SENTENZA N. 247
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Mario Rosario MORELLI; Giudici : Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 11 e 20 della legge della Regione Veneto 25 luglio 2019, n. 29 (Legge regionale di adeguamento ordinamentale 2018 in materia di governo del territorio e paesaggio, parchi, trasporto pubblico, lavori pubblici, ambiente, cave e miniere, turismo e servizi all’infanzia), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 27 settembre – 2 ottobre 2019, depositato in cancelleria il 1° ottobre 2019 ed iscritto al n. 102 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;
udito nella udienza pubblica del 20 ottobre 2020 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;
uditi l’avvocato dello Stato Federico Basilica per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Andrea Manzi per la Regione Veneto;
deliberato nella camera di consiglio del 5 novembre 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso iscritto al reg. ric. n. 102 del 2019, ha impugnato gli artt. 11 e 20 della legge della Regione Veneto 25 luglio 2019, n. 29 (Legge regionale di adeguamento ordinamentale 2018 in materia di governo del territorio e paesaggio, parchi, trasporto pubblico, lavori pubblici, ambiente, cave e miniere, turismo e servizi all’infanzia), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere m) ed e), e terzo comma, della Costituzione.
1.1.- Osserva il ricorrente che l’impugnato art. 11 inserisce nella legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio), l’art. 40-bis (Disposizioni relative a immobili costitutivi della memoria e dell’identità storico-culturale del territorio), il quale, al comma 5, dispone l’esenzione dal pagamento del contributo di costruzione nell’ipotesi di cambio di destinazione d’uso di immobili funzionali alla conservazione della memoria e dell’identità storico-culturale del territorio, al ricorrere delle ulteriori condizioni ivi previste (riconoscimento da parte del Comune di un interesse pubblico, sussistenza di adeguate opere di urbanizzazione primarie e mancanza di aumento dei carichi urbanistici).
E ciò in contrasto con la disciplina statale che, invece, imporrebbe, nell’ipotesi di cambio di destinazione d’uso, l’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione in relazione alla situazione esistente al momento della presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) o del permesso di costruire.
Viene ricordato dall’Avvocatura generale dello Stato che la Corte costituzionale ha riconosciuto la natura di norme di principio alle disposizioni che definiscono l’onerosità dell’attività edilizia, ma anche a quelle che, incidendo su tale principio, concorrono a determinare l’effettiva portata e la caratterizzazione positiva del principio medesimo, in quanto ad esso legate da un rapporto di coessenzialità o di integrazione necessaria (sentenze n. 231 del 2016 e n. 1033 del 1988).
1.1.1.- Il ricorrente assume un ulteriore profilo di contrasto con la disciplina statale di riferimento alla luce del combinato disposto dei commi 2 (il quale prevede l’approvazione, da parte del Comune, di una variante al Piano degli interventi comunali) e 5 dell’art. 40-bis oggetto di esame.
Vi sarebbe, infatti, violazione, in particolare, del disposto dell’art. 16, comma 4, lettera d-ter, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), da considerarsi anch’esso norma di principio, il quale prevede la debenza di un contributo straordinario in ipotesi di «interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso».
L’Avvocatura generale dello Stato puntualizza che le previsioni contenute nel medesimo art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001 (d’ora in avanti: TUE), ai commi 4-bis e 5 – in base alle quali vengono fatte salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali – si riferirebbero alla disciplina del calcolo del maggior valore e agli obiettivi cui il «contributo straordinario» deve essere vincolato e lascerebbero dunque inalterato il principio in base al quale, per quanto di interesse nel caso di specie, qualora si sia in presenza di varianti urbanistiche con cambio di destinazione d’uso è dovuto un «contributo straordinario», in ragione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili.
1.1.2.- Il gravato art. 11 violerebbe, dunque, l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con i princìpi fondamentali dettati in materia di governo del territorio dagli artt. 16 e 17 del TUE.
1.2.- Ulteriore questione ha ad oggetto l’art. 20 della medesima legge regionale n. 29 del 2019 che modifica la legge della Regione Veneto 31 dicembre 2012, n. 55 (Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive e disposizioni in materia urbanistica, di edilizia residenziale pubblica, di mobilità, di noleggio con conducente e di commercio itinerante), introducendo l’art. 6-bis (Disposizioni per l’applicazione delle procedure di sportello unico per le attività produttive). A parere del ricorrente esso violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettere e) ed m), Cost.
L’art. 6-bis, nell’ambito delle procedure relative allo sportello unico per le attività produttive di cui al d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160 (Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133), prevede che, decorsi inutilmente i termini fissati dall’art. 7, commi 1 e 2, del medesimo d.P.R. senza che il responsabile del procedimento presso la struttura dello sportello unico comunale o intercomunale abbia comunicato il provvedimento conclusivo ovvero abbia attivato la conferenza di servizi di cui al successivo comma 3 dello stesso art. 7, il richiedente può presentare istanza alla struttura provinciale o della città metropolitana competente in materia di sportello unico per le imprese affinché, entro quindici giorni dalla richiesta, convochi una conferenza di servizi finalizzata ad individuare le modalità per l’eventuale prosecuzione del procedimento.
Tale disposizione, dunque, introdurrebbe una deroga al predetto art. 7, comma 3, ai sensi del quale, scaduto il termine stabilito per la conclusione del procedimento davanti allo sportello unico ovvero in caso di mancato ricorso alla conferenza di servizi, si applicherebbe la regola del «silenzio assenso», in virtù del rinvio all’art. 38, comma 3, lettera h), del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133.
La legge regionale in esame determinerebbe, quindi, un aggravamento procedimentale poiché escluderebbe l’applicazione della regola del «silenzio assenso», che consente la chiusura certa del procedimento, prevedendo l’attivazione di una conferenza di servizi al fine non di definire il procedimento ma di individuare le modalità per la sua eventuale prosecuzione.
La stessa Corte costituzionale – rammenta il ricorrente – con la sentenza n. 15 del 2010 ha riconosciuto la competenza statale per la disciplina in materia di sportello unico, valorizzando «la funzione di coordinamento perseguita dalla normativa che disciplina compiti e funzionamento dello “sportello unico per le imprese”, attraverso la istituzione di un procedimento amministrativo uniforme volto a consentire ai soggetti in possesso dei requisiti di legge la intrapresa dell’attività economica. Ciò non solo al fine di garantire, attraverso la uniformità e la ragionevole snellezza del procedimento, la maggiore trasparenza ed accessibilità del mercato, sì da assicurare le migliori condizioni di concorrenza, ma anche al fine di dare contenuto al precetto di cui all’art. 41 della Costituzione, il quale assegna, fra l’altro, alla legge dello Stato il compito di determinare i controlli opportuni affinché la iniziativa economica, anche privata, sia coordinata a fini sociali».
Da quanto affermato da questa Corte si desumerebbe, dunque, che le modifiche da parte della normativa regionale per le parti di competenza possano essere ritenute legittime solo se modificano in melius quella statale prevedendo forme più avanzate di semplificazione.
2.- Si è costituita la Regione Veneto, eccependo l’infondatezza di tutte le questioni in esame.
2.1.- Viene innanzitutto affermato che i prospettati motivi di incostituzionalità relativi alla disciplina sul contributo di costruzione sarebbero l’esito di un fraintendimento della disposizione regionale.
E ciò in quanto l’esonero dal pagamento del contributo di costruzione, in caso di cambio di destinazione d’uso di immobili funzionali alla conservazione della memoria e dell’identità storico-culturale del territorio, sarebbe subordinato al mancato aumento dei carichi urbanistici. Tale previsione sarebbe, dunque, conforme ai principi consolidatisi nella giurisprudenza amministrativa per cui il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce sul cosiddetto carico urbanistico.
Pertanto, l’esenzione prevista dall’impugnata disposizione regionale non determinerebbe alcuna deroga alla disciplina statale che richiede, appunto, un incremento di carico urbanistico e, anzi, sarebbe subordinata alla sussistenza di ulteriori requisiti (quali la sussistenza di uno specifico interesse pubblico e l’esistenza di adeguate opere di urbanizzazione primaria).
Tale conclusione – prosegue la resistente – potrebbe essere estesa anche al cosiddetto contributo straordinario.
La peculiare funzione che dottrina e giurisprudenza gli attribuiscono non escluderebbe e, anzi, richiederebbe ineluttabilmente la correlazione tra la modificazione della destinazione d’uso e l’aggravarsi del carico urbanistico, non essendo sufficiente la sussistenza del vantaggio del privato. Quanto a quest’ultimo, poi, la resistente puntualizza che andrebbe altresì considerato che la fattispecie regolata dalla norma regionale in discussione ipotizza un vantaggio pubblico dominante, corrispondente al valore di testimonianza culturale assicurato dalla vitalità dell’edificio garantita dal mutamento di destinazione d’uso.
Peraltro – prosegue la resistente – anche a voler ritenere irrilevante l’aggravio del carico urbanistico ai fini della determinazione del contributo straordinario, la finalità di equità sociale dello stesso è rimessa, nel suo contemperamento con il contrapposto interesse di favorire l’efficienza del mercato del recupero urbano e di garantire un ordinato assetto urbanistico-edilizio del territorio, alla competenza delle Regioni, che devono stabilire, nell’esercizio della propria discrezionalità, la compartecipazione tra Comune e privato al maggior valore generato dal cambio di destinazione d’uso dell’edificio. Il che implicherebbe la facoltà per le stesse di introdurre ipotesi, sia pure eccezionali, di quantificazione nulla del contributo, laddove si presentino fattispecie peculiari che giustifichino un favor per gli interventi di recupero edilizio al fine di garantire il miglior soddisfacimento dell’interesse generale.
In tale direzione si porrebbe, dunque, la disposizione di legge regionale in esame, la quale, nell’escludere ogni forma di contributo di costruzione, dunque anche straordinario, per il caso di intervento con cambio di destinazione d’uso, introdurrebbe limiti oggettivi (beni immobili appartenenti a particolari episodi insediativi reputati funzionali alla conservazione della memoria e dell’identità storico-culturale del territorio) o funzionali (riconoscimento comunale di un interesse pubblico, sussistenza di adeguate opere di urbanizzazione primana e assenza di carichi urbanistici) idonei a circoscrivere la casistica applicativa ad ipotesi eccezionali e meritevoli di adeguato riconoscimento.
A parere della Regione, dunque, la gravata disposizione non violerebbe i principi fondamentali in materia di governo del territorio dettati dalla disciplina statale, ma, al contrario, ne darebbe legittima e piena attuazione.
2.2.- Anche la questione avente ad oggetto l’art. 20 della gravata legge regionale non sarebbe fondata, in quanto la disposizione impugnata non introdurrebbe alcun aggravamento procedimentale ma si limiterebbe a introdurre un segmento procedimentale meramente facoltativo ed eventuale, attivabile unicamente su istanza del richiedente.
Di più, la legge regionale – sottolinea la resistente – modificherebbe in melius la normativa statale, avendo il solo scopo di favorire la prosecuzione del procedimento, laddove esso non si sia concluso mediante l’adozione di un provvedimento espresso ovvero per silentium ex art. 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).
Non sarebbe, perciò, esclusa l’applicazione dell’istituto del silenzio assenso, come paventato nel ricorso, ma, anzi, l’istituto in parola rappresenterebbe un elemento imprescindibile al fine di delimitare la sfera operativa della facoltà sollecitatoria introdotta dalla legge regionale. Essa sarebbe, infatti, utilizzabile unicamente ove non si sia formato silenzio provvedimentale, ricorrendo, quindi, un’ipotesi di silenzio inadempimento.
A conferma di tale conclusione viene rimarcato che tra i procedimenti cui si applica il d.P.R. n. 160 del 2010 possono ricorrere ipotesi sussumibili tra le fattispecie di esclusione di cui al comma 4 dell’art. 20 della legge n. 241 del 1990, a norma del quale «[l]e disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la tutela dal rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza, nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti». Ben potrebbe accadere, dunque, che i procedimenti di cui al d.P.R. n. 160 del 2010 involgano alcuni degli interessi sensibili rispetto ai quali non trova applicazione l’istituto del silenzio assenso; nel qual caso l’inutile decorso del termine per la conclusione del procedimento avanti lo sportello unico andrebbe qualificato quale silenzio inadempimento e non quale silenzio assenso. Ed è proprio in questa evenienza che sarebbe destinata a operare l’impugnata legge regionale, al fine di garantire da parte della Provincia o della Città metropolitana l’avvio di un procedimento (eventuale) diretto al superamento dell’inerzia.
Tale disposizione regionale, dunque, determinerebbe un innalzamento dei livelli di tutela e non un aggravamento procedimentale.
Né a negare tale conclusione – chiarisce la Regione – gioverebbe il richiamo, contenuto nel ricorso, all’art. 38, comma 3, lettera h), del d.l. n. 112 del 2008, il quale consente di prescindere, in caso di mancato ricorso alla conferenza di servizi, dall’avviso delle amministrazioni chiamate a pronunciarsi sulle questioni di loro competenza, senza che sia fatta distinzione tra amministrazioni preposte alla cura di interessi sensibili e non. Infatti, il terzo comma dello stesso art. 38 premette – alla enucleazione dei principi sulla cui base procedere alla semplificazione e al riordino della disciplina dello sportello unico per le attività produttive di cui al regolamento di cui al d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 (Regolamento recante norme di semplificazione dei procedimenti di autorizzazione per la realizzazione, l’ampliamento, la ristrutturazione e la riconversione di impianti produttivi, per l’esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli insediamenti produttivi, a norma dell’articolo 20, comma 8, della L. 15 marzo 1997, n. 59), e successive modificazioni – che deve essere garantito «il rispetto di quanto previsto dagli articoli 19, comma l, e 20, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241». Il che esclude che si possa formare un silenzio assenso in presenza di interessi “sensibili”.
La disposizione di legge regionale introdurrebbe, dunque, un segmento procedimentale eventuale destinato a operare su iniziativa del richiedente e unicamente ove non si sia formato il silenzio assenso, e cioè al solo fine di porre rimedio all’inerzia dell’amministrazione. In tal modo, innalzando e non riducendo il livello di semplificazione procedimentale e di tutela della concorrenza.
Considerato in diritto
1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe, ha impugnato gli artt. 11 e 20 della legge della Regione Veneto 25 luglio 2019, n. 29 (Legge regionale di adeguamento ordinamentale 2018 in materia di governo del territorio e paesaggio, parchi, trasporto pubblico, lavori pubblici, ambiente, cave e miniere, turismo e servizi all’infanzia), i quali inseriscono, rispettivamente, l’art. 40-bis nella legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio) e l’art. 6-bis nella legge della Regione Veneto 31 dicembre 2012, n. 55 (Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive e disposizioni in materia urbanistica, di edilizia residenziale pubblica, di mobilità, di noleggio con conducente e di commercio itinerante).
2.- A parere del ricorrente, il comma 5 del predetto art. 40-bis violerebbe l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, per contrasto con i princìpi fondamentali dettati in materia di governo del territorio dagli artt. 16 e 17 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), in quanto prevederebbe un’ipotesi di esenzione totale dal pagamento del contributo di costruzione al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 17 del d.P.R. n. 380 del 2001 (d’ora in avanti: TUE).
Inoltre, alla luce del “combinato disposto” con il comma 2 (a norma del quale il Comune, per individuare gli immobili costituivi della memoria e dell’identità storico-culturale del territorio, provvede all’approvazione di una variante al Piano degli interventi), vi sarebbe contrasto anche con il principio fondamentale dettato in materia di governo del territorio dall’art. 16, comma 4, lettera d-ter, del TUE, secondo cui, qualora si sia in presenza di cambio di destinazione d’uso preceduto da varianti urbanistiche, è dovuto un “contributo straordinario” in ragione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili.
3.– In relazione alla prima questione, va ricordato che il contributo di costruzione è disciplinato dal Testo unico dell’edilizia, il quale, all’art. 16 prevede che «il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione». Il successivo art. 17 elenca, poi, i casi di esenzione: a) interventi da realizzare nelle zone agricole in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale; b) interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento di edifici unifamiliari; c) impianti, attrezzature, opere pubbliche e di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici; d) interventi da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità; e) nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla conservazione, al risparmio e all’uso razionale dell’energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di tutela dell’assetto idrogeologico, artistico-storica e ambientale.
3.1.- Questa Corte ha espressamente riconosciuto la natura di norme di principio alle disposizioni relative all’onerosità del contributo abilitativo, rientranti nella «disciplina un tempo urbanistica e oggi ricompresa fra le funzioni legislative concorrenti sotto la rubrica “governo del territorio”» (sentenze n. 231 del 2016 e n. 303 del 2003), ivi incluse quelle contenenti deroghe o riduzioni dell’importo ordinariamente previsto del contributo di costruzione in quanto ad esso legate da un rapporto di coessenzialità o di integrazione necessaria (sentenza n. 231 del 2016, che richiama le sentenze n. 1033 del 1988 e n. 13 del 1980).
3.2.- Sulla base della disciplina statale l’obbligo di corresponsione del contributo è legato al maggior carico urbanistico quale effetto dell’intervento edilizio, e ciò anche nel caso particolare di cambio di destinazione d’uso.
3.3.- Ebbene, il comma 5 dell’art. 40-bis della legge regionale in esame non contraddice tale principio. Esso infatti subordina espressamente l’esonero del contributo nel caso di cambio di destinazione d’uso al mancato aumento del carico urbanistico (oltre che al riconoscimento di un interesse pubblico e alla sussistenza di adeguate opere di urbanizzazione primaria).
4.- La questione, pertanto, non è fondata.
5.- Diverso esito deve avere la seconda questione che investe, insieme allo stesso comma 5, il comma 2, in base al quale il Comune individua gli immobili costitutivi della memoria e dell’identità storico-culturale del territorio, provvedendo all’approvazione di una variante al Piano degli interventi (PI), e ciò anche al fine di permettere la modificazione di destinazione d’uso di cui al successivo comma 5.
5.1.- Viene in questo caso in rilievo il cosiddetto contributo straordinario che, secondo l’art. 16, comma 4, lettera d-ter del TUE, è dovuto in presenza di una variante urbanistica che comporta un aumento di valore, cui lo stesso contributo è commisurato. La lettura combinata delle disposizioni di cui ai commi 2 e 5 è imposta dalla stessa formulazione di quest’ultimo, che, nell’individuare gli immobili interessati, usa l’espressione “tali”, rinviando così ai commi precedenti e in particolare alla previsione della variante urbanistica.
Sennonché lo stesso legislatore regionale, nell’escludere la debenza del contributo in questione, non prende in considerazione le specifiche condizioni che lo riguardano fissate dalla normativa statale ma si limita a dettare una disciplina indifferenziata centrata sulla mancanza di un aumento del carico urbanistico (insieme alle altre condizioni ricordate e qui non rilevanti). In particolare non tiene conto del fatto che ciò che si “colpisce” con il contributo straordinario è il «plusvalore di cui beneficia il privato a seguito dell’approvazione di una variante urbanistica, che abbia accresciuto le facoltà edificatorie precedentemente riconosciutegli, ovvero per effetto del rilascio di un permesso in deroga» (così la Relazione governativa al decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante: «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale», convertito nella legge 11 settembre 2020 n. 120, cosiddetto “decreto semplificazioni”, che ha apportato alcune modificazioni al TUE, anche ai fini di risolvere dubbi interpretativi). Ne consegue che solo la dimostrata inesistenza di un aumento di valore può giustificare l’esenzione.
6.- La normativa regionale contrasta dunque con i parametri interposti di cui alla lettera d-ter del comma 4 dell’art. 16 del TUE e quindi viola l’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui esonera dal “contributo straordinario” nelle ipotesi di cambio di destinazione d’uso con aumento di valore degli immobili costitutivi della memoria e dell’identità storico-culturale del territorio disciplinati dall’art. 40-bis.
7.- Su tale conclusione non incidono le norme statali sopravvenute dopo l’instaurazione del presente giudizio, ovverossia il cosiddetto “decreto semplificazioni”, che ha eliminato l’espressione “cambio di destinazione d’uso” dalla lettera d-ter.
Comunque, secondo la già citata Relazione governativa, la novella provvede a tale eliminazione in quanto il contributo straordinario non è dovuto per «il mero cambio d’uso tra quelli considerati ammissibili dal piano urbanistico generale» che prescinderebbe, quindi, dall’esistenza di una variante urbanistica.
8.- Quanto all’art. 20 della medesima legge regionale n. 29 del 2019, che modifica la legge della Regione Veneto n. 55 del 2012, introducendo l’art. 6-bis, il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che esso violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettere e) ed m), Cost.
La norma, nell’ambito delle procedure relative allo sportello unico per le attività produttive di cui al d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160 (Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133), prevede che, decorsi inutilmente i termini fissati dall’art. 7, commi 1 e 2, del medesimo d.P.R., senza che il responsabile del procedimento abbia comunicato il provvedimento conclusivo ovvero abbia attivato la conferenza di servizi di cui al successivo comma 3 dello stesso art. 7, il richiedente possa presentare istanza per la convocazione di una conferenza di servizi finalizzata ad individuare le «modalità per l’eventuale prosecuzione del procedimento».
A parere del ricorrente la disposizione introdurrebbe una deroga al citato art. 7, comma 3, ai sensi del quale si applicherebbe la regola del «silenzio assenso», in virtù del rinvio all’art. 38, comma 3, lettera h), del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, in cui si prevede che «in caso di mancato ricorso alla conferenza di servizi, scaduto il termine previsto per le altre amministrazioni per pronunciarsi sulle questioni di loro competenza, l’amministrazione procedente conclude in ogni caso il procedimento prescindendo dal loro avviso».
La norma regionale determinerebbe, quindi, un aggravamento ingiustificato del procedimento.
9.- La questione è fondata.
10.- Lo Sportello unico per le attività produttive (SUAP) è stato introdotto dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), che ha attribuito ai Comuni le funzioni amministrative concernenti la realizzazione, l’ampliamento, la cessazione, la riattivazione, la localizzazione e la rilocalizzazione di impianti produttivi (art. 23, comma 1).
La disciplina attuativa è dettata dal regolamento di cui al d.P.R. n. 160 del 2010, adottato ai sensi dell’art. 38, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008, che definisce lo Sportello come «l’unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti la sua attività produttiva, che fornisce una risposta unica e tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni, comunque coinvolte nel procedimento» (art. 1, comma 1, lettera m).
10.1.- Come chiarisce la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 15 del 2010), la finalità perseguita è quella della «istituzione di un procedimento amministrativo uniforme volto a consentire ai soggetti in possesso dei requisiti di legge la intrapresa dell’attività economica. Ciò non solo al fine di garantire, attraverso la uniformità e la ragionevole snellezza del procedimento, la maggiore trasparenza ed accessibilità del mercato, sì da assicurare le migliori condizioni di concorrenza, ma anche al fine di dare contenuto al precetto di cui all’art. 41 della Costituzione, il quale assegna, fra l’altro, alla legge dello Stato il compito di determinare i controlli opportuni affinché la iniziativa economica, anche privata, sia coordinata a fini sociali».
Nella stessa sentenza si evidenzia che l’istituzione del SUAP trova un addentellato anche in sede di Unione europea: ai sensi dell’art. 6 della direttiva 2006/123/CE «[g]li Stati membri provvedono affinché i prestatori possano espletare le procedure e le formalità seguenti, mediante i punti di contatto denominati sportelli unici: a) tutte le procedure e le formalità necessarie per poter svolgere le loro attività di servizi, in particolare le dichiarazioni, notifiche o istanze necessarie ad ottenere l’autorizzazione delle autorità competenti, ivi comprese le domande di inserimento in registri, ruoli, banche dati, o di iscrizione ad organismi o ordini ovvero associazioni professionali; b) le domande di autorizzazione necessarie all’esercizio delle loro attività di servizi».
11.- Si tratta, dunque, di un istituto di particolare rilievo volto a dare attuazione al principio della semplificazione amministrativa in una materia, quale quella della iniziativa economica, di interesse fondamentale per lo sviluppo del Paese e che costituisce uno sforzo significativo sulla strada di un’amministrazione più rapida ed efficiente, in grado di non opporre ostacoli quanto ad adempimenti e tempi procedurali e che, in questa prospettiva, esige uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale al fine di garantire la necessaria par condicio a tutti gli operatori economici.
È evidente, allora, che qualsiasi intervento del legislatore regionale che incida in modo sostanziale sul procedimento, aggravandolo, non può ritenersi compatibile con questi principi e quindi, compromettendo tale finalità di semplificazione ed efficienza, comporta la violazione delle competenze esclusive dello Stato in materia di concorrenza e di livelli essenziali delle prestazioni.
12.- Con riferimento alla concorrenza, questa Corte ha già affermato che, qualora il legislatore regionale alteri «la procedura davanti al SUAP quale prevista dal legislatore statale – in particolare dall’art. 38, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008 – aumentando le richieste poste a carico dei privati e istituendo nuovi passaggi procedimentali», determina «un ostacolo effettivo alla libera concorrenza […] sotto un duplice profilo, interregionale e intraregionale» (sentenza n. 165 del 2014). In tal modo si dà, cioè, luogo ad una duplice discriminazione «sia interspaziale, fra operatori di Regioni diverse, sia intertemporale, fra operatori già presenti nel mercato e nuovi» (sentenza n. 165 del 2014).
13.- Ancor più evidente – e giustamente valorizzata dal ricorrente – è la violazione della competenza esclusiva statale in materia di livelli essenziali delle prestazioni.
Questa Corte ha più volte affermato che le norme di semplificazione amministrativa possono essere ricondotte alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», in quanto anche l’attività amministrativa, e, quindi, anche i procedimenti amministrativi in genere, possono assurgere alla qualifica di “prestazione”, della quale lo Stato è competente a fissare un “livello essenziale” a fronte di una specifica pretesa di individui, imprese, operatori economici e, in generale, di soggetti privati (ex multis, sentenze n. 246 del 2018, n. 62 del 2013, n. 207 e n. 203 del 2012).
Ma si è anche chiarito che «[q]uesto titolo di legittimazione dell’intervento statale è invocabile “in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione”» (sentenza n. 322 del 2009; nello stesso senso, sentenze n. 328 del 2006, n. 285 e n. 120 del 2005), nonché «quando la normativa al riguardo fissi, appunto, livelli di prestazioni da assicurare ai fruitori dei vari servizi» (sentenza n. 92 del 2011), attribuendo «al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto (sentenze n. 8 del 2011, n. 10 del 2010 e n. 134 del 2006)», (sentenza n. 207 del 2012).
14.- Ebbene, tali condizioni ricorrono nel caso in esame, in cui il meccanismo disciplinato dall’art. 7, comma 3, del d.P.R. n. 160 del 2010, evocato come parametro interposto dal ricorrente, si occupa del momento particolarmente qualificante della chiusura del procedimento: è in questa fase, infatti, che si manifestano con tutta evidenza, da una parte, l’esigenza di certezza di modi e di tempi, dall’altra, quella della uniformità delle discipline.
A fronte di una regolamentazione nazionale che intende garantire la rapida e certa chiusura del procedimento, appare lesiva delle esigenze evidenziate la previsione della legge regionale che, rinviando ad una conferenza di servizi neanche decisoria, lo riapre e lo prolunga sine die.
15.- Non contraddice tale conclusione quanto sostenuto dalla resistente in ordine al carattere eventuale e facoltativo dell’attivazione del segmento procedimentale.
Infatti la certezza dei tempi e degli adempimenti dei procedimenti sono interessi perseguiti in una prospettiva che copre, ma al tempo stesso trascende, la posizione del singolo soggetto istante, investendo i terzi oltre che le amministrazioni coinvolte. Come chiarito da questa Corte, «le disposizioni statali relative alla durata massima dei procedimenti rispondono pienamente alla ratio sottesa alla determinazione di livelli uniformi di tutela (come del resto riconosciuto da questa Corte nella sentenza n. 207 del 2012), che non possono essere derogati nemmeno quando – come nel caso in esame – l’eventuale estensione operi a favore del privato, non solo e non tanto per mantenere il procedimento amministrativo entro il termine massimo ritenuto ragionevole dal legislatore statale, ma anche per tutelare eventuali soggetti terzi che potrebbero avere interesse a che il privato istante adotti le prescrizioni richieste nei tempi fissati”» (sentenza n. 246 del 2018).
Pertanto la normativa impugnata prevede un aggravio procedimentale, la cui portata non è messa in discussione dalla sua natura eventuale e facoltativa.
16.- Deve, dunque, affermarsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 20 della legge della Regione Veneto n. 29 del 2019, nella parte in cui inserisce l’art. 6-bis della legge della Regione Veneto n. 55 del 2012.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 della legge della Regione Veneto 25 luglio 2019, n. 29 (Legge regionale di adeguamento ordinamentale 2018 in materia di governo del territorio e paesaggio, parchi, trasporto pubblico, lavori pubblici, ambiente, cave e miniere, turismo e servizi all’infanzia), nella parte in cui inserisce l’art. 40-bis della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio), limitatamente alla previsione dell’esonero dal contributo di costruzione di cui all’art. 16, comma 4, lettera d-ter, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nelle ipotesi di cambio di destinazione d’uso con aumento di valore degli immobili costitutivi della memoria e dell’identità storico-culturale del territorio disciplinati dal medesimo art. 40-bis;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 20 della legge della Regione Veneto n. 29 del 2019, nella parte in cui inserisce l’art. 6-bis della legge della Regione Veneto 31 dicembre 2012, n. 55 (Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive e disposizioni in materia urbanistica, di edilizia residenziale pubblica, di mobilità, di noleggio con conducente e di commercio itinerante);
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 della legge della Regione Veneto n. 29 del 2019, nella parte in cui inserisce l’art. 40-bis della legge della Regione Veneto n. 11 del 2004, limitatamente alla previsione dell’esonero dal pagamento del contributo di costruzione di cui all’art. 16, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, nell’ipotesi di cambio di destinazione d’uso di immobili costitutivi della memoria e dell’identità storico-culturale del territorio, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2020.
F.to:
Mario Rosario MORELLI, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2020.
Il Cancelliere
F.to: Filomena PERRONE