SENTENZA N. 201
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Mario Rosario MORELLI; Giudici : Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), promossi dalla Commissione tributaria provinciale di Genova con due ordinanze del 22 gennaio 2019, iscritte, rispettivamente, al n. 148 del registro ordinanze 2019 e al n. 38 del registro ordinanze 2020 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2019 e n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visti gli atti di costituzione di Marco Cuzzi, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 21 luglio 2020 il Giudice relatore Luca Antonini;
uditi l’avvocato Fabrizio Gaetano Pacchiarotti per Marco Cuzzi e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 21 luglio 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con due ordinanze di analogo tenore del 22 gennaio 2019, iscritte, rispettivamente, al n. 148 del registro ordinanze 2019 e al n. 38 del registro ordinanze 2020, la Commissione tributaria provinciale (CTP) di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 113 (recte: 3, primo comma, 24, secondo comma, 53, primo comma, e 113, secondo comma) della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito: TUIR), secondo cui «[i] redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili», limitatamente alla parte in cui prevede che l’imputazione dei redditi ai soci avviene «indipendentemente dalla percezione».
1.1.– Le questioni sono sorte nel corso di due giudizi promossi da un socio accomandante di una società in accomandita semplice (sas) avverso due avvisi di accertamento per maggiori imposte relative agli anni 2011 e 2012, emessi dall’Agenzia delle entrate nei confronti della società e dei soci ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e dell’imposta sul valore aggiunto (IVA).
La CTP adita, in entrambe le ordinanze, espone preliminarmente: a) di aver sospeso in via cautelare l’efficacia degli avvisi; b) di aver ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti della società e del socio accomandatario, ritenuti litisconsorti necessari originari, in base al principio giurisprudenziale di unitarietà dell’accertamento dei redditi delle società di persone e dei loro soci; c) di aver disatteso sia l’eccezione di difetto di legittimazione attiva del socio accomandante, sia la richiesta di declaratoria di cessazione della materia del contendere formulate dalla resistente Agenzia delle entrate; d) di aver respinto l’eccezione di nullità degli impugnati avvisi, sollevata dal ricorrente per il difetto di sottoscrizione da parte del «capo dell’Ufficio impositore», nonché la doglianza basata sulla violazione del beneficium excussionis di cui all’art. 2304 del codice civile.
Quanto alle fattispecie sottoposte al suo esame, la CTP rimettente ritiene dimostrato che, a suo tempo, il contribuente non abbia ricevuto, dal socio accomandatario, informazioni circa l’andamento della gestione della società, e che lo stesso contribuente non abbia percepito alcun reddito derivante dalla partecipazione societaria, come sarebbe desumibile dall’ordinanza cautelare con la quale il Tribunale ordinario di Chiavari, accogliendo la domanda dell’accomandante, aveva ordinato all’accomandatario, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, di esibire «i libri contabili e la documentazione fiscale afferente suoi rapporti con gli istituti di credito».
1.2.– In punto di diritto, la CTP muove dalla premessa interpretativa, esposta dal ricorrente, che l’art. 1 del TUIR richiederebbe in generale, per l’applicazione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche, il possesso, inteso come «materiale disponibilità di fruirne» ovvero come «capacità di disporne», dei redditi «in danaro o in natura», laddove invece il successivo art. 5 dello stesso testo unico prevede, ai fini della medesima imposta, che i redditi prodotti in forma associata tramite società di persone residenti sono imputati a ciascun socio «indipendentemente dalla percezione» (cosiddetta “imputazione per trasparenza”), così configurando una «presunzione assoluta» di attribuzione a tali soci dei redditi societari, anche se non effettivamente percepiti.
I rimettenti dichiarano, pertanto, di prospettare il dubbio di costituzionalità, «impregiudicata ogni questione per l’irap e l’iva» e «limitatamente alle parole “indipendentemente dalla percezione”», per violazione:
a) dell’art. 3, primo comma, Cost., per la disparità di trattamento che in tal modo si determinerebbe tra i soci delle società di persone che sono assoggettati all’IRPEF pur non avendo «conseguito» alcun reddito (quantomeno nell’«annualità di competenza»), da un lato, e «tutti gli «altri soggetti egualmente privi di reddito, che ne sono invece esclusi», dall’altro;
b) dell’art. 24, secondo comma, Cost., perché il socio delle società di persone non percettore di reddito da partecipazione, in quanto «impossibilitato a dimostrare di non aver conseguito alcun reddito», verrebbe leso nel proprio «diritto alla prova in giudizio», senza che tale lesione possa essere adeguatamente ristorata dalle eventuali successive vittoriose azioni giudiziarie da lui intraprese per conseguire tale reddito da partecipazione; ciò, infatti, «si tradurrebbe in un inammissibile solve et repete imponendo al socio di pagare sempre e comunque il tributo senza possibilità di proporre difese, per poi consentirgli di recuperare – forse e comunque poi – quanto versato», dato anche il rischio di decadenza dalla possibilità di ottenere la ripetizione delle imposte, in tal modo creando una «differenza di trattamento», nell’àmbito dei soci delle società di persone non percettori di reddito da partecipazione, tra i soci che siano economicamente in grado di pagare immediatamente l’intero tributo e che pertanto possano affrontare i tempi per ottenere giustizia attraverso «il rimborso delle somme versate» (mediante, come detto, una sorta di solve et repete) e i soci che, invece, non abbiano mezzi economici e credito sufficienti per effettuare il pagamento e ai quali pertanto non sia consentito ottenere tempestivamente e con certezza giustizia;
c) dell’art. 53, primo comma, Cost., perché il socio delle società di persone, ove non sia percettore di reddito da partecipazione, verrebbe ugualmente assoggettato all’IRPEF, in aperto contrasto con il principio di capacità contributiva;
d) dell’art. 113, secondo comma, Cost., perché risulterebbe esclusa la tutela giurisdizionale dei soci di società di persone non percettori di reddito da partecipazione, in relazione alla categoria di atti fiscali costituita dagli accertamenti effettuati nei confronti di società di persone, laddove tale tutela non sarebbe, invece, esclusa per i soci di società di capitali non percettori di reddito da partecipazione, in relazione alla categoria di atti fiscali costituita dagli accertamenti effettuati nei confronti di società di capitali.
1.3.– I giudici a quibus, infine, motivano la rilevanza delle questioni affermando che, in base alla indicata «presunzione assoluta» di attribuzione a ciascun socio dei redditi delle società di persone posta dalla norma censurata (non suscettibile di una interpretazione costituzionalmente orientata, «stante le inequivoche espressioni utilizzate dal legislatore» nella disposizione ad essa relativa), i ricorsi del contribuente dovrebbero essere rigettati, almeno per la parte avente a oggetto l’IRPEF.
2.– In entrambi i giudizi si è costituito il contribuente, chiedendo, con difese del medesimo tenore, che le questioni siano accolte.
La parte afferma preliminarmente che dal menzionato provvedimento cautelare del Tribunale di Chiavari sarebbe desumibile, come osservato dalla stessa CTP rimettente, la prova della «assenza del presupposto impositivo» in capo al socio accomandante, il quale, in conseguenza della «condotta inerziale costantemente tenuta dal socio accomandatario», «non ha – e mai ha avuto – il “possesso del reddito” accertato dall’Ufficio di Genova» in relazione alla sas per i sopra indicati periodi d’imposta.
Ad avviso del contribuente la contraddizione tra l’art. 1 del d.P.R. n. 917 del 1986 (il quale individua il presupposto dell’IRPEF nel «possesso» di redditi in denaro o in natura, da intendersi come «materiale disponibilità» di essi) e la norma censurata (che porrebbe, invece, una «presunzione assoluta» di percezione degli utili) condurrebbe, quindi, alla violazione del principio della capacità contributiva sancito all’art. 53 Cost., perché, in sostanza, «verrebbe assoggettato a imposizione un reddito inesistente».
3.– In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.
La difesa statale osserva che la cosiddetta tassazione “per trasparenza” disciplinata dall’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986 trova fondamento nella «particolare situazione giuridica soggettiva del socio» rispetto al reddito prodotto dalla società: egli vanterebbe, infatti, un diritto, tutelabile in sede giudiziaria, alla integrale divisione degli utili a seguito dell’approvazione del rendiconto annuale. E da tale diritto «attuale e incondizionato» deriverebbe la sussistenza di una «effettiva relazione giuridica con la fonte di produzione» e, pertanto, della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.
Ad avviso dell’Avvocatura, un siffatto sistema impositivo del reddito d’impresa prodotto in forma associata sarebbe del tutto coerente con la tassazione “per competenza” e non “per cassa” del reddito d’impresa dell’imprenditore individuale persona fisica.
D’altra parte, aggiunge, questa Corte – nel rigettare l’analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, sollevata per violazione degli artt. 3, 24 e 53 Cost. – ha già osservato che la norma censurata «è volta a realizzare, attraverso l’imputazione ai soci del reddito societario indipendentemente dalla sua effettiva percezione, la immedesimazione – nell’ambito delle società di persone, nei limiti della quota di partecipazione ed agli specifici fini tributari – fra società partecipata e socio»; e, conseguentemente, ha ritenuto prive di fondamento le doglianze mosse «sulla base della asserita fittizietà del reddito sottratto dagli amministratori», ferma restando, «ovviamente, […] la responsabilità degli amministratori [stessi] per il danno derivante ai soci dalla sottrazione del reddito societario» (è citata l’ordinanza n. 53 del 2001).
Né, ancora per la difesa statale, risulterebbe vulnerato il diritto di difesa del socio, dal momento che, come precisato da questa Corte, «al socio accomandante, privo di legittimazione processuale nel giudizio relativo all’accertamento del reddito societario ai fini dell’imposta ILOR, deve ritenersi sempre consentita, allorché gli sarà notificato l’accertamento del suo reddito personale, la possibilità di tutelare i suoi diritti, contestando anche nel merito l’accertamento del suo reddito di partecipazione nonostante l’intervenuta definitività dell’accertamento del reddito societario ai fini ILOR» (ordinanza n. 5 del 1998).
3.1.– Con specifico riferimento al giudizio relativo al n. 38 del registro ordinanze 2020, l’Avvocatura generale ha inoltre argomentato che i redditi prodotti dalle società di persone sono individuati – in base ad «una fictio iuris» – considerando il momento della loro produzione e, successivamente, sono imputati e tassati secondo criteri di riferibilità soggettiva e di imposizione personale relativi al singolo socio, in base ad «una presunzione assoluta di distribuzione dell’utile d’esercizio». Con il principio di trasparenza, pertanto, entrambe le figure soggettive (società e socio) parteciperebbero «alla realizzazione del presupposto di imposta, trattandosi di una fattispecie complessa».
Illustrati in raffronto i tratti distintivi della tassazione dei redditi delle società di capitale, la difesa erariale ritiene erroneo il presupposto interpretativo dei rimettenti secondo cui il meccanismo di tassazione “per trasparenza” si porrebbe in contrasto con l’art 53 Cost., poiché, in linea generale, l’imposizione dei soggetti collettivi «consente in astratto due opzioni: a) considerare una distinta autonoma manifestazione di attitudine alla contribuzione, prima in capo al soggetto collettivo quale risultato di esercizio, poi in capo ai singoli componenti della stessa sotto forma di utile distribuito; b) considerare come unico centro di imposizione il soggetto collettivo o le persone fisiche a questo partecipanti».
Ad avviso della difesa statale, le scelte del legislatore sarebbero, pertanto, coerenti con il principio di capacità contributiva e ciò troverebbe conferma da «un’analisi svolta in parallelo tra diritto tributario e diritto commerciale» sulle distinte caratteristiche delle società di capitali rispetto alle società di persone. In particolare, «[i]l diritto attuale e incondizionato del socio» della società di persone all’apprensione dei risultati reddituali della società rappresenterebbe «una effettiva relazione giuridica con la fonte di produzione, idonea a configurare quella capacità contributiva richiesta dall’art. 53 Cost.».
Precisa l’Avvocatura generale che la tassazione “per trasparenza” dovrebbe del resto considerarsi coerente con il principio della prevalenza della sostanza giuridica delle fattispecie economiche sulla forma apparente, in quanto, con riguardo alla tassazione dei redditi delle società di persone, la sostanza economica sarebbe costituita dalla «diretta partecipazione alla vita sociale da parte di tutti i soci». La disciplina censurata sarebbe del resto giustificata anche dalla finalità di evitare il rischio di evasioni per l’ipotesi di distribuzione occulta degli utili.
Per l’Avvocatura generale dello Stato, perciò, non vi sarebbe alcuna lesione del principio di capacità contributiva. Le altre questioni sarebbero, poi, manifestamente infondate, perché, «una volta assodata la ragionevolezza dell’opzione normativa per la trasparenza, alternativa a quella di attribuire rilevanza alla soggettività passiva della società con autonoma riferibilità all’ente della capacità contributiva (e successiva imposizione in capo ai soci al momento della distribuzione), non appaiono ravvisabili indici di contrasto con l’art. 3 Cost.».
Considerato in diritto
1.– Con due ordinanze di analogo tenore del 22 gennaio 2019, iscritte, rispettivamente, al n. 148 del registro ordinanze 2019 e al n. 38 del registro ordinanze 2020, la Commissione tributaria provinciale (CTP) di Genova dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 113 (recte: 3, primo comma, 24, secondo comma, 53, primo comma, e 113, secondo comma) della Costituzione, e con riguardo all’IRPEF, della legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito: TUIR), secondo cui «[i] redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili».
I rimettenti dichiarano di prospettare il dubbio di costituzionalità, «impregiudicata ogni questione per l’irap e l’iva» e «limitatamente alle parole “indipendentemente dalla percezione”», per violazione:
a) dell’art. 3, primo comma, Cost., per la disparità di trattamento che in tal modo si determinerebbe tra i soci delle società di persone che sono assoggettati all’IRPEF pur non avendo «conseguito» alcun reddito (quantomeno nell’«annualità di competenza»), da un lato, e tutti gli «altri soggetti egualmente privi di reddito che ne sono invece esclusi», dall’altro;
b) dell’art. 24, secondo comma, Cost., perché il socio delle società di persone non percettore di reddito da partecipazione, in quanto «impossibilitato a dimostrare di non aver conseguito alcun reddito», verrebbe leso nel proprio «diritto alla prova in giudizio», senza che tale lesione possa essere adeguatamente ristorata dalle eventuali successive vittoriose azioni giudiziarie da lui intraprese per conseguire tale reddito da partecipazione; ciò, infatti, «si tradurrebbe in un inammissibile solve et repete imponendo al socio di pagare sempre e comunque il tributo senza possibilità di proporre difese, per poi consentirgli di recuperare – forse e comunque poi – quanto versato», dato anche il rischio di decadenza dalla possibilità di ottenere la ripetizione delle imposte, in tal modo creando una «differenza di trattamento», nell’àmbito dei soci delle società di persone non percettori di reddito da partecipazione, tra i soci che siano economicamente in grado di pagare immediatamente l’intero tributo e che pertanto possano affrontare i tempi per ottenere giustizia attraverso «il rimborso delle somme versate» e i soci che, invece, non abbiano mezzi economici e credito sufficienti per effettuare il pagamento e ai quali pertanto non sia consentito ottenere tempestivamente e con certezza giustizia;
c) dell’art. 53, primo comma, Cost., perché il socio delle società di persone, ove non sia percettore di reddito da partecipazione, verrebbe ugualmente assoggettato all’IRPEF, in aperto contrasto con il principio di capacità contributiva;
d) dell’art. 113, secondo comma, Cost., perché risulterebbe esclusa la tutela giurisdizionale dei soci di società di persone non percettori di reddito da partecipazione, in relazione alla categoria di atti fiscali costituita dagli accertamenti effettuati nei confronti di società di persone, laddove tale tutela non sarebbe, invece, esclusa per i soci di società di capitali non percettori di reddito da partecipazione, in relazione alla categoria di atti fiscali costituita dagli accertamenti effettuati nei confronti di società di capitali.
2.– Preliminarmente, data l’evidente connessione oggettiva e soggettiva, i due giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente trattati e decisi.
3.– Nel merito, le questioni non sono fondate.
3.1.– I primi due commi dell’art. 5 del TUIR dispongono che «[i] redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili» (comma 1); «[l]e quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate al valore dei conferimenti dei soci se non risultano determinate diversamente dall’atto pubblico o dalla scrittura privata autenticata di costituzione o da altro atto pubblico o scrittura autenticata di data anteriore all’inizio del periodo d’imposta; se il valore dei conferimenti non risulta determinato, le quote si presumono uguali» (comma 2).
I commi successivi del medesimo art. 5 estendono l’applicazione di queste regole alle società di armamento, alle società di fatto, alle associazioni professionali senza personalità giuridica, all’impresa familiare (con alcune peculiarità) e al gruppo europeo di interesse economico (GEIE).
In questi termini le società di persone residenti e gli enti ad esse assimilati non costituiscono un autonomo soggetto passivo d’imposta, ma sono assunti alla stregua di centri di riferimento per la determinazione del reddito, che viene attribuito ai soci al termine dell’esercizio e in base alle rispettive quote di partecipazione agli utili.
Questa scelta legislativa trova giustificazione in relazione a diversi profili riconducibili all’interesse fiscale dello Stato alla percezione dei tributi, anch’esso tutelato, assieme all’interesse del contribuente a un’imposizione correlata alla propria capacità contributiva, dall’art. 53, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenza n. 181 del 2017).
Tale meccanismo impositivo infatti risulta, da un lato, rispondente a esigenze di cautela fiscale in presenza di una possibilità di elusione d’imposta nel contesto delle società considerate dall’art. 5 del TUIR, stante il loro minore livello di formalizzazione e quindi l’assenza dei più rigorosi obblighi di natura contabile e procedimentale previsti per le società di capitali, anche quanto all’individuazione degli utili non distribuiti. Dall’altro appare anche funzionale a esigenze di semplificazione, permettendo di evitare duplicazioni dell’imposizione (in capo alla società, sotto forma di utile, e in capo al socio, sotto forma di dividendo) con riguardo a soggetti, i soci delle suddette società, che esplicano i loro poteri in modo diretto e sono a queste legati da un particolare vincolo di natura personale.
3.2.– Tale metodo dell’attribuzione del reddito “per trasparenza” – che non è peculiare del nostro sistema impositivo, costituendo un modello per certi versi conosciuto anche negli ordinamenti di altri Paesi – comporta quindi la tassazione IRPEF direttamente in capo ai soci degli utili societari, con imputazione degli stessi per ciascun periodo d’imposta e indipendentemente dalla percezione: assume, così, rilievo il solo fatto della produzione del reddito (con conseguente irrilevanza fiscale della distribuzione degli utili negli esercizi successivi).
In base a tale scelta legislativa il presupposto di imposta si realizza, quindi, in capo ai soci e non alla società che, considerata “trasparente”, diventa uno “schermo” dietro il quale i primi esercitano collettivamente un’attività economica. Infatti, «in forza dell’imputazione al socio del reddito di partecipazione pro quota, indipendentemente dall’effettiva percezione, il socio medesimo diventa l’unico soggetto passivo dell’imposta personale, avendo in realtà dichiarato un reddito proprio ancorché il presupposto dell’imposizione si verifichi unitariamente presso l’ente collettivo che lo produce e lo dichiara. Questa diretta imputazione del reddito è la conseguenza logica immediata del principio accolto dal legislatore tributario di “immedesimazione” esistente tra società a base personale e singoli soci che la compongono, per cui non è configurabile una soggettività distinta, separata o disgiunta della società rispetto ai soci. Tale principio costituisce espressione della giuridica irrilevanza della soggettività delle società di persone in campo tributario, considerando il Fisco le società di persone come uno schermo dietro il quale operano i soci con i particolari poteri di direzione, di controllo e di gestione anche se non sono amministratori» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 2 marzo 1992, n. 2514, sostanzialmente confermata da Cassazione, sezioni unite, sentenza 8 gennaio 1993, n. 125).
3.3.– I suddetti soci, dunque, sul piano tributario, sono chiamati a contribuire alle pubbliche spese in relazione a un incremento patrimoniale realizzato per effetto dell’attività sociale, rispetto alla quale hanno un onere e un potere di controllo (artt. 2261 e 2320 del codice civile) che, da un lato, li pone giuridicamente in grado di avere piena conoscenza dell’indicato incremento patrimoniale e, dall’altro, rende irrilevante, a questi fini, la distinzione tra soci amministratori e non amministratori.
L’imputazione reddituale “per trasparenza” delle società di persone, anche avuto riguardo al caso di soci non amministratori (e, in particolare, anche nel caso dell’accomandante), si riconnette quindi alla disciplina civilistica che attribuisce ad essi puntuali poteri di controllo.
