rilevanti ai fini che interessano, si colloca l’art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 94 del 2017 che prevede: «In fase di prima applicazione del presente decreto legislativo, gli ufficiali superiori e gli ufficiali generali sono reinquadrati, a decorrere dal 1° gennaio 2018, nelle rispettive posizioni economiche, tenendo in considerazione gli anni di servizio effettivamente prestato, aumentati degli altri periodi giuridicamente computabili ai fini stipendiali ai sensi della normativa vigente e ridotti dei periodi di cui all’articolo 858 del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, e dei periodi di aspettativa per motivi di studio nei casi previsti dalla normativa vigente».
Si tratta di una disposizione transitoria sull’inquadramento stipendiale degli ufficiali generali e ufficiali superiori, a partire dal 1° gennaio 2018, in ragione degli anni di servizio effettivamente prestato e di ogni altro periodo computabile ai fini stipendiali (classi e scatti).
Tale norma - riconducibile al normale sviluppo, nel tempo, della dinamica stipendiale - non è affatto volta a eliminare, per il passato, gli effetti del blocco degli automatismi retributivi, previsto dalle disposizioni censurate, quanto, piuttosto, a razionalizzare, per il futuro, il trattamento economico legato al riordino delle carriere, agganciando la determinazione della retribuzione a un dato oggettivo, qual è il numero degli anni di servizio effettivo dell’ufficiale. Si tratta essenzialmente di un reinquadramento retributivo che non tocca affatto la contribuzione ai fini pensionistici per il periodo del blocco (semmai ci sarebbe solo un’incidenza limitata, e comunque meramente indiretta, quanto alla quota retributiva del trattamento pensionistico nella misura in cui essa ancora residualmente rilevi). In ogni caso si ha che, anche per questa limitata categoria di personale militare (ufficiali superiori e ufficiali generali), rimane che la retribuzione pensionabile nel periodo del blocco stipendiale fa riferimento a quella percepita senza gli automatismi retributivi, sulla quale è destinata a essere calcolata la contribuzione utile al fine della liquidazione della pensione.
Va quindi ribadito, in conclusione, che in nessun caso – salvo disposizioni a carattere straordinario e derogatorio (e tale non è l’art. 11, comma 7, citato) - è possibile ottenere un trattamento pensionistico che prescinda dalla contribuzione effettivamente versata.
Rimane nella discrezionalità del legislatore - nelle sue scelte di politica economica concernenti il livello dei trattamenti pensionistici nei limiti consentiti dall’esigenza dell’equilibrio dei bilanci e della sostenibilità del debito pubblico (art. 97, primo comma, Cost.) e nel rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) – prevedere, come condizione di miglior favore, la riliquidazione dei trattamenti di quiescenza includendo anche la quota di retribuzione che sarebbe spettata ai pubblici dipendenti in assenza del censurato blocco stipendiale.
10.- Parimenti non fondate sono le questioni di legittimità costituzionale in riferimento agli altri parametri, sollevate dalla sola Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Abruzzo, in termini assai sintetici, essenzialmente adesivi all’eccezione di illegittimità costituzionale della difesa delle parti ricorrenti.
11.- Non è violato il principio di adeguatezza del trattamento pensionistico (art. 38, secondo comma, Cost.) e di sua proporzionalità alla retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), coniugato al principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.).
Da una parte, al fine di verificare il rispetto di questo principio occorre considerare il trattamento pensionistico complessivo e non già singoli voci retributive, quali quelle costituite, nella fattispecie, dagli incrementi retributivi automatici, congelati per effetto della normativa censurata.
Dall’altra parte, il sistema della previdenza obbligatoria è ispirato a un criterio solidaristico (art. 2 Cost.) e non già esclusivamente mutualistico. È tale connotazione solidaristica che giustifica e legittima l’obbligatorietà della contribuzione previdenziale anche al di là di una stretta corrispondenza, in termini di corrispettività sinallagmatica, con le prestazioni pensionistiche.
Il blocco degli automatismi retributivi e degli incrementi stipendiali in ragione delle progressioni di carriera nel lavoro pubblico, contrattualizzato e non – oggetto delle censure della Corte rimettente - risponde a un’esigenza di contenimento della spesa complessiva per tale personale in modo da assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico (artt. 81 e 97, primo comma, Cost.).
Questa Corte ha evidenziato che in generale la garanzia dell’art. 38 Cost. è «agganciata anche all’art. 36 Cost., ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale» (sentenza n. 173 del 2016). Ha altresì sottolineato che il principio di proporzionalità e adeguatezza dei trattamenti di quiescenza non comporta «un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione» di tale principio (sentenza n. 70 del 2015). D’altra parte, con riferimento a misure di contenimento della spesa per i trattamenti retributivi e pensionistici del personale pubblico, la mancanza di forme di recupero e l’effetto di cosiddetto «trascinamento» nel tempo delle misure di blocco e sterilizzazione costituiscono – in difetto di specifiche disposizioni di segno contrario – conseguenze di tale scelta discrezionale e non irragionevole del legislatore (sentenza n. 250 del 2017).
12.- Neppure è violato l’art. 53 Cost. quanto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva e secondo un criterio di progressività.
Va ribadito – come già evidenziato da questa Corte (sentenza n. 200 del 2018) - che la censurata disposizione dettata per contenere la spesa per il pubblico impiego (art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010) pone una regola per conformare la retribuzione spettante al pubblico dipendente e non prevede affatto un prelievo straordinario su una retribuzione più elevata, che risulterebbe diminuita in ragione dell’imposizione tributaria. È stata infatti esclusa qualsivoglia valenza tributaria del blocco stipendiale con conseguente infondatezza, in particolare, delle questioni di costituzionalità sollevate sulla base di tale presupposto (sentenza n. 304 del 2013). Ha affermato questa Corte, in tale ultima pronuncia, che «[l]a norma censurata […] non ha natura tributaria in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico» (in senso conforme, con riferimento alla stessa disposizione, le sentenze n. 96 del 2016 e n. 154 del 2014).
L’articolazione testuale dell’art. 9, comma 21, citato e la sua evidente ratio confermano l’esclusione della natura tributaria. Si tratta, invece, di una regola legale conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti nel quinquennio in questione, che integra, temporaneamente e in via eccezionale, la disciplina, legale o contrattuale, del trattamento retributivo per perseguire la finalità di contenerne il costo complessivo.
Analogamente questa Corte (sentenze n. 173 del 2016 e n. 70 del 2015) ha escluso che le misure di blocco della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici abbiano natura tributaria.
13.- Per una ragione analoga neppure è violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Prot. addiz. CEDU.
La normativa censurata non ha comportato la privazione di un “bene” costituito dagli incrementi retributivi sterilizzati perché questi in realtà non sono mai entrati nel patrimonio dei pubblici dipendenti, la cui retribuzione, nel periodo del blocco, non ha cessato di essere, nel complesso, sufficiente e proporzionata alla prestazione lavorativa. È semmai la riduzione di un trattamento pensionistico che può ricadere nell’ambito applicativo dell’evocata tutela convenzionale (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 19 luglio 2018, Aielli ed altri contro Italia e Arboit ed altri contro Italia), ma non anche il mancato riconoscimento di un più elevato trattamento pensionistico in ragione di una retribuzione non percepita e non spettante.
14.- In conclusione le questioni di legittimità costituzionale vanno dichiarate non fondate in riferimento a tutti gli evocati parametri.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, secondo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, dell’art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111, come integrato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’art. 16, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), e dell’art. 1, comma 256, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», sollevate – in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione in relazione all’art. 1 del Protocollo n. 12 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmato a Roma il 4 novembre 2000 – dalla Corte di conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Abruzzo, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Lombardia, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 38, 53 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 5 agosto 1955, n. 848, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Abruzzo, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA