Corte Costituzionale, Sentenza n.191 del 31/07/2020

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Prospettazione della questione incidentale - Puntuale motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza - Ammissibilità e procedibilità delle questioni - Rigetto di eccezione preliminare

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen, non è accolta l'eccezione di improcedibilità e inammissibilità delle questioni prospettate. Non solo l'eccezione non è sorretta da alcuna motivazione in proposito, ma le questioni appaiono puntualmente motivate sotto il duplice profilo della rilevanza e della non manifesta infondatezza.

Processo penale - Misure cautelari - Criteri di scelta - Presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in relazione a specifici delitti (nella specie: associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico) - Possibilità di applicare misure meno afflittive, in relazione a elementi specifici del caso concreto - Omessa previsione - Denunciata ingiustificata parificazione ai delitti di mafia, violazione dei principi in materia di libertà personale e di funzione della pena - Insussistenza - Non fondatezza delle questioni

Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di assise di Torino in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma e 27, secondo comma, Cost., dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 270-bis cod. pen., è sempre applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con misure meno afflittive. La pratica impossibilità di impedire che la persona sottoposta a misura extramuraria riprenda i contatti con gli altri associati ancora in libertà attraverso l'uso di telefoni e di internet fa sì che la presunzione assoluta censurata (valida anche per i delitti associativi di cui agli artt. 416-bis e 270 cod. pen.) appaia sostenuta da una congrua base empirico-fattuale, sì da sottrarsi al giudizio di irragionevolezza. La compressione, peraltro solo parziale, dei poteri discrezionali del giudice trova infatti giustificazione dai gravissimi rischi che potrebbero derivare dall'eventuale sua sopravvalutazione dell'adeguatezza di una misura non carceraria a contenere il pericolo di commissione di reati. Resta fermo, naturalmente, il dovere del giudice di valutare, nella fase genetica e poi nell'intero arco della vicenda cautelare, l'effettiva sussistenza e permanenza delle esigenze cautelari, e di disporre la revoca della misura in essere ogniqualvolta risulti che nel caso concreto tali esigenze non sussistano o siano cessate. (Precedenti citati: sentenze n. 231 del 2011, n. 110 del 2012, n. 265 del 2010, n. 48 del 2015, n. 57 del 2013, n. 1 del 1980 e n. 64 del 1970; ordinanze n. 136 del 2017 e n. 450 del 1995).Sebbene l'art. 270-bis cod. pen. non fornisca alcuna descrizione del modus operandi dell'associazione criminosa ivi disciplinata, né contempli alcun requisito oggettivo in grado di orientare la discrezionalità dell'interprete, in base a una interpretazione costituzionalmente orientata della fattispecie - che ne escluda ogni possibile utilizzo quale strumento di repressione del semplice dissenso o di mere ideologie eversive -, la partecipazione a un'associazione terroristica, pur avendo caratteristiche affatto differenti rispetto all'associazione di tipo mafioso (non essendo necessariamente caratterizzata da rigide gerarchie, da precise regole di ingresso nel sodalizio, né dal controllo sul territorio), non si esaurisce nel compimento di azioni concrete, ma presuppone l'adesione a un'ideologia che teorizza l'uso della violenza in una scala dimensionale tale da poter cagionare un grave danno a intere collettività, e che normalmente perdura anche durante le indagini e il processo, e comunque non viene meno per il solo fatto dell'ingresso in carcere del soggetto.I principi indicati dagli artt. 273, 274 e 275 cod. proc. pen. in materia di scelta delle misure cautelari - che operano non solo nella fase genetica della misura, ma anche durante l'intera sua esecuzione - riflettono il rango assegnato, nel nostro ordinamento, al diritto alla libertà personale, definito "inviolabile" dall'art. 13, primo comma, Cost. Essi corrispondono, altresì, all'interpretazione dell'art. 5 della CEDU fornita dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, e si compendiano, in definitiva, nel principio del minor sacrificio della libertà personale, il cui rispetto è necessario anche a garantire la compatibilità con la presunzione di innocenza di cui all'art. 27, secondo comma, Cost. della compressione della libertà personale dell'indagato e dell'imputato sino alla condanna definitiva. (Precedente citato: sentenza n. 299 del 2005).Le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, pur se in astratto non incompatibili con i principi costituzionali in materia di misure cautelari e di tutela della libertà personale della persona indiziata di reato - per cui non è consentito al giudice comune di estendere direttamente ad altre fattispecie di reato la ratio decidendi di sentenze di illegittimità costituzionale riferite a singole e ben determinate fattispecie -, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali, e cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit. In tali casi, a determinare il vulnus al principio di eguaglianza - e conseguentemente alle ragioni di tutela del diritto alla libertà personale e della presunzione di innocenza - è il carattere assoluto della presunzione di adeguatezza, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del "minimo sacrificio necessario" della libertà personale dell'interessato. (Precedenti citati: sentenze n. 48 del 2015, n. 232 del 2013, n. 213 del 2013, n. 57 del 2013, n. 110 del 2012, n. 331 del 2011, n. 231 del 2011, n. 164 del 2011, n. 265 del 2010, n. 139 del 2010).

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SENTENZA N. 191

ANNO 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di assise di Torino nel procedimento penale a carico di A. M., con ordinanza del 18 novembre 2019, iscritta al n. 27 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visti l’atto di costituzione di A. M., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’8 luglio 2020 il giudice relatore Francesco Viganò;

uditi gli avvocati Caterina Calia e Flavio Rossi Albertini Tiranni per A. M. e l’avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 14 luglio 2020.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 18 novembre 2019 la Corte di assise di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma e 27, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 270-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misure meno afflittive.

1.1.– La Corte rimettente è investita di una richiesta di revoca o attenuazione della misura della custodia cautelare in carcere attualmente in essere nei confronti di un imputato già condannato dalla medesima Corte, con sentenza del 24 aprile 2019, alla pena di cinque anni di reclusione per il delitto di partecipazione ad un’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico di cui all’art. 270-bis, secondo comma, cod. pen., e in particolare ad un’associazione di stampo anarchico.

Espone il giudice a quo che, al momento della richiesta, il condannato si trovava da oltre tre anni in stato di custodia cautelare; che il suo ruolo nell’associazione, come riconosciuto nella sentenza di condanna, era stato di mero ausilio rispetto agli altri associati; e che non sussistono allo stato elementi che consentano di ritenere ancora in vita e operativa l’associazione, anche in relazione all’avvenuta individuazione e all’attuale stato di detenzione degli altri membri del sodalizio.

La Corte rimettente ritiene, tuttavia, di non potere allo stato escludere totalmente una residua pericolosità sociale di «un soggetto che ha manifestato una piena, risalente e convinta adesione al progetto anarchico insurrezionalista», bensì di poter formulare soltanto un giudizio di attenuazione delle esigenze di tutela poste alla base dell’originario provvedimento restrittivo della libertà personale; esigenze che al momento della richiesta dell’imputato avrebbero reso «perfettamente e congrua […] la misura degli arresti domiciliari».

La concessione di tale misura è tuttavia preclusa dalla disposizione censurata, che – laddove siano comunque ritenute sussistenti, come nella specie, le esigenze cautelari – pone una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere nei confronti, tra gli altri, degli imputati per il delitto di cui all’art. 270-bis cod. pen.; donde la rilevanza delle questioni prospettate.

1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, la rimettente invoca i numerosi precedenti con i quali questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittime analoghe presunzioni assolute di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in relazione a varie figure di reato, anche di natura associativa, sia pure sottolineando sempre come tale presunzione trovi giustificazione, dal punto di vista dei principi costituzionali, in relazione all’associazione di tipo mafioso, in ragione delle peculiarità di tale fenomeno criminoso, quali «la forza intimidatrice del vincolo associativo, la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, la diffusività territoriale». Tali caratteristiche non sussisterebbero, invece, per la fattispecie di associazione con finalità di terrorismo, che si presterebbe «a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto molto diversi ed eterogenei tra loro»; ciò che renderebbe impossibile «enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le declinazioni criminologiche del fenomeno, secondo cui la custodia carceraria sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari».

In particolare, non sarebbe possibile «fondatamente e ineludibilmente presumersi che, per le associazioni eversive-terroristiche, così come per quelle mafiose, soltanto il carcere possa tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine e limitare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano continuare a delinquere».

Così come per le associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti, già esaminate nella sentenza n. 231 del 2011 di questa Corte, anche le associazioni terroristiche ed eversive non sarebbero, infatti, indefettibilmente caratterizzate da strutture complesse e gerarchicamente ordinate, essendo all’opposto sufficienti anche organizzazioni rudimentali finalizzate al perseguimento di un fine comune, senza necessario radicamento sul territorio.

La presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere posta dalla disposizione censurata violerebbe, allora:

– l’art. 3 Cost., «per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi al reato di cui all'art. 270 bis c. p. a quelli concernenti i delitti di mafia nonché per [l’]irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati»;

– l’art. 13, primo comma, Cost., «quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale»; nonché

– l’art. 27, secondo comma, Cost., «con riferimento all’attribuzione alla coercizione personale di tratti funzionali tipici della pena».

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano ritenute inammissibili, improcedibili e comunque infondate.

L’Avvocatura generale dello Stato ritiene infatti che sia l’associazione sovversiva di cui all’art. 270 cod. pen., sia l’associazione con finalità terroristica o eversiva presuppongano, esattamente come l’associazione di tipo mafioso, «la permanente adesione ad un sodalizio fortemente radicato nel territorio, gerarchicamente organizzato e caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, nonché, talvolta, da una specifica matrice ideologica […], che esprime una forza di intimidazione, da cui conseguono condizioni di assoggettamento e di omertà, alla luce delle quali è arduo prevedere che misure meno afflittive della custodia cautelare possano arginare la spinta criminale del soggetto».

L’Avvocatura generale dello Stato illustra quindi le caratteristiche della fattispecie associativa in esame, sottolineando come la struttura delle associazioni terroristiche possa essere anche rudimentale, purché però risulti idonea all’attuazione del programma criminoso, imperniato attorno al compimento di atti violenti «diretti contro enti ed istituzioni, idonei a condizionare il funzionamento delle istituzioni stesse».

Da tali premesse conseguirebbe la ragionevolezza della valutazione legislativa, che considera la custodia cautelare in carcere come «l’unica misura idonea a far fronte ad esigenze sia pur presunte e ad interrompere “adesioni interiori e legami fra affiliati ben più forti di quelli mafiosi”».

3.– Si è altresì costituito in giudizio l’imputato nel giudizio a quo, a mezzo dei propri difensori, i quali – dopo aver ripercorso adesivamente le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione – insistono in particolare sulla diversità strutturale dell’associazione delineata dall’art. 270-bis cod. pen. rispetto all’associazione di tipo mafioso, in particolare osservando che la prima fattispecie «è aperta, nella misura in cui indica gli obiettivi perseguiti dalla struttura criminale, ma non delinea il metodo operativo seguito né specifiche qualità della stessa; non è caratterizzata e tipizzata da un forte radicamento in un dato territorio; né da una rigida e complessa organizzazione gerarchica; né dall’uso di forme di intimidazione». Rispetto ad essa, non sarebbe pertanto possibile «enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente alle molteplici e variegate declinazioni criminologiche del fenomeno, che consenta di formulare a priori una valutazione di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria a fronteggiare le esigenze cautelari, escludendo l’agevole ipotizzabilità di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a fondamento della presunzione».

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di assise di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 270-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misure meno afflittive.

2.– L’art. 275, comma 1, cod. proc. pen. dispone in via generale che, nella scelta della misura cautelare da adottare in presenza dei presupposti di cui ai precedenti artt. 273 e 274, il giudice debba tenere conto della «specifica idoneità di ciascuna [misura] in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto», nonché, al comma 2, della proporzionalità della misura all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata, anche tenendo conto dei più precisi criteri indicati dal comma 2-bis. Il comma 3, primo periodo, della disposizione chiarisce inoltre, in applicazione del generale requisito di necessità di ogni misura che incide in senso restrittivo sui diritti fondamentali della persona, che la più gravosa delle misure cautelari personali coercitive, vale a dire la custodia cautelare in carcere, «può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate».

Tali principi – che secondo la lettura fornitane dalla giurisprudenza di legittimità operano non solo nella fase genetica della misura, ma anche durante l’intera sua esecuzione, imponendo una «costante verifica della perdurante idoneità [della] misura [applicata] a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 marzo-22 aprile 2011, n. 16085) – riflettono il rango assegnato, nel nostro ordinamento, al diritto alla libertà personale, definito «inviolabile» dall’art. 13, primo comma, Cost. Essi corrispondono, altresì, all’interpretazione dell’art. 5 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale la carcerazione preventiva «deve apparire come la soluzione estrema che si giustifica solamente allorché tutte le altre opzioni disponibili si rivelino insufficienti» (Corte EDU, sentenze 8 marzo 2018, Pouliou contro Grecia, paragrafo 28; 27 novembre 2014, Koutalidis contro Grecia, paragrafo 40; 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia, paragrafo 50; 8 novembre 2007, Lelièvre contro Belgio, paragrafo 97). E si compendiano, in definitiva, nel principio del «minor sacrificio della libertà personale» (sentenza n. 299 del 2005), il cui rispetto è necessario anche a garantire la compatibilità con la presunzione di innocenza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. della compressione della libertà personale dell’indagato e dell’imputato sino alla condanna definitiva.

Rispetto alla generalità delle persone indiziate di reato, la triplice valutazione imposta dall’art. 275 cod. proc. pen. – compendiabile, in termini familiari al diritto costituzionale, nella verifica della idoneità, necessità e proporzionalità della misura cautelare – è interamente affidata alla discrezionalità del giudice, salvi i limiti puntualmente indicati dalla legge in favore dell’interessato nelle numerose disposizioni che hanno nel corso del trentennio di vita del codice arricchito l’originario essenziale tessuto normativo dell’art. 275 cod. proc. pen.

Rispetto a coloro che sono indiziati di avere commesso specifiche categorie di reato individuate dal legislatore, la scelta del giudice sulla misura cautelare è, tuttavia, variamente limitata anche a sfavore dell’interessato.

Ciò accade, in particolare, nei casi previsti dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen.: disposizioni, queste, che non erano previste nella versione originaria del codice, e costituiscono il frutto di una tortuosa evoluzione legislativa, peraltro intrecciatasi – specie nell’ultimo decennio – con le numerose pronunce di questa Corte sul tema.

2.1.– Appena due anni dopo l’entrata in vigore del codice, l’art. 5, comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 – anticipato da analoghe disposizioni contenute in decreti-legge non convertiti – introdusse nell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. un secondo periodo nel quale erano elencati una serie di reati – tra i quali l’associazione di tipo mafioso e i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale – rispetto ai quali, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, doveva essere sempre disposta la custodia cautelare in carcere, «salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto le [stesse] possono essere soddisfatte con altre misure». La disposizione introdusse dunque due presunzioni relative, operanti rispetto ai reati indicati, con riguardo sia alla sussistenza di esigenze cautelari, sia rispetto all’adeguatezza della sola custodia cautelare; presunzioni, peraltro, entrambe superabili in presenza di elementi di segno contrario, rimessi all’apprezzamento del giudice.

2.2.– Solo qualche mese più tardi, l’art. 1 del decreto-legge 9 settembre 1991, n. 292 (Disposizioni in materia di custodia cautelare, di avocazione dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di trasferimenti di ufficio di magistrati per la copertura di uffici giudiziari non richiesti), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 1991, n. 356, soppresse dall’indicato comma 3 l’inciso «o che le stesse possono essere soddisfatte con altre misure». Per effetto di tale modifica, per i reati menzionati dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. si confermò dunque la presunzione relativa con riguardo alla sussistenza delle esigenze cautelari a carico delle persone indiziate di tali reati, ma si trasformò in assoluta la presunzione di adeguatezza della custodia carceraria, sopprimendo la possibilità per il giudice di valutare se le esigenze cautelari potessero essere comunque soddisfatte mediante l’adozione di misure meno gravose per l’interessato.

2.3.– L’art. 5 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa) modificò nuovamente il comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., circoscrivendo il novero dei reati per i quali operavano le menzionate presunzioni ai soli delitti di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis cod. pen., nonché a quelli commessi «avvalendosi delle condizioni previste» dalla medesima disposizione, ovvero «al fine di agevolare» l’attività dell’associazione mafiosa. In tal modo, i delitti commessi per finalità di terrorismo ed eversione furono riassoggettati alla disciplina ordinaria.

2.4.– Nello stesso anno, questa Corte ha dichiarato manifestamente infondati i dubbi di illegittimità costituzionale sollevati sulla duplice presunzione (di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere) relativa agli indiziati del delitto di associazione di tipo mafioso (ordinanza n. 450 del 1995). Premesso che «compete al legislatore l’individuazione del punto di equilibrio tra le diverse esigenze, della minore restrizione possibile della libertà personale e dell’effettiva garanzia degli interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso la previsione degli strumenti cautelari nel processo penale (sentt. n. 1 del 1980; n. 64 del 1970)», in quella occasione questa Corte ha osservato che «la predeterminazione in via generale della necessità della cautela più rigorosa (salvi, ovviamente, gli istituti specificamente disposti a salvaguardia di peculiari situazioni soggettive, quali l’età, la salute e così via) non risulta in contrasto con il parametro dell’art. 3 della Costituzione, non potendosi ritenere soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice la determinazione dell’accennato punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della libertà personale e gli antagonisti interessi collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale».

2.5.– Il secondo periodo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. fu poi nuovamente modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38, che estese il novero dei reati per i quali opera la doppia presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e dell’adeguatezza della sola custodia cautelare, ricomprendendovi tutti i reati previsti dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. e altri gravi delitti contro la persona. Per effetto del richiamo all’art. 51, comma 3-quater, cod. proc. pen., la generalità dei delitti commessi per finalità di terrorismo – compresa, dunque, l’associazione di cui all’art. 270-bis cod. pen. – tornò così a essere assoggettata al regime derogatorio imperniato sulla doppia presunzione. Regime che, come chiarito da una sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione di poco successiva, opera non solo nel momento di adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle successive vicende che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 19 luglio-10 settembre 2012, n. 34473).

2.6.– A partire dal 2010, tuttavia, questa Corte ha colpito con altrettante dichiarazioni di illegittimità costituzionale la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in relazione a singole figure delittuose comprese nel catalogo di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nel testo risultante dalle modifiche apportate dal d.l. n. 11 del 2009. In particolare, tale presunzione è stata giudicata illegittima rispetto:

– ai delitti di pornografia minorile, violenza sessuale aggravata e atti sessuali con minorenne, di cui rispettivamente agli artt. 600-bis, primo comma, 609-ter e 609-quater cod. pen. (sentenza n. 265 del 2010);

– al delitto di omicidio di cui all’art. 575 cod. pen. (sentenza n. 164 del 2011);

– al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) (sentenza n. 231 del 2011);

– a taluno dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) (sentenza n. 331 del 2011);

– al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere, di cui all’art. 416 cod. pen., finalizzata alla commissione dei delitti previsti dagli artt. 473 e 474 cod. pen. (sentenza n. 110 del 2012);

– ai delitti aggravati ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, e cioè ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (sentenza n. 57 del 2013);

– ai delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 cod. pen. (sentenza n. 213 del 2013);

– al delitto di violenza sessuale di gruppo, di cui all’art. 609-octies cod. pen. (sentenza n. 232 del 2013); nonché

– al delitto di concorso esterno in associazione mafiosa di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen. (sentenza n. 48 del 2015).

Ribadendo un principio formulato in altro contesto (sentenza n. 139 del 2010), questa Corte ha affermato in tali occasioni che le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali, e cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit; evenienza che si riscontra segnatamente allorché sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa. Nei casi in esame, a determinare il vulnus al principio di eguaglianza – e conseguentemente alle ragioni di tutela del diritto alla libertà personale e della presunzione di innocenza – era il carattere assoluto della presunzione di adeguatezza, che implicava una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del “minimo sacrificio necessario” della libertà personale dell’interessato.

L’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. è stato, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, con riguardo alle ipotesi criminose che venivano di volta in volta in considerazione, prevedeva una presunzione – per l’appunto – assoluta di adeguatezza della misura massima, anziché una presunzione solo relativa: superabile, cioè – analogamente a quella relativa alla sussistenza delle esigenze cautelari – ove «siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».

2.7.– Al dichiarato fine di adeguare il dettato normativo alle numerose pronunce di questa Corte (come risulta dall’introduzione al disegno di legge n. 1232, presentato alla Camera dei deputati in data 3 aprile 2013), l’art. 4 della legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità) ha nuovamente modificato il testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., trasformando per quasi tutti i reati sottoposti al regime derogatorio ivi previsto la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere da assoluta a relativa, come accade per la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari.

Il secondo periodo del nuovo testo del comma 3 censurato, peraltro, conferma – accanto alla presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari – una presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per i soli delitti di associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416-bis cod. pen.), di associazione sovversiva (art. 270 cod. pen.) e di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale e di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis cod. pen.).

2.8.– La legittimità costituzionale della scelta del legislatore del 2015 di confermare la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per il delitto di associazione di tipo mafioso è stata vagliata da questa Corte nell’ordinanza n. 136 del 2017, che ha ritenuto manifestamente infondate le relative censure formulate con riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost. dal giudice rimettente.

Le odierne censure di illegittimità costituzionale, formulate con riferimento agli identici parametri, sollecitano ora questa Corte a valutare la legittimità costituzionale della scelta del legislatore di confermare la presunzione assoluta in parola anche per il delitto associativo di cui all’art. 270-bis cod. pen.

3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’improcedibilità e inammissibilità delle questioni prospettate, senza tuttavia fornire alcuna motivazione in proposito.

L’eccezione è infondata, non essendo ravvisabile alcuna ragione di inammissibilità, e tanto meno di “improcedibilità”, delle questioni, le quali appaiono anzi puntualmente motivate sotto il duplice profilo della rilevanza e della non manifesta infondatezza.

4.– Nel merito, tuttavia, questa Corte non è persuasa dalle argomentazioni del giudice a quo.

4.1.– Occorre anzitutto premettere che, nelle pur numerose occasioni in cui sono state dichiarate costituzionalmente illegittime le presunzioni assolute di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere previste dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. nel testo precedente alle modifiche apportate dalla legge n. 47 del 2015 (supra, punto 2.6.), questa Corte non ha mai affermato l’assoluta incompatibilità con i principi costituzionali, in materia di misure cautelari e di tutela della libertà personale della persona indiziata di reato, di ogni ipotesi di presunzione assoluta stabilita del legislatore.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale è stata, invece, sempre motivata in esito a una puntuale ricognizione dell’irragionevolezza della presunzione in relazione alle caratteristiche specifiche delle singole fattispecie delittuose di volta in volta esaminate, rispetto alle quali si è ritenuto “agevole” ipotizzare situazioni nelle quali potesse smentirsi la valutazione legislativa sull’adeguatezza della sola misura custodiale a soddisfare le pur ritenute esigenze cautelari; affermandosi conseguentemente, rispetto a tali fattispecie, la necessità di restituire al giudice la facoltà di disporre una misura cautelare meno restrittiva della custodia in carcere, allorché essa si dimostri nel caso concreto eccessiva rispetto a tali esigenze.

Proprio per assicurare la possibilità di una puntuale verifica circa l’irragionevolezza della presunzione legislativa, del resto, le pronunce di illegittimità costituzionale che hanno nel corso degli anni colpito la disposizione censurata hanno sempre circoscritto la dichiarazione alla sola figura di reato che veniva in considerazione nel giudizio a quo o a quelle immediatamente contigue. In più occasioni, anzi, questa Corte ha avvertito la necessità di rammentare come l’univoco tenore della disposizione sottoposta al suo esame non consentisse al giudice comune di estendere direttamente ad altre fattispecie di reato la ratio decidendi di sentenze di illegittimità costituzionale riferite a singole e ben determinate fattispecie (sentenze n. 232 del 2013 e n. 110 del 2012), dovendo a tal fine ritenersi imprescindibile – nella logica, voluta dal legislatore costituente, del sindacato accentrato di legittimità costituzionale – l’intervento di questa Corte.

Ne consegue, specularmente, che laddove la presunzione legislativa concernente determinate fattispecie criminose – ancorché assoluta – resista al vaglio di ragionevolezza, essendo possibile dimostrare la sua solida rispondenza all’id quod plerumque accidit, e non essendo per converso “agevole” immaginare casi che la possano smentire, la presunzione stessa non potrà considerarsi costituzionalmente illegittima nemmeno al metro dei parametri di cui agli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., costantemente evocati assieme all’art. 3 Cost. a fondamento delle questioni di legittimità costituzionale in materia di misure cautelari personali.

4.2.– Nessuna delle menzionate sentenze succedutesi a partire dal 2010 ha, d’altra parte, mai sollevato dubbi sulla perdurante condivisibilità della soluzione posta a base dell’ordinanza n. 450 del 1995, che aveva ritenuto – come parimenti si è rammentato (supra, punto 2.4.) – manifestamente infondate le censure di illegittimità costituzionale relative alla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere prevista, allora come oggi, per il delitto di associazione di tipo mafioso.

La stessa sentenza “capostipite” n. 265 del 2010 ha, invero, affermato che il regime disegnato dall’art. 275 cod. proc. pen. nella sua formulazione originaria – regime definito come «conforme al quadro costituzionale di riferimento» – «è quello di non prevedere automatismi né presunzioni», aggiungendo che «[e]sso esige, invece, che le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, così da realizzare una piena “individualizzazione” della coercizione cautelare». Coordinate queste da cui «si discosta in modo vistoso – assumendo, con ciò, carattere derogatorio ed eccezionale – la disciplina attualmente espressa dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., non presente nel testo originario del codice, ma in esso inserita via via, con lo strumento della decretazione d’urgenza».

Tuttavia, la stessa sentenza n. 265 del 2010 ha rammentato che proprio questa disciplina eccezionale e derogatoria aveva già superato il vaglio di legittimità tanto di questa Corte (nell’ordinanza n. 450 del 1995) quanto della Corte EDU (nella sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia), essendosi da parte di entrambe le Corti in vario modo valorizzato la specificità della presunzione riferita ai predetti delitti, «la cui connotazione strutturale astratta (come reati associativi e, dunque, permanenti entro un contesto di criminalità organizzata, o come reati a tale contesto comunque collegati) valeva a rendere “ragionevoli” – nei relativi procedimenti – le presunzioni in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della sola custodia carceraria, trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a neutralizzare il periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione».

Analoghe valutazioni si incontrano anche nelle sentenze successive, nelle quali vengono poste in luce le differenti caratteristiche delle ipotesi delittuose di volta in volta esaminate, comprese quelle di natura associativa, rispetto a quelle proprie dell’associazione di tipo mafioso; e ciò sul presupposto (talvolta ribadito esplicitamente, come nelle sentenze n. 231 del 2011 e n. 110 del 2012) della ragionevolezza della presunzione assoluta in parola con riferimento a quest’ultimo delitto. Ragionevolezza da ultimo ribadita, a contrario, nelle sentenze che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale della presunzione con riferimento da un lato ai delitti commessi con “metodo mafioso” o per agevolare l’attività di associazioni mafiose (sentenza n. 57 del 2013) e, dall’altro, al concorso esterno in associazione di tipo mafioso (sentenza n. 48 del 2015), nelle quali si è fatto leva proprio sulla insussistenza, rispetto agli autori di tali delitti, di quelle caratteristiche di “appartenenza”, tendenzialmente perdurante, al sodalizio mafioso su cui si basa la (legittima) presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere rispetto ai partecipi dell’associazione.

Su questo sfondo si innesta dunque armonicamente l’ordinanza n. 136 del 2017, poc’anzi menzionata (supra, punto 2.8.), con cui è stata dichiarata la manifesta infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal rimettente sulla presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere confermata dalla legge n. 47 del 2015 in relazione alla fattispecie di partecipazione all’associazione mafiosa; manifesta infondatezza motivata in relazione allo «stabile inserimento nell’associazione di tipo mafioso, il quale, per le caratteristiche del vincolo, capace di permanere inalterato nonostante le vicende personali dell’associato e di mantenerne viva la pericolosità, fa ritenere che questa non sia adeguatamente fronteggiabile con misure cautelari “minori” (sentenza n. 265 del 2010)».

4.3.– Questa Corte non ha mai avuto occasione, sinora, di esprimersi sulla ragionevolezza dell’analoga presunzione assoluta prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella versione attualmente vigente, a carico delle persone indiziate del delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico di cui all’art. 270-bis cod. pen.

Al riguardo, occorre preliminarmente ribadire quanto già limpidamente affermato nella più volte citata sentenza n. 265 del 2010 e spesso ripetuto, in forma più sintetica, nelle sentenze successive.

Da un lato, «[l]a ragionevolezza della soluzione normativa scrutinata non potrebbe essere rinvenuta […] nella gravità astratta del reato, considerata sia in rapporto alla misura della pena, sia […] in rapporto alla natura (e, in particolare, all’elevato rango) dell’interesse tutelato». E ciò in quanto «[q]uesti parametri giocano un ruolo di rilievo, ma neppure esaustivo, in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente per la determinazione della sanzione, ma risultano, di per sé, inidonei a fungere da elementi preclusivi ai fini della verifica della sussistenza di esigenze cautelari e – per quanto qui rileva – del loro grado, che condiziona l’identificazione delle misure idonee a soddisfarle».

Dall’altro, la presunzione in esame non potrebbe neppure «rinvenire la sua fonte di legittimazione nell’esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale […]. La eliminazione o riduzione dell’allarme sociale cagionato dal reato del quale l’imputato è accusato, o dal diffondersi di reati dello stesso tipo, o dalla situazione generale nel campo della criminalità più odiosa o più pericolosa, non può essere […] annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione. La funzione di rimuovere l’allarme sociale cagionato dal reato (e meglio che allarme sociale si direbbe qui pericolo sociale e danno sociale) è una funzione istituzionale della pena perché presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme e la reazione della società. Non è dubitabile, in effetti, che il legislatore possa e debba rendersi interprete dell’acuirsi del sentimento di riprovazione sociale verso determinate forme di criminalità, avvertite dalla generalità dei cittadini come particolarmente odiose e pericolose, quali indiscutibilmente sono quelle considerate. Ma a tale fine deve servirsi degli strumenti appropriati, costituiti dalla comminatoria di pene adeguate, da infliggere all’esito di processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non già da una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di colpevolezza».

Necessaria a escludere la illegittimità costituzionale di una disposizione come quella in esame – che pure costituisce, come si è osservato, una vistosa ed eccezionale deroga all’ordinario regime disegnato dal codice di procedura penale in ossequio ai principi costituzionali e convenzionali di tutela della libertà personale e della presunzione di innocenza – è, invece, la puntuale dimostrazione della ragionevolezza dell’assunto secondo cui anche rispetto alla fattispecie associativa in esame, così come per quella di tipo mafioso, quando il giudice abbia ritenuto sussistenti nel caso concreto le esigenze cautelari di cui all’art. 274 cod. proc. pen., ogni altra misura cautelare meno afflittiva non sarebbe idonea a garantire il soddisfacimento di quelle medesime esigenze.

Tale dimostrazione, d’altra parte, dovrà essere calibrata non già sulla generalità dei reati compiuti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, e in ispecie sui “reati fine” dell’associazione di cui all’art. 270-bis cod. proc. pen., bensì proprio e specialmente sulle condotte associative (di promozione, costituzione, organizzazione, direzione, finanziamento e mera partecipazione) contemplate dalla norma incriminatrice in questione – che è, si noti, l’unico reato di matrice terroristica abbracciato dalla presunzione ora all’esame.

4.4.– A tal fine, conviene ricapitolare sinteticamente i principali approdi della giurisprudenza di legittimità in merito ai requisiti dell’associazione criminosa in parola.

4.4.1.– Ciò che caratterizza l’associazione di cui all’art. 270-bis cod. pen. rispetto alle altre associazioni criminose è la sua finalità: il sodalizio deve proporsi «il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico».

La formula legislativa allude dunque a un doppio livello finalistico che deve caratterizzare l’associazione nel suo complesso: a un primo livello, l’intento di compiere atti di violenza; e, a un livello ulteriore, la finalità ultima di tali condotte, indicata come «terrorismo» o «eversione dell’ordine democratico».

La finalità di terrorismo, a sua volta, trova una definizione nell’art. 270-sexies cod. pen., introdotto dal legislatore nel 2005 in sede di trasposizione della Decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, sulla lotta contro il terrorismo (oggi sostituita dalla direttiva UE 2017/541 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2017, sulla lotta contro il terrorismo e che sostituisce la decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio e che modifica la decisione 2005/671/GAI del Consiglio). L’art. 270-sexies cod. pen. considera, in particolare, «condotte con finalità di terrorismo» quelle che, sul piano oggettivo, «per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale»; e, sul piano soggettivo, sono compiute con una delle tre finalità alternative indicate dalla norma, e cioè lo scopo a) di intimidire la popolazione, b) di costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale al compimento o al mancato compimento di un atto, ovvero c) di «destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale».

La potenzialità di arrecare «grave danno a un Paese o ad un’organizzazione internazionale» costituisce, anzitutto, un requisito che allude alle dimensioni necessariamente macroscopiche dell’offesa potenzialmente creata dalla condotta terroristica: un’offesa che non potrebbe ad esempio, come osserva la giurisprudenza di legittimità, esaurirsi nella mera lesione di patrimoni privati (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 15 maggio-27 giugno 2014, n. 28009).

Quanto alle tre finalità “ultime”, la prima di esse – come pure puntualizzato dalla Corte di cassazione – si pone in continuità rispetto alla tradizionale accezione di “terrorismo”, dovendo essere letta in correlazione con il requisito “dimensionale” della capacità della condotta di «arrecare grave danno» – per ciò che qui rileva – a un intero Paese, richiedendo dunque la finalità di «portare nella società un turbamento profondo e perdurante, tale che la collettività, nel suo complesso, senta menomata la propria aspettativa di vita in condizioni di libertà e sicurezza» (Corte di cassazione, sentenza n. 28009 del 2014).

La seconda finalità deve essere anch’essa interpretata alla luce del requisito dimensionale predetto, potendo quindi essere riferita non già a qualsiasi tentativo di «pressione esercitata su di un pubblico ufficiale, sia pure mediante la commissione di un reato», bensì soltanto ad una «costrizione» che abbia ad oggetto una decisione di una pubblica autorità «che incida significativamente su una scala sociale ed istituzionale corrispondente», e sia come tale idonea a «creare il grave rischio di una grave lesione degli interessi in gioco (il sereno svolgimento della vita pubblica, il fisiologico esercizio del potere pubblico, la stabilità e l’esistenza stessa delle istituzioni di una società pluralistica e democratica)» (così, ancora, Corte di cassazione, sentenza n. 28009 del 2014).

La terza finalità, infine, corrisponde in larga parte alla tradizionale nozione di finalità di «eversione dell’ordine democratico», divenuta così – oggi – una sottoipotesi della stessa finalità di terrorismo, così come definita dall’art. 270-sexies cod. pen.; sicché la loro duplice menzione, che pure è conservata nel testo e nella rubrica dell’art. 270-bis cod. pen. così come in varie altre norme incriminatrici, costituisce ormai una mera endiadi.

4.4.2.– A differenza dell’art. 416-bis cod. pen., l’art. 270-bis cod. pen. non fornisce alcuna descrizione del modus operandi dell’associazione criminosa ivi disciplinata, né contempla alcun requisito di natura oggettiva in grado di orientare la discrezionalità dell’interprete. Costante è, pertanto, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità nel ritenere sufficienti anche organizzazioni «rudimentali» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 8 maggio-19 giugno 2009, n. 25863; sezione prima penale, sentenza 22 aprile-5 giugno 2008, n. 22673; sezione prima penale, sentenza 10 luglio-17 settembre 2007, n. 34989); essendo anzi frequente una struttura “fluida” e “a rete” di simili sodalizi (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 9 ottobre-15 novembre 2018, n. 51654), caratterizzati da «cellule territoriali» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 7 dicembre 2007-27 marzo 2008, n. 13088) che operano talvolta in totale autonomia rispetto ad altri gruppi, con i quali pure condividono la medesima ideologia e il medesimo generico programma criminoso, con contatti reciproci fisici, telefonici o informatici anche meramente discontinui e sporadici (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 28 novembre-18 dicembre 2013, n. 51127; sezione sesta penale, sentenza 12 luglio-29 novembre 2012, n. 46308).

Cionondimeno, la giurisprudenza di legittimità afferma, da tempo, che la mera «comune adesione a un’astratta ideologia, per quanto caratterizzata dal progetto di abbattere le istituzioni democratiche» non basta a ritenere configurabile un’associazione terroristica, occorrendo invece che l’associazione si proponga effettivamente il compimento di atti di violenza per il perseguimento dei propri scopi (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 15 giugno-19 settembre 2006, n. 30824; sezione sesta penale, sentenza 13 ottobre 2004, n. 12903; sezione prima penale, sentenza 21 novembre 2001, n. 5578), nei termini pregnanti che si sono poc’anzi rammentati.

In stretto ossequio al principio costituzionale di offensività, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha in proposito chiarito che, pur non richiedendosi la predisposizione di un programma operativo di azioni terroristiche, ai fini del riconoscimento di un’associazione ex art. 270-bis cod. pen. occorrerà tuttavia che risulti provata la «costituzione di una struttura organizzativa con un livello di “effettività” che renda possibile la realizzazione del progetto criminoso […]. Ne deriva che la rilevanza penale dell’associazione si lega non alla generica tensione della stessa verso la finalità terroristica o eversiva, ma al proporsi il sodalizio la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità: costituiscono pertanto elementi necessari, per l’esistenza del reato, in primo luogo, l’individuazione di atti terroristici posti come obiettivo dell’associazione, quantomeno nella loro tipologia; e, in secondo luogo, la capacità della struttura associativa di dare agli atti stessi effettiva realizzazione nella lettura della fattispecie criminosa» (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 14 luglio-14 novembre 2016, n. 48001; in senso analogo, ex multis, sezione sesta penale, sentenza n. 46308 del 2012; sezione sesta penale, sentenza n. 25863 del 2009).

4.4.3.– L’art. 270-bis cod. pen. non fornisce, infine, alcuna definizione nemmeno delle singole condotte relative all’associazione menzionate nel primo e nel secondo comma.

Per quanto concerne però la (mera) “partecipazione”, che integra l’ipotesi meno grave tra quelle contemplate dalla norma e al tempo stesso segna la soglia minima della rilevanza penale della condotta associativa, la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che tale fattispecie «non può essere desunta dal solo riferimento all’adesione ideale al programma criminale, dalla comunanza di pensiero ed aspirazioni, ma occorre l’effettivo inserimento nella struttura organizzata, desumibile da condotte univocamente evocative e sintomatiche, consistenti nello svolgimento di attività preparatorie per l’esecuzione del programma e nell’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 22 marzo-27 maggio 2013, n. 22719 e in senso analogo, più di recente, sezione seconda penale, sentenza 4 dicembre 2019-27 febbraio 2020, n. 7808); precisandosi, altresì, che ai fini della prova della partecipazione all’associazione occorrerà dimostrare «un concreto passaggio all’azione dei membri del gruppo, sotto forma di attività preparatorie rispetto all’esecuzione dei reati fine, oppure l’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma criminale» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, 26 maggio-18 agosto 2009, n. 33425; in senso analogo, sezione prima penale, sentenza n. 34989 del 2007).

Da ciò deriva, altresì, che ai fini del riconoscimento della condotta partecipativa occorre la prova di effettivi contatti operativi tra l’associazione e il singolo partecipe, dovendo dunque essere provata la consapevolezza di tale adesione in capo all’associazione (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 14 marzo-27 maggio 2019, n. 23168; sezione sesta penale, sentenza 5 marzo-27 marzo 2019, n. 13421; sezione sesta penale, sentenza 23 febbraio-11 settembre 2018, n. 40348), la quale deve dunque considerare il soggetto come un proprio “membro” sul quale poter contare per l’esecuzione del programma criminale.

4.5.– Sullo sfondo di tale diritto vivente – frutto del condivisibile sforzo compiuto dalla giurisprudenza di legittimità per assicurare una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 270-bis cod. pen., che ne escluda ogni possibile utilizzo quale strumento di repressione del semplice dissenso o di mere ideologie eversive, e che ne confini l’ambito di applicazione ai sodalizi che operino effettivamente, e in maniera idonea rispetto allo scopo, quali centri propulsori di condotte violente riconducibili a uno dei paradigmi disegnati dall’art. 270-sexies cod. pen. – deve dunque essere esaminata la ragionevolezza della presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere a carico di chi sia attinto da gravi indizi di colpevolezza in relazione a questo delitto, e nei confronti del quale siano state in concreto ritenute sussistenti le esigenze cautelari di cui all’art. 274 cod. proc. pen.

In proposito, occorre effettivamente riconoscere che, come sottolinea il giudice rimettente, l’associazione terroristica ha caratteristiche affatto differenti rispetto all’associazione di tipo mafioso. La prima può in concreto essere strutturata in modo semplice, sino ad apparire addirittura “rudimentale”, non essendo necessariamente caratterizzata da rigide gerarchie, da precise regole di ingresso nel sodalizio paragonabili ai rituali di affiliazione tipici di molte consorterie mafiose, né dal controllo sul territorio, che è invece caratteristica di queste ultime.

Occorre, tuttavia, considerare che la “partecipazione” a un’associazione terroristica – e il rilievo vale, a maggior ragione, per le altre più gravi condotte descritte dalla norma incriminatrice – non si esaurisce nel compimento, pur necessario, di azioni concrete espressive del ruolo acquisito all’interno del sodalizio, ma presuppone altresì l’adesione a un’ideologia che, qualunque sia la visione del mondo ad essa sottesa e l’obiettivo ultimo perseguito, teorizza l’uso della violenza in una scala dimensionale tale da poter cagionare un «grave danno» a intere collettività.

Ed è proprio una simile adesione ideologica a contrassegnare nel modo più profondo la “appartenenza” del singolo all’associazione terroristica: un’appartenenza che – proprio come quella che lega, pur con modalità diverse, il partecipe all’associazione mafiosa – normalmente perdura anche durante le indagini e il processo, e comunque non viene meno per il solo fatto dell’ingresso in carcere del soggetto, continuando così a essere indicativa di una sua pericolosità particolarmente accentuata.

Questa “appartenenza” a una comunità unita da un preciso collante ideologico – che spesso trascende i confini nazionali (come dimostra emblematicamente la vicenda oggetto del processo che coinvolge l’imputato nel giudizio a quo) – segna d’altra parte un netto discrimine tra l’associazione terroristica e le altre associazioni criminose di cui questa Corte ha avuto sinora modo di occuparsi nella propria giurisprudenza sull’art. 275 cod. proc. pen., dal momento che tali associazioni sono caratterizzate – al più – dalla convergenza delle attività dei partecipi rispetto all’obiettivo immediato dell’esecuzione di reati e dell’acquisizione dei relativi profitti: obiettivo già di per sé frustrato, o comunque gravemente scompaginato, dalle indagini penali e dalle misure cautelari che ne conseguono.

Il (normale) permanere del vincolo di appartenenza del singolo all’associazione terroristica – intesa anche nella sua dimensione di “casa ideale”, nella quale il partecipe investe spesso non solo le proprie energie criminali, ma l’intera propria dimensione personale, essendo spesso disposto a sacrificare la propria vita in nome del progetto condiviso – appare allora alla base della valutazione legislativa che considera le misure cautelari non custodiali, in primis gli arresti domiciliari, inidonee a controllare la sua del tutto peculiare pericolosità.

La pratica impossibilità di impedire che la persona sottoposta a misura extramuriaria riprenda i contatti con gli altri associati ancora in libertà attraverso l’uso di telefoni e di internet – prospettiva, questa, non efficacemente neutralizzabile mediante la semplice imposizione dei corrispondenti divieti all’atto della concessione della misura – crea inevitabilmente il pericolo che il soggetto si allontani senza autorizzazione dalla propria abitazione e commetta gravi reati in esecuzione del programma criminoso dell’associazione, di cui continua a far parte e dalla quale potrebbe continuare a ricevere ordini. E ciò tanto più a fronte delle recenti e ben note esperienze di sanguinosi attentati terroristici eseguiti senza alcuna particolare pianificazione, e anzi con mezzi di fortuna agevolmente reperibili anche da parte di chi si trovi agli arresti domiciliari (come un furgone o addirittura un semplice coltello).

Tali rischi sono vieppiù accentuati dalla struttura “fluida” e “a rete” delle associazioni terroristiche contemporanee, che – quale che sia la loro matrice ideologica – utilizzano largamente internet e i social media non solo come mezzo di reclutamento e di indottrinamento degli associati, ma anche come strumento di pianificazione ed organizzazione degli attentati nei quali si sostanzia lo stesso programma criminoso dell’associazione (ex multis, Corte di cassazione, sentenza n. 7808 del 2019; sezione seconda penale, sentenza 21 febbraio-21 maggio 2019, n. 22163; sezione seconda penale, sentenza 19 ottobre-16 novembre 2018, n. 51942). Con il connesso pericolo che il soggetto sottoposto a misura non custodiale possa entrare in contatto, proprio tramite gli strumenti informatici, anche con membri di “cellule” o strutture organizzative differenti dalla propria, ma accomunate dall’adesione alla medesima ideologia e dalla medesima disponibilità a porre in essere condotte violente; per poi pianificare e organizzare attentati assieme a questi nuovi sodali.

4.6.– A fronte della magnitudine di simili rischi, la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare – che pure costituisce una marcata deroga ai principi generali del codice di rito, modellati sugli stessi principi costituzionali (supra, punto 4.2.) – appare a questa Corte sostenuta da una congrua base empirico-fattuale, sì da sottrarsi al giudizio di irragionevolezza che ha colpito l’analoga presunzione che operava rispetto alle figure di reato – diverse dalla partecipazione all’associazione di tipo mafioso – sinora esaminate.

La compressione, peraltro solo parziale, dei poteri discrezionali del giudice trova qui giustificazione, nell’ambito di un bilanciamento che questa Corte non ritiene di poter censurare dal punto di vista della sua legittimità costituzionale, in relazione alla finalità di tutelare la collettività contro i gravissimi rischi che potrebbero derivare da dall’eventuale sopravvalutazione, da parte del giudice, dell’adeguatezza di una misura non carceraria a contenere il pericolo di commissione di reati, pur ritenuto sussistente nel caso di specie. Resta fermo, naturalmente, il dovere del giudice di valutare, nella fase genetica e poi nell’intero arco della vicenda cautelare, l’effettiva sussistenza e permanenza delle esigenze cautelari, e di disporre la revoca della misura in essere ogniqualvolta risulti che nel caso concreto tali esigenze non sussistano o siano cessate, anche alla luce dell’eventuale percorso di distacco dall’associazione e dai suoi programmi criminosi che l’imputato abbia nel frattempo compiuto.

4.7.– Da quanto precede discende la non fondatezza delle questioni in riferimento a tutti i parametri evocati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma e 27, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di assise di Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 2020.

F.to:

Marta CARTABIA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 31 luglio 2020.

Il Cancelliere

F.to: Roberto MILANA

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