Tale aspetto concorre così a giustificare – dal punto di vista fiscale – la diretta imputazione del risultato economico prodotto dalla società al socio indipendentemente dalla sua percezione dell’utile.
Infatti, anche a prescindere dall’approvazione del rendiconto e dalla previsione statutaria di eventuali riserve di utili (o dalla decisione unanime dei soci in tal senso), il socio già si trova in una relazione con il reddito societario prodotto che appare idonea a integrare la peculiare nozione di «possesso», indicato quale presupposto dell’IRPEF dall’art. 1 del TUIR e che costituisce l’indice di capacità contributiva assunto dal legislatore.
D’altronde, a quest’ultimo spetta un’ampia discrezionalità in relazione alle varie finalità cui si ispira l’attività di imposizione fiscale, essendogli consentito, «sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza» (ex plurimis, sentenza n. 111 del 1997).
Sul suddetto assunto riposa inoltre il precedente specifico di questa Corte, relativo anch’esso a una società in accomandita semplice – ma con il quale la CTP rimettente non si è minimamente confrontata –, dove si è precisato che «la norma in questione [art. 5, comma 1, del TUIR] è volta a realizzare, attraverso l’imputazione ai soci del reddito societario indipendentemente dalla sua effettiva percezione, la immedesimazione – nell’ambito delle società di persone, nei limiti della quota di partecipazione ed agli specifici fini tributari – fra società partecipata e socio»; ritenendo conseguentemente prive di fondamento le doglianze mosse «sulla base della asserita fittizietà del reddito sottratto dagli amministratori», in quanto «tale reddito deve, invece, ritenersi effettivo, posto che la sua sottrazione, che è peraltro vicenda interna alla società e non incide sul momento genetico della sua produzione, ne presuppone logicamente la esistenza», ferma restando, «ovviamente, […] la responsabilità degli amministratori [stessi] per il danno derivante ai soci dalla sottrazione del reddito societario» (ordinanza n. 53 del 2001).
3.4.– Non è quindi fondata, innanzitutto, la questione riferita al principio di capacità contributiva ai sensi dell’art. 53, primo comma, Cost., formulata dalla CTP rimettente ritenendo che il contribuente non sia «percettore di reddito».
La CTP rimettente struttura infatti la censura sull’assunto interpretativo, esposto dal ricorrente, per cui la nozione di «possesso» del reddito, indicata dall’art. 1 del TUIR come presupposto dell’IRPEF, consisterebbe nella «materiale disponibilità di fruirne», ovvero nella «capacità di disporne», così che il meccanismo di imputazione del censurato art. 5 del TUIR, laddove prevede che la tassazione avviene «indipendentemente dalla percezione» degli utili, determinerebbe un’imposizione fiscale «in aperta violazione del principio di capacità contributiva».
3.5.– Tale presupposto interpretativo è errato.
Va in primo luogo rilevato che il reddito, quale sicuro indice di capacità contributiva, costituisce in realtà una entità conseguente alle regole di determinazione disposte dal legislatore tributario in ragione delle specifiche caratteristiche delle singole categorie di cui all’art. 6 del TUIR: redditi fondiari, di capitale, di lavoro dipendente, di lavoro autonomo, di impresa e redditi diversi.
In questo schema impositivo non solo alcuni redditi non coincidono con una res (il reddito d’impresa, ad esempio, in forza dell’art. 83 del TUIR è costituito da un dato contabile, tra l’altro regolato in base al principio di imputazione temporale della competenza e non a quello di cassa; i redditi fondiari possono rappresentare un dato solo figurativo), ma il termine stesso di possesso assume un significato differente nell’ambito delle singole categorie reddituali.
Infatti, «[i]l termine possesso impiegato dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 1 non ha il significato tecnico che ha nel codice civile, né ha un significato tecnico-tributario uniforme per tutte le categorie reddituali. Ma il significato minimo comune del termine senz’altro evoca, ai fini della tassabilità, la riferibilità ad un soggetto di determinati redditi e la titolarità in capo a lui dei poteri di disposizione in relazione ad essi» (Corte di Cassazione, sezione quinta civile, sentenza 10 gennaio 2013, n. 433)
Constatato quindi che il legislatore non ha adottato una nozione generale e unitaria di reddito (preferendo individuare fattispecie imponibili nell’ambito delle singole categorie) e ha volutamente utilizzato, con specifico riferimento all’imposta sul reddito, il termine «possesso» nell’art. 1 del TUIR in un senso atecnico, se ne deve concludere che quest’ultimo non coincide né con la nozione civilistica, né con quella della materiale disponibilità del reddito.
Del resto, in forza dei fini che la Costituzione assegna al diritto tributario con riguardo alla definizione di fattispecie idonee a esprimere la capacità contributiva di singole vicende economiche, non è sempre necessario, in presenza di adeguate ragioni giustificative, che tra questo e il diritto civile debba comunque esistere una assoluta corrispondenza di categorie concettuali e terminologiche.
Il possesso cui fa riferimento il legislatore tributario agli specifici fini dell’IRPEF deve essere inteso, pertanto, quale modo per identificare la relazione del soggetto con la peculiare manifestazione di capacità contributiva che è costituita appunto dal reddito, secondo le regole giuridiche delle singole categorie reddituali.
Questa Corte ha avuto peraltro modo di precisare che «attualmente, ai fini della nozione giuridica di reddito occorre far capo a ciò che viene, nei limiti della ragionevolezza, qualificato per tale dal legislatore. Ciò significa, pertanto, che per dichiarare tassabile un provento occorre accertare in quale delle ipotesi normative tipiche esso rientri» (sentenza n. 410 del 1995).
In questa prospettiva, il meccanismo di imputazione “per trasparenza” dei redditi prodotti dalle società di persone non costituisce una contraddizione rispetto alla nozione generale di presupposto d’imposta fissata nell’art. 1 del TUIR, bensì una particolare manifestazione di questo in riferimento a una specifica fattispecie.
In conclusione, nell’attuale sistema di imposizione sui redditi deve ritenersi che non arbitrariamente il legislatore tributario ha individuato come indice di capacità contributiva la relazione tra il presupposto e il soggetto passivo attraverso la diretta imputazione al socio (“per trasparenza”) del reddito prodotto in forma associata, indipendentemente dalla percezione.
4.– Nemmeno è fondata, di conseguenza, la censura riferita all’art. 3, primo comma, Cost., per disparità di trattamento tra i soci di società di persone (soggetti ad imposizione «pur non avendo conseguito alcun reddito») e «altri soggetti egualmente privi di reddito». Essa implica la non riferibilità al socio del reddito prodotto dalla società di persone, cosicché la sua posizione sarebbe analoga a quella di qualsiasi altro soggetto che, in quanto privo di reddito, si colloca invece al di fuori del presupposto dell’IRPEF.
In contrario vanno invece richiamate le già esposte le ragioni per le quali il socio non può considerarsi un soggetto “privo di reddito” in caso di imputazione “per trasparenza” del reddito prodotto in forma associata.
5.– Parimenti non fondata è la questione riferita al diritto di difesa ai sensi dell’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto la disciplina censurata provocherebbe, a danno del contribuente, un’ingiustificata limitazione della prova di non avere la capacità di disporre (o la disponibilità materiale) del reddito.
Tale censura si fonda sull’assunto dei rimettenti per cui l’art. 5, comma 1, del TUIR strutturerebbe una «presunzione assoluta» di attribuzione al socio di redditi societari, anche se da questo non percepiti.
Nemmeno tale assunto è condivisibile.
Infatti – mentre vere e proprie presunzioni sono previste dal comma 2 dell’art. 5 del TUIR in relazione alle quote di partecipazione e al valore dei conferimenti – la previsione del comma 1 del medesimo art. 5, nello stabilire che l’imputazione avviene «indipendentemente dalla percezione», individua un meccanismo d’imputazione di ciò che è stato assunto dal legislatore come reddito prodotto, senza, invece, “presumere” la distribuzione dello stesso. La norma censurata esclude la soggettività passiva tributaria della società di persone e, in tal modo, elimina lo schermo societario imputando direttamente ai soci il reddito prodotto dalla società. Si tratta di una connotazione strutturale dell’ente ai fini tributari e non di una “presunzione” di distribuzione degli utili.
La fattispecie in esame, in altre parole, è qualificabile semmai alla stregua di una tipizzazione legale, rispetto alla quale va ribadito che «non ha senso denunciare quale violazione del diritto di difesa l’esclusione della prova», in quanto «[t]ipizzazioni, qualificazioni, valutazioni legali come quelle suindicate possono bensì essere censurate sotto il profilo della mancanza di ragionevolezza, contestandosi che esse trovino rispondenza nella situazione socio-economica in riferimento alla quale sono formulate ai fini perseguiti dalla legge, o che esse, o le misure sulla base di esse adottate, siano congrue rispetto a tali fini» (sentenza n. 131 del 1991).
5.1.– L’esercizio del diritto di difesa potrà, peraltro, pienamente esplicarsi contestando nel merito l’accertamento del reddito societario (in questi termini, ordinanza n. 5 del 1998) o la propria qualità di socio, senza che ciò precluda l’accertamento, ad altri fini, della «responsabilità degli amministratori per il danno derivante ai soci» (ordinanza n. 53 del 2001).
Va inoltre sottolineato che proprio il meccanismo d’imputazione “per trasparenza” e la tassazione del socio «indipendentemente dalla percezione» del reddito hanno portato la giurisprudenza di legittimità ad affermare il litisconsorzio necessario tra società e soci al fine di consentire, con pienezza di contraddittorio, la verifica in concreto del presupposto impositivo, stante l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e dei soci delle stesse, cosicché il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci, salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali.
5.2.– Non sono, inoltre, pertinenti i rilievi della CTP rimettente – riferiti sempre alla lesione del diritto di difesa - circa l’«inammissibile solve et repete», che, determinando una «differenza di trattamento» tra i soci che sono economicamente in grado di pagare immediatamente l’intero tributo e quelli che non lo sono, imporrebbe al socio «di pagare sempre e comunque il tributo senza possibilità di proporre difese, per poi consentirgli di recuperare – forse e comunque poi – quanto versato».
A ben vedere, con il richiamo al solve et repete i rimettenti si limitano a riproporre, in forma involuta e solo apparentemente diversa, le censure sopra dichiarate non fondate.
Infatti, i rimettenti in primo luogo utilizzano una nozione di solve et repete impropriamente desunta dalla motivazione della sentenza n. 21 del 1961 di questa Corte, in quanto la successiva “ripetizione” non riguarda la medesima amministrazione finanziaria alla quale è stato pagato il tributo, ma soggetti terzi: la società o l’amministratore inadempiente ai suoi doveri, destinatari della successiva richiesta del socio di risarcimento dei danni e di corresponsione degli utili.
In secondo luogo di difficile comprensione è l’accenno, nella medesima censura, alla decadenza dalla possibilità di ottenere la ripetizione delle imposte versate: qualora i rimettenti avessero inteso affermare che solo con la percezione degli utili il socio avrebbe la piena conoscenza dell’andamento effettivo dell’attività sociale e quindi solo da allora sarebbe in grado di tutelare la sua posizione, sarebbe agevole tuttavia obiettare che il socio (anche accomandante) ha il potere e l’onere di controllare l’attività sociale (artt. 2261 e 2320 cod. civ.) e che, inoltre, deve vagliare la fondatezza delle prove offerte in giudizio dall’amministrazione finanziaria.
6.– Non fondata è, infine, la questione riferita all’art. 113, secondo comma, Cost.
Per la CTP rimettente, la norma censurata esclude la tutela giurisdizionale dei soci di società di persone che non hanno «conseguito alcun reddito di partecipazione», laddove tale tutela non è, invece, esclusa per i soci di società di capitali.
La censura, peraltro anch’essa formulata in modo non del tutto perspicuo (l’avviso di accertamento dei redditi da partecipazione in società di persone è, infatti, pacificamente impugnabile dal socio, tanto che gli stessi giudizi a quibus derivano dalle impugnazioni proposte da un socio di società di persone), è infondata per le stesse ragioni già esposte con riguardo alle questioni relative alla disparità di trattamento e alla lesione del diritto di difesa, delle quali costituisce mera riproposizione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Genova, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 53, primo comma, e 113, secondo comma, della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 luglio 2020.
F.to:
Mario Rosario MORELLI, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 settembre 2020.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